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Ferruccio Benzoni - Arcipelago Itaca

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ARCIPELAGO itaca<br />

letterature, visioni ed altri percorsi<br />

ideatore e curatore: Danilo Mandolini


*…+<br />

Ma ei non brama che veder dai tetti<br />

sbalzar della sua dolce <strong>Itaca</strong> il fumo,<br />

e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.<br />

Omero, Odissea - Libro I<br />

AVVERTENZA.<br />

ARCIPELAGO itaca è un’iniziativa realizzata senza fini di lucro, resa disponibile nel solo formato digitale e distribuita gratuitamente, via e-mail e tramite<br />

internet (www.arcipelagoitaca.it), a circa 800 tra associazioni ed operatori culturali, riviste di letteratura e non, critici, scrittori ed estimatori.<br />

ARCIPELAGO itaca non è da considerarsi una testata giornalistica in quanto non ha periodicità e non può pertanto essere ritenuta un prodotto<br />

editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07.03.2001.<br />

Testi ed immagini contenuti in ARCIPELAGO itaca sono riprodotti, quando possibile e per lo più, previo espresso consenso dei relativi autori (sono<br />

sempre e in ogni caso citati gli autori e/o le fonti di reperimento).<br />

ARCIPELAGO itaca è un marchio registrato.


Le riproduzioni di nove opere di Agostino Perrini commentano questa sesta apparizione di ARCIPELAGO itaca.<br />

Una nota inedita di Marco Frusca introduce la scelta di lavori di Agostino Perrini.<br />

In copertina: Il ballo dei filosofi (particolare) di Emilio Tadini, 1995, tecnica mista su tela, 61 x 73 cm.<br />

Emilio Tadini (Milano, 1927 – Milano, 25 settembre 2002), laureato in lettere, è stato presidente dell’Accademia di Belle Arti di Brera dal 1997 al 2000.<br />

Ha iniziato la sua attività letteraria sulla rivista “Politecnico” di Elio Vittorini nel 1947, pubblicando saggi, romanzi, poesie e monologhi.<br />

Ha esposto le sue prime opere negli anni sessanta ed è stato invitato alla Biennale di Venezia nel '78 e nell'82.<br />

Nel 2001 si è tenuta una sua retrospettiva a Milano. È stato critico d'arte e letteratura per il “Corriere della sera”.<br />

L’ordine di presentazione degli autori di VOCI - eccezion fatta per le rubriche VETRINA,<br />

che è in apertura, e SOLO INEDITI, che è in chiusura - è alfabetico.<br />

echi<br />

Da È ancora possibile la poesia di Eugenio Montale<br />

<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

con un articolo di Francesco Magnani,<br />

un’intervista all’autore a cura di Gabriele Zani<br />

e una poesia di Francesco Scarabicchi<br />

Voci<br />

VETRINA<br />

La donna d’oro di Cristina Babino<br />

con una nota di Danilo Mandolini<br />

Francesco Accattoli<br />

Guglielmo Peralta<br />

Lucilio Santoni<br />

SOLO INEDITI<br />

Frammenti di anatomia di Narda Fattori<br />

Collage Arthur Rimbaud<br />

1 - 6<br />

7 - 40<br />

41 - 51<br />

52 - 86<br />

87 - 129<br />

130 - 163<br />

164- 175<br />

176<br />

echi<br />

Sesta apparizione<br />

Da È ancora possibile la poesia di Eugenio Montale<br />

<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

con un articolo di Francesco Magnani,<br />

un’intervista all’autore a cura di Gabriele Zani<br />

e una poesia di Francesco Scarabicchi<br />

Voci<br />

VETRINA<br />

La donna d’oro di Cristina Babino<br />

con una nota di Danilo Mandolini<br />

Francesco Accattoli<br />

Guglielmo Peralta<br />

Lucilio Santoni<br />

SOLO INEDITI<br />

Frammenti di anatomia di Narda Fattori<br />

Collage Arthur Rimbaud


È nato nel 1955 a Sale Marasino (BS). Vive a Brescia, dove insegna.<br />

Nel 1977 si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia con il maestro Edmondo Bacci, partecipando alle attività della Fondazione Bevilacqua La<br />

Masa a Venezia, esponendo in Periferie dello sguardo (1981) e Proiezioni Arte nel Veneto 1970/80 curate da Toni Toniato.<br />

Nei primi anni '80 intraprende un rapporto di collaborazione con i critici Claudio Cerritelli (Libertà d’immagine, Rocca di Montefiorino, 1986; Il domani<br />

della pittura, Museo Casabianca, Malo, 1992) e Dino Marangon (Sguardi a Nord-Est, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1986 - Studio Tommaseo, Trieste,<br />

1991 - Galleria H+W Lang, Graz, 1992; Risonanti Figure, Galleria Spatia, Bolzano e Galleria Multigraphic, Venezia, 2000/2001).<br />

Negli anni '90 partecipa a L’Aura, spazio autogestito per l’arte contemporanea a Brescia.<br />

PERSONALI<br />

• Volti di parole, Biblioteca Queriniana, Brescia, 2010<br />

• Ombra di terra, Evi Guizzo, Campea di Miane, 2010<br />

• Nelle Parole, Biblioteca Queriniana, Brescia, 2009<br />

• Pittura & Pittura, Salone Vanvitelliano, Palazzo della Loggia,<br />

Brescia, 2008<br />

• Orto e porto, I Monaci sotto le stelle, Brescia, 2008<br />

• Palazzo ex Monte di Pietà, S. Felice del Benaco, 2007<br />

• Scie mie, Auditorium BCC Agrobresciano, Ghedi, 2006<br />

• Villa Tiene, Quinto Vicentino, 2006<br />

• Galleria Civica di Arte Contemporanea Ai Molini,<br />

Portogruaro, 2005<br />

• Eco di echi, Galleria Meeting, Mestre, 2004<br />

• Hortus conclusus, La Corte, Sambruson di Dolo, 2004<br />

• Piccole rovine, Punto Einaudi, Brescia, 2003<br />

• Risonanti figure, Galleria Multigraphic, Venezia, 2000<br />

• Risonanti figure, Galleria Spatia, Bolzano, 2000<br />

• Nuovi Studi, Vicenza, 1999<br />

• Ombra nell’ombra, Il RiPicchio, Bologna, 1997<br />

• Vedute d’ombra, Libra, Brescia, 1996<br />

• I colori del cuore, L’Aura Arte Contemporanea, Brescia, 1993<br />

• Studio Tommaseo, Trieste, 1991<br />

• Dipartimento di Storia dell’Arte, Università di Udine, 1991<br />

• Galleria Mèta, Bolzano, 1989<br />

• Galleria Massimo Minini, Brescia, 1988<br />

• Galleria Fabio Sajz, Gradisca d’Isonzo, 1988<br />

• Centro Santelmo, Salò, 1988<br />

• Proiecta, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 1987<br />

• Quadrato Trasparente, Parma, 1985<br />

Agostino<br />

Perrini<br />

www.agostinoperrini.it<br />

• Galleria Massimo Minini, Brescia, 1984<br />

• Centro La Cappella, Trieste, 1984<br />

• Juliet Roomm, Trieste, 1984<br />

• Collezione, Studio Tommaseo, Trieste, 1984<br />

• Pittura, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 1981<br />

• Occultabile, Galleria Incontro, Vicenza, 1977<br />

• Fondazione Bevilacqua, La Masa, Venezia, 1977<br />

LE PIU’ RECENTI COLLETTIVE<br />

• Rassegna di arte contemporanea, Cervignano del Friuli /<br />

Scodovacca / Torviscosa, Udine, 2008<br />

• S.a.f. 2008, Rassegna Multidisciplinare d’arte<br />

contemporanea N. 3, ex carceri, Castiadas, Cagliari, 2008<br />

• Where I come from, Galerij het punt, Stedelijke Academie<br />

voor Schone Kunsten, Roeselare, Belgio, 2008<br />

• Fuoco, Associazione Culturale Le Arie del Tempo, Genova,<br />

2008<br />

• Segni del XX secolo - Maestri dell’Arte Contemporanea della<br />

Civica Raccolta di Salò, Auditorium di Sant’Agostino,<br />

Civitanova Marche Alta, 2007<br />

• I Taccuini, Biblioteca Berio, Genova, 2007<br />

• Biblioteca Comunale di Harelbeche, Belgio, 2007<br />

• Tra astrazioni e iconografie da Sironi a Licini, da Melotti a<br />

Fontana, Palazzo Martinengo, Brescia, 2006<br />

• Festina Lente, La Casa di Ros, San Benedetto Po, 2006<br />

• Mail Art allo specchio - Preview, Fastweb Foyer, Teatro<br />

Franco Parenti, Milano, 2004<br />

• Calendar!, Studio Tommaseo, Trieste, 2002


Mappe, parole, ombre (sulla pittura di Agostino Perrini)<br />

Di Marco Frusca<br />

1. Mappe di ombre, ombre di parole<br />

1. Il meccanismo segreto delle parole nei dipinti, di questo si tratta. Le parole, le frasi, o anche soltanto le lettere, nei dipinti agiscono a diversi livelli.<br />

La funzione immediata - apparentemente - è quella grafica (immediata ad esempio per chi non conoscesse la lingua). Il segno grafico della scrittura è all’interno<br />

del quadro in quanto forma.<br />

La seconda è, ovviamente, legata al significato della frase, della parola - o anche delle sillabe, o, addirittura delle lettere - e, soprattutto al suo potere ed alla sua<br />

capacità evocativa.<br />

Poi c’è, legata a quest’ultima lettura che potremmo definire della portata di significato e di evocazione, la lettura che potremmo definire grafologica della<br />

scrittura.<br />

Parole scritte in fretta, parole scritte con rabbia, parole scritte a fatica . Parole scritte da chi non è solito<br />

scrivere parole, parole infilzate dalla penna come farfalle da uno spillo …<br />

Tutto ciò che ci può dire questa lettura …<br />

2. Non basta.<br />

La posizione delle lettere, delle parole: lo scardinamento dell’ordine della pagina scritta, la ribellione dei<br />

margini, la deflagrazione lenta e silenziosa delle sillabe verso l’afasìa … parole scritte un attimo prima del<br />

silenzio.<br />

3. Dunque questi dipinti sono versi illustrati, grumi di racconti sottotitolati.<br />

4. Mappe di territori oltre il caso, che non temono l’arbitrio - la pittura come difficile gestione della<br />

potenzialità ‘evenementielle’ del gesto pittorico, non solo l’illustrazione di versi, (dis-tesi, di-versi), non<br />

certo l’illustrazione di tesi.<br />

Territori che vengono scoperti nel momento stesso in cui vengono creati, cartografie che coincidono con la<br />

navigazione, avventure vissute nell’attimo stesso del racconto.<br />

5. Possiamo chiederci legittimamente se questi sono titoli o versi di poesie, o dediche.<br />

Di alcuni è scoperta, o scopribile, l’origine (2010 A) Andrea Zanzotto ‘Addio a Ligonas’ Eri omphalos<br />

I titoli scritti nello spazio della tela consacrano la suggestione allusiva.<br />

Senza oriente senza più occidente<br />

(dalla serie Mappe), 2006,<br />

olio su carta, 50 x 70 cm<br />

6. I nomi che vengono subito in mente, per analogia, per suggestione, come un paesaggio che sappiamo geograficamente diverso e distante da ciò che<br />

conosciamo ci richiama in qualche particolare, magari minuto, in un colore o in una sfumatura, in una forma o in qualcosa di ancor più indefinito, tutti i posti che<br />

già abbiamo visto.<br />

7. C’è molto Gastone Novelli, molto amato, e giustamente, (Novelli che, anche per Agostino, avrebbe cambiato il panorama dell’arte italiana e non solo, se fosse<br />

vissuto più a lungo).<br />

C’è Cy Twombly, non è certo senza significato che lavorò nell’esercito degli Stati uniti come cryptologist, cioè inventava e decifrava codici, e questo Agostino lo sa)<br />

C’è il segno secco e a volte graffiato di Ben Shahn, forse anche la raffinata - e falsa - ingenuità di Nicola de Maria. Di sicuro è passato Osvaldo Licini, lasciando<br />

storie e figure, colori segni e parole. Forse altre tracce sono di Anselm Kiefer e forse anche di Gerard Richter. Non bisogna confondersi, invece niente Basquiat,<br />

niente Schifano.<br />

Qualcuno può vedere anche frammenti delle poesie visive di Lamberto Pignotti.<br />

O pensare addirittura che la cenere sia la stessa dei budda di Zhang Huan.<br />

8. Oppure si dovrebbe fare un racconto usando i testi dei quadri come materiale da naufraghi, macerie da riciclare, relitti con i quali un novello Robinson della<br />

narrazione costruirebbe la sua dimora.


