BRUNO TORRI IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI Gli inizi degli anni sessanta coincidono, com’è noto, con la piena affermazione di quel vasto fenomeno <strong>internazionale</strong> conosciuto come “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>”. Sotto questa dizione, anzi, sotto questa nozione, venivano rubricati tutti quei film che, già in fase progettuale, e poi negli esiti espressivi e comunicativi, manifestavano vocazione per la ricerca, azzardo stilistico, responsabilità semantica accompagnata spesso dall’apertura verso nuove aree tematiche; e tutto ciò risultava molte volte collegato all’attuazione di nuove formule realizzative, di nuovi modi di produzione. In alcuni Paesi (in Francia con la nouvelle vague, in Brasile con il <strong>cinema</strong> nôvo, per fermarsi agli esempi più probanti) il “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” era derivato, anche, da un’attività, intellettuale e organizzativa, di gruppo: era stato, cioè, il frutto di un movimento che puntava al rinnovamento, non soltanto generazionale, <strong>del</strong>la <strong>cinema</strong>tografia nazionale, per riqualificarla sotto il profilo estetico; ma anche per conferirle una diversa valenza ideologico-politica che, tra l’altro, presupponeva pure una diversa concezione e un diverso atteggiamento nei confronti <strong>del</strong>lo spettatore <strong>cinema</strong>tografico. In Italia quest’ultimo aspetto non si è verificato; non c’è stata una precedente elaborazione teorica, né il coordinamento operativo e la diretta collaborazione tra cineasti che condividevano un comune orientamento o addirittura un’identica idea di <strong>cinema</strong>, come avveniva altrove in alcune realtà nazionali. Ci sono stati, tuttavia, alcuni registi esordienti i quali, in maniera autonoma e consapevole, si sono mossi in direzione <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>”, favorendo la sua crescita e il suo primato artistico e culturale. Tra questi registi cui va riconosciuta la qualifica di autori – il “film d’autore” è stato, oltre che una pratica artistica, una <strong>del</strong>le principali categorie, quasi un sinonimo, <strong>del</strong> “<strong>nuovo</strong> <strong>cinema</strong>” – una posizione di primissimo pia- 39
BRUNO TORRI no è occupata da Paolo e Vittorio Taviani, i quali, con la loro opera prima, Un uomo da bruciare, girata nel 1962 assieme a Valentino Orsini, si pongono subito tra i suoi esponenti più rappresentativi, proprio in virtù <strong>del</strong>la “diversità” e dei marcati tratti di originalità esibiti in questo film. Anche se non vi mancano tracce <strong>del</strong>la lezione neorealistica, Un uomo da bruciare è tutto il contrario di un’opera epigonica: il suo impegno contenutistico, pur molto evidente, trova sempre il giusto equilibrio con le scelte formali che lo veicolano, e che infatti, valorizzando le potenzialità insite nel linguaggio <strong>cinema</strong>tografico, finiscono per rafforzare il discorso sviluppato nel film. Pur muovendosi ancora sulla strada <strong>del</strong> realismo filmico, i fratelli Taviani e Orsini introducono nella struttura narrativa e nelle soluzioni figurative degli elementi elaborati dalla fantasia e dall’immaginazione, costruendo così un’unitaria pluralità di livelli espressivi e comunicativi che riesce a rendere meglio la complessità <strong>del</strong> reale, a coniugare l’interno e l’esterno <strong>del</strong> personaggio su cui si incentra la vicenda narrata, ad accrescere la spinta referenziale <strong>del</strong> film. Un uomo da bruciare è, prima di ogni altra cosa, la storia di un uomo; quindi il suo processo creativo presenta come principale motivazione, come ragione espressiva fondante, la costruzione <strong>del</strong> protagonista, per il quale gli autori prendono spunto da una persona realmente esistita (il sindacalista e poeta Salvatore Carnevale), ma inventano anche diverse componenti caratteriali e comportamentali e diversi avvenimenti esistenziali che ne fanno una figura sostanzialmente nuova, staccata dal mo<strong>del</strong>lo originario. Nella narrazione-rappresentazione <strong>del</strong> Salvatore di Un uomo da bruciare non c’è discontinuità tra la dimensione privata e la dimensione pubblica <strong>del</strong> personaggio, nel senso che non viene dato un maggiore rilievo a una di queste dimensioni, mentre ne vengono messi costantemente in rilievo i nessi intercorrenti, l’interazione dialettica, i condizionamenti reciproci. Pertanto, l’introspezione psicologica e l’azione sociale <strong>del</strong> personaggio