Compendium diplomaticum sive tabularum veterum

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subsidio, et a mortis discrimine liberatis. Si qui ergo, quos vos non pavistis, aut prae fame morientur, aut corripientur morbis, hos vos, o divites, occidistis, hos infirmastis. Extrema penuria, qua populi hoc anno premuntur, illud necessario expostulat a vobis, ut non modo superflua in pauperes effundatis, verum etiam si haec non sufficiant, quae ad vestri decentiam pertinent subtrahere, et indigentibus sub gravi culpa erogare debeatis. Ast timendum valde, ne pauci inter divites huic divino praecepto satisfaciant, et scientes, fratres suos fame laborare, aerumnam pati, claudant viscera sua super eis. Ideo Christus in Evangelio aperte dixit: Dives difficile intrabit in Regnum Coelorum. Matth. 19. Vae itaque huiusmodi divitibus. Quod si Deo auxiliante hoc praeceptum impleveritis, ne existimetis divinae iustitiae vos aequam satisfactionem exhibuisse. Quotquor estis, qui christiano nomine censemini, sive divites, sive pauperes, mementote, non esse discipulum Christi, qui cum Christo crucem non ferens, mortificationem eius in suo corpore non gerit, nec carnem crucifigit cum vitiis, et concupiscentiis eius. Et hoc quidem divinum mandatum nullam vitae nostrae excipti partem; verum speciali acceptabili hoc quadragesimae tempore urget. Christus innocens segregatus a peccatoribus, et excelsior coelis factus, quadraginta diebus ieiunavit, quo nobis poenitentiae pro peccatis nostris subeundae exemplum daret. Nos autem, qui in peccatis nati sumus, nos, qui tot tantisque sceleribus iram Dei lacessivimus, nos a Deo tanquam Patre temporalibus flagellis correpti, atque moniti, ut peccata nostra detestemur, moresque novos induamus, nos poenitentiae occasionem etiamnum recusabimus. aut de die in diem differemus? Quapropter in Domino hortamur vos, et obsecramus, ne in vacuum gratiam Dei recipiatis; ipse enim longanimis, et multum misericors paratus est tempore accepto exaudire nos, et in die salutis nos adiuvare. Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc tempus salutis! In his ergo diebus exhibeamus nosmetipsos Deo in multa patientia, in tribulationibus, in charitate, in corde contrito, atque perfecto, per arma iustitiae illius; ne si forte concessum nobis poenitentiae tempus contemnamus, irascatur Dominus, et extremo nos furore corripiat, ut pareamus de via iusta. Animarum curatoribus ultimo mandamus, ut litteras has nostras vulgari indiomati redditas commisso sibi populo enuncient e suggestu vel altari, nihilque intentatum relinquant, ut poenitentiae humilitatis, mansuetudinis et fraternae charitatis necessitatem in christianorum cordibus excitent. In quorum etc. Datum Tridenti die 9 februarii 1801. Zambaiti Vicarius Generalis capitularis. Petrus Iospeh Cloch cancellarius. 1065. Anno isto 1801 die veneris 6 martii accepi alium libellum doctoris Alberti Turrini iuvenis roboretani ad Macdonaldum, sed male descriptum. Hic est. Eccellenza. L'estrema miseria, o Generale, ha diritto ai lamenti. Metter uno a perire di stento, e non voler, ch'egli gema, sarebbe l'dea d'una crudeltà nuova senza esempio. Bisogna o non render alcun infelice, o lasciargli almeno esalar il dolore a declamarlo. Voi, o Generale, ci rendete infelici oltre ciò, che comporta la fatalità della guerra, e la necessità di vostra sussistenza. Permettete a noi, che formiamo la centrale deputazione, e rappresentiamo il popolo, e siamo destinati ad esser l'organo espressivo delle di lui intenzioni, degli affetti, e bisogni, permettete, io dissi, che di ciò vi persuadiamo, e vogliamo sperare, che resovi di ciò persuaso, moi non avremo a consumar parola in esortarvi ad alleviarci da quel male, che con peso insopportabile ci opprime, ed estenua. Non è già la natura vostra, che noi dobbiamo riputare umanissima, ma ella è forse la falsa opinione di nostre dovizie o qualche altro errore di massima, che tanto vi conduce ad affliggerci senza forse avvedervene. Noi premettiamo come massima inconcussibile, che la guerra fatta da una nazione saggia, moderata, civile, e degna delle vittorie, dee tener conto dei vinti popoli, non come una fiera delle prede, che gode d'averla sotto le zanne, e gli artigli solo per isbranarla; ma come un buon padre di famiglia, d'un podere di nuovo acquisito, che più lo impingua, perché più gli possa fruttificare. 86

