espressione e vita al movimento delle mani; specialmente nella passione, il volto più eloquente è insignificante senza di esse. Le braccia, chiuse strette lungo il corpo dalle spire dei serpenti, avrebbero diffuso gelo e morte sull’intero gruppo. Perciò le vediamo, sia nella figura principale che in quelle secondarie, in piena attività, e occupate soprattutto là dove il dolore è più violento. Virgilio fa avviluppare i serpenti per ben due volte attorno al corpo e al collo di Laocoonte, e fa che lo sovrastino alto con le teste: Bis medium amplexi, bis collo squamea circum / terga dati, superant capite et cervici bus altis. [Verg. Aen. 2,218-219] […] Gli antichi scultori capirono al primo sguardo che la loro arte abbisognava qui di un completo mutamento. Essi spostarono tutte le spire del corpo e del collo ai fianchi e alle gambe. Lì queste spire potevano coprire e premere ciò che era necessario senza danno per l’espressione. Lì suscitavano nel contempo l’idea della fuga impedita e un tipo di immobilità che è molto vantaggiosa per la durata artificiale di questo stato. […] Il Laocoonte di Virgilio è nei suoi paramenti sacerdotali, e nel gruppo egli appare, insieme ai due figli, completamente nudo. Si dice che ci sia gente che trovi incongruente il fatto che il figlio di un re, un sacerdote, durante un sacrificio, sia rappresentato nudo. E a questa gente alcuni esperti d’arte rispondono in perfetta serietà che invero si tratta di un errore rispetto alla norma, ma che gli artisti vi furono costretti perché non potevano dare alle loro figure alcuna veste conveniente. La scultura, essi dicono, non può imitare le stoffe […] Per il poeta un drappo non è un drappo; non copre nulla; la nostra immaginazione lo penetra dappertutto. L’abbia o non l’abbia il Laocoonte di Virgilio, il suo dolore è visibile in ogni parte del corpo sia nell’uno sia nell’altro caso. Per l’immaginazione la fronte è solo avvolta dalla benda sacerdotale, ma non nascosta. Anzi questa benda non solo non impedisce, ma rafforza il concetto che noi ci facciamo dell’infelicità di chi soffre: Perfusus sanie vittas atroque veneno [Verg. Aen. 2,221]. A nulla gli serve la sua dignità sacerdotale; anche il segno di essa [scil. la benda], che gli procura considerazione e venerazione, viene impregnato e profanato dalla bava velenosa. Ma a questa idea accessoria l’artista doveva rinunciare se non voleva danneggiare l’opera principale. Se avesse lasciato a Laocoonte anche solo questa benda, avrebbe indebolito sensibilmente l’espressione. La fronte sarebbe stata in parte coperta, e la fronte e la sede dell’espressione […]. La mia ipotesi che gli artisti abbiano imitato il poeta non ne diminuisce il merito. La loro accortezza, anzi, appare migliore grazie a questa imitazione. Essi seguirono il poeta senza per questo farsi fuorviare da lui nella più minuta piccolezza. Essi avevano un modello, ma poiché dovevano tradurre tale modello da un’arte all’altra, ebbero sufficienti occasioni per pensare autonomamente. […] [trad. di M. Cometa] 4) G.E. Lessing, Laocoonte. Praef., nota [1766] [Quanto al quadro che Eumolpo commenta in Petronio], esso rappresentava la distruzione di Troia e, in particolare, la storia di Laocoonte, proprio come Virgilio la narra; e poiché nella stessa galleria di Napoli in cui esso era conservato stavano anche altri antichi quadri di Zeusi, Protogene e Apelle, si potrebbe supporre che anch’esso sia stato un quadro dell’antichità greca. Solo mi si consenta di non considerare uno scrittore di romanzi alla stessa stregua di uno storico. Questa galleria, e questi quadri, e persino questo Eumolpo sembrano, a quanto pare, non essere esistiti che nella fantasia di Petronio. Nulla tradisce maggiormente il loro carattere del tutto fittizio, che le palesi tracce di un’imitazione quasi scolastica della descrizione di Virgilio […]. I tratti principali sono gli stessi in entrambi i passi e cose diverse sono espresse con le medesime parole. Tuttavia queste son piccolezze che saltano agli occhi da sole. Vi sono altri segni dell’imitazione che sono più sottili, ma non per questo meno certi. Se l’imitatore è un uomo, che ha fiducia in se stesso, raramente imita senza voler abbellire; e quando questo abbellimento gli è, a parer suo, riuscito, è abbastanza furbo da cancellare con la coda le orme che tradirebbero il cammino sin lì percorso. Ma proprio questa vana smania di abbellire, e questa preoccupazione di apparire originale lo smascherano. Poiché il suo abbellimento non è altro che esagerazione e innaturale leziosaggine. Virgilio dice sanguineae iubae [Verg. Aen. 2,206-207]; Petronio liberae iubae luminibus coruscant [Petron. 89,38-39]; Virgilio ardentes oculos suffecti sanguine et igni [Verg. Aen. 2,210]; Petronio fulmineum iubar incendit aequor. Virgilio fit sonitus spumante salo [Verg. Aen. 2,209]; Petronio sibilis undae tremunt [Petron. 89,40]. Così l’imitatore passa sempre dal grande al mostruoso, dal meraviglioso all’impossibile. I fanciulli avviluppati dai serpenti sono per Virgilio 13
un parergon che egli introduce con pochi tratti significativi, in cui non si riconosce che la loro impotenza e la loro disperazione. Petronio dipinge esplicitamente questa parte accessoria e fa dei fanciulli due anime eroiche: neuter auxilio sibi / uterque fratri transtulit pietas vices / morsque ipsa miseros mutuo perdit metu [Petron. 89,45-47]. Chi si aspetta da uomini, da bambini, questa abnegazione? […] Di solito l’imitatore cerca di nascondersi presentando gli oggetti sotto un’altra luce, dando rilievo alle ombre e attenuando le luci. Virgilio si sforza di rendere ben visibile l’imponenza dei serpenti, perché da questa imponenza dipende la verosimiglianza di quanto accade in seguito; il rumore che essi producono è solo un’idea accessoria e destinata a rendere anche con ciò il concetto dell’imponenza. Petronio, invece, fa di questa idea accessoria la cosa principale e descrive il rumore con ogni possibile ridondanza e dimentica a tal punto la rappresentazione dell’imponenza che noi la dobbiamo dedurre quasi esclusivamente dal rumore. […] Così si può a ragione ritenere ogni quadro poetico, che è sovraccarico nei tratti minori e nei grandi è lacunoso, un’imitazione mal riuscita. […] [trad. di M. Cometa] 14
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DISPENSA DI LETTERATURA LATINA A.A.
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eddidit Hectoreum meque in mea regn
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Non prius aspicies ubi fessum aetat
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