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PADANO PICENO

Filippo Davoli, "padano piceno" (Ged, Biblioteca di Ciminiera, 2003). Primo titolo della sezione di poesia nella collana "Biblioteca di Ciminiera" dell'omonima rivista cartacea "Ciminiera".

Filippo Davoli, "padano piceno" (Ged, Biblioteca di Ciminiera, 2003). Primo titolo della sezione di poesia nella collana "Biblioteca di Ciminiera" dell'omonima rivista cartacea "Ciminiera".

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A Adriana, Franco e Saverio

2


Il tempo non è più il mio cane fedele

(Alvaro Valentini)

3


BANDIERA

C’è un fiore di uomini che sventola

a mezzo cielo sulla piazza. Un canto

di ritrovata dignità, corpo che si ricuce.

Quanto dura però?

Li osservavo

festa d’amara luce, io come loro

aperto nella bandiera.

4


PADANO-PICENO

Ho fermato il mio sangue.

Sono un padano fuggito per l’aria

coi vigneti a perpendicolo sull’infinito

e un ganglio di casolari abbandonati

all’estremo della luce. Io sono un villico

scampato all’abbandono delle colline.

Sbarco nel corpo della solitudine,

la mia parola mi costeggia e mi apre.

5


LA POLVERE

Ogni città che ha volti cari al mio

è una pietra che solida sostiene

il cosmo lieve delle mie giornate.

Scivolo giù nei tubi delle case,

pioggia in grondaie, erbaccia in interstizi

dei sampietrini, smog, muro poroso

dove crepe evidenti si diffondono.

Giro come la polvere in cantine

appena illuminate, dove armeggiano

ininterrottamente minuscoli ragni

abbrutiti dall’umido e dal buio.

Passa ogni tanto un calabrone a rapido

guizzo d’aria, salvandosi, ed ignaro.

In queste cavità senza conforti

giacciono germi d’ogni specie, nidificano

insetti laboriosi senza voce.

L’aria che frulla in disincanto fuori

li ignora. Li attraversa come per sbaglio

poi li lascia a crepare in quell’angusto

crateruccio di mondo. Là si vive

fianco a fianco, in rispetti che si ignorano

tra le altre specie in superficie, là

ogni frammento di esistenza vale

tutta la verità.

6


CIMINIERA

Lavorare al chiuso d’una fornace

con le mani che si rovinano e non si fermano.

Ci si passa la vita a morire

giorno per giorno, ma si va avanti,

solidi come il camino, sodali

che o ci si tiene stretti o si vola via.

Ci resta dopo un fumo che sale

attraversandoci il corpo

su, verso l’alto

e tu che cammini altrove lo guardi

e lo riconosci.

7


PICCOLO CANZONIERE FAMILIARE

*

Mantova, le tue pietre così rosse

che parlano dell’amore, dicono il sangue

che percorre l’amore. Pietre, vi abito

ancora, con l’occhio spalancato

dei distanti, con la luce degli innamorati

che piovono tra le braccia dei portici

col sorriso del Po, quando le bici si baciano

al fuoco di radura, all’afa leggera.

Qui non ho amato mai. Però ricongiungi

i battiti clandestini di Lombardia,

che solo io ti ho percorsa per un abbraccio

di fiume, una stretta di corpo nel fiato.

E solo io ti ho perduta tra sogni e lampi

di concitate mezzore. Mantova, cos’è stato?

E gli anni mi sono passati, non brillano più.

Forse per questo vengo spesso nei luoghi

dei bagliori che furono. Sono parole

che ricreano la luna, liberazioni

dalle radici di pioppi secolari

dove l’Emilia si specchia e risuscita

in pertugi di fossi, dentro strette vetture

tra susurri di cicala e nascondimenti,

in pieghe ansanti tra presenza e malinconia

prima che faccia giorno o questa notte che scende.

Forse è che sul confine con l’alba sento quel nonno

che non ho conosciuto, che impagliava e cantava

la lirica a modo suo. E agogno un’appartenenza

a quel suo vivere di bottega fatto di ore e di aria.

Mantova, è appena là dietro l’Emilia che mi chiama.

Qui la varco e la sogno come il più austero dei battiti.

8


*

La Simona accudisce i suoi molti figlioli

nei canili di Dio, sparsi sul territorio.

Figli che neanche latrano, sguardi di fagioloni,

di polenta ben calda giù nei piatti a fumare.

La Simona, cugina come la vuole Iddio,

tra un improperio docile come una gran risata

fatta per dirsi ancora che ci si vuole bene.

Che cos’è la Simona… quante voci sommerse

tra le lune e i giardini freddi tra il Secchia e il Po.

Bella gioia, lo dice ma chissà se lo pensa,

guardando la sua vita stesa da panno in croce.

Poi la Simona un giorno ha distrutto il suo accento,

ha creato radici di chiodo e tulipano.

Si riguarda il bel mondo fitto delle impressioni

con la storia che stringe mutila tra le mani.

Quel figlio onesto e serio che fa il carabiniere

e quando dici Italia vede apparire i bar

dove si cuce il mondo, e le case emiliane

dove c’è sempre un vecchio che parla acsè e traduce.

La Simona lavora perché l’ha sempre fatto,

perché così è la vita, così vanno le cose.

E’ per questo continuo battere delle ore

senza nome e destino, per questa sorte strana

che la Simona allunga le rughe e accorcia i passi:

occhi grandi che cercano il sogno nelle cose

mute di tutti i giorni, che parlano a ogni età.