9. Queste sono Opere superstiti (cenere, carbone, incisione).<br />

Sono versi illustrati, grumi di racconti sottotitolati.<br />

10. Le mappe sono fatte per perdersi, le ombre per nascondersi.<br />

Cosa è l’ombra? L’ ombra è come la ‘scarpetta’di Cenerentola.<br />

Un simulacro di identità, un lieve indizio.<br />

L’ombra mancante, l’uomo senz’ombra di Peter Schlemihl.<br />

Cosa è l’ombra?<br />

Il suo autore Adalbert Von Chamisso, interrogato in proposito, rispose: «Guardate al solido».<br />

11.La difficoltà di una ‘sovraesposizione’ che si crea commentando con parole immagini che già ne contengono.<br />

Ma possiamo definirle ancora e solo immagini? Che genere di dispositivo si costituisce in questa interazione di linee colore e parole<br />

Mappa di ferite golose<br />

(dalla serie Mappe II), 2010,<br />

olio su carta, 100 x 150 cm<br />

Dobbiamo<br />

Mappa = È la rappresentazione grafica di un percorso, la traccia del viaggio.<br />

La dimensione spaziale del racconto.<br />

La mappa è consiglio, avvertimento, istruzione per l’uso.<br />

La mappa è un racconto.<br />

Traccia = È l’indizio, l’inizio della caccia.<br />

È allarme dei sensi.<br />

Odore portato dal vento, evocazione potente.<br />

E insieme paziente osservazione, anamnesi, scavo e ricostruzione.<br />

12.La forma più appropriata di commento di questi dipinti sarebbe l’enciclopedia. Un’enciclopedia con un<br />

numero contenuto di lemmi e un numero infinito di combinazioni.<br />

Parola, ombra, mappa, cenere, giardino.<br />

E poi ancora, traccia, confine<br />

O un atlante delle macchie.<br />

O forse L’unico modo di scriverne è raccogliere insieme tutte le frecce che Agostino ha lanciato sulle tele<br />

per indicare, e bruciarle nel fuoco di una narrazione circolare, che illumini la notte.<br />

Come i quadri incendiari di Yves Klein, come i Livres Brûlés di Bernard Aubertin.<br />

Ombra = È luogo di attesa, sede di agguato.<br />

E poi di pace, di quiete, di riposo.<br />

In mezzo, tra la vigilia e il riposo, il sole, la luce, la lotta.<br />

L’ombra è prima e dopo ogni accadimento.<br />

Ciò che resta sulla tela è presagio o superstite.<br />

Il naufragio è già stato.<br />

Confine = È soglia e limite. È linea e perimetro, il confine contiene e costituisce. Il confine da forma, e, dunque, identità.<br />

Il confine è muro impenetrabile («che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia») o siepe dietro cui nascondersi, da cui traguardare, rete e velo.


ATLANTI<br />

I Testi<br />

Adalbert Von Chamisso Peter Schlemihl - Reif Larssen Le mappe dei<br />

miei sogni - Gastone Novelli Viaggio in Grecia - Jorge Luis Borges<br />

L’aleph - John Berger - Danilo Kis Giardino, cenere - Edmond Jabès Dal<br />

deserto al libro - Yves Bonnefoy Nell’insidia della soglia - Yves Bonnefoy<br />

Un sogno fatto a Mantova - Andrea Zanzotto Conglomerati<br />

II Istantanee<br />

Gastone Novelli - Nicola de Maria - Ben Shahn - Cy Twombly - Osvaldo<br />

Licini - (Basquiat) - Gerard Richter - Zhang Huan - Anselm Kiefer - Yves<br />

Klein<br />

III Citazioni<br />

«Nei tempi antichissimi,quando scrittura e disegno coincidevano,la<br />

linea era l’elemento primo», Paul Klee<br />

«Alcune cose è meglio lasciarle fuori dalle mappe», Reif Larsen<br />

«Una mappa non si limita a fotografare l’esistente, ma formula e<br />

dischiude proposte di senso.», Reif Larsen<br />

«Credo che questa fosse in generale la ragione per cui disegnavo<br />

mappe: per ricondurre l’ignoto, cioè, entro confini familiari», Reif<br />

Larsen<br />

«Guardate al solido!», Adalbert Von Chamisso<br />

DIDASCALIE<br />

2005<br />

* * *<br />

A<br />

Quale poeta, russo e rivoluzionario,ha innalzato questa torre di parole?<br />

Quale architetto, sopravvissuto a Babele, fuggito da Pisa, tenta<br />

l’equilibrio di questa nuova torre?<br />

B<br />

L’ombra fugge dal suo contenitore.<br />

Proietta forme, diventa movimento.<br />

Inventa.<br />

Illumina la notte disegnando le sue rotte.<br />

C<br />

Sono vele nere sul mare,<br />

in un darsi da fare sulla via del ritorno?<br />

O neri cipressi, obliqui al primo giorno?<br />

D<br />

È tutto già noto:<br />

dentro le forme del vuoto,<br />

fa ombra l’ignoto.<br />

E<br />

Ti ho rincorso sul ponte, nell’inverno,<br />

ti sono corso dietro,<br />

ma è rimasto lì solo<br />

il tuo fiato sul vetro.<br />

Il resto era vento.<br />

F<br />

Ho cercato la tua figura in ogni mappa,<br />

in ogni atlante.<br />

Ho cercato setacciando i venti,<br />

raccogliendo le loro figure…<br />

Non ho trovato niente.<br />

G<br />

Stacca decisa l’ombra della casa.<br />

Solida, precisa fissa il nord.<br />

Nel buio.<br />

H<br />

Troppo sole appiattisce ‘ombra.<br />

Non questa rovina romana, solare,<br />

non meridiana…<br />

I<br />

«golden slumbers be in your eyes,<br />

Smile returns to the face…<br />

Sleeply darling, do not cry,


And I’ll sing you a lullaby…»<br />

L<br />

Poi passa anche il tramonto tra le rovine<br />

(restano cenere, carbone e spine…)<br />

M<br />

In mezzo tra i cespugli il reliquiario del poeta: un osso di seppia<br />

N<br />

Piccoli fuochi, restano, dopo l’incendio.<br />

Fiamme azzurre, in cima agli alberi nel porto.<br />

Fuochi di Sant’Elmo.<br />

O<br />

Torna a nascondersi la parola del poeta,<br />

l’osso di seppia.<br />

(o resta sospeso,<br />

sull’ombra che si apre,<br />

come un pozzo nel centro della terra)<br />

P<br />

Una finestra o una porta che si apre,<br />

non importa.<br />

Una stanza…<br />

«Il varco è qui?<br />

O e qui la lontananza?»<br />

Q<br />

Manda via i sogni cattivi,<br />

scaccia gli incubi,<br />

schiaccia le ombre di quel volto,<br />

scivola via dal buio,<br />

fa che la notte<br />

riprenda altre rotte…<br />

2006<br />

* * *<br />

A<br />

Il sasso gettato nella piazza, non ha mai colpito, non è mai arrivato.<br />

Achille piè veloce non ha raggiunto la tartaruga.<br />

La pietra ha proseguito la sua corsa, spinta dal vento è uscita dalla sua<br />

traiettoria.<br />

È uscita dalla storia.<br />

B<br />

L’isola è una ferita, un seno di donna, sanguinante.<br />

La fortezza di If, dipinta da Magritte.<br />

C<br />

Il poeta che raccontava di uomini che sapevano a memoria non<br />

mappe, ma gli orari dei treni.<br />

E cerchi di bicchiere.<br />

Il poeta che era giardino, cenere.<br />

Le sere.<br />

Prima del buio, prima del buio che è sceso sugli occhi di un altro poeta,<br />

lontano.<br />

Poeta di mappe dell’Impero.<br />

Un poeta che cantava in un altro giardino.<br />

Ora tutto questo è buio.<br />

Cenere.<br />

D<br />

Non è una mappa , è una notte.<br />

Non è la terra, è la luna<br />

Nel blu della fortuna<br />

E<br />

Il gesto deciso, misura<br />

Lo stesso gesto preciso che sposta<br />

Una ciocca di capelli dal viso.<br />

F<br />

È una casa. E una rosa<br />

(un’ombra, qualcosa)<br />

Non è cenere, è neve.<br />

È passata la guerra da qui, dalla casa.<br />

È passata molto tempo fa<br />

Ma la casa sul fiume non è cambiata<br />

È solo invecchiata di segni e di sogni,<br />

è restata ad accogliere i superstiti e li ha cresciuti e li ha lasciati<br />

andare.