diventano, nel racconto filmico, le due facce di un’unica medaglia: una mostra l’individualità <strong>del</strong> tutto particolare di Salvatore, l’altra descrive la sua militanza ideologico-politica, il segno da lui lasciato nell’ambito in cui ha agito; l’una e l’altra danno il senso di un destino umano che è, insieme, voluto e subìto, e che contemporaneamente serve anche a <strong>del</strong>ineare un preciso contesto sociale. Ambientato in Sicilia nella fase di transizione che vede la mafia riorganizzarsi al proprio interno per spostare la sua influenza e la sua attività criminale dal feudo all’edilizia, Un uomo da bruciare dispiega e approfondisce la vita di un agitatore politico-sindacale il quale non solo vuole lottare contro il potere mafioso, ma anche, e insieme, contro le ingiustizie sociali che – come il film mette bene in risalto – sono possibili e si perpetuano proprio per le complicità esistenti tra la mafia stessa e altri poteri, economici e politici. Nello svolgimento di questo tema, e focalizzando sempre l’attenzione sul vissuto <strong>del</strong> protagonista, il film coglie tutte le pecu- 40 IL “NUOVO CINEMA” DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI liarità <strong>del</strong>la sua lotta politico-sindacale e, al contempo, <strong>del</strong>la sua personalità più intima, mettendo in luce pulsioni e contraddizioni, grandezze e miserie di una vita comunque eccezionale. In tal modo Un uomo da bruciare va oltre l’opera di denuncia, così come non resta impaniato nella retorica <strong>del</strong>l’“eroe positivo”: senza trascurare la Storia, e anzi lasciandone emergere il movimento e i condizionamenti, il film riesce a dare spessore e credibilità a una tipologia umana molto singolare la quale, in ciò che maggiormente la connota e la distingue, apparirà più volte nel <strong>cinema</strong> dei fratelli Taviani. Il personaggio di Salvatore, infatti, è quello <strong>del</strong> “rivoluzionario”, <strong>del</strong>l’“utopista”, <strong>del</strong>l’“esagerato”, di colui che vuole forzare i tempi (storici) per anticipare l’avvento di un futuro diverso e migliore; un personaggio anche ambiguo, dalla natura passionale, i cui entusiasmi manifestano o, altrimenti, “rimuovono” illusioni, narcisismi e paure radicate nel mondo infantile, e al quale appare sempre riservata, nel bene e nel male, una sorte estrema. Tra i tanti meriti che vanno ascritti a Un uomo da bruciare vi è anche quello concernente le sue modalità produttive, vale a dire la scelta <strong>del</strong> basso costo, la costituzione, sostanziale anche se non formalizzata, di un sistema produttivo di tipo cooperativistico e, in sintonia con tutto il resto, la simbiosi nata sul set tra gli autori e il produttore Giuliani De Negri, il quale in seguito parteciperà, ricoprendo un ruolo non soltanto economico ma anche intellettuale, alla realizzazione di tutti i film dei Taviani e di Orsini. Rispetto a Un uomo da bruciare, il loro secondo film, I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio, girato nel 1963, appare meno caratterizzato dalla ricerca “linguistica”, dallo sforzo di guadagnarsi uno stile personale; e, conseguentemente, la sua resa estetica e la sua portata culturale risultano meno rilevanti, o più esattamente, risultano più corrispondenti a una tradizione <strong>cinema</strong>tografica, sì ancora valida e riproponibile, ma ormai più legata al passato che volta al futuro. Con questo film nato, per così dire, su commissione e che non ambisce prioritariamente alla bellezza bensì all’utilità, i registi, accettando appunto una sorta di mandato sociale, prendono posizione a favore di una battaglia civile, cioè il sostegno di un disegno di legge che intendeva introdurre, sia pure in misura limitata, il divorzio in Italia. Composto di sei episodi ognuno dei quali illustra altrettanti casi in cui l’applicazione <strong>del</strong> “piccolo divorzio” (così era definito quel disegno di legge) poteva essere ammissibile, I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio rivela una funzionale seppure un po’ facile didascalicità, che supporta adeguatamente i suoi scopi informativi ed esplicativi. Tuttavia solo in due racconti, quello dei concubini costretti a vivere separatamente e quello <strong>del</strong>la Sacra Rota, il linguaggio <strong>cinema</strong>tografico appare davvero sperimentato e risolto felicemente nel tracciato narrativo, mentre nel suo insieme il film tradisce l’assenza di un’autentica ispirazione, di una intrinseca necessità. Molto differente, in quanto molto sentito e molto pensato, oltre che 41