9


*

Mio zio, uomo buono, retta persona

che ancora e sempre in punta di piedi

vigila su di noi e in quel dialetto che è lingua

e orma di generazioni che non si pèrdono

com’era assorto quel giorno che se ne andò.

Ernestino volò. Ora non trovo

e non cerco nemmeno la sua stanzetta

tra le stelle e la terra. Me lo rivedo qui

lui Davòli e non Dàvoli, stabilità

solida e piana, intera, solerte e vigile

che viene dalla fatica e sorride sempre.

Quel cognome l’ho anch’io. Siamo gli ultimi.

Qualcuno ha sancito che ci fermassimo qui.

Se almeno sapessi godermi come un tesoro

privato, questo approdo di storie, questo fecondo

archivio di memorie. Capissi l’eterno

che c’è dentro il presente, dove si compie

tutta la storia del mondo. Altrove la guida

una traccia di nomi diversi che in altri si intrecciano.

Qui sosta in luce che incombe, che conduce

ad altre forme.

10


*

Nella sala, avvolta da una mantiglia,

sta ballando un ballabile. Le sono intorno

vicinati e i suoi figli con le consorti.

Balla lei col pittore, che l’ha sposato

prima della funzione. Sicché quello era andato

a chiedere la mano e un briciolo di dote.

Non l’ebbe, oltre quel fiore già disvelato.

Ora nella sala ballando, con la bottiglia leggera,

la Cesarina ha un cipiglio da straniera

e agita un po’ le mani, vibra il colpo

di un paso doble azzeccato. La vita intera

l’ha dolcemente succhiata da quella stiva,

nettare nero, come la morte di un figlio.

Lo costrinsero a scavarsi la tomba e l’uccisero.

Non aveva vent’anni. E già una moglie che aspettava.

Chissà se dal tacco perfetto, nel suo passo di danza

la Cesarina attende che si rompa un incantesimo

e che Rino ritorni, finalmente…

11


*

La nonna fissa un punto imprecisato.

Non l’obiettivo della macchinetta

e nemmeno ne cattura un’espressione

la circolante quotidianità.

Fissa un punto di storia che si dipana

lungo il cotto dei muri, di arcata in vicolo,

solida tra le cose eppure enigmatica.

È lei la cifra oscura del quadro,

e come davvero ne vorrei catturare

un lembo di risata, un accenno di ballo,

un modo riconoscibile di cucinare

un inconfondibile odore, un’impronta

tra panni scuri cui manca solo il respiro.

Riconoscerne un accento, fissarla nelle mie luci

dove affiorare noi tutti, per un incanto

giustamente svelato.

12


*

Recuperare i parenti in un colpo solo,

sentirne gli accenti, intuirne le mani

tra i gesti normali e non sapere, loro,

cinquant’anni fa come si mettevano le cose.

Sono le faccende quotidiane che vivono ancora,

le vicende di tutti i giorni che non hanno mai nome.

E le foto minuscole le vorresti rianimare

quando in te d’improvviso si mette a circolare quel sangue.

E tutti i pronipoti, dove me li andrò a ritrovare?

Con me navigano acque che più nessuno condivide.

Ma se li chiamo da lontano come potranno non sorridermi?

Un certo Silvano, vedessi, sembra mio padre da giovane.

E Saverio, che l’Eola l’avrebbe fatto ballare

e Franco, l’Adriana, e i figli dei loro figli

che nasceranno lontani come lontano sono cresciuti

vicini tra loro oggi, poi più lontano ancora…

Nei loro battiti, un giorno, di tanti occhi esisteva

un volto solo. Dio bon, quand i vêc i s’in spusêe

in psivên mia savêr che dop ag srèven

stêe in acsè tant!

13


PIANURA

Quei minuscoli insediamenti rurali

che talvolta si avvistano nella Pianura

padana, e sono tutti lontani, miraggi

di natura inviolata, di non perso

dialetto. Intorno non c’è

mai nessuno. Assomigliano

a refrattarie archeologie del presente.

Una nebbia leggera le sigilla

in una debole luce, malata,

in cui gli occhi si stringono

e la vita dilata. Filari sospesi

nella giovinezza.

14


IL SIGILLO

Che sono i ricordi d’infanzia? Tenere trame

dove si celano mitologie domestiche,

frasi che si tramandano senza la voce

che un giorno le pronunciò. Scarne visioni

dove il destino si fa, radici incolumi

che la vecchiaia spesso riconduce

come ai bordi del sogno, e i grandi li vedi

ancora come giganti che furoreggiano,

dentro camere enormi, pranzi che paiono

chissà perché infiniti. E te li immagini,

quei bambini che giocano in mezzo a una via,

mentre li vedi perdersi con gli occhi in un dove

che ti sfugge. La vita che non s’afferra

è quella vera che attraversa i giorni,

la vita che s’incarna dentro la vita

come un sigillo di vene.

E se fatico a crederlo possibile,

se fatico a impossessarmi di un mio io

possibile tra queste pianure

dove il cielo si sperde in orizzonti

di verde e nebbia e azzurro che s’immagina

come piovendo da un ossario nordico

tra querce secolari e pioppi altissimi

e domestiche tranquillità. Se fatico davvero

a vedermi in orari quotidiani

perfettamente anonimi, pestando

selciati che provengono dalla memoria

e si percorrono ad occhi chiusi con ogni tempo,

scivolando in portoni familiari, salutando

ombre con tanto di nome, se davvero ti dico

la fatica di un me che ha consuetudine

di frequentare i parenti e gli amici

che ha da sempre, quassù, tra queste semplici

umanità disciolte, credimi, è un nodo

di desiderio che brucia,

forzatura del sogno.