Sono sbanditi dalla mente, e sono detestati dalla risentita natura quei barbari principi del diritto della guerra, che al vincitore permettono tutto sopra del vinto. E se tai principi in generale ancora reggessero, non potranno mai reggere per una generosa nazione, che al vibrar della spada proclama insieme la sicurezza delle proprietà, e delle persone: che anche allorquando si mostra adirata, e cruciosa contro i ministeri, sorride d'un sorriso d'umanità verso i popoli e pretende, che accarezzino quelle armi, a cui si sottomettono: per una nazione, io replico, ch'è ambiziosa di poter credere, che i motivi della sua guerra siano stimati così giusti, e l'armi sue tanto clementi, che gli stranieri medesimi abbiano ad affrettar coi voti loro le sue conquiste, e vittorie, e gl'inimici a baciar per tenerezza quelle insegne, ch'hanno la sorte di vedere sventolare nelle loro contade. Questa generosa nazione, quando ella non voglia mentire, non dee trattare i vinti popoli come sua preda, e cagionar loro lo sterminio ancorché ogni altro vincitore fosse per farlo. S'aggiunge in confirmazione di questa massima, come la Francia ha già conosciuto il savio documento della recente politica umanizzata da lunghi studi, e dalla barbarie ripugnata, la quale insegna, che il popolo è il giumento dei principi, e dei condottieri degli eserciti, che l'estenuarlo fino agli estremi, egli è lo stesso, che il volerlo vedere a mezzo il viaggio gittare per istanchezza la soma a terra, e convertirsi in aggravio quello che avrebbe dovuto essere un sussidio: che molti barbari colle concussioni, e devastazioni si ridussero a segno di dover da se stessi abbandonar la vittoria, che a traverso di molti pericoli si erano con istento procurata. Secondo le cose fin qui premesse, egli dee essere, e non v'è dubbio, interesse della Francia, interesse vostro, o Generale, che noi non veniamo trattati come preda, ma veniamo saviamente governati in modo che non resti attaccata la nostra totale esistenza, e che noi non come vittima col sacrificio, cioè della vita, ma come giumento col frutto cioè dei nostri travagli vi siamo utili, e possiamo continuare ad esserlo in avvenire. Io taccio, o Generale, che sia cosa ingiuriosa, e che voi ci trattiate in aria di conquista, perché l'armi vostre, reggendo i patti di Moreau, aveano dovere di tenergli dietro la linea dell'armistizio, e non poteano aiutare l'imprese dell'armata d'Italia. La combinazione, ossia la nostra sventura vi fece entrare fra noi, e benché abbiate avute l'armi alla mano, pure riflettendo al luogo, ove siete, ed a quello che vi consideraste piuttosto come ospite, che come nemico. Non parliamo però di ragioni, che di ciò far non si conviene ad un popolo, che altro giudice non vuol avere, che la vostra clemenza: e veniamo piuttosto alla considerazione delle nostre miserie. Voi ci levaste colla vostra esorbitante contribuzione quasi tutto il denaro, che circolava: ci levaste li viveri colle giornaliere requisizioni. Ci annunziaste di poi, che il soldato cesserebbe di esigere dalla comunità, e dai privati, e che l'officiale vivrebbe del suo. E in tanto quasi tutta la truppa escute il paese ove dimora, per trarne la sussistenza. E ad onta di ciò esigete per li magazzini mille trecento e trenta quintali di carne, e dieci nove milla di fieno ogni quindeci giorni. Non vi dobbiamo dire il numero delle truppe, che voi avete; ma voi vedete bene, che si fatta reqiuisizione sarebbe bastevole per il mantenimento di tre delle vostre armate, quando esse vivessero tutte sui magazzini. Che dirassi di questa, che vive quasi tutta a carico dei Comuni, e dei privati? O il magazzino, o le requisizioni particolari devon esser tolte, o Generale. Voi diceste: Cessino le requisizioni particolari. Il vostro soldato non vi obbedisce. Che bel comando! Domandate, che se l'accusi: noi l'accusiamo; ma l'abuso è generale, e ciò dee al vostro zelo bastare per movervi a reprimerlo. Voi non attendete accuse particolari, perché ogni nuovo governo non ispira giammai la confidenza dell'accusa. Ma ditemi frattanto, o Generale, è questa una fatalità della guerra, aver un'armata alle spalle, che non cessa mai dal mettere particolari, e universali requisizioni: un'armata, ch'esige più di quello, che potrebbe per tre armate bastare? o non è egli anche per la voracità, che egli diviene insolente, indisciplinato, poltrone. Pure noi vogliamo, che s'interessi il veder, che si esiga poco, o molto, purché non sorpassi le nostre forze, e non involga l'intiera nostra rovina: ma ciò, che si esige, ci termina, e ci uccide. Sapete voi, o Generale, in qual paese vivete? Vel dirò io: in un paese, che vivendo sotto di voi più allongo, si dee morire di fame. L'Italia unico a natural granaio del Tirolo meridionale chiusa al commercio dei grani sotto pena di morte: la Germania esausta: l'Ungaria intercetta: il natural nostro prodotto già consumato da voi senza riguardo: raddoppiato il consumo pel raddoppiato il 87

subsidio, et a mortis discrimine liberatis. Si qui ergo, quos vos non pavistis, aut prae fame<br />

morientur, aut corripientur morbis, hos vos, o divites, occidistis, hos infirmastis.<br />