Oltre il cipresso, oltre le colline.<br />

G<br />

Senza più niente.<br />

Senza bussola o sestante.<br />

Solo alto e basso, su o giù, nord o sud.<br />

Non qui e non là.<br />

Non sinistra e non destra.<br />

Senza occidente<br />

non muore niente<br />

e niente nasce,<br />

perché non c’è l’oriente.<br />

H cfrB2006<br />

Non è una nuvola di terra<br />

Non è una ferita di guerra,<br />

né sesso:<br />

guarda cosa è successo,<br />

una cosa strana,<br />

è ancora l’isola,<br />

e ora è lontana…<br />

I<br />

(chi è Tarik. E perché deve morire?)<br />

L<br />

Qual’eladistanzatraduefuochivicini?<br />

(qual è il confine dove tu cammini?)<br />

2007<br />

* * *<br />

ABCDFEG LM<br />

Attraversare questo cunicolo, questo posto<br />

per arrivare ad un giardino nascosto.<br />

Sotterraneo, lì al confine,<br />

mettere radici, infilare spine<br />

nella stanza cava, nei luoghi del silenzio , felici?<br />

Girare al cielo le radici - non è roba mia.<br />

No, non è un velo, non<br />

sono stendardi di malinconia.<br />

Sono ombre, sono niente.<br />

2008<br />

Vuoti di confine,<br />

fogli a rendere,<br />

rovine.<br />

Margini di passaggi…<br />

ancora mappe.<br />

Falsi messaggi.<br />

(Stanno dentro, eppure<br />

stanno al centro,<br />

le figure<br />

nascoste o rivelate<br />

dai margini<br />

delle paure)<br />

Getta i semi<br />

del ricordo<br />

nelle terre, nel fango,<br />

stende un cielo pietoso…<br />

Io rimango.<br />

2009<br />

Collezionare<br />

Raccogliere<br />

Lasciare<br />

Poeti<br />

rugiada<br />

parole<br />

* * *<br />

* * *


Infilare<br />

Parole<br />

Parole arse,parole vicine<br />

(parole sparse, perdute,<br />

lasciate,<br />

parole d i s s e q u e s t r a t e . . .)<br />

Mappe,<br />

mappe<br />

Percorrere<br />

mappe<br />

Tracciare<br />

mappe<br />

Disegnare<br />

mappe<br />

…<br />

…<br />

C’è ancora vento.<br />

2010<br />

Qui<br />

di quale dove,<br />

di quale smisurato altrove<br />

ho bruciato i passi?<br />

Ombre come sassi<br />

che segnano il confine<br />

ombre colme di cenere e di spine,<br />

sentieri senza fine,<br />

cantieri di rovine.<br />

(è solo arredamento<br />

dell’attesa?<br />

Una pretesa di divertimento?<br />

Semplice sgomento?<br />

Stordimento?<br />

O una ripresa<br />

di muto accadimento?)<br />

* * *<br />

Ombre dei tuoi passi.<br />

Porte nascoste o inattese,<br />

passaggi,<br />

mappe, legende,<br />

spiegazioni, falsi messaggi<br />

- ancora -<br />

cenere e sale.<br />

…nell’estrema vigilia…<br />

…al limite della soglia…<br />

L’ombra dell’attesa.<br />

(traparentesieincorsivo)<br />

Postfazione<br />

* * *<br />

I<br />

Kafka diceva che un libro deve essere come una scure che spacca la<br />

crosta gelata del cuore.<br />

Che sia almeno l’eco di una fucilata lontana.<br />

II<br />

Sparare nel buio, bendati, mirando a memoria a una stella.<br />

(Poi andare a raccogliere la preda, se c’è.<br />

Cercare nella boscaglia o nella prateria, andare a naso, vedere se il<br />

caso ha preparato una meraviglia.)<br />

III<br />

Ogni scritto è un’isola.<br />

Lo è almeno quando nasce, sconosciuto, fino al momento di essere<br />

scoperto, rivelato alle mappe, letto da qualcun altro.<br />

Ogni scritto è un’isola misteriosa, o sconosciuta, su cui naufraga<br />

l’autore.<br />

E insieme vi trova rifugio.


Marco Frusca è nato a Brescia nel 1956. È architetto.<br />

Ha scritto i testi di Atlante delle nuvole eseguito a Rovereto e a Brescia con musiche di Festa, Priori, Clapasson e<br />

Ugoletti, per il quale ha scritto anche due melologhi (Quaresimale e Una musica da un’altra stanza, eseguiti a Brescia<br />

in Santa Giulia, nel novembre 2010, pianista Pinuccia Giarmanà).<br />

Paolo Ugoletti ha musicato anche alcune sue composizioni scritte per l’infanzia, dalla raccolta Se solo si sapesse scrivere<br />

senza esse, e sta musicando le composizioni della sua ultima raccolta Caproni 4 ever: Blues dell’orgettina.<br />

È stato segnalato alla XXIV° e alla XXV° edizione del Premio letterario “Lorenzo Montano” rispettivamente per le<br />

raccolte poetiche inedite Esercizi di Carteggio nautico e Unter der linden Holderlin.


echi


Lettera, 2011,<br />

stampa a secco e grafite, 70 x 50 cm


FOTO<br />

Eugenio Montale<br />

Eugenio Montale non ha bisogno di presentazioni. Anche chi non conoscesse in dettaglio la sua opera avrebbe oggi, a trent’anni dalla sua<br />

scomparsa, più di un motivo per ricordarlo. Un verso, una poesia, un’immagine, anche solo il minimo e remoto riferimento di un vecchio professore di<br />

scuola…<br />

Si propone, a seguire, la gran parte del discorso che il Premio Nobel per la letteratura del 1975 pronunciò in occasione della consegna del<br />

prestigioso riconoscimento. Il discorso in questione non ha i caratteri dell’originalità assoluta né, tanto meno, può essere considerato un esempio<br />

folgorante di visione dello stato e del futuro della poesia. La singolarità, l’attualità del testo qui ripreso risiede tutta nel fatto che, già a partire dal titolo,<br />

esso rivela - indirettamente ma chiaramente - la consapevolezza che la poesia, questo «prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo», tende a<br />

non fornire risposte alle tante domande sull’esistenza dell’uomo che determinano il suo stesso manifestarsi e che, da sempre, la animano. La poesia<br />

aspira ad esplorare quanto afferisce al nostro vivere. Essa, però, può soprattutto offrirci interrogativi.<br />

Passano i decenni e i quesiti e le riflessioni che Montale si poneva e compiva sulla poesia, di fronte agli accademici di Stoccolma, sono ancora<br />

contingenti. Questi quesiti e queste riflessioni restano ancora, di fatto, senza la possibilità di avere una risposta o un’interpretazione inequivocabili. Ciò<br />

di cui si può più probabilmente essere certi, invece, è che la poesia continuerà a condividere il destino dell’umanità; lo stesso fugace e reiterato anelito.<br />

Eugenio Montale<br />

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Da È ancora possibile la poesia?<br />

Di Eugenio Montale<br />

[…]<br />

Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e<br />

musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare. Pochi giorni<br />

fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Tante<br />

ore alla poesia, tante alle traduzioni, tante all'attività impiegatizia e tante alla vita? Ho cercato di spiegarle che non si<br />

può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c'è un largo spazio per l'inutile, e anzi uno<br />

dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell'inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi.<br />

In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è<br />

uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente<br />

endemica e incurabile.<br />

Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una<br />

produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere<br />

impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è un’entità di cui si sa assai poco, tanto che due<br />

filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una<br />

storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch'essa sia nata dalla necessità di<br />

aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica<br />

poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa<br />

sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse.<br />

Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà<br />

a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si fa visiva perché<br />

dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente gli schemi formali erano larga parte<br />

della visibilità poetica. Dopo l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo spazio bianco, è<br />

ricca di «a capo» e di riprese. Anche certi vuoti hanno un valore. Ben diversa è la prosa che occupa tutto lo spazio e<br />

non dà indicazioni sulla sua pronunziabilità. È a questo punto che gli schemi metrici possono essere strumento ideale<br />

per l'arte del narrare, cioè per il romanzo. È il caso di quello strumento narrativo che è l'ottava, forma che è già un<br />

fossile nel primo Ottocento malgrado la riuscita del Don Giovanni di Byron (poema rimasto interrotto a mezza strada).<br />

Ma verso la fine dell'Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l'occhio né l'orecchio. Analoga<br />

osservazione può farsi per il Blank verse inglese e per l'endecasillabo sciolto italiano. E nel frattempo fa grandi passi la<br />

disgregazione del naturalismo ed è immediato il contraccolpo nell'arte pittorica. Così con un lungo processo, che<br />

1


Da È ancora possibile la poesia?<br />

sarebbe troppo lungo descrivere, si giunge alla conclusione che non si può riprodurre il vero, gli oggetti reali, creando<br />

così inutili doppioni; ma si espongono in vitro, o anche al naturale, gli oggetti o le figure di cui Caravaggio o Rembrandt<br />

avrebbero presentato un facsimile, un capolavoro. Alla grande mostra di Venezia anni fa era esposto il ritratto di un<br />

mongoloide: era un argomento très dègoûtant, ma perché no? L'arte può giustificare tutto. Sennonché avvicinandosi ci<br />

si accorgeva che non di un ritratto si trattava, ma dell'infelice in carne ed ossa. L'esperimento fu poi interrotto manu<br />

militari, ma in sede strettamente teorica era pienamente giustificato. Già da anni critici che occupano cattedre<br />

universitarie predicavano la necessità assoluta della morte dell'arte, in attesa non si sa di quale palingenesi o<br />

resurrezione di cui non s'intravvedono i segni.<br />

Quali conclusioni possono trarsi da fatti simili? Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi<br />

nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un<br />

nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L'esempio che ho portato<br />

potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di<br />

giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto<br />

ad avere orrore di se stesso?<br />

Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano<br />

poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa<br />

impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che<br />

il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo<br />

così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le<br />

comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni<br />

possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno<br />

che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte<br />

nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di<br />

ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex<br />

machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma<br />

di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in tutto questo,<br />

un'immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta<br />

delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in<br />

casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La<br />

poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l'esplosione di una granata, non esiste<br />

2


Da È ancora possibile la poesia?<br />

un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può<br />

soccorrere l'aiuto dello psicanalista. Prevalendo l'aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo<br />

nella storia dell'estetica. Ciò non vuol dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente<br />

tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C'è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una<br />

folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non<br />

sempre sono sprovveduti di talento. Citerò un caso e mi scuso se è anche un caso che mi riguarda personalmente. Ma il<br />

fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e<br />

muore appena è espressa, mentre l'altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di<br />

farlo.<br />

La vera poesia è simile a certi quadri di cui si ignora il proprietario e che solo qualche iniziato conosce. Comunque la<br />

poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche. Il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero<br />

destinatario. Faccio un piccolo esempio personale. Negli archivi dei giornali italiani si trovano necrologi di uomini<br />

tuttora viventi e operanti. Si chiamano coccodrilli. Pochi anni fa al Corriere della Sera io scopersi il mio coccodrillo<br />

firmato da Taulero Zulberti, critico, traduttore e poliglotta. Egli affermava che il grande poeta Majakovskij avendo letto<br />

una o più mie poesie tradotte in lingua russa avrebbe detto: «Ecco un poeta che mi piace. Vorrei poterlo leggere in<br />

italiano». L'episodio non è inverosimile. I miei primi versi cominciarono a circolare nel 1925 e Majakovskij (che viaggiò<br />

anche in America e altrove) morì suicida nel 1930.<br />

Majakovskij era un poeta al pantografo, al megafono. Se ha pronunziate tali parole posso dire che quelle mie poesie<br />

avevano trovato, per vie distorte e imprevedibili, il loro destinano.<br />

Non si creda però che io abbia un'idea solipsistica della poesia. L'idea di scrivere per i così detti happy few non è mai<br />

stata la mia. In realtà l'arte è sempre per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il<br />

suo destinano. L'arte-spettacolo, l'arte di massa, l'arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un<br />

ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo<br />

limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma<br />

non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale.<br />

La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non<br />

meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa;<br />

milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo<br />

è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo<br />

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Da È ancora possibile la poesia?<br />

carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e<br />

riflessione. Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell'uomo è breve e la vita del mondo può essere<br />

quasi infinitamente lunga.<br />

Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell'universo delle<br />

comunicazioni di massa? È ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se<br />

s'intende per poesia la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se<br />

invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e<br />

sembra imbalsamare tutta un'epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c'è morte<br />

possibile per la poesia.<br />

È stato osservato più volte che il contraccolpo del linguaggio poetico su quello prosastico può essere considerato un<br />

colpo di sferza decisivo. Stranamente la Commedia di Dante non ha prodotto una prosa di quell'altezza creativa o lo ha<br />

fatto dopo secoli. Ma se studiate la prosa francese prima e dopo la scuola di Ronsard, la Plèiade, vi accorgerete che la<br />

prosa francese ha perduto quella mollezza per la quale era giudicata tanto inferiore alle lingue classiche ed ha<br />

compiuto un vero salto di maturità. L'effetto è stato curioso. La Plèiade non produce raccolte di poesie omogenee<br />

come quelle del Dolce stil novo italiano (che è certo una delle sue fonti), ma ci dà di tanto in tanto veri «pezzi di<br />

antiquariato» che andranno a far parte di un possibile museo immaginario della poesia. Si tratta di un gusto che si<br />

direbbe neogreco e che secoli dopo il Parnasse tenterà invano di eguagliare. Ciò prova che la grande lirica può morire,<br />

rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell'anima umana. Vogliamo rileggere insieme un canto di<br />

Joachim Du Bellay. Questo poeta, nato nel 1522 e morto a soli trentacinque anni, era nipote di un cardinale presso il<br />

quale visse a Roma qualche anno riportando profondo disgusto per la corruzione della corte pontificia. Du Bellay ha<br />

scritto molto, imitando più o meno felicemente i poeti della tradizione petrarchista. Ma la poesia (forse scritta a Roma),<br />

ispirata da versi latini del Navagero, che raccomanda la sua fama, è frutto di una dolorosa nostalgia per le campagne<br />

della dolce Loira da lui abbandonate. Da Sainte-Beuve fino a Walter Pater, che dedicò a Joachim un profilo memorabile,<br />

la breve Odelette des vanneurs de blé è entrata nel repertorio della poesia mondiale. Proviamo a rileggerla se questo è<br />

possibile, perché si tratta di una poesia in cui l'occhio ha la sua parte.<br />

A vous troppe legere,<br />

qui d'aele passagere<br />

par le monde volez,<br />

et d'un sifflant murmure<br />

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Da È ancora possibile la poesia?<br />

l'ombrageuse verdure<br />

doulcement esbranlez,<br />

j'offre ces violettes,<br />

ces lis et ces fleurettes,<br />

et ces roses icy,<br />

ces vermeillettes roses,<br />

tout freschement écloses,<br />

et ces oeilletz aussi<br />

De vostre doulce halaine<br />

eventez ceste plaine,<br />

eventez ce sejour,<br />

ce pendant que j'ahanne<br />

a mon blé, que je vanne<br />

a la chaleur du jour. [1]<br />

Non so se questa Odelette sia stata scritta a Roma come intermezzo nel disbrigo di noiose pratiche d'ufficio. Essa deve<br />

a Patter la sua attuale sopravvivenza. A distanza di secoli una poesia può trovare il suo interprete.<br />

Ma ora per concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso. Nella attuale<br />

civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale<br />

può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente alla portata di<br />

tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della<br />

stampa<br />

[1]<br />

A voi, turba leggera, / Che d’ala passeggera / Trasvolate il mondo, / E d’un murmure soffio / L’ombreggiante verzura / Muovete<br />

dolcemente. // Io offro queste viole / Quei gigli e fior di campo, / E queste rose, / Queste vermiglie rose / Sì frescamente schiuse /<br />

E garofani insieme. // Col vostro dolce fiato / Trascorrete la piana / Ventilate questo nostro stare; / Nel mentre che m’affanno / A<br />

trebbiare il mio grano / Sotto il calor del giorno.<br />

Traduzione dal francese a cura di Giacomo Cerrai. In http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/234-Joachim-Du-Bellay.html<br />

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Da È ancora possibile la poesia?<br />

stampa e della diffusione. L'incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi<br />

nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta<br />

appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l'orto delle Muse possa essere<br />

devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e<br />

molti libri di poesia debbano resistere al tempo.<br />

Diversa è la questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo rifarsi attuale, il suo<br />

dischiudersi a nuove interpretazioni. E infine resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di<br />

poesia. Molta poesia d'oggi si esprime in prosa. Molti versi d'oggi sono prosa e cattiva prosa. L'arte narrativa, il<br />

romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi opere di poesia. E il teatro? Molte storie letterarie non se ne<br />

occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte. Inoltre: come si spiega il fatto<br />

che l'antica poesia cinese resiste a tutte le traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo linguaggio<br />

originale? Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chü-i e leggiamo invece il meraviglioso<br />

contraffattore Arthur Waley? Si potrebbero moltiplicare le domande con l'unico risultato che non solo la poesia, ma<br />

tutto il mondo dell'espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione<br />

umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si<br />

credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile<br />

dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. È come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani magari<br />

lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un<br />

tale giorno, che può essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).<br />

Stoccolma , 12 dicembre 1975.<br />

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<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

Quella di <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong> è, probabilmente, una delle rare esperienze di vita del secondo novecento italiano interamente spesa, quasi<br />

necessariamente consumata, nella poesia. La prima opera pubblica, prodotta a più mani da <strong>Benzoni</strong>, s’intitolava Fatti di poesia; lo stesso poeta<br />

scriveva, in un testo dedicato a Fortini: «Liberarmi dalla letteratura / è la mia voglia…». Poesia come «psicoterapia del dolore», si dirà in un<br />

appassionato pezzo che segue… Poesia, però, anche come “demone” dal quale si può essere “posseduti”; poesia che può condurre<br />

all’isolamento (autoimposto o patito), allontanare - oggi più che in passato e pure se alta come nel caso di quella qui proposta - dall’incontro<br />

con l’altro.<br />

Lo spazio dedicato a <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong> comprende un articolo di Francesco Magnani, una selezione di versi ed altro a cura di Danilo<br />

Mandolini, un’intervista di Gabriele Zani all’autore e una poesia di Francesco Scarabicchi. Si auspica che questo ricordo - progettato, diciamo<br />

così, d’istinto e senza quindi il proposito di voler in alcun modo rappresentare un punto di vista esaustivo - possa stimolare soprattutto gli<br />

editori e i critici italiani di maggior rilievo a raccontare in maniera articolata e la più completa possibile il percorso di vita poetica tracciato dallo<br />

scrittore di Cesenatico. Chiunque si ponga l’obiettivo, oggi, di incontrare la poesia di <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, non può infatti ancora contare sul<br />

supporto di un volume che accorpi tutta la sua produzione.<br />

<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

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<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

7<br />

1<br />

Nacque nel 1949 a Cesenatico. Nella stessa cittadina è scomparso nel 1997.<br />

Fu tra gli animatori della rivista “Sul Porto” insieme a Stefano Simoncelli e Walter<br />

Valeri. La rivista uscì per otto anni e vi parteciparono, tra gli altri: Franco Fortini,<br />

Giovanni Raboni, Giovanni Giudici e Vittorio Sereni. Insieme a Simoncelli e a<br />

Luciano Manuzzi scrisse la sceneggiatura della commedia Fuori stagione, vincitrice<br />

nel 1982 di due David di Donatello.<br />

Postumi sono stati pubblicati: Sguardo dalla finestra d’inverno (Scheiwiller, Milano,<br />

1998), Canzoniere infimo e altri versi (San Marco dei Giustiniani, Genova, 2004),<br />

Miei cari tutti quanti, carteggio di Vittorio Sereni con <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong> e gli amici di<br />

Cesenatico (San Marco dei Giustiniani, Genova, 2004, a cura di Dante Isella).<br />

Opere in versi:<br />

• La casa sul porto (Quaderni della Fenice, n. 64, Guanda, Milano, 1980)<br />

• Canzoniere infimo (Almanacco dello specchio, n. 11, ed. Mondadori,<br />

Milano, 1983, pp. 371-378)<br />

• Notizie dalla solitudine (San Marco dei Giustiniani, Genova, 1986)<br />

• Fedi Nuziali (Scheiwiller, Milano, 1991)<br />

• Numi di un lessico figliale (Marsilio, Venezia, 1995)


<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, quei versi per combattere la solitudine<br />

8<br />

Di Francesco Magnani<br />

Passata la ferrovia, è la terza casa sul lato destro del porto canale. «Si affitta. Solo nei mesi estivi». Immersa<br />

nell'antico borgo dei pescatori, tra ristoranti e bar alla moda questa casetta non è solo una delle tante<br />

occasioni nel mercato immobiliare di Cesenatico. Il turista non sa che trent'anni prima quella porta è stata<br />

varcata da Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Vincenzo Cerami, Franco Fortini, nomi illustri della poesia italiana<br />

del secondo Novecento.<br />

Nella casa sul porto, al 12 di via Giordano Bruno, è vissuto per quasi vent'anni <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>. Per tutti gli<br />

anni Settanta è stata il ritrovo di un cenacolo eretico, rapito dal demone della poesia. Insieme a <strong>Benzoni</strong>:<br />

Stefano Simoncelli e Walter Valeri. Si facevano chiamare “i fratellini”, fuggivano i clamori della città balneare,<br />

attraversavano l'Italia per incontrare i poeti e per un decennio hanno dato alle stampe una rivista corsara, “Sul<br />

Porto”. Grazie a quell'esperienza <strong>Benzoni</strong> si è affermato come poeta ed è riuscito a sconfiggere la malattia che<br />

lo ha perseguitato per tutta la vita: la solitudine.<br />

Fino alle medie ha solo un amico con cui condividere i giochi, quel Mauro Pasolini, suo vicino di casa e di<br />

banco, che lo accompagnerà fino alla consacrazione poetica. «La prima volta che ci parlammo, mi accorsi di<br />

quanto avesse bisogno di un contatto umano. Si avvicinava al mio volto fino a sfiorarmi il naso»: così lo ricorda<br />

Luciano Magnani, suo compagno al liceo classico di Cesena. La sua preparazione stupisce tutti: è più ferrato in<br />

letteratura degli stessi insegnanti e quando un giorno gli viene chiesto di leggere un tema davanti a tutta la<br />

classe, si alza in piedi e lo recita reggendo in mano il quaderno intonso.<br />

Sono gli anni in cui il giovane <strong>Benzoni</strong> esce dal guscio delle letture e dei primi tentativi di versi. A sedici anni si<br />

iscrive alla Fgci e frequenta la casa del popolo di Cesenatico: è pronto per la stagione dell'agitazione<br />

studentesca.<br />

Ma la tragedia lo aspetta al varco. Il 25 luglio del 1967 perde la madre Giovanna. «A cuore stretto mi stornavo<br />

dal padre e già lei moriva, / mia madre, esile filo di vita sfiorente. Inscheletrita, / arresi e grigi i capelli senza<br />

tintura, le dita / agitava ai saluti: oltre la porta ne piangevo, nel sole». La solitudine di <strong>Benzoni</strong> ha una data<br />

d'inizio precisa.<br />

<strong>Ferruccio</strong> ricade nell'isolamento, finché non conosce lo “scapigliato” Piero Pieri, un suo coetaneo con la<br />

passione per i versi. È lui il primo a suggerirgli l'idea di una nuova rivista di poesia. Il progetto naufragherà e


<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, quei versi per combattere la solitudine<br />

