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etico dell’uomo, come fine e non come mezzo, finora in gran parte adorato nell’astrattezza dei sistemi. Il suo voler essere buona e cattiva tra tanti buoni e cattivi, volendolo essere come donna, è una dimensione ontica dell’esistere in senso attivo, nell’interrelazione di un ente alla pari con gli altri enti. L’identità femminile, una volta “scoperta”, non si chiude: la filosofia è pluralista nella misura in cui si auto-afferma senza escludere il riconoscimento dell’altro, per questo il suo è un pensiero sempre politico, anche quando finisce col traboccare nella trascendenza; basti pensare ad E. Stein, la quale, inserendo la dottrina husserliana dell’intenzionalità della coscienza nella rielaborazione della filosofia scolastica, si apre agli altri in una forma d’amore che vince sulle aberrazioni della politica, quando la politica diviene invece più che aberrante. E. Stein muore martire ad Auschwitz e questo avviene, come ci ricorda F. Brezzi, quando già la filosofa ha scritto un’opera dal titolo Una ricerca sullo stato, opera nella quale appare chiara e insopprimibile la connessione tra etica e politica. È possibile leggere il pensiero delle donne come un aspetto di quella che i francofortesi hanno definito “teoria critica della società”? In che senso le donne hanno riprogettato “l’essere per la libertà”? Si è solo trattato di costruire un’alternativa femminile al pensiero maschile? Negli anni ’60 e ’70 certamente è stato prevalente il bisogno di chiudere le porte della società patriarcale, ma poi partendo dal sé al femminile ci si è orientate a superare la stessa teoria critica della differenza per far convivere identità e differenza in forme concrete e non meramente egualitarie di giustizia. Il cammino delle donne ha aperto varchi in “città proibite”, ha segnato nuove forme di collaborazione intellettuale e politica, e questo ci spinge a saperne di più. CAPITOLO I IL CLIMA STORICO-CULTURALE A ROMA NEL SECONDO DOPOGUERRA Il pensiero filosofico affermatosi in Europa a cavallo tra XIX e XX sec. si manifesta come una vera e propria reazione al positivismo, reazione che, in Italia, a differenza degli altri paesi europei, vede il prevalere di tendenze pragmatiste, irrazionaliste, spiritualistiche ed idealistiche. Ciò può esser spiegato con i gravi avvenimenti socio-politici di fine ’800, quando la crisi – 252 –
che scoppia sotto il reazionario governo crispiano porta ad un’alleanza tra i socialisti da una parte e l’ala borghese più progressista dall’altra, all’interno di una comune matrice positivista. Tale alleanza va tuttavia disgregandosi agli albori del nuovo secolo, forse per la minaccia costituita dalla crescita proletaria, e le espressioni che di questa erano state d’avanguardia si volgono sempre più verso tendenze antisocialiste ed antidemocratiche. Nonostante i tentativi fatti – il rilancio del positivismo accompagnato da una ripresa dello sviluppo industriale –, la politica giolittiana non si dimostra in grado di evitare tutto questo, anzi: il suo avvicinamento a sinistra non fa che spingere il ceto intellettuale verso posizioni sempre più conservatrici, se non reazionarie. Consiste probabilmente proprio in ciò il limite della politica giolittiana: non aver compreso l’importanza del ruolo della cultura e degli intellettuali. Proprio per il realismo politico di Giolitti, che fa apparire grigio e privo di slancio ideale il suo governo, e per il ruolo che questi è solito riservare agli intellettuali italiani, mentre essi vorrebbero sentirsi più coinvolti in un’epoca di grandi mutamenti sociali, la cultura del tempo si arrocca sempre più su posizioni antigiolittiane e, specialmente in ambito filosofico, su un antipositivismo che si tinge spesso di aristocraticismo e irrazionalismo. Si verifica così l’abbandono, nel primo decennio del XX sec., del pensiero positivista; la borghesia, d’altronde, di fronte a sé non trova molte alternative ad esso; una di queste è la filosofia religiosa, ma ben presto ci si rende conto che il compromesso ideologico tanto ricercato da parte degli intellettuali non può esser raggiunto sulla base dell’ideologia cattolica, per via di quelle che erano state le tradizioni anticlericali del Risorgimento, non ancora dimenticate dalla borghesia, abituata a considerare il Vaticano come un nemico dell’Unità e dell’Indipendenza italiana (ciò tuttavia, lo ricordiamo, non impedirà alla borghesia