MISCELLANEA 2005 2006.pdf - Liceo Ginnasio Statale Orazio di ...

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13.01.2013 Views

Non c’è modo di tornare indietro. Seguo Dylan fino all’entrata principale. I corridoi sono puliti, lisci. I ragazzi camminando si specchiano nelle bacheche, non riesco a sentire il suono dei loro passi. Non riesco a capire perché le bombe non siano ancora esplose. Sono sicuro di aver fatto tutto bene! Non posso più aspettare: prendo per mano la mia indifferenza. “Ci piombò addosso la tempesta, ed era forte e tirannica: c’investì con le sue ali rapinose”. Dylan stringe il Tech-9, io afferro il fucile a pompa e la semiautomatica. Porto anche un paio di pistole. E un coltello. Tutto è bianco e freddo come i miei pensieri. “Ghiaccio qui, ghiaccio là, era dovunque, il ghiaccio: e scrosciava, ringhiava, ruggivo e ululava, i rumori che intendi da svenuto!” Il primo che incontro sarà il primo a morire. “Alla fine incrociammo un Albatro, sbucò di tra la bruma; lo salutammo in nome del Signore, quasi che fosse un’anima cristiana”. Ragazzi arrivano dalla palestra. Li colpiamo alle braccia, al petto, alle gambe. Continuiamo a sparare. Il sangue continua a scorrere. “Per colui che morì crocifisso, con la mia cruda balestra stesi secco l’albatro innocente”. “Perché l’hai fatto? – gli ho chiesto mentre le luci del bowling diventavano nere. Ma lui non faceva che sussurrare con la usa voce lontana: “Con la mia balestra io abbattei quell’albatro”. Dylan torna indietro fino alla caffetteria. Vuole capire perché non ci sono state esplosioni. Io continuo a camminare, sparo ai vetri: grida terrorizzate. Questo palazzo di plastica adesso è il mio videogioco. Giochiamo. “Vento a favore,sfuggiva bianca la spuma,la scia s’apriva libera e franca”. Rincorro una ragazza lungo le scale che portano al secondo piano. Qui tutte le aule sembrano vuote, neanche il vento entra dalle finestre. Tutti hanno lasciato la scuola. Chiede aiuto, le scivola un libro dalle dita. Non c’è via di fuga, la colpisco alla testa. “Intorno a noi, sciami vorticanti, fuochi di morte ballavano a notte”. Dylan è tornato. La biblioteca è piena. Cambio il caricatore. Davvero tutto questo accade? Tutto questo è reale? “Quella è la Morte? E quella è l’orrida Vita nella Morte?” Urlano, cercano riparo sotto i banchi. Un tipo nero, robusto, con indosso una maglia gialla, mi chiede: “Che fai? Perché?” Proiettili piovono sugli scaffali e sulle fotocopiatrici. Tutti cadono. Birilli. – 380 –

“Ognuno voltò la faccia in uno spasimo atroce e con gli occhi mi maledì”. Si agitano sul pavimento come pesci caduti dalla vasca. Qualcuno implora con le mani in alto. Tiro il grilletto: voglio tutti giù. “Uomini vivi (e non intesi rantolo o sospiro), con tonfo greve, come ciocchi secchi, l’uno dopo l’altro, caddero: lo sguardo con cui m’avevano guardato non era mai trapassato”. Sordo, il silenzio riempie la stanza. Pace spettrale. Serpenti di sangue scorrono vivaci. Guardo intorno: corpi (colli, rossetti, capelli, occhiali, tatuaggi, unghie, jeans) stesi sul pavimento. Gli ultimi respiri esplodono in mille frammenti cercando il mio orecchio. “E ciascun’anima accanto mi passò come il frullo della mia balestra”. Sangue sui libri, sulle matite, sui muri, sugli schedari. Sangue, sangue da per tutto. Posso ancora sparare. Deve esserci qualcun altro in questo labirinto obbediente. “E mille e mille cose da schifo continuavano a vivere, e così io”. Esco dalla libreria. Comincio a correre per i corridoi stringendo il fucile. Potrei continuare a correre così, per sempre. Niente cibo o riposo, le mie gambe sono cavalli ingordi che divorano lo spazio intorno. Scopro gli angoli e maledico le pareti. Solo vetrate, cestini della carta, distributori di lattine. Sparo appena qualcosa si muove. Non c’è nessuno. Solo io e il racconto del marinaio. “Oltre l’ombra della nave io spiavo i serpenti marini: felici cose viventi! Lingua non c’è che possa dichiararne la bellezza. Un’acqua d’amore mi fiottò dal cuore”. Minuti, minuti, vago inchiodato ai miei passi. Torno nella caffetteria, la voce del vecchio mi segue. “Lo spirito che vive solitario nella terra della bruma e della neve, egli amava l’uccello che amò l’uomo. L’uomo ha fatto penitenza e penitenza ancora farà”. Sui tavoli i resti delle colazioni. Siedo, assaggio un caffè freddo. Il grosso cadavere flaccido della cameriera è abbandonato vicino alla porta della cucina. Indossa l’uniforme bianca. Guardo il suo terribile occhio. La strada deserta. Sentivo freddo e ho urlato: “Dimmi su: chi ha lavato il sangue dell’albatro?”. “È stato il buon eremita”. Il corpo della cameriera sembra un’enorme medusa. “Dimmi su, t’ordino di dirmi: che genere di uomo sei mai tu?”. Mi ha fissato ancora una volta mormorando: “Come la notte passo di terra in terra, e ho una strana potenza di parola; l’istante che gli pianto gli occhi – 381 –