9<br />

e con esso l'amicizia tra i due, sconvolta da screzi amorosi. Ma il seme resisterà alla tempesta della collera.<br />

Morta Giovanna, il padre decide di trasferirsi con il figlio nella casa della sorella, sul porto canale. Ma zia Pina,<br />

oltre che da madre, dovrà fare al giovane poeta anche da padre, che morirà nel 1970. Trasferitosi a Bologna,<br />

<strong>Benzoni</strong> si dedica più alle intemperanze della vita bohème e ai sogni del rivoluzionario che ai corsi universitari.<br />

Nella casa di via Regnoli, dove vive insieme con Pasolini, si lega a Simoncelli e a Valeri, i futuri "fratellini".<br />

Il loro progetto poetico deve tornare alla provincia: <strong>Benzoni</strong> non riesce a starne lontano. Organizzano serate di<br />

lettura e trovano i finanziamenti per la loro prima pubblicazione: Fatti di poesia, un ciclostile firmato “la<br />

Comune”, nome ispirato alla recenti frequentazioni artistiche e politiche con Dario Fo. Usciti dal Pci, passano<br />

nelle fila del “Manifesto” ma sconteranno ben presto il prezzo politico del loro sentimentalismo.<br />

La sera di Natale del 1972 partecipano a Cervia a una serata di Potere Operaio contro la guerra in Vietnam. I<br />

"fratellini" salgono sul palco e recitano Signora Felicità di Guido Gozzano. Fischiati e cacciati. «Fu la fine della<br />

nostra militanza - racconta Pasolini - ci chiudemmo in noi stessi e ci dedicammo alla poesia soltanto».<br />

Nove amici sono seduti attorno a un tavolo di un ristorante sul molo di Cesenatico. In questa notte di<br />

primavera del 1973 hanno deciso di tirare tardi a discutere, ma uno di loro, Carlo, non alza gli occhi dai fogli,<br />

salviette e pezzi di carta. Scrive come un forsennato.<br />

Così è nato il primo numero di “Sul porto”, «numero unico volutamente alla macchia»: dal verbale dei sogni di<br />

giovani letterati. Il gruppo ha scelto la provincia adriatica come «frontiera dove farsi pionieri di idee e<br />

contributi autentici e originali». E proprio da quella frontiera strapperanno il primo successo. Ridanno la<br />

parola a un vecchio scrittore che vive a Cesenatico, Dante Arfelli, caduto nel silenzio dopo aver scritto nel 1948<br />

I superflui, quasi un milione di copie in America. “Sul porto” attira da subito le attenzioni e le simpatie di<br />

Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini.<br />

«<strong>Ferruccio</strong> - racconta Simoncelli - tirò fuori una vecchia Simca, con la quale abbiamo attraversato tutta l'Italia<br />

per incontrare i poeti. Il primo fu Alfonso Gatto, poi andammo a trovare Pasolini nella sua casa all'Eur, poi<br />

Giudici, Cerami, Raboni». Non cercavano i poeti adulti soltanto per sottoporre loro scritti e poesie: volevano<br />

entrare nella loro vita, mangiare e bere con loro, coinvolgerli nel turbine del loro giovanile ardore per le<br />

lettere. «Li sconvolgevano - racconta Alessandro Casagrande, un loro compagno di strada - e questa fu la loro<br />

fortuna».<br />

“Sul Porto” doveva essere un numero unico, e invece per un decennio uscirà con una regolarità quasi annuale


<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, quei versi per combattere la solitudine<br />

10<br />

arricchendosi di contributi sempre più autorevoli. A sorreggerne le colonne sono gli ormai inseparabili <strong>Benzoni</strong><br />

e Simoncelli.<br />

«Vivevamo sempre assieme - rievoca quegli anni Simoncelli - ogni mattina ci incontravamo per il caffè,<br />

leggevamo i giornali e pranzavamo insieme. Ci separavamo nel pomeriggio per scrivere e ci ritrovavamo la sera<br />

per confrontare i nostri versi, bere e parlare di ogni cosa. Fino a notte fonda».<br />

Sul finire degli anni Settanta i due iniziano a dedicarsi anche al cinema. Con il regista cesenate Luciano<br />

Manuzzi scrivono la sceneggiatura di Fuori stagione, un’amara commedia ambientata a Cesenatico dopo<br />

l'esodo autunnale dei turisti. Nel 1982 vincerà due David di Donatello.<br />

Ma proprio in questi anni <strong>Benzoni</strong> ha la conferma che i versi sono la sua esclusiva vocazione. Nel 1979 conosce<br />

infatti Vittorio Sereni, che sarà per lui come un padre, e non soltanto poetico. La frequentazione tra i due si fa<br />

subito assidua, tra Luino, la Vaucluse e Cesenatico. Oltre alla poesia hanno in comune la passione per il calcio,<br />

tanto che lo schivo Sereni non rifiuterà nel 1981 di assistere a una partita amatoriale in un campetto di<br />

Cesenatico e declamare a fine gara le doti atletiche dei giocatori.<br />

La morte improvvisa di Sereni, nel 1983, avrà per <strong>Benzoni</strong> un effetto deflagrante. Il gruppo raccolto da dieci<br />

anni attorno a “Sul Porto” si dissolve; tra <strong>Benzoni</strong> e Simoncelli la rottura è definitiva. E il poeta cede alla<br />

bottiglia.<br />

Solo un evento illumina il buio del 1984. <strong>Ferruccio</strong> conosce Ilse Maier, la donna che lo accompagnerà sulla<br />

strada della redenzione.<br />

Ma per arrivarci <strong>Benzoni</strong> deve ancora attraversare l'inferno. È schiavo dell'alcool e della solitudine che si è<br />

autoimposto: la poesia diventa la psicoterapia del suo dolore. Passa nottate solitarie nei bar, dove scrive Fedi<br />

Nuziali, e quando è ora di rincasare nella vecchia villa dei genitori, dove si è ritrasferito nel 1986, spesso<br />

preferisce dormire in una camera d'albergo. «Per lui la casa non esisteva», ricorda Ilse.<br />

Nel 1991 la sua compagna trasloca da lui per assistere la sua convalescenza dopo un coma epatico. La<br />

presenza della donna amata conferisce alle mura quel sapore di nido domestico che invano il poeta aveva<br />

cercato per oltre vent'anni. «Qui sono tornato a abitare / cassée fracassata la spalla / altri dormitori<br />

disertando. / Notti ho vegliato origliando / lupi in uno stellato orrendo. / E uno c'era (il più famelico) / la facessi<br />

finita - supplicava - leccandomi il braccio / salmodiando uno spartito / di filastrocche strozzate.».<br />

Ma i lupi possono concedere una tregua. Il ritorno alla salute è accolto da un convegno che la città dedica al


<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, quei versi per combattere la solitudine<br />

11<br />

suo poeta. <strong>Benzoni</strong> ha smesso di bere, ha trovato un nuovo equilibrio. Da piccolo borghese, avrebbe detto<br />

anni prima.<br />

Nel 1995 sposa Ilse Maier e dà alle stampe Numi di un lessico figliale. L'inverno seguente la vena poetica per la<br />

prima volta prevale sulla sua notoria severità. Compone di getto Sguardo dalla finestra d'inverno. «Non mi<br />

fece leggere nessuna poesia prima di averlo finito - racconta la signora <strong>Benzoni</strong> - e quando me le recitò lo<br />

trovai entusiasta: lo considerava la sua opera definitiva. Ci rimasi male perché ebbi il presagio che fosse una<br />

sorta di testamento».<br />

Ilse non si sbagliava. Nella primavera del '97, poco dopo il suo quarantottesimo compleanno, le condizioni di<br />

salute di <strong>Benzoni</strong> precipitano.<br />

Tre giorni prima di morire, il 16 giugno, l'amico Giovanni Raboni aveva telefonato a Ilse perché rassicurasse<br />

<strong>Ferruccio</strong>: un editore milanese avrebbe pubblicato il suo ultimo lavoro.<br />

«Ma il pianto che nasce irrefrenabile / senza un perché - il tuo / che non ha inizio né fine, / ti affila e tu non gli<br />

appartieni, / sola che nulla può raggiungerti, / nessuno come te vive se piange».<br />

Apparso in “il ducato”, giornale on-line dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino.<br />

Oggi in: http://www.uniurb.it/giornalismo/lavori2006/magnani/index.htm)<br />

La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini. L’ordine delle liriche non riproduce la<br />

sequenza originale dei volumi dai quali le stesse sono tratte. Questo: vista la numerosa presenza, nella<br />

selezione proposta, di componimenti recuperati in internet.


Dalla rivista “Sul porto”<br />

[…] …andiamo alla ricerca, per il carattere viscerale del nostro modo di concepire l’impegno intrapreso, di una<br />

verifica fra la nostra esperienza e quella di poeti che ci hanno preceduti su questa strada. Ed è qui che nasce il<br />

valore preciso della testimonianza di “Sul porto”. Ed è risaputo che la poesia ha vita difficilissima. Infatti crea<br />

diffidenza non seguendo le strade di questa società. Noi siamo andati dai poeti per vedere che rapporto<br />

esistenziale hanno con la loro materia… […]<br />

Verbale di seduta, giugno 1974, “Sul porto”, 3, p. 14-22, poi in Postumo a me stesso. <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong> tra vita e poesia,<br />

a cura dell’associazione <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, Pàtron, Bologna 2004, p. 230<br />

* * *<br />

Occorre dirseli, descriverli, questi giorni tristissimi dove un senso di morte, di ineluttabile sconfitta, dà<br />

angoscia profonda e una nuova miseria è nel cuore e nelle tasche di molti. Un poco anche esorcizzarla con<br />

lirica rabbia. Certo poco utile, ma sempre poco utili sono le parole turgide di troppo sentimento, illuminate da<br />

troppo trasporto. Una patetica ginnastica da naufraghi, quindi sgradevole, per i sacerdoti irragionevoli di<br />

quella vecchia cinica Ragione ancora segretamente legata alle già tramontate illusioni nutrite attorno ai temi<br />

dell’abbondanza, della società di massa, dei grandi consumi per tutti, iniziati con gli anni sessanta. Per noi una<br />

sorta di necrologio che non dà rimpianti per l’immediato passato, lo diciamo subito, ma spezza il cuore<br />

descrivere questi giorni di immiserite illusioni, già prossimi agli anni ottanta. Per guardarla in viso la nuova<br />

miseria di cui vogliamo parlare basta appostarsi ai cancelli delle fabbriche in disarmo. Sapere il dramma dei<br />

già quasi tre milioni di disoccupati. Mischiarsi nelle code di migliaia di giovani allineati come bestie, agli<br />

sportelli delle liste regionali di collocamento. Al lavoro che si torna a chiedere come un’elemosina,<br />

nuovamente. Osservare all’uscita dei negozi o per i portici delle città, semplicemente, chi nel frattempo ha<br />

accumulato e conserva un piccolo privilegio economico. Chi torna a difenderlo, come da sempre, anche nei<br />

gesti per strada, sfilando senza pudore, con sospetto, radendo i muri, per richiudersi alle spalle la porta di<br />

casa con sollievo. Per poi, in casa e al sicuro, non chiedersi più nulla, perché tanta sordità pretende il suo<br />

sordido privilegio. Guardarle le facce attonite di una nuova, crescente, giovane folla di poveri e povere, che<br />

non hanno radice in nessuna classe marxianamente definibile. […]<br />

[Il Collettivo] – In una nuova miseria e nel cuore, gennaio 1978, “Sul porto”, pp. 19-20, poi in Postumo a me stesso.<br />

<strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong> tra vita e poesia, a cura dell’associazione <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, Pàtron, Bologna 2004, p. 252<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

12


Dalla rivista “Sul porto”<br />

* * *<br />

[…] L’esito del dono, come accade in amore, è sempre misterioso: possiamo solo conoscere le intenzioni,<br />

sentire l’odore con cui una cosa si dà. Però i sentimenti per cui abbiamo dato, essi sì, sono storici: la loro<br />

verità inoppugnabile.<br />

Così oggi ti dico, alle soglie dei mie trent’anni, che il mio sentimento è insieme dolce e tremendo, di<br />

fronte alla vita; ammetto tutto questo mentre sento che la mia poesia, diversamente da me, può azzardare<br />

una sua innocente felicità…<br />

Tu sai che lo scorso anno ho fatto pasqua su una spiaggia del Tirreno a sud di Roma, in compagnia di<br />

comuni amici. Uno di essi ha una meravigliosa bambina che scrive il proprio nome largo largo con la manina<br />

sinistra ed è puntigliosa, inquieta, molto sensibile. La mia tensione a un rapporto pedagogico (nata da una<br />

proiezione paterna del mio essere orfano?) mi portò a stabilire una complicità con le sue lacerazioni affettive,<br />

per cui accondiscesi a giocare con lei, a divertirla (mai stato tanto buffo e paziente in vita mia!) ricavandone<br />

molta impressione dalle lalie, dagli umori, dalla forza creativa che la animava. Dimenticai il mio essere<br />

tolemaico, proprio del figlio, mi sentii padre a prestito (lo dico senza crudeltà) e quasi mi parve di dimettere la<br />

mia aria miope e astratta che suggerisce versi, sia pure stupendi, come «ahimè, la carne è triste…». In una<br />

parola: ero felice. Giocai, mutuando da una bellissima poesia di Giorgio Orelli, «a pestarci le ombre»; mi feci<br />

strumento della sua straordinaria capacità fantastica. Nacquero versi, entro il tiro della grazia, pieni<br />

d’attenzione per lei e, per me, quasi di gioioso presagio… […]<br />

F. <strong>Benzoni</strong>, Lettera a Stefano Simoncelli, febbraio 1979, “Sul porto”, 7, pp. 15-21, poi in Postumo a me stesso. <strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong> tra vita e poesia, a cura dell’associazione <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong>, Pàtron, Bologna 2004, p. 264.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

13


Da La casa sul porto<br />

Poesia di figlio<br />

Ancora intride storti rami la memoria<br />

che a me paiono eterni e sono solo - dici -<br />

piccoli fuochi dove la vita è rada e calva.<br />

E il mio amore - tu sai: l'estetica prigione -<br />

non sarebbe amore: nient'altro che vaghezza o<br />

un'ossessione di figlio, un petalo o un odore senza<br />

il paterno stelo combusto.<br />

E in me il dolore (la sorte)<br />

un ambiguo desiderio di morte o vocazione<br />

del mio narciso infantile. E tu no invece:<br />

di stagione in stagione ti dai effimera e assoluta.<br />

Il vento ti tormenta che di lune adombra il viso<br />

ma il chiaro ti ridà un sorriso quasi di sole su<br />

i terrazzi d'antiche viole.<br />

E i ricordi no, piccoli<br />

fuochi - dici - detriti d'altra vita, slittati: tu opponi<br />

la tua e viva se pure a me sfuma in poesia.<br />

Dunque sono solo un figlio, enfatica radice<br />

e in un soliloquio grido bellezza, insensibile alla vita<br />

vera, all'infinita stagione e aspra cui il vento<br />

reca tristezza (le tue dita l'ombra) ma il sole<br />

dà nuovi amori e perfida dolcezza.<br />

E freddo<br />

e tedio in me la pace tua, il decoro<br />

e poco più d'un'ebbrezza l'amare - per te anche<br />

fui figlio: m'hai dato amore in cambio<br />

di stranezza.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

14


Da La casa sul porto<br />

La casa rossa<br />

Non c'è più la casa rossa dov'era sfollato<br />

mio padre e mia madre quasi in un presagio<br />

spiava la morte. Pure quanta vita ancora<br />

e voglia di crescere per gioco con un bambino!<br />

Dante Arfelli era un giovane e sapeva l'inglese:<br />

vennero gli alleati e sorridendo accendeva le sue lukystrikes...<br />

Quando vidi «Accattone» da una cabina di proiezione<br />

- poca gente in sala e un'idea di benessere ai piedi<br />

nelle scarpe all'inglese coi buchi - ero appena ragazzo,<br />

piangevo. 'Gisto l'operatore, ma vieni domani - imprecava -<br />

che danno i cowboys... Fu il mio modo<br />

di sentirmi comunista, sentendomi controluce.<br />

La prima ragazza che ebbi io non l'amavo.<br />

Ma aveva i seni duri sotto il grembiule di scuola.<br />

Fu un pomeriggio ai campi. Arrivammo nel sole<br />

in bicicletta: ricordo un odore di lacca e di sete, d'ascelle.<br />

Il batticuore mi seccava la gola. Sapevo di ridere male.<br />

Lei era svelta e triste se diceva «mi ami?».<br />

Non c'è più la casa rossa e vivere è ormai necessario.<br />

Arfelli scrisse «I Superflui» che io ero dentro mia madre.<br />

Adesso che ci parliamo e so quanto sia chiuso quel libro<br />

e agro, cosa fu la vita - mi dico - quegli anni<br />

di mia madre e di me, dentro di lei, un'estate<br />

del quarantotto. Come un romanziere allora<br />

vorrei fingerla morta...<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

15


Dall’“Almanacco dello specchio”<br />

Delle nuvole<br />

Quale nuvola?, ovvero sensuosa - nebbia<br />

a banchi. Dal molo. Poi dissolvendosi<br />

di tra nubi arrembanti una luna ecco<br />

afasica torva, di libeccio. Vortici in odore di burrasca.<br />

Ma dormi dormi come i ragazzini che sognano neve<br />

l’indomani al risveglio con il latte caldo versato<br />

da gorgoglianti bricchi in madide cucine via<br />

stropicciando dalle ciglia chi sa che penultima<br />

voglia, l’ultima ai vetri schiarendo già.<br />

(Ricordo un lattaio dalla faccia triste, livide<br />

le dita maneggiando i misurini: dai campi paludato<br />

veniva<br />

come un babbo natale increscioso - infanzia<br />

nauseosa).<br />

Chi sa i tuoi di ricordi, ma sarà neve se dormi e se mai<br />

mi sognassi partire, grida forte che ti senta<br />

dal piano di sopra con la rammemorante arpia<br />

azzuffandomi.<br />

Tuo il partire che di più sconcerta, senza bagagli,<br />

d’assoluta<br />

Meschinità - e quando l’inverno morde rincarando<br />

l’ombra della sera, un vestito pare ti si cucia addosso<br />

per l’eterno.<br />

Su questi cedimenti ho edificato un allure. Ma…<br />

parlavo di nuvole? Affabulanti le amavo sfibrarsi<br />

in trasparenze corrusche se di là dai campi un<br />

crepuscolo<br />

Arrubinava - non sembianze - nomi recavano, che<br />

so, la nuvola ivana, la nuvola<br />

Chi può viverne senza,<br />

Pupattole se giovinezza ti lascia e degli amici non odi<br />

come da conchiglia o corno che smemorate<br />

agnizioni.<br />

Più grigia delle altre e più rosea càpita<br />

d’amarne una più delle altre non so<br />

per che venticello d’un soffio calamitante<br />

una passione spiegazzata di ricordi - fa’<br />

s’involi rapida con la giovinezza, riappaia<br />

la nebbia con l’orecchio dritto ai sotterfugi,<br />

e tu dormi dal buffo nomignolo grida<br />

ché un patire alle nuvole fuggevolezza insana.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

16


Da Notizie dalla solitudine<br />

Compleanni<br />

Ma oggi arrivano notizie dalla boîte<br />

- oggi ch'è il mio compleanno e un sole<br />

appena redivivo si sfa in un valzer di nebbia.<br />

...Ah dunque stai bene<br />

e quanto fu di noi, l'allegria<br />

l'ira, in ricordi non più agili, cauti fin quasi...<br />

Oh io tra non molto uscirò<br />

dove più langue il paese in una caligine<br />

torva di biscazzieri, monologanti.<br />

Però ricordo le nostre biciclette un giorno<br />

e i girasoli - oggi ch'è il mio compleanno e<br />

radendomi ho rivisto allo specchio i capelli che pettinavi tu.<br />

Acquarola una sera<br />

a Nicoletta<br />

Nel freddo pendevo dalle tue labbra,<br />

una sera fredda di novembre ti lasciavi sognare<br />

una primavera ventura nel verde<br />

troppo verde delle colline...<br />

Spiritello sfuggito dalla pipa<br />

di monsieur hulot,<br />

lungo il sentiero fino alla casa<br />

di un inguaribile cerchio famigliare,<br />

sparivi stretta al mio fianco<br />

in una gloria di passero feroce.<br />

Il verde d'Acquarola a specchio<br />

delle tue meraviglie sanguinava<br />

tra una foschia odorosa e uno spasimo<br />

agro, d'infanzia bruciata, asfissiante.<br />

Troppo un gelo ha incrudelito<br />

per non vederti ovunque, tenerezza...<br />

A un verso di troppo, evanescente,<br />

gelida una luce retroattiva<br />

fa d'ogni azzurro di memoria strame<br />

rimasuglio.<br />

Purché domani sia l'amicizia un sempreverde<br />

- storna quest'ombra, ammetti la tua<br />

caparbietà di saltimbanco e<br />

all'amore accorso d'estate<br />

(un'estate cagionevole agra)<br />

l'inguaribile verde degli occhi. Qui<br />

dove un mare scompare<br />

e la stella per sempre scompare<br />

del più tenero amico.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

17


Da Notizie dalla solitudine<br />

Cielo di notte<br />

Sognato il libro con una forcina<br />

dov’erano le forsizie, hai spento la luce.<br />

Sotto un corno di luna lustravano<br />

inalveando capelli le scapole.<br />

Avrai avuto l’età implume,<br />

vaga di giocare a un massacro<br />

d’efelide - l’alba<br />

ci avrebbe illividiti a un duetto<br />

d’effimeri, palpitanti soprusi…<br />

Allora mentre dormivo sognai<br />

in un treno una giovane donna,<br />

una bambina<br />

di tanto mare fattesi azzurre che andava<br />

vaniva precipitando i binari.<br />

Notizie dalla solitudine<br />

Dove ti tenevo sui ginocchi<br />

e appena fuori ti perdevi<br />

nel doppio giro del mio mantello,<br />

peggio dei topi i libri l’ira<br />

dei deportati hanno flagellato.<br />

A Ilse<br />

Un’aria di neve un mattino<br />

qui<br />

All’altezza del vecchio dazio: pescherecci<br />

Emaciati sconciati intonaci; e i gabbiani.<br />

Il solito déjà-vu tra inverni<br />

e funesti gentili gerani alle finestre…<br />

Un pessimo idillio - mi dico - disorientato<br />

qui a ritrovarmi esitante<br />

con quest’aria di neve con la vanità<br />

puntuta scorticata dai ricordi…<br />

Potevo morirne, ne sarei morto<br />

anche prima delle morte foglie,<br />

Una livida estate accecante.<br />

Ma il non più vago l’astioso già<br />

scompaginarsi delle stagioni, lo sperpero<br />

della «strana gioia di vivere»<br />

- arpeggiante districò una voce<br />

forse di bambina, nel cuore dell’estate.<br />

Prima del marcio delle foglie.<br />

Dei non più teneri strazi un mattino<br />

di lei in attesa esitante<br />

qui, dov’è precipite il cuore.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