15


Io non sono padano che nel sogno

e un po’ nella memoria. Non conosco

come trame del mio respiro

le luci d’Emilia e quell’aperta

pace che rende il Secchia.

Però me lo vedo ancora mio nonno Davòli

che disegna un leone sulla volta

sdrucita del San Rocco di Carpi, i suoi

passi che immacolando riemergono

da queste voci dove non sta la mia storia.

Chissà – me lo ripeto

con la follia di chi illude nel tempo –

se qui riposerò in una lingua anche mia.

Se la mia orma reggesse tra questi cumuli

di pioppi e portici…

16


ELVIRA

Ricordo la ragazza con i brufoli

che si pagava gli studi facendomi

la sorella maggiore. E mi insegnava a saltare

da ben minimi muròli, tentare un’opera

che mi era insormontabile anche a pensarla.

Ricordo giornate intere di Piccolo uomo

da radio sospese su chissà quali finestre

e l’energia austera, la fresca vitalità

della sorella maggiore che mi coglieva

(ero ancora un bambino che non sa leggere).

E un bel giorno nel ristorante arrivò Luigi.

Le diceva vedi lassù? Quello è l’amore…

Io provavo a guardare su tra le nuvole

e mi piaceva quel giovanotto per Elvira

perché ci raccontava sogni stupendi,

ma tra le nuvole quell’amore dov’era?

17


SILVIA

Di te hanno perso ogni traccia. L’eredità

di tua nonna, piovuta per troppo disordine

in casa mia, ha rilasciato un ritratto

da montagne innevate, che tu sorridi.

Sembri tuo padre, che non l’ho conosciuto

nemmeno io, come me lo ricordano le foto

e le parole scolpite dentro che mi hanno detto.

Ma noi due siamo cresciuti vicini,

le nostre biciclettine resistono ancora.

Eravamo due piccoli ladri di parole

indifferenti alle ombre, con uno sguardo

ancora si incendia nel mio sangue

l’appartenenza del cuore, ancora nel tuo

circola un cognome che tieni impresso

nel modo di camminare che è di mia madre.

È la ferita bella della vita. E in essa altri volti

che fanno strada con te, mani cui tendersi

perché si sanno certe, limpide voci

con cui si cresce e restano. Riaffiori

tu dalla foto, perché sei sempre restata

qui.

18


ORNELLA

Un rombo di rose e poi via

che già da anni non si muove più il pergolato

e è sparito nel blu il filo dolce delle antiche voci

quelle liete raccolte di fichi a ridosso di oggi

ma dietro nel tempo, quando c’erano tutti.

Un rombo di rose

qui dove ormai parlano solo i sassi

e una terra che non invecchia. A noialtri

resta il refolo di una grazia che non si sperde

tra camere vuote e rimbalzi di luce

come a ridosso di un nuovo giorno che si fa

(giungevo a volte, in orari qualunque

a cercare nella tua voce un po’ d’accento

nei ricordi e nei giorni. Tu mi chiedevi cose

che non appartengono ad altri).

So per certo che un Altro sguardo ti accoglie

in una festa di vento.

19


UN POMERIGGIO

L’ho rivisto col suo sorriso di cera

su una lapide al cimitero, che non l’avevo

mai conosciuto davvero, né più veduto

da tempo. Pensavo fosse anche lui

in fuga da questa terra dove di scatto

per un moto del cuore si torna

quando il corpo ci frana.

Ma lui era giovane e davvero ignoravo

fosse morto da anni.

Ve ne sono parecchi, di soprassalti

per le piccole vie zeppe di foto

che pare si salutino, facciano

conoscenza tra loro, per un viaggio

di convivenza che si intuisce lungo.

E soprattutto ci stridono

quelli conosciuti di vista e persi

di vista, quando riappaiono

certi del loro segreto, resi incolumi

da una luce che è bassa, da un silenzio

che è pura pace, e rimando a ben altro.

C’è un attimo, un attimo solo

in cui si incrocia perfettamente il tempo

di ogni memoria, e la fantasia. Volere

quasi sapere quali panni hanno indosso,

e vedere chi qui li accompagnò;

fotografare quell’attimo giusto

e in esso dipanare i frammenti,

immaginare la voce che hanno avuto

certe facce stranissime, captare

un loro lembo di microbi. E intuirli ora là

come mia madre, là, volata via

l’anima, e il corpo là. Cinque, dieci anni

e qualcuno cinquanta. Cosa si proverà?

È dolcemente opportuno dialogare

coi morti e così con la vita. Tenerne l’eco

come tesoro inestimabile di un colloquio

sommesso ma nel tempo, prepararsi

vivendo interamente ogni momento

all’ora esatta.

20


IL VECCHIO AMICO

*

L’amichetto che aspetta sulle scale

tra l’androne e il pianerottolo

che salga su il compagno della scuola

il compagno di banco di una vita

per fare i compiti insieme… Lo aspetta

senza libri da offrirgli oltre il segreto

sorriso per la venuta che mai certa giunge

finalmente, ritorna

e gli fuga le ombre

e gli assicura un altro pomeriggio

di insignificanze importanti.

Perché la vita permette che sia così

aprendo i primissimi sguardi sul mondo

e non farlo da soli ma in compagnia

con l’affetto che cresce e solidifica

la consuetudine che accarezzerà

- si augurano in silenzio tutti e due -

la vita che poi non è tenera

e si sente dire di continuo e si teme

ma insieme fino in fondo chi ci crede?

