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Vigneto friuli - Claudio Fabbro

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posso dimenticare che risalgono al 1755 le prime citazioni del Picolit, che il conte<br />

Fabio Asquini di Fagagna, su insistenza epistolare dell’agronomo veneziano Antonio<br />

Zanon, diffuse commercialmente dieci anni dopo nelle mense più prestigiose<br />

d’Europa (famoso il racconto delle 100.000 bottiglie da un quarto di litro...)<br />

spiazzando lo stesso Tokaji ungherese che aveva raggiunto anch’esso una notevole<br />

notorietà; annoto anche che nel 1868, grazie al conte Theodore de La Tour,<br />

arrivarono in Friuli, in dote per le nozze con la nobile Elvine Ritter de Zahoni,<br />

proprietaria di Villa Russiz in Capriva del Friuli, le prime viti di Pinot Grigio,<br />

Bianco, Nero e Sauvignon, nonché quel Merlot che il Pecile e il di Brazzà<br />

diffusero in tutto il Friuli dopo il 1880.<br />

Il resto è storia recente, fatta di continue distruzioni e ricostruzioni, a partire<br />

dall’arrivo di Peronospora e Oidio (1850-1860) e poi della Fillossera che dal 1888,<br />

dal Carso, iniziò la sua lenta e inesorabile distruzione dell’intero patrimonio<br />

vivaistico friulano. Fu lotta ardua quella contro la Fillossera, svolta soprattutto<br />

tramite gli sforzi di tanti vivaisti e ricercatori, che si concluse solo nel 1942.<br />

E la guerra 1915-1918 dove la mettiamo?<br />

Dopo le tristemente note 12 battaglie dell’Isonzo, dopo che la terra del Carso era<br />

divenuta rossa di sangue, dopo le battaglie nelle marne del Collio e nelle ghiaie dell’<br />

Isontino, c’erano più bombe inesplose che lombrichi sotto terra. E anche il secondo<br />

conflitto strappò alle aziende validi contadini e vignaioli per mandarli “alpini”, chi in<br />

Grecia ed Albania, chi in Russia e chi nei lager. Ma alla fine di ogni cosa veniva<br />

sempre ricostruito tutto quello che era stato distrutto.<br />

L’enologo Orfeo Salvador, dall’alto delle sue 54 vendemmie, mi ricorda che alla sua<br />

prima esperienza nella cooperazione vinicola friulana, appena tornato dalla guerra, si<br />

ritrovò in cantina a lavorare oltre l’80% di uve rosse, gran parte delle quali<br />

provenienti da ibridi produttori diretti.<br />

A cavallo degli anni ‘50 e ‘60 imperversavano i vini pugliesi e poi quelli siciliani, che<br />

soccorrevano un patrimonio viticolo locale tutto da ricostruire, mentre il tayut o il tay<br />

furlan era la conseguenza dei tagli che osti più o meno seri operavano dietro le<br />

quinte.<br />

Poi il primo vero “rinascimento enologico”, avvenuto a cavallo fra gli anni ’70 e ‘80<br />

per mano di pionieri, che io definisco “con gli attributi”, tipo Vittorio Puiatti,<br />

Marcello Pillon, Italo Gottardo, Giuseppe (Franco) Ceschin, Orfeo Salvador, Mario<br />

Schiopetto, Livio e Marco Felluga, Gigi Valle, Edino Menotti, Lucino Carletti,<br />

Girolamo Dorigo, Piero Pittaro, Gaspare Buscemi, Gianni Bignucolo e grazie alla<br />

volontà di un’amministrazione regionale che ritenne necessario e utile rilanciare la<br />

viticoltura soprattutto nelle zone collinari, riuscendo a frenare l’esodo dalle campagne<br />

all’industria (la legge 29 del 30/12/1967, fortemente voluta dall’allora Assessore<br />

all’Agricoltura Antonio Comelli, fu strumento importante e determinante).

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