18


Da Fedi nuziali<br />

Viale dei Mille<br />

Dunque di nuovo qui,<br />

le stesse imponderabili stanze<br />

lapidata l’infanzia dilapidata<br />

e i nomi le voci e quanto di una vita<br />

smottando duramente si ravviva.<br />

……………………….……………....... Da qui<br />

da un terrazzo fiorito ventilato<br />

mortalmente intravedo<br />

tra due siepi infine del medesimo pitosforo<br />

del tempo passato e derisorio<br />

il guizzo bruciante del gabbiano - l’angelo<br />

o il sembiante che additava<br />

lo sfacelo del volo e l’allegria.<br />

Elegia del congedo<br />

Solo adesso potrei dire<br />

che l’inverno rifonde<br />

tenendole per sé le memorie.<br />

Sarà per via della neve.<br />

Dei freddi fiori<br />

spettrali eppure fiammanti.<br />

Sarà per la bruma che ci distolse<br />

dall’adulterio dei fiumi e delle gemme<br />

gelati nelle pupille prima di uno sparo.<br />

Sottovento<br />

Anche tu l’hai veduto<br />

svenarsi l’inverno in avvisaglie<br />

roseogialle o<br />

più crudamente verdi - scomporsi<br />

a non meno marcescibili idillî<br />

di novità tardive presto<br />

redivive ai ricordi come un cancro…<br />

A presto a presto<br />

- lo si dice ai più cari, congiurando<br />

equivocando sul tempo neanche fosse<br />

il sottosuolo d’una pagina la<br />

carnalità infrollita del naufrago.<br />

(Presto ritornerà e i suoi ghiacciai infanti.)<br />

La primavera che pallidamente giganteggia<br />

lunatica sempre adorante<br />

le tue reliquie nel tinello ha una sovranità<br />

………………………………….…... spossante.<br />

… Sarà che ormai al tuo fianco<br />

turbato m’incammino a un repentino<br />

vezzo della mimosa della morte.<br />

Maggio ’86<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

19


Da Fedi nuziali<br />

I morti amici<br />

Ben presto verranno a sapere<br />

(tu forse dimenticando...)<br />

la solitudine cos’è se disarma<br />

in un sopore d’animule.<br />

Ma saranno mai soli, sapranno<br />

mai cos’è una passione?<br />

Dondola a un vento il canale,<br />

e tu che ringhi<br />

andrò via, me ne andrò<br />

- lo so: non ci credono.<br />

Qui sepolto ti vedono, solo,<br />

con l’arroganza d’averci creduto.<br />

1985<br />

Se una poesia<br />

Se una poesia non è mai compiuta<br />

ma soltanto abbandonata<br />

dovrò rivederti a prestito<br />

supplicarti come da una grata.<br />

Altra guerra<br />

a Vittorio<br />

Rideva con tutta la nicotina della guerra,<br />

delle minute possibili catastrofi<br />

di una guerra girata altrove.<br />

Non l’amore gli faceva torto<br />

se un fiume fulgeva o un amico<br />

ma uno sgarro di devozione<br />

alla gioventù: la vita girata altrove.<br />

I nomi dei fiori<br />

Tu eri tu brevemente e viva.<br />

Da ultimo bastava toccarti perché implorassi<br />

d’essere salubre solo per gli insetti.<br />

Lager<br />

Secca come una frustata<br />

volsi gli occhi quando il medico disse<br />

«a torso nudo».<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

20


Da Fedi nuziali<br />

Cattività<br />

T'allontani in uno scatto<br />

di fianchi lussuosi a me lasciando<br />

di caffè in caffè una congettura<br />

d'improvvisi malanni, la tortura<br />

dei conciliaboli dolciastri.<br />

Nell'attesa non mi rimane<br />

che medicare i patemi carezzando<br />

un cane assaporando<br />

di mestizia in languore una fame<br />

di prigionia e abbandono.<br />

Quella rissa<br />

Un ultimo agguato di gioventù.<br />

Tramandati questi versi già - la cosiddetta ispirazione<br />

a memorie letterarie e non da uno<br />

che manca, non c'è più.<br />

E un vento intanto a raffiche<br />

incandescente sbriciola simulacri o<br />

(più teneramente) animule foglie<br />

di sé vaghe, strazianti.<br />

... Non fu mai un uragano.<br />

Lei lo sa lambendo i dintorni<br />

di pallide macerie palpando<br />

indumenti fragilità a malapena lancinanti.<br />

Infili strade di diserzione - cunicoli<br />

incolori lungo i viali<br />

penitenziali appestati dai fasti<br />

di una remota estate.<br />

Lo sa lei ammutolita<br />

raccapricciata presto a uno sparo<br />

a salve (la mia giovinezza?)<br />

con i suoi i suoi occhi.<br />

Dei due che colluttavano sul ponte<br />

(e uno non c'è più, manca, l'altro<br />

ha bianchi i capelli...)<br />

sarò io a cadere e insieme<br />

un dissipato sogno.<br />

Lei lo sa che infinitamente tace<br />

a un'ira inerte rimboccando<br />

il mio blaterare la lisca<br />

- raffica un vento al desolato sogno.<br />

Insonne<br />

Nel miraggio dei viali a notte<br />

quando la città sprofonda irraggiando<br />

una tenebra di volti<br />

- tra stipite e sgomento allora<br />

sei tu che m'ascolti<br />

o qualcuno prega inascoltato?<br />

Ma può essere di tutto<br />

quando non ci sei - un vago<br />

di tromba e la burrasca irrompe.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

21


Da Fedi nuziali<br />

Di giugno<br />

Altre calamità<br />

non sempre dicibili non<br />

miniaturizzabili sempre<br />

- e il sole a bruciapelo<br />

di un'estate irrompente soccorrendo<br />

tutto il verde delle robinie.<br />

Ma vedi come l'età aiuta<br />

a mitigarne lo sfarzo (lo spasimo)<br />

adducendo brividi in un poco<br />

d'ombra serale, vociferando<br />

piovaschi da una sventagliata<br />

bassissima di rondini...<br />

Così un inverno è divampato<br />

e i suoi bracieri gelandosi<br />

in un marmo stentoreo - ma<br />

non credere ai miei crepuscoli a<br />

un infortunio d'amore, tu sai<br />

non esiste grazia senza l'orrore.<br />

Occhi di I. M.<br />

Ma se un vento porta via i tuoi occhi<br />

approssimandosi la marea<br />

dei funestanti vivi<br />

non credere ch'io manchi<br />

di coraggio e ancora<br />

non possa intravederli nel mezzo<br />

di morte meduse e incandescente sabbia.<br />

Ma non questo<br />

non questo solo intendevo<br />

sotto una pioggia di rondini<br />

estive in uno scialo di cielo acuto.<br />

... O davvero mi disarmo<br />

se solo li socchiudi<br />

e la maturità dei colori avvampando<br />

sovrastando mi ricaccia<br />

sotto altre piogge prima del tuo sguardo<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

22


Da Fedi nuziali<br />

Dormiveglia<br />

Ma taci per sempre non ripetermi<br />

che non questa è la vita<br />

dubitosa sempre a metà<br />

tra un temporale e una tenerezza.<br />

Lascia che a funestarmi sia un'iride<br />

con gli occhi verdeagro di lei incruditi<br />

e un torbido di marcescibili amicizie...<br />

Non so non importa se l'autunno<br />

con la sua larvalità<br />

arrubinata potrà trafiggermi<br />

- sul baratro di quale<br />

vertiginoso più definitivo inverno<br />

... Ma vi sia un attimo di grazia<br />

di non voluttuosa pietà<br />

non nel dolore solo ma nella malattia<br />

di sentirsi per sempre fuori della grazia.<br />

Caffè altrove<br />

Pare che nemmeno sia morto.<br />

Allarmato se mai ad aspettarmi<br />

mentre fuori d'un caffè nevica.<br />

E non la finiamo più<br />

in una fatalità improvvisa scansando<br />

dettagli e fedeltà trucidate di ridere.<br />

E tutto questo è tenero perfino<br />

ma il punto vero è dove congedarsi.<br />

... In una Milano<br />

soleggiata<br />

o in una stazione a Luino<br />

dove i treni fanno una spola periferica.<br />

Ma è più probabile non nevichi<br />

e uno sconosciuto una notte incamminandosi<br />

salutasse<br />

mentre fuori d'un caffè l'Europa<br />

o la mia Cesenatico non erano<br />

che una spoglia svuotata del suo orrore.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

23


Da Fedi nuziali<br />

L’inverno dell’altro ieri<br />

Ricordi<br />

l’inverno dell’altro ieri?<br />

Il nostro primo di fedi nuziali…<br />

Magra di risa e ossa<br />

tra un plenilunio di denti e l’agra<br />

sterminata malinconia<br />

di un’alba perturbavi<br />

- davi al paesaggio una sua berceuse<br />

di tiepidi bronchi e congetture<br />

primaverili.<br />

Ma a volte m’illudo che tu almeno<br />

o meglio – egoisticamente:<br />

vorrei che tu non avessi memorie.<br />

Tenerezze terribili<br />

Luglio ‘86<br />

Specie se da giorni e giorni piove<br />

tanto da dimenticare<br />

come irresistibilmente un vicolo lustra<br />

in un piangente chiarore,<br />

non t'abbigliare di un tremito.<br />

Manchi il sole o no l'insensatezza<br />

ha fatto di noi due una tenerezza<br />

postuma; una ciocca ritrovata.<br />

Devozioni<br />

1.<br />

Sarà un sentimento ma presumo<br />

d’inverno morire.<br />

Toglimi gli occhiali controlla<br />

chi ha un piede zuppo nella neve.<br />

2.<br />

I fiori mi piacciono<br />

bianchi soprattutto se tuoi.<br />

Non posso vederti senza inorridire.<br />

3.<br />

Mi è capitato altre volte.<br />

Ma senza occhiali non distinguevo<br />

la figura scorporata<br />

che raccoglie una manciata di terriccio.<br />

4.<br />

È così che ci siamo conosciuti.<br />

E dire che quel pugno di terra<br />

era per tuo nonno, non per me.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