21


*

Ti ripenso dal fioco che ha l’estate

serbato in sé come una spina tenera

che si farà. Ti ripenso che stavi

sul mio muretto con il motorino

appeso alla voglia di vita.

Guardavi le ragazzine che passavano

le stesse che dalla finestra fissavo io

e te le avrei cedute tutte quante

pur di non starmene solo chiuso sul mondo

da dietro quella finestra così pulita.

Ricordi quante fughe per la campagna

con gli adulti impazziti che non capivano?

22


*

Un mondo che non riuscivi a concepire diverso dal tuo,

e non tanto per la poesia. Un mondo di impronte

e maldestri tagli di luna. In esso

io roteavo su me stesso, calavo

nei gorghi delle mie stelle, e rinfrancavo,

lo so, nella tua certa consistenza d’esserci

però cadevo, magari rallentando

ma sempre, un po’ alla volta, verso il fondo

abisso buio della domanda, verso l’incontro

con la mia nudità.

E là tu non giungevi. Mi osservavi

intenerendo, oppure dubitando, nelle scarne

resistenti tue luci, allontanarmi. Ma in me.

Nel cono oscuro e rovesciato dei giorni.

23


*

Eppure i giorni ci volavano piano

e benedetti, nel loro andare.

Bel campare è così, se le distanze

crollano a un richiamo perpetuo della voce.

Ora, che non abbiamo più quei vent’anni

che non erano belli ma avevano un senso

di pienezza, un destino

di compiutezza,

il padre di famiglia che vedo avanzare

col suo antico sorriso, con la sua delicatezza,

lo riconoscono i miei capelli grigi

invecchiati con lui. Questi miei strani figli

forse fratelli o solo compagni di viaggio

che con lui scrutano l’aurora

di un nuovo tempo

dove il cuore resista.

24


*

Le strade che tento quando muoviamo

dalle quattro tue mura, per destini comuni

o semplicemente per dolce nostra premura

di uno spazio di buio, o di una luce intravista

nasce anche qui la poesia, se da un brano che scorre

affiora l’impeto di giorni inconsueti

e più al fondo sommessa una serenatrice

bramosia di certezze, di amicali complicità.

Sono così i fratelli destinati a durare. Così ripeto

a me stesso e alle stelle che centrano la campagna,

così fitta di ombre e di onde, mentre va l’ora

sulla canzone, e altro tempo s’annulla

per queste strade a noi note inconsapevolmente

come la storia da viversi vivendoci dentro.

25


*

L’Ottanta fu una stagione di motorini.

Le ragazzine le portavamo dietro

per sentircele addosso nelle discese.

Ma quella volta era tutto innocente.

Innamorarsi era portarsi un segreto

come una malattia di cui si ignori

ogni sintomo. Eravamo innamorati

tutti quanti della stessa ragazzina.

Non importa che fosse uno stecco incompiuto,

un incarto di ossa, noi volavamo

incauti nei suoi occhi, attendevamo

un segnale qualunque per sognare.

Poi l’altra parte della nostra vita

ancora ci portava sulle giostre

o alle piste di sabbia con le biglie,

ancora con quell’unica innocenza.

E forse siamo rimasti, a distanza di secoli

ormai, gli sprovveduti abitatori di un’alba

priva di ombre.

26


*

Sulla terrazza affocata

con l’acqua aperta di un mare che non sovrasta

e accompagna, di lato, candidamente

il saluto festoso dell’amico

giù dal basso, che il cellulare difende dal dubbio

di non sapere chi sono, o se sono io

la sagoma che cerca intorno, di lassù,

il volto che gli somiglia, il ritegno discreto

che ha condotto quell’altro all’appuntamento.

E il cielo che abbraccia quella terra riarsa

quasi in un suo volo segreto, schiuso dal cuore

agli occhi, in un vibrare di atomi e fiori,

e poi ancora il saluto del braccio, la mano

aperta che scivola su per l’aria, che appare.

- Come stai? - Finalmente…

e le parole si ingorgano, troppo mondo le inselva

tra le pietre. Ma loro

loro sanno. Verrà

l’ora buona del giorno che si dilata,

l’attimo fatto luce, l’incontro nella verità.

27


*

Conducimi ancora nella tua vecchia macchina

del sogno. Oggi starà

in chissà quale ricovero del ferro

in chissà quali condizioni, pressata.

Portami ancora dove la notte sparisce

tra le colline e nasce la poesia.

Parleremo di tutto come allora,

con la malinconia che fa forti gli adulti

e si sorride di sé, ci si prende sul serio

ma un po’ di meno, con minore dolore

se tu dal cruscotto cigolante estrai ancora

una cassetta di quegli anni, per le serate

che non avevamo parole da guardare.

28


*

Ci diamo un appuntamento fittizio

perché ciò che importa è sapersi già in viaggio

da una cornetta all’altra, a cerchio sul mondo.

In fondo il nostro è un incontro nel volo:

un brulicare di pause, di fioriti silenzi.

Ci congiunge misterioso un fluire del sogno.

29


*

Le foto degli amici? Nello studio

incornicio le carte, chiudo in teche

le già morte parole. Oh, come lieve

mi perdo anch’io fissandomi a guardarle

e duro in esse e in esse trascoloro…

30


L’AMORE DETTO

*

Mio vecchio amore

amore che chiamo buona amicizia

amore di parola in fuga nel telefono

di sguardi abbassati

di formidabili pudori

amore dove esperienza significa paura

dove si sfiora l’abisso nel sorriso

amore totale racchiuso in educazione

che sfibra e non si comunica

che si lascia fluttuare

leggero come l’età

quando si fa di prime rughe pacifica

amore che sa ancora tremare

per chi guardando lo coglie

e ruba

nel discreto momento di un guardare

amore fatto di mare

che stenti a crederci, so

tutto il dolore di questo crescere

tutto il peso di questo dovere

così anche io come te

lascio che i giorni ci crollino addosso

continuando a cercarti solo per parlare.