“Ognuno voltò la faccia in uno spasimo atroce e con gli occhi mi maledì”.<br />

Si agitano sul pavimento come pesci caduti dalla vasca. Qualcuno implora<br />

con le mani in alto. Tiro il grilletto: voglio tutti giù.<br />

“Uomini vivi (e non intesi rantolo o sospiro), con tonfo greve, come<br />

ciocchi secchi, l’uno dopo l’altro, caddero: lo sguardo con cui m’avevano<br />

guardato non era mai trapassato”.<br />

Sordo, il silenzio riempie la stanza. Pace spettrale. Serpenti <strong>di</strong> sangue<br />

scorrono vivaci. Guardo intorno: corpi (colli, rossetti, capelli, occhiali,<br />

tatuaggi, unghie, jeans) stesi sul pavimento. Gli ultimi respiri esplodono in<br />

mille frammenti cercando il mio orecchio.<br />

“E ciascun’anima accanto mi passò come il frullo della mia balestra”.<br />

Sangue sui libri, sulle matite, sui muri, sugli schedari. Sangue, sangue da<br />

per tutto. Posso ancora sparare. Deve esserci qualcun altro in questo labirinto<br />

obbe<strong>di</strong>ente.<br />

“E mille e mille cose da schifo continuavano a vivere, e così io”.<br />

Esco dalla libreria. Comincio a correre per i corridoi stringendo il fucile.<br />

Potrei continuare a correre così, per sempre. Niente cibo o riposo, le mie<br />

gambe sono cavalli ingor<strong>di</strong> che <strong>di</strong>vorano lo spazio intorno. Scopro gli angoli<br />

e male<strong>di</strong>co le pareti. Solo vetrate, cestini della carta, <strong>di</strong>stributori <strong>di</strong> lattine.<br />

Sparo appena qualcosa si muove. Non c’è nessuno. Solo io e il racconto del<br />

marinaio.<br />

“Oltre l’ombra della nave io spiavo i serpenti marini: felici cose viventi!<br />

Lingua non c’è che possa <strong>di</strong>chiararne la bellezza. Un’acqua d’amore mi<br />

fiottò dal cuore”.<br />

Minuti, minuti, vago inchiodato ai miei passi. Torno nella caffetteria, la<br />

voce del vecchio mi segue.<br />

“Lo spirito che vive solitario nella terra della bruma e della neve, egli<br />

amava l’uccello che amò l’uomo. L’uomo ha fatto penitenza e penitenza<br />

ancora farà”.<br />

Sui tavoli i resti delle colazioni. Siedo, assaggio un caffè freddo. Il<br />

grosso cadavere flaccido della cameriera è abbandonato vicino alla porta<br />

della cucina. Indossa l’uniforme bianca. Guardo il suo terribile occhio.<br />

La strada deserta. Sentivo freddo e ho urlato: “Dimmi su: chi ha lavato<br />

il sangue dell’albatro?”. “È stato il buon eremita”.<br />

Il corpo della cameriera sembra un’enorme medusa.<br />

“Dimmi su, t’or<strong>di</strong>no <strong>di</strong> <strong>di</strong>rmi: che genere <strong>di</strong> uomo sei mai tu?”. Mi ha<br />

fissato ancora una volta mormorando: “Come la notte passo <strong>di</strong> terra in<br />

terra, e ho una strana potenza <strong>di</strong> parola; l’istante che gli pianto gli occhi<br />

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