Extrema penuria, qua populi hoc anno premuntur, illud necessario expostulat a vobis, ut<br />

non modo superflua in pauperes effundatis, verum etiam si haec non sufficiant, quae ad vestri<br />

decentiam pertinent subtrahere, et indigentibus sub gravi culpa erogare debeatis. Ast timendum<br />

valde, ne pauci inter divites huic divino praecepto satisfaciant, et scientes, fratres suos fame<br />

laborare, aerumnam pati, claudant viscera sua super eis. Ideo Christus in Evangelio aperte dixit:<br />

Dives difficile intrabit in Regnum Coelorum. Matth. 19. Vae itaque huiusmodi divitibus.<br />

Quod si Deo auxiliante hoc praeceptum impleveritis, ne existimetis divinae iustitiae vos<br />

aequam satisfactionem exhibuisse. Quotquor estis, qui christiano nomine censemini, <strong>sive</strong><br />

divites, <strong>sive</strong> pauperes, mementote, non esse discipulum Christi, qui cum Christo crucem non<br />

ferens, mortificationem eius in suo corpore non gerit, nec carnem crucifigit cum vitiis, et<br />

concupiscentiis eius. Et hoc quidem divinum mandatum nullam vitae nostrae excipti partem;<br />

verum speciali acceptabili hoc quadragesimae tempore urget. Christus innocens segregatus a<br />

peccatoribus, et excelsior coelis factus, quadraginta diebus ieiunavit, quo nobis poenitentiae pro<br />

peccatis nostris subeundae exemplum daret. Nos autem, qui in peccatis nati sumus, nos, qui tot<br />

tantisque sceleribus iram Dei lacessivimus, nos a Deo tanquam Patre temporalibus flagellis<br />

correpti, atque moniti, ut peccata nostra detestemur, moresque novos induamus, nos<br />

poenitentiae occasionem etiamnum recusabimus. aut de die in diem differemus? Quapropter in<br />

Domino hortamur vos, et obsecramus, ne in vacuum gratiam Dei recipiatis; ipse enim<br />

longanimis, et multum misericors paratus est tempore accepto exaudire nos, et in die salutis nos<br />

adiuvare. Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc tempus salutis! In his ergo diebus<br />

exhibeamus nosmetipsos Deo in multa patientia, in tribulationibus, in charitate, in corde<br />

contrito, atque perfecto, per arma iustitiae illius; ne si forte concessum nobis poenitentiae<br />

tempus contemnamus, irascatur Dominus, et extremo nos furore corripiat, ut pareamus de via<br />

iusta.<br />

Animarum curatoribus ultimo mandamus, ut litteras has nostras vulgari indiomati redditas<br />

commisso sibi populo enuncient e suggestu vel altari, nihilque intentatum relinquant, ut<br />

poenitentiae humilitatis, mansuetudinis et fraternae charitatis necessitatem in christianorum<br />

cordibus excitent. In quorum etc.<br />

Datum Tridenti die 9 februarii 1801.<br />

Zambaiti Vicarius Generalis capitularis.<br />

Petrus Iospeh Cloch cancellarius.<br />

1065. Anno isto 1801 die veneris 6 martii accepi alium libellum doctoris Alberti Turrini<br />

iuvenis roboretani ad Macdonaldum, sed male descriptum. Hic est.<br />

Eccellenza.<br />

L'estrema miseria, o Generale, ha diritto ai lamenti. Metter uno a perire di stento, e non<br />

voler, ch'egli gema, sarebbe l'dea d'una crudeltà nuova senza esempio. Bisogna o non render<br />

alcun infelice, o lasciargli almeno esalar il dolore a declamarlo. Voi, o Generale, ci rendete<br />

infelici oltre ciò, che comporta la fatalità della guerra, e la necessità di vostra sussistenza.<br />

Permettete a noi, che formiamo la centrale deputazione, e rappresentiamo il popolo, e siamo<br />

destinati ad esser l'organo espressivo delle di lui intenzioni, degli affetti, e bisogni, permettete,<br />

io dissi, che di ciò vi persuadiamo, e vogliamo sperare, che resovi di ciò persuaso, moi non<br />

avremo a consumar parola in esortarvi ad alleviarci da quel male, che con peso insopportabile ci<br />

opprime, ed estenua. Non è già la natura vostra, che noi dobbiamo riputare umanissima, ma ella<br />

è forse la falsa opinione di nostre dovizie o qualche altro errore di massima, che tanto vi<br />

conduce ad affliggerci senza forse avvedervene.<br />

Noi premettiamo come massima inconcussibile, che la guerra fatta da una nazione saggia,<br />

moderata, civile, e degna delle vittorie, dee tener conto dei vinti popoli, non come una fiera<br />

delle prede, che gode d'averla sotto le zanne, e gli artigli solo per isbranarla; ma come un buon<br />

padre di famiglia, d'un podere di nuovo acquisito, che più lo impingua, perché più gli possa<br />

fruttificare.<br />

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