di simpatizzare, già verso la fine del XIX sec., con le dottrine irrazionalistiche e mistiche in funzione antisocialista). Dal canto loro, gli esponenti del movimento cattolico più lungimiranti tentano di democratizzare la politica e l’ideologia ecclesiastiche per realizzare meglio il compromesso con la borghesia (si pensi alla nascita del movimento cattolico), tentativi tuttavia mal visti dalla curia papale (la repressione del cosiddetto “movimento modernista” fu totale). Solo in seguito, a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, la prima delle encicliche sociali, la Chiesa, accostandosi per la prima volta alla questione operaia, inizia a percorrere una strada di rinnovamento interno. In ogni caso, nessuna corrente della filosofia religiosa si dimostra in grado di colmare quel vuoto – 253 –
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che scoppia sotto il reazionario governo crispiano porta ad un’alleanza tra i<br />
socialisti da una parte e l’ala borghese più progressista dall’altra, all’interno<br />
<strong>di</strong> una comune matrice positivista. Tale alleanza va tuttavia <strong>di</strong>sgregandosi<br />
agli albori del nuovo secolo, forse per la minaccia costituita dalla crescita<br />
proletaria, e le espressioni che <strong>di</strong> questa erano state d’avanguar<strong>di</strong>a si volgono<br />
sempre più verso tendenze antisocialiste ed antidemocratiche. Nonostante<br />
i tentativi fatti – il rilancio del positivismo accompagnato da una<br />
ripresa dello sviluppo industriale –, la politica giolittiana non si <strong>di</strong>mostra in<br />
grado <strong>di</strong> evitare tutto questo, anzi: il suo avvicinamento a sinistra non fa che<br />
spingere il ceto intellettuale verso posizioni sempre più conservatrici, se<br />
non reazionarie. Consiste probabilmente proprio in ciò il limite della politica<br />
giolittiana: non aver compreso l’importanza del ruolo della cultura e<br />
degli intellettuali. Proprio per il realismo politico <strong>di</strong> Giolitti, che fa apparire<br />
grigio e privo <strong>di</strong> slancio ideale il suo governo, e per il ruolo che questi è<br />
solito riservare agli intellettuali italiani, mentre essi vorrebbero sentirsi più<br />
coinvolti in un’epoca <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> mutamenti sociali, la cultura del tempo si<br />
arrocca sempre più su posizioni antigiolittiane e, specialmente in ambito<br />
filosofico, su un antipositivismo che si tinge spesso <strong>di</strong> aristocraticismo e<br />
irrazionalismo.<br />
Si verifica così l’abbandono, nel primo decennio del XX sec., del pensiero<br />
positivista; la borghesia, d’altronde, <strong>di</strong> fronte a sé non trova molte alternative<br />
ad esso; una <strong>di</strong> queste è la filosofia religiosa, ma ben presto ci si<br />
rende conto che il compromesso ideologico tanto ricercato da parte degli intellettuali<br />
non può esser raggiunto sulla base dell’ideologia cattolica, per via<br />
<strong>di</strong> quelle che erano state le tra<strong>di</strong>zioni anticlericali del Risorgimento, non ancora<br />
<strong>di</strong>menticate dalla borghesia, abituata a considerare il Vaticano come un<br />
nemico dell’Unità e dell’In<strong>di</strong>pendenza italiana (ciò tuttavia, lo ricor<strong>di</strong>amo,<br />
non impe<strong>di</strong>rà alla borghesia <strong>di</strong> simpatizzare, già verso la fine del XIX sec.,<br />
con le dottrine irrazionalistiche e mistiche in funzione antisocialista). Dal<br />
canto loro, gli esponenti del movimento cattolico più lungimiranti tentano<br />
<strong>di</strong> democratizzare la politica e l’ideologia ecclesiastiche per realizzare meglio<br />
il compromesso con la borghesia (si pensi alla nascita del movimento<br />
cattolico), tentativi tuttavia mal visti dalla curia papale (la repressione del<br />
cosiddetto “movimento modernista” fu totale). Solo in seguito, a partire dall’enciclica<br />
Rerum Novarum <strong>di</strong> Leone XIII, la prima delle encicliche sociali,<br />
la Chiesa, accostandosi per la prima volta alla questione operaia, inizia a<br />
percorrere una strada <strong>di</strong> rinnovamento interno. In ogni caso, nessuna corrente<br />
della filosofia religiosa si <strong>di</strong>mostra in grado <strong>di</strong> colmare quel vuoto<br />
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