31


*

So scrivere di quando te ne andrai

perché ancora non vieni

e la linea che segni

odora del tuo passo naturale

nel raggiungermi. Sto

presso di te come si sfoglia un fiore.

Quando verrai starò

confuso a rimirarti che mi guardi

e se non dico amore

è perché amarti ha già aperto il dolore.

Qui seduto ti attendo ed immagino

il tuo sogno che si disvela,

l’incanto che si fa visione,

l’attimo esatto in cui da estranei un bacio

ci fa parlare una lingua soltanto,

urgere da un incanto di tenerezza

l’appartenenza di un nome

e quindi questo bisogno di complicità.

Questa vorremmo come la più inusuale

delle abitudini.

32


*

Di quante cose parleremo vedendoci

così, come si imbriglia un’attesa

o si rimane curvi sul banco di occhiali

nel mercatino imprevisto della domenica.

Io non mi aspetto da te una folgorazione:

piuttosto un refolo di blanda luce,

un accordo continuo tenuto piano.

Mi sazierà che per un attimo appena

corra da me a te come un’intesa

delicata, da risospingere indietro.

E so già che tempesteremo la linea

perché è così che ci si schiude all’assenza,

quando già il colmo è passato oltre, l’incontro

preludendo a ben altro, lo sai,

si allontana e non torna.

33


*

Vorrei che il nostro sogno durasse

dentro la vita. Che fosse

un oltre che si spalanca nelle cose.

Io ti vorrei

qui con me nel silenzio dei momenti

qualunque, per guardarti senza intenzione

sapendo che non te ne andrai

e sfiorarti negli attimi senza il bisogno

di stringerti, perché ti porto come un sigillo

che non dà tregua alla mente, al respiro.

Vorrei mangiare una pizza, con te;

e misurare un nuovo paio di sandali

e adottare un meticcio con gli occhi spauriti

e correre con lui tra gli ombrelloni e la spiaggia

quando imbruna.

Vorrei

che dunque almeno ti giungesse questa mia voce

qui che tra i volti ti cerco, qui che ti chiamo

nell’esile tragitto della penna

sul foglio bianco che ti conosce un po’

qui in me che esplodi

e non lasciarmi mai più!

34


*

Dammi la terracotta, ch’io la riponga

sopra il termosifone. Dammi la penna

perché se scrivo è meglio. Dammi il tocco

del tacco che si posa incautamente

tra lo studio e l’androne. Dammi il telefono

che se non suona è un tenero gingillo

e dammi il portachiavi di metallo

e senza chiavi. E dammi un po’ d’amore

senza parole.

35


*

Come di quella fiamma flebile e calda

che si divincola nella penombra

ora che si fa scuro e silenzio, tranne quel gorgo

lontano di parole bruciate a vuoto

lascio che i desideri riposti sfumino via,

che non appartengano ad altri

che all’oscura forma del sogno e dell’incubo

simili al mio delirio di questa notte…

36


*

Eh se invece vorrei che mi cercassi tra i volti

cercando proprio di me, di nessun altro

che me… eh se vorrei

credermi verosimile un simile abbaglio

ma com’è gialla la luce di questo tramonto

delicato e opprimente, com’è lontana

la tua voce che mi parlava…

37


*

Non vorrei precipitarti tra le braccia,

forse è meglio se te ne vai.

Giungo esanime per trovare un ristoro,

una piega di tenerezza

nel vacillare delle cose.

Ma non è nella fuga che debbo trovarti.

Così non c’è nulla che tenga

dentro l’estremo attimo di vuoto

(o forse lì si dona

la percezione di tutto?)

La pietà che ti imploro

è quella di non voltarti

quando sarò nel cuore della domanda,

quando il vero teneramente inchioderà

al dolore di sé.

38


*

Se dal tuo nord ti porta in trattoria

dalle mie parti un impegno che ignoro

io non lo saprò mai. Scomparirai

con la cena ultimata dove non so.

Però così come mi incroci tacendo

e torni un po’ a scrutarmi mentre scrivo

(e proprio di te), per come mi sorridi

ritraendoti subito…

a me pare

che in un istante tutta si consumi

la vita.

39


*

Appartieni alla pagina. Se leggi

è la tua orma che la segna, appari

e così è d’ogni volto, d’ogni traccia.

Un inchiostro indelebile di battiti

fermati al limitare di uno schianto,

volendosi sentire in sé e nel mondo.

E anche io sono qui. Mi cripto forse

nella punteggiatura, punto minimo

che dà struttura e senso alle occasioni.

Eppure il graffito, flebile, ci supera.

40


*

L’adolescenza non te l’ho maltrattata,

nemmeno con la dolcezza che fa ancora più male

perché lega chi è debole. L’ho rispettata

col distacco degli umili, con la dignità.

Tanto lo so che la tua anagrafe è un lapsus

come la mia esperienza. Però me ne resto

cauto di là dal fiume, dove annotta più presto

dello spruzzo di luce che ti colora. Aspetto

un tempo che è già passato, per me che non lo coglievo.

Dieci anni dopo dov’ero? Di dieci anni che è stato?

Ieri guardavo il lago e tu stavi con me.

Oggi mi porta il mare. È notte. Che ne è di te?

