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l’avanzata verso la capitale fu rallentata dall’accanita resistenza dei tedeschi e fino al crollo del fronte a Cassino. Così il signor Livio T., nonno dell’alunna Elena (risposta n. 30), ricorda lo sbarco degli angloamericani ad Anzio, ove costituirono una testa di ponte che resistette ai tedeschi per quattro mesi, per poi ricongiungersi con le truppe alleate in marcia verso Roma: «Mi trovavo in una casetta sul litorale laziale, dove ero sfollato con la mia famiglia. La mattina del 22 gennaio 1944 sono stato testimone di un evento storico fondamentale. Dal cielo e dal mare gli americani arrivavano per liberare Roma. Io e la mia famiglia avevamo l’impressione di sognare, dopo un primo momento di sorpresa mille emozioni hanno preso i nostri cuori: gioia, sorpresa, gratitudine.» Gioia e gratitudine che si moltiplicarono allora in un unanime sentimento collettivo e appaiono ancor oggi evidenti nei racconti di chi assistette al trionfale ingresso delle truppe angloamericane a Roma il 4 giugno 1944, come sembra testimoniare il racconto della signora Silvana R., nonna dell’alunna Claudia (risposta n. 6): «Ero piccola, avevo mi pare sei anni, e ricordo che questi soldati americani con numerosi camion e camionette entrarono in una strada vicino a viale Manzoni; mi trovavo lì sulle spalle di mio padre e ho potuto vedere che “i nostri liberatori” (sic) camminavano lentamente vicino a me lanciando dolci, cioccolate e pane bianco, cosa che rese tutti molto felici perché in quel periodo si doveva sopportare la fame». 29 Altre testimonianze si leggono nelle interviste ai signori Angelo F., nonno dell’alunna Flaminia (risposta n. 15), e Virgilio C., nonno dell’alunna Ludovica (risposta n. 7). Nel ricordo gli americani, che per equipaggiamento e mezzi bellici appaiono un esercito enormemente più potente degli avversari, sono mitizzati come pacifici e benefici dispensatori di leccornie, pronti ad aiutare generosamente la popolazione affamata. Il primo dice: «Mi ricordo le jeep americane passare per via Nomentana e i soldati lanciare caramelle Charms e chewing gum mentre noi ragazzini pieni di gioia le raccoglievamo, sperando che quel brutto periodo di fame passasse presto». 30 Più articolata è la risposta del signor Virgilio C.: «Io abitavo con la mia famiglia nella zona 29 Dico sembra, perché le virgolette, come ho letto nel testo consegnatomi da Claudia, potrebbero dare una strana connotazione ironica alla menzione dei nostri liberatori. 30 Come si vede, ricorre spesso il ricordo della fame, inesorabile compagna della stragrande maggioranza di coloro che vissero la terribile esperienza della guerra. Ha ricostruito le difficili condizioni della popolazione italiana durante i mesi dal 1943 al 1945, nello sfondo delle vicende relative al processo di Verona (conclusosi, com’è noto, con la condanna a morte dei membri del Gran Consiglio firmatari dell’ordine del giorno Grandi, tra cui Galeazzo Ciano, che era il genero del Duce), Gian Franco Venè, in Coprifuoco.Vita quotidiana degli italiani nella guerra civile, cit.. –92–
di via Nazionale. Il clima era per tutti di grande fiducia, tanto che ebbi dai miei genitori il permesso di fare un giro in città per vedere volti nuovi e provare nuove sensazioni, diverse da quelle del periodo precedente dominato dalla paura. Via Nazionale era percorsa dalle jeep verdi degli alleati, dai camion massicci e dai carri armati. A bordo dei mezzi trovavano posto anche i romani: uomini, bambini, ragazzi e ragazze. Un americano mi fece salire su un carro armato e mi ricordo che arrivai fino a San Pietro appena in tempo per vedere il papa». 6. Testimonianze su altri eventi bellici e ricordi del Ventennio (risposte alla domanda n. 1). Una preziosa testimonianza sui fatti dell’8 settembre 1943 (il giorno dell’armistizio e della fuga del re a Pescara) ci viene dal signor Giovanni G., amico della famiglia dell’alunna Giulia (risposta n. 22): essa riguarda la sorte dello Stato Maggiore del Regio Esercito, acquartierato allora a Palazzo Orsini, a Monterotondo. I generali italiani per poco non corsero il rischio di essere fatti prigionieri dai paracadutisti tedeschi lanciatisi sulla cittadina alle porte di Roma. 31 Trascriviamo il ricordo del signor Giovanni, con l’auspicio che esso possa interessare chi eventualmente si troverà a leggere queste pagine: sono parole che rappresentano con vivida efficacia il drammatico quadro di una rischiosa esperienza diretta, ma che danno anche l’idea di una Italia disfatta, sul piano morale prima che su quello militare: 32 «La sera dell’8 settembre 1943 i soldati italiani di stanza in Monterotondo festeggiarono per tutte le vie del paese dopo l’annuncio 31 Il giorno 9 settembre, verso le ore 8,30 furono lanciate sei compagnie di paracadutisti tedeschi, per un totale di circa 500 uomini, su Monterotondo, ov’era acquartierato lo Stato Maggiore del Regio Esercito. Il piano era stato concepito dal generale Kurt Student, che voleva rapire l’intero alto comando italiano. I tedeschi incontrarono una forte resistenza da parte dei nostri soldati e soltanto a sera poterono impadronirsi di palazzo Orsini, sede dello Stato Maggiore, trovandolo vuoto degli ufficiali italiani. Vd. in proposito Ettore Musco, La verità sull’8 settembre 1943, Garzanti, Milano 1976 (I ed. 1965), p. 129. 