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LINO MICCICHÈ<br />

la produzione di Achtung! Banditi! (il primo e l’unico vero esperimento<br />

cooperativistico <strong>del</strong> <strong>cinema</strong> italiano) e di Cronache di poveri amanti di Lizzani<br />

– i Taviani e Orsini diventano, per antonomasia, i registi <strong>del</strong>l’Ager<br />

Film, la società che «Giuliani» aveva fondato assieme a Lizzani e Zavattini<br />

per la realizzazione di un progetto andato poi in fumo, un film sui fratelli<br />

Cervi. È appunto nell’inconsueto ed esemplare ambito di questo rapporto<br />

<strong>nuovo</strong> (tra un produttore che sente i problemi degli autori e autori<br />

che si responsabilizzano anche da un punto di vista produttivo) che nasce<br />

Un uomo da bruciare, qualificandosi, fin dalla proiezione veneziana <strong>del</strong><br />

1962, come un’esperienza doppiamente avanzata, sia dal punto di vista<br />

ideologico-estetico che da quello produttivo.<br />

Ispirati alla figura storica di Salvatore Carnevale (il sindacalista socialista<br />

ucciso dalla mafia) ma senza pretendere in alcun modo di restituirne<br />

la vicenda con astratta «fe<strong>del</strong>tà storica», Orsini e i Taviani hanno voluto<br />

offrire in Un uomo da bruciare il ritratto realistico di un protagonista popolare,<br />

rompendo però gli usuali schemi <strong>del</strong> “realismo” normativo e <strong>del</strong>ineando<br />

invece una figura assolutamente antieroica con una implicita polemica<br />

nei confronti <strong>del</strong> logoro e inerte schema <strong>del</strong>l’eroe positivo. Completamente<br />

antitetico alla tradizione dei personaggi tutti di un pezzo – dotati<br />

di una coscienza etico-politica paranoicamente priva di dubbi e tutti tesi<br />

verso un futuro lucidamente previsto verso il quale chiamano a raccolta<br />

masse sempre obbedienti e sempre combattive – il Salvatore di Un uomo<br />

da bruciare è un uomo pieno di contraddizioni, prima fra tutte quella la<br />

propria ambizione e vocazione di capo e l’istinto (più che la coscienza) di<br />

classe. Le sue reazioni di fronte alla realtà, infatti, appaiono in primo luogo<br />

come ispirate a un suo piano segreto, a una vocazione individuale, a un<br />

suo disegno quasi personale. E il suo stesso essere sindacalista e il suo parteggiare<br />

a sinistra e difendere i diritti dei diseredati, appaiono a tratti più<br />

materia esistenziale che materia ideologica. Tanto è vero che, quando<br />

(dopo la riunione sindacale al teatro palermitano) si trova isolato, Salvatore<br />

continua, solo, a lottare come prima, limitandosi a ricordare gli antichi<br />

compagni, che prima lo seguivano e che ora lo disdegnano e addirittura<br />

lo sospettano. Mitomane, esaltato, sognatore, individualista, il protagonista<br />

di Un uomo da bruciare – proprio per questo coesistere in lui di<br />

vistose contraddizioni, per questo suo non essere «angelo» contro i<br />

«demoni» – è un personaggio di rara autenticità e in tale senso profondamente<br />

realistico perché non retoricamente popolare.<br />

Valga l’esempio <strong>del</strong>la morte <strong>del</strong> sindacalista. Nella vecchia e logora tradizione<br />

<strong>del</strong> «realismo socialista», l’eroe, premoriente, sarebbe stato protagonista<br />

di un possente e confortevole comizio imbandierato; oppure lo<br />

avremmo visto messo a confronto con un segretario di sezione o di cellula<br />

che schiudesse a lui e allo spettatore le gloriose vie <strong>del</strong> domani; o qualche<br />

altra monumentale circostanza avrebbe determinato l’epitaffio ideologico,<br />

24<br />

GLI “UTOPISTI” E GLI “ESAGERATI”<br />

buono a consolare le coscienze falsificate degli spettatori. Nulla di tutto<br />

questo in Un uomo da bruciare. Sottolineando ancora una volta l’individualismo<br />