41


*

Mio casto cielo che ti guardo spesso

azzurro come l’occhio dell’anguilla

come la vita che sparisce giù

mio cielo bianco che prelude al freddo

nebbia che mi ci vesto la mattina

come la vita che non ho più.

42


IL VIAGGIO DI POESIA

*

Il treno che rompendo uno sciopero

ci sta portando a Bologna

non è un bel treno, non fosse

che per le bocche assonnate che l’abitano,

una ad una buttate nei sedili.

Un coacervo di sporcizie le copre

come un manto abissale.

Belle bocche innocenti, vi guardo

e vi sogno, crudeli. Vi scruto

con la malizia intatta di chi non si palesa

e finge ammirazione per l’umidità

che segna di sé i salici, appena fuori,

che a ben altre stazioni conduce questo vagone

cadente, a ben altri martirii. E corrono via

apparentemente immote case coloniche

dove si consuma, alla luce assai fioca di un fuoco,

il rito estremo del giorno

o quello primigenio della vita.

E in questo ribaltarsi di mondi scaturiti a lampi

e a sorsi, dalla nostra carretta che cigola

sulla rotaia, affiora l’odore di baci

crudi, di cupe bevande. Non è

più come un tempo, il treno: ognuno sta

curvo sul suo destino di orari, impregnato

di un senso di libertà che non conosce,

artigliandolo un po’ alla cieca, un po’

con la grazia immacolata dei poveri

e dei fuggiaschi.

43


*

Accòmodati qui che ti passo

il borsone e il borsello, tienimi quello

che dentro ci tengo i libri per il viaggio

e le penne per i rimandi. Tienimi un filo

d’aria per sentirmi tutt’uno con la terra

che attraversiamo mentre sulla rotaia

se ne va il giorno. So che non leggeremo

e non scriveremo mentre il vagone

arranca sulle colline, e che questo non è nemmeno

un viaggio ma solo uno scarto nell’immenso.

Tieni a mente le mie segrete sillabe

e i mugugni dell’ora; hai la parola

del capostazione, e la flemma del treno.

Di questo passo di sicuro saremo

prima di notte a destinazione.

Raggiungerla mi sembra naturale

lungo i costoni pigri dell’inverno,

quando la solitudine la si accarezza

come un arricchimento. Nel fotogramma

che mi percorre c’è un tempo

che si inceppa per miracolo, e com’è bello…

Ci arriveremo da vecchi, tenendoci forte

per mano, e scopriremo

che il dolore non vive mai troppo lontano

ma che ci insemina piano

nelle pieghe di ogni realtà.

Resisti, mi dico, ti dico,

resisti, chiunque tu sia che ti volgi

e mi saluti dal tuo campo di attese.

Ho la tua mano vicina, il bagaglio

a tracolla. Ti guardo

e non c’è guerra che tenga.

44


*

Si cerca sempre un bar che sia come un nido

una specie di tana dove ci si saluta fianco a fianco

senza intenzioni e senza propositi

per il solo gusto di farlo.

Potrebbe trattarsi di Montelupone o Fergana

e dunque un luogo dello spirito o comunque

una rifrazione della luna oltre le muffe

andate nel restauro e l’aria prematura

dell’estate che non varca la soglia. Dal bancone

di legno antico sorride una donna che parla

straniero e ci punta, ci si fa incontro

con la scusa dell’ordinazione.

Da sale interne proviene un vecchio

vestito alla meglio, catarroso,

con l’alito fermo nella domenica

che gliel’ha sigillato il tabacco

e qualche goccio di troppo. Ci ignora,

quest’altro che riconsegna le carte

e dalle rughe comunica una stanchezza

senza cittadinanza, incivile.

Con un tiro di schioppo che penetri

nuvolaie indistinte, urla di bimbi,

tacchi di donne che si affrettano

per evitare la pioggia,

io penso che ci si cerca per blandirsi

almeno un poco, sibilando come fa il neon

per la paura di spegnersi o per la gioia

di aver varcato il silenzio un’altra volta.

45


*

Per noi randagi piove sempre una notte

opportuna, un’occasione di scavi

nella memoria delle campagne,

una possibilità di voce. Le parole

escono da una stiva segreta

quando le stelle se le porta lo scirocco

e l’erba tumultua oltre il motore dell’auto.

Spegni dunque i tuoi fari, concedi

alla fronte uno spicchio d’aria lunare.

Che il mare qui è un oceano d’occhi che spiano,

un caldo fuori stagione che preme e chiama.

La carta trema tra le nostre mani, la debolezza

ci spinge ad un silenzio che è sguardo e fuoco

e luminosa è l’attesa.

46


*

La regina delle nevi accompagna

il pomeriggio smorto della domenica

con vorticosi cristalli, morbide piume

nelle ossessioni che schiude, urticando

agi minuscoli, borghesi beltà

di chi si concede un relax per la lettura

e sfida così la cefalea che l’assale

nella penombra che precede il temporale.

Si capita tra pagine non cercate che prendono

o solo un pensare che passa da fuori a dentro.

E ti guardo al lavoro eroicamente

tra sillabe che la traduzione non riconduce,

contarle, farti violenza,

nella stanza annebbiata di fumo

come altrove si cuce un ricamo,

si ricongiunge un orlo di vita e poesia.

47


*

Il soffio che riproduce l’azzurro

e i tersi declivi nella radura

del cuore. Questo sappiamo

appena scesi

dalla giostra, sospesi

come la luminaria, guardando.