32 Amplissima, com’è noto, è la memorialistica sull’8 settembre. L’impressionante quadro dello sfacelo morale e materiale di un Paese intero allo sbando, dimentico della sua dignità e preda di un’incosciente allegria collettiva per l’illusione della pace, è stato riassunto con toni grotteschi da Curzio Malaparte, in La pelle, cit., p. 58: «Tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a gara a chi buttava più «eroicamente» le armi e le bandiere nel fango, ai piedi di tutti, vincitori e vinti, amici e nemici, perfino ai piedi dei passanti, perfino ai piedi di coloro che, non sapendo di che si trattasse, si fermavano a guardarci meravigliati. Buttavamo ridendo le nostre armi e le nostre bandiere nel fango, subito correvamo a raccoglierle per ricominciare da capo. «Viva l’Italia!» gridava la folla entusiasta, la bonaria, ridente, rumorosa, allegra folla italiana. Tutti, uomini, donne, bambini, parevano ubriachi di gioia, tutti battevan le mani gridando «bis! bravi! bis!», e noi stanchi, sudati, trafelati, gli occhi scintillanti di virile orgoglio, il viso illumi- –93–
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dalla paura. Via Nazionale era percorsa dalle jeep ver<strong>di</strong> degli alleati, dai<br />
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i romani: uomini, bambini, ragazzi e ragazze. Un americano mi fece salire su<br />
un carro armato e mi ricordo che arrivai fino a San Pietro appena in tempo<br />
per vedere il papa».<br />
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essa riguarda la sorte dello Stato Maggiore del Regio Esercito, acquartierato<br />
allora a Palazzo Orsini, a Monterotondo. I generali italiani per poco non<br />
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sulla citta<strong>di</strong>na alle porte <strong>di</strong> Roma. 31 Trascriviamo il ricordo del signor<br />
Giovanni, con l’auspicio che esso possa interessare chi eventualmente si<br />
troverà a leggere queste pagine: sono parole che rappresentano con vivida<br />
efficacia il drammatico quadro <strong>di</strong> una rischiosa esperienza <strong>di</strong>retta, ma che<br />
danno anche l’idea <strong>di</strong> una Italia <strong>di</strong>sfatta, sul piano morale prima che su<br />
quello militare: 32 «La sera dell’8 settembre 1943 i soldati italiani <strong>di</strong> stanza<br />
in Monterotondo festeggiarono per tutte le vie del paese dopo l’annuncio<br />
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tedeschi, per un totale <strong>di</strong> circa 500 uomini, su Monterotondo, ov’era acquartierato lo Stato Maggiore<br />
del Regio Esercito. Il piano era stato concepito dal generale Kurt Student, che voleva rapire<br />
l’intero alto comando italiano. I tedeschi incontrarono una forte resistenza da parte dei nostri soldati<br />
e soltanto a sera poterono impadronirsi <strong>di</strong> palazzo Orsini, sede dello Stato Maggiore, trovandolo<br />
vuoto degli ufficiali italiani. Vd. in proposito Ettore Musco, La verità sull’8 settembre 1943,<br />
Garzanti, Milano 1976 (I ed. 1965), p. 129.<br />
32 Amplissima, com’è noto, è la memorialistica sull’8 settembre. L’impressionante quadro<br />
dello sfacelo morale e materiale <strong>di</strong> un Paese intero allo sbando, <strong>di</strong>mentico della sua <strong>di</strong>gnità e<br />
preda <strong>di</strong> un’incosciente allegria collettiva per l’illusione della pace, è stato riassunto con toni<br />
grotteschi da Curzio Malaparte, in La pelle, cit., p. 58: «Tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a<br />
gara a chi buttava più «eroicamente» le armi e le ban<strong>di</strong>ere nel fango, ai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> tutti, vincitori<br />
e vinti, amici e nemici, perfino ai pie<strong>di</strong> dei passanti, perfino ai pie<strong>di</strong> <strong>di</strong> coloro che, non sapendo<br />
<strong>di</strong> che si trattasse, si fermavano a guardarci meravigliati. Buttavamo ridendo le nostre armi e<br />
le nostre ban<strong>di</strong>ere nel fango, subito correvamo a raccoglierle per ricominciare da capo. «Viva<br />
l’Italia!» gridava la folla entusiasta, la bonaria, ridente, rumorosa, allegra folla italiana. Tutti,<br />
uomini, donne, bambini, parevano ubriachi <strong>di</strong> gioia, tutti battevan le mani gridando «bis!<br />
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