<strong>del</strong> protagonista, gli autori ne fanno precedere l’assassinio dalla<br />

sua previsione nella fantasia <strong>del</strong> futuro assassinato che, ispirandosi a un<br />

orribile fumetto filmato alla cui proiezione assiste, la prefigura in chiave<br />

di eroismo popolaresco (cioè secondo i propri mo<strong>del</strong>li culturali): terribile<br />

e gloriosa. Ed invece la morte di Salvatore non è epica né eroica, non ha<br />

aspetti sacrificali e non è irrorata dalla coscienza <strong>del</strong>la storia: al contrario<br />

è dura, semplice, atroce. E proprio per questo da annoverare tra le pagine<br />

più belle <strong>del</strong> film.<br />

ll lavoro di smitizzazione, compiuto nel film attorno ai luoghi comuni<br />

<strong>del</strong> realismo canonico, non avviene soltanto spogliando di ogni possibile<br />

“leggendarietà” l’immaginario protagonista. La mafia stessa è presente<br />

senza i rituali d’obbligo e le identità nette, ma con facce di tutti i giorni:<br />

tranquille, borghesi, a volte perfino pacifiche. Così come non li ha il Bene<br />

(Salvatore), neppure il Male (la mafia) ha connotati eccezionali. D’altronde<br />

lo stesso paesaggio siculo – una Sicilia asciutta e arida, ma scevra<br />

da ogni paesaggismo accattivante e da ogni inclinazione fascinosamente<br />

folkloristica – non ha nulla che possa rientrare nella leggenda e nella mitologia<br />

meridionalistiche, essendo anche esso, dunque, sottoposto al generale<br />

processo di demitizzazione.<br />

Opera lucidamente innovatrice, Un uomo da bruciare, nonostante qualche<br />

discontinuità linguistica, qualche astrazione intellettuale e qualche<br />

meccanica soluzione narrativa, segna l’ingresso nel <strong>cinema</strong> italiano di personalità<br />

tanto interessanti e nuove da restare emarginate quanto altre mai<br />

dal mercato. E le difficoltà di quell’opera d’esordio – che ha un’“uscita”<br />

romana semiclandestina, in pieno luglio 1963 – non sono che parzialmente<br />

superate dal successivo film <strong>del</strong> trio I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio (1963),<br />

che pure si lega a una problematica specifica, quella <strong>del</strong> divorzio, e a un<br />

episodio politico concreto, la presentazione di una proposta di legge<br />

moderatamente divorzista da parte <strong>del</strong> senatore Renato Sansone. In realtà,<br />

nonostante l’esplicito proposito di realizzare un film di diretto «impegno<br />

civile», il rapporto con lo specifico tema giuridico-politico non è qui meno<br />

mediato e indiretto di quanto lo era, rispetto al personaggio storico Salvatore<br />

Carnevale, la figura <strong>del</strong> protagonista di Un uomo da bruciare. D’altronde<br />

è uno degli autori, Vittorio Taviani, ad avvertire che «chi si aspettasse<br />

da I fuorilegge <strong>del</strong> matrimonio un’opera esauriente sul problema non<br />

diciamo <strong>del</strong> divorzio ma anche (solo) <strong>del</strong> piccolo divorzio rimarrebbe<br />

<strong>del</strong>uso. [...] Anche se il tema indubbiamente ci ha segnato precisi binari<br />

di marcia, abbiamo cercato – e cercheremo – di fare affiorare altre suggestioni,<br />

altri umori, altri motivi di natura umana, culturale».<br />

Il secondo lungometraggio di Orsini e dei Taviani è composto di sei<br />

“novelle” corrispondenti agli altrettanti casi di scioglimento <strong>del</strong> matrimo-<br />

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