48


CARI VOLTI CHE CERCO NEL TUO

In questa che non è terra di ginepri

e il maestrale non squassa le coste,

esattamente qui dove ti trovi

agitando il tuo bel silenzio interiore

e quindi andando per sigarette come a una cerca

di fraticelli col freddo

chiusi a segreto in uno sguardo che fulmina

ho freddo anche io (è un settembre

che non guarisce in nulla un’estate di piogge).

Però come ci piaceva ritrovarci

comunque, su antiche sdraio,

coi segni caldi dell’età e perso lo sguardo

in quell’orizzonte di sabbia e di perla.

Cari volti che cerco nel tuo.

Sembianze che riconducono a un’orma

di stagioni lontane, dissimulate

nell’immobilità delle spiagge, nella canicola

superba di quella prima età, quando un chiosco

sembrava fuga da un’istituzione qualunque,

per una pizza rubata a mezz’ora dal pranzo,

a dispetto dei grandi. E ora guardaci qui

piegati su malattie di ossa che invecchiano,

taluni spenti già, ripiegati

sulla rassegnazione, spaginato

il giornale che ci reca invariabili

da questi vent’anni le medesime notizie,

con un minimo varco nel futuro

per il cambio apparente dei nomi. Guardaci qui

che la pigrizia ci lega agli ombrelloni

in una scala quaranta senza mestiere

e senza gaudio. Eppure ancora belli,

noi; che una furia segreta ancora ci anima,

noi che ci abbiamo creduto. Ma alla vita, alla nostra

possibilità di sovvertire le semplici

disavventure della quotidianità. Guardaci qui

in questa sfatta radura piovigginosa

a scaldarci l’un l’altro, fumando complici

le nostre antiche sigarette che a tirarle

ancora senti il mondo farsi da presso

e annullarsi il rimorso. Guardaci adesso

e perdonaci.

49


POEMETTO DELL’ALBA

Sono fermo nell’alba, in quest’assenza

totale di rumori e di coscienza.

Fermo su me, palpandomi le maniche

all’altezza del gomito, stringendomi

un po’ più in me, come sul ciglio del mondo.

Davanti ho il mio crocifisso di piombo,

l’inchiodato fratello che resiste

immacolato in quest’alba di pietra.

Non sale il rosa, non il vento leggero

che bruma l’aria e alleggerisce l’ora.

Solo il mio struggimento di sasso

varca il buio. E ci sono senza esserci.

O forse mai così in me, mai così vigile

ora che si concretano le parole

e i sogni prendono corpo, e le visioni

allucinate si fanno di carne.

Io sto nell’alba come sto nella vita:

fermo su me in attesa del giorno,

guardando scorrere un ruscello qualunque

sotto di me, portarsi via le illusioni.

Io sto con le parole che non si posano

oltre l’abbaglio di un miraggio lontano

che sembra farsi accanto ma sparisce

anche quando non fa tremare nulla.

Io mi bagno nel nulla di una certezza

impropria, fatta soltanto di memoria.

Devo sguarnirmi del cuore, fissarmi soltanto

in ciò che sembra, in ciò che appare e sembra

vero, sembra consistere. Io vivo

oramai come l’ombra di una pianta

incapace di muoversi o restare.

Ferma nel suo destino come in un limbo

perché a slanciarsi trova la corrente.

Fare tutto del niente, approfittare

di una consolazione inesistente,

di una provvisiora verità.

50


Io so che all’alba si conosce l’aria

che approssima il mattino e i suoi colori.

Se qui l’aspetto dovrà giungere, credo.

Oppure, se non giunge, aspetterò.

Io di qui non mi muovo, anche se penso

che muoversi o non muoversi non muta

la storia, se poi il cuore immacolando

vibra solo su sé, sperso nel cielo.

Quante albe e misteri ho conosciuto…

da qui, senza volerlo si scopre l’urto

che inceppa l’universo, e le precarie

stabilità degli uomini. Da qui

per l’erba o lungo il ciglio della strada

s’affretta lesto il topo al nascondiglio,

perché l’alba è alle porte. S’apre l’ala

del colombo e la serpe un po’ s’acquatta.

Tutto si muove, intorno a me nell’alba.

E tutto tristemente piega e cade.

Se qualcuno gridasse, almeno potrei

da qui lanciare un urlo di risposta,

o una mano protendere, tentando

un abbraccio che superi il saluto,

una presa che regga. Da qui potrei

dare segni di vita, dimostrare

almeno a me che qualche cosa tiene.

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DOVE LA ROCCIA NON CROLLA

Atterrando con pace in un tempo

divorato dai lupi. Frugando l’aria

nel ricordo sopito ma con che buio

dentro, e le borse grondanti

di libri, e senza cucina, vuote le camere,

schizzando da un lato all’altro della corda

come scheggia impazzita che solamente

un fondato amore può tenere all’àncora.

Con quanta ammirazione, un po’ trepidando

in giorni sagome di verità, in lampi coscienti

fino al caffè del risveglio di questa mattina

un po’ in apnea per il sonno, un po’ galleggiando

tra le mani già ignare del sangue

che le attraversa, appena poco nascosto

tra le giunture e le vene, che le anima e ferisce

e solidifica, in un abbraccio d’orrore e conforto.

Che deve trattarsi dell’angelo dell’incontro,

di un Abramo uscito in cerca della sua voce

per una promessa serissima e invisibile,

come un’orma sul mare. E lui via

per quella strana follia, l’irragionevole

fuga dal certo. Pensa come tutto si sfalda,

ciò che non ci appartiene, come svapora

il mondo e solo rimane una traccia minima

al colmo della pagina. Pensa, come io faccio,

lo sguardo che teme il destino e lo riconosce

per segni che giungono alla rinfusa da altrove,

chiamando a percorsi di mulattiera o in vicoli bui

che solo in fondo aprono al panorama.

Spettatori implicati e responsabili

di una pazzia, per chi vive alla terra

legato come formica a segmenti di cocci,

a figure di nebbia che bucano il vuoto. E invece noi

piccole cose che confonde l’azzurro,

noi come spuma in fuga sull’oltremare,

su una riva difficile e irta,

dove la roccia non crolla.

52


E’ sempre più elevato il silenzio.

Le tue pagine non mormorano più che una discreta

malinconia educata. Le sfioro

come fossero il tuo sorriso che si apre ancora.

Eppure recano luce e respiro,

non si ritraggono a una pronuncia gentile.

Io ti ripenso

e sale l’ora dei tigli, l’odore

umido e schietto della

biblioteca deserta

(e capisco

questo male del tempo che matura

quando la voce si apre al canto

ed è già notte e non infuria

più il mondo.

Ti cerco

senza maniera, sperso tra chi nemmeno

ti conosce, forte di un segreto comune

fatto di cose)

(a Alvaro Valentini)

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PICCOLA COMUNICAZIONE DELL’AUTORE

Le poesie di questa plaquette sono state scritte tra il 2000 e il 2002.

De Il viaggio di poesia esiste una versione precedente, apparsa nella rivista La clessidra

(I/2002).

Ciminiera, infine, ha inaugurato in copertina il primo numero della rivista omonima.

54


NOTIZIA

Nato a Fermo, Filippo Davoli vive e lavora a Macerata. In ambito poetico ha già dato alle

stampe sei libri, tra cui si ricordano Alla luce della luce (Nuova Compagnia Editrice, Poeti

di ClanDestino, 1996 – Introduzione di Franco Loi), Un vizio di scrittura (Stamperia

dell’arancio, 1998) segnalato al Premio “Montale” 1999, Una bellissima storia (Stamperia

dell’arancio, 2000), finalista al Premio “Dario Bellezza” 2001. Ha inoltre pubblicato 14

solitari, nel volume 7 poeti del Premio Montale (Crocetti, 2002).

Suoi interventi sono apparsi in varie riviste.

E’ compreso nell’antologia La poesia delle Marche. Il Novecento (Il Lavoro editoriale,

1998), ne Il pensiero dominante – Poesia italiana 1970-2000 (Garzanti, 2001), a cura di

Franco Loi e Davide Rondoni, e in Vent’anni di poesia (Passigli, 2002), a cura di Maria

Luisa Spaziani.

Insieme allo scrittore Giovanni Cara ha fondato e dirige la rivista bimestrale di poesia

narrativa musica arte teatro e cinema Ciminiera.

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INDICE

BANDIERA pag. 3

PADANO-PICENO pag. 4

LA POLVERE pag. 5

CIMINIERA pag. 6

PICCOLO CANZONIERE FAMILIARE

Mantova, le tue pietre così rosse pag. 7

La Simona accudisce i suoi molti figlioli pag. 8

Mio zio, uomo buono, retta persona pag. 9

Nella sala, avvolta da una mantiglia pag. 10

La nonna fissa un punto imprecisato pag. 11

Recuperare i parenti in un colpo solo pag. 12

PIANURA pag. 13

IL SIGILLO pag. 14

Io non sono padano che nel sogno pag. 15

ELVIRA pag. 16

SILVIA pag. 17

ORNELLA pag. 18

UN POMERIGGIO pag. 19

IL VECCHIO AMICO

L’amichetto che aspetta sulle scale pag. 20

Ti ripenso dal fioco che ha l’estate pag. 21

Un mondo che non riuscivi a concepire diverso dal tuo pag. 22

Eppure i giorni ci volavano piano pag. 23

Le strade che tento quando muoviamo pag. 24

L’Ottanta fu una stagione di motorini pag. 25

Sulla terrazza affocata pag. 26

Conducimi ancora nella tua vecchia macchina pag. 27

Ci diamo un appuntamento fittizio pag. 28

Le foto degli amici? Nello studio pag. 29

L’AMORE DETTO

Mio vecchio amore pag. 30

So scrivere di quando te ne andrai pag. 31

Di quante cose parleremo vedendoci pag. 32

Vorrei che il nostro sogno durasse pag. 33

Dammi la terracotta, ch’io la riponga pag. 34

Come di quella fiamma flebile e calda pag. 35

Eh se invece vorrei che mi cercassi tra i volti pag. 36

Non vorrei precipitarti tra le braccia pag. 37

Se dal tuo nord ti porta in trattoria pag. 38

Appartieni alla pagina. Se leggi pag. 39

L’adolescenza non te l’ho maltrattata pag. 40

Mio casto cielo che ti guardo spesso pag. 41

IL VIAGGIO DI POESIA

Il treno che rompendo uno sciopero pag. 42

Accòmodati qui che ti passo pag. 43

Si cerca sempre un bar che sia come un nido pag. 44

Per noi randagi piove sempre una notte pag. 45

La regina delle nevi accompagna pag. 46

Il soffio che riproduce l’azzurro pag. 47

CARI VOLTI CHE CERCO NEL TUO pag. 48

POEMETTO DELL’ALBA pag. 49

DOVE LA ROCCIA NON CROLLA pag. 51

È sempre più elevato il silenzio pag. 52

PICOLA COMUNICAZIONE DELL’AUTORE pag. 53

NOTIZIA pag. 54

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