24


Da Dieci poesie in L’anno di poesia 1990 - 1991<br />

A cura di Roberto Mussapi (Jaca Book, Milano, 1991)<br />

Morgenstimmung<br />

Il tuo canto che tutte riempì<br />

le mie boies<br />

è morto e s’ode<br />

da una camera verde -<br />

là<br />

rovente frusta una forsizia<br />

rimorde con le scorie<br />

di una passione - l’amaro<br />

d’averti se non ci sei.<br />

I tuoi ieri<br />

e i miei lungo rotaie<br />

di cani straziati e epifanie<br />

di linguaggi decrepiti - sono<br />

tra noi invisibili come cancro<br />

e torturanti.<br />

A questo penso<br />

tutte le volte che fai progetti<br />

di una salubrità minima,<br />

infantile incomparabilmente<br />

quasi funesta nel tuo sorriso.<br />

A tutto questo penso ma non serve<br />

da comignolo a stella a ventilare<br />

la grazia rattrappita delle veglie.<br />

Ci sforziamo di invecchiare<br />

rivangando un orrore che mai<br />

mai più potremo forse da vecchi.<br />

L’inverno che verrà<br />

Rivedrò una cartella di versi;<br />

se adagio nevica salirò<br />

i tuoi gradini fino a una cucina<br />

d’oppio famigliare.<br />

Ma dimmi piuttosto che ci sarai<br />

per troppa dedizione o febbre<br />

di una pagina bianca dilaniante.<br />

Il mio gelo<br />

No; non scriverò più madidi<br />

versi che durano fino all’alba,<br />

poi da buttar via.<br />

Ma nemmeno più sedermi credo<br />

con il dolce assenzio in un caffè<br />

inopinatamente gaio se<br />

la bruma sprofonda<br />

dove s’azzurra un mare.<br />

I tuoi agri zigomi spenti<br />

in un amen -<br />

ne verrò fuori da un rogo<br />

di addetti a vivere comunque<br />

per desolazione o sconforto.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

25


Da Numi di un lessico figliale<br />

Queste foglie<br />

Queste foglie - mi dicono - spazzate<br />

via scialbe tramortite sarebbero<br />

un tumore dei platani e non<br />

un fortunale di fine estate…<br />

Non so ma è tardi per rinvenire<br />

troppo tardi nei capelli<br />

radi di una madre una speranza<br />

trepida e combusta.<br />

Lasciatemi<br />

a malincuore stropicciarle<br />

irridendo o no una tempesta<br />

Requie sul fiume<br />

Per un amore forse<br />

fervido e agro non ti rinneghi<br />

alla frusta degli zigomi quando<br />

d’odio ti parlerebbe e tu<br />

di un’estate che non c’è più troncata<br />

come un miraggio in riva al fiume.<br />

A mala pena<br />

Armato da sempre contro me stesso<br />

- (dal tempo di una cometa<br />

celeste cagionevole) - versi<br />

mi tenterebbero tipo<br />

«da morirne un vento»...<br />

Ma poi come tutta si dirada<br />

la chiarità (lo sprofondo)<br />

e un crocchio di figuranti<br />

mi fa sentire d’essere carnefice<br />

in una tritura di madeleines amare.<br />

Il mare<br />

L’ho visto per la prima volta<br />

fuggendo da un riformatorio.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

26


Da Numi di un lessico figliale<br />

Maman<br />

L’ho vista l’ultima volta al cinema.<br />

Verbale<br />

(redatto da un flic)<br />

Sono scappato con Doinel.<br />

Anch’io volevo vedere il mare.<br />

Ma già l’avevo visto e era un film<br />

dalle parti di Pigalle.<br />

Mio padre faceva l’operatore.<br />

Era un mare triste e mi faceva pensare<br />

a un azzurro capovolto<br />

o a un vestito di quelli<br />

pieghettati che portano le signore<br />

alla domenica per andare a messa.<br />

(a Fortini)<br />

Liberarmi dalla letteratura<br />

è la mia voglia - potessi<br />

svegliarmi dov’è più verde<br />

il grano e (pianissimo piano)<br />

desolata<br />

un’ epopea dei volti.<br />

La luce del sole alla finestra.<br />

Un piancito di scaglie di mare che s’apriva<br />

dopo un volo bocconi...<br />

Au ralenti non finiva mai<br />

non finiva mai quel tuffo<br />

passato e ripassato nella mente,<br />

coccolato, covato; implume.<br />

Hai un bel dire cammina<br />

(alla malora le giunture!)<br />

- sforzati tra la folla che infestava<br />

viva appestava cunicoli<br />

di sedimentazione e delirio.<br />

Ma come si fa - dimmi - a zoppicare<br />

dopo gli angeli, barattare<br />

una larva di sole alla finestra<br />

con le gemme che spurgano dai rami<br />

il fiato del fieno fradicio<br />

- e quei vetri marezzati<br />

solo ieri composti in un amoroso gelo.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

27


Da Numi di un lessico figliale<br />

Leggevamo Benn<br />

Quella boucherie di forsizie e d'anime<br />

noi la rileggemmo<br />

nel tuo tedesco da nenia roca<br />

in un mezzo secolo che ci veniva addosso.<br />

Avevamo anni da ardere:<br />

ricordi a bruciapelo-gabelle<br />

di vegetazioni fulminanti.<br />

Ci conoscemmo così spasimando<br />

in una deriva di lenzuola<br />

a brani<br />

che un vento non ha più spento.<br />

Verso il venti d'aprile<br />

Precipitando allucciolava la Senna.<br />

Prima dei suoi corvi d'abisso.<br />

Con uno spolverìo di neve<br />

che c'era o no furiosamente<br />

scrosciando in acquitrini.<br />

Ma un fardello c'era galleggiava<br />

tra tomaie e pastrani<br />

- o fu solo un cauchemar giù<br />

gettarsi<br />

la morte in auge come un'elegia<br />

sig. Paul Celan<br />

Incontro col padre<br />

E infine a noi due<br />

percossi da uno stesso male:<br />

tu con la tua sepoltura<br />

tacita in un'alba attonita -<br />

e io che per vincere<br />

(per vivere!)<br />

dovrò sprintare bruciandoti<br />

in un fotofinish di gregari svuotati.<br />

L'ombra del duellante<br />

(a C. Alveti)<br />

Con la tua aria da ragazzo<br />

vecchio passato per via Quadronno e campi di calcio,<br />

tirato il sorriso di chi resta<br />

in panchina e vorrebbe accidenti<br />

là sul prato come un angelo<br />

beffare la sorte -<br />

risse ti scalfivano di spasimanti<br />

controsole casacche rossoblu ma<br />

eri tu eri tu il clandestino che imbucava<br />

gli spogliatoi sulfurei, fuggiva.<br />

E da allora, Carlo, fu il silenzio<br />

blando delle domeniche rasoterra<br />

e lacera una tosse, lisa - l'ultimo<br />

disperato tuo alfabeto Morse.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

28


Da Numi di un lessico figliale<br />

Giovanna e le civette<br />

Un venticinque di luglio in<br />

coincidenza con l'elegante malinconia<br />

della sera si tacquero<br />

ritraendosi reclinando sui<br />

pavidi steli i fiori.<br />

Composta tra le civette, freddata<br />

del suo azzurro, fiaccata<br />

- ricongiunte le mani troncate come due<br />

asfodeli due<br />

enjambements -<br />

un odore presto di<br />

mattatoi varecchine tanto che<br />

bussai tremante ribussai<br />

a una camera accanto.<br />

Di un lindore canforato stecchito<br />

nauseoso quale hanno i morti.<br />

Platani pettinati a rovescio<br />

onde riverberanti amaranto<br />

sul foglio tuttavia fiammante<br />

ma in una premorte di stremanti derive.<br />

Due barche stanno immobilmente nere,<br />

due barche in panna in mezzo all'infinito.<br />

Addio addio<br />

rimasto in garitta a perlustrare<br />

una camera immemore<br />

vuota in me romita<br />

nel vento nel forte vento che torceva<br />

la ressa in segreto<br />

delle anime polverose; gli scoppi<br />

esangui dei mortai sulla spiaggia.<br />

Non più bengala. Combusti gli stoppini.<br />

Fondali anatomici in cui<br />

anni addietro mi ravvisai espunto<br />

a metà tra Metrica e Sibilla.<br />

E tu. Graffito secco a perpetuarti<br />

Giovanna,<br />

con la maestà di una cripta in cuore.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

29


Da Numi di un lessico figliale<br />

Terapie del meriggio<br />

In controluce la clessidra<br />

goccia a goccia svuotandosi<br />

martellando silente nelle vene<br />

- tese l’orecchio alle campane ai<br />

treni secondo il vento al dum<br />

dum delle grucce e (reiterato)<br />

allo struscìo di quei palustri.<br />

Uniformemente agglutinatasi<br />

nel ronzio postremo di una cicala spersa.<br />

Notturni con psiche<br />

Legato con le cinghie<br />

Un asciugamano di spugna tra i denti<br />

per paura si tranciasse la lingua<br />

- fosse stato al Sainte-Anne<br />

ma quello scampolo<br />

d’uomo tremante dilaniato<br />

dagli sterminati lazzaretti dell’anima<br />

troppo rassomigliava<br />

a un soffio remoto<br />

a uno zampillo estremo d’inchiostro<br />

una stampella per puntellare le ombre:<br />

rassomigliava troppo a mio padre.<br />

La cerimonia<br />

Sento un canto lontano che muore e rimuore.<br />

Scostati da me madre mia.<br />

E tu, sorella, porta via ogni residuo d’inchiostro.<br />

Non la bianca pagina dolente, dolcissima. Implume.<br />

Per una volta genuflessa; mai caritatevole.<br />

Eccomi. Giacendo nel sonno ascolterò la neve.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

30


Da Canzoniere infimo e altri versi<br />

Ormai conosco l'agonia dei pitosfori secchi<br />

e la notte fallimentare che di luci barcolla<br />

sul vascello pirata del mio cuore. Ah,<br />

il vaniloquio è triste, e la luna<br />

pallidissima falce di strega! Potessi<br />

curare una figlia e senza più cometa<br />

questa vita che non ti muore mai,<br />

m'ascolteresti sillabare piano sussurrare<br />

l'amore di rosa che non so più amare.<br />

Ma ho troppi morti nella vita e fondi<br />

per non credere al ghigno dei fantasmi.<br />

Azzurra e fosca<br />

II mare è quella cosa azzurra e fosca<br />

che tu e io navigammo un giorno<br />

e altri incanti poi, naufragi e tenerezze<br />

a noi sparendo torbidamente avvolse.<br />

Non reciti più «mi sento idiota e stupidosa» e io,<br />

io (è sabato) più oltre sparirò nell'agro del mio cuore.<br />

Berrò vino a frodo fra i vapori e ancora<br />

sospirerà mia zia, dirà «porti su le gocce?».<br />

Più non vivi di me l'iddio e la rabbia, quel sogno<br />

(ricordi?) di topi in soffitta, di cartone e travi.<br />

Altri sogni ormai ti faranno stornare ma<br />

azzurro e fosco il mare (l'amore) perché<br />

non muore mai - quella cosa che eri tu sola in me<br />

tanto vasta, troppo, elementare.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

31


Da Canzoniere infimo e altri versi<br />

Confessioni per un autoritratto<br />

sui muri in fuga delle vecchie case<br />

il vento perlustra i rovinosi crepi,<br />

la calce viva, la muffa vile infradicita.<br />

Qui ho vissuto e un male d'ombre ha attecchito<br />

qui devo finire con la mia sete intatta.<br />

A ingigantire è una segreta ombra che avanza<br />

defilandomi: io vivo di profilo.<br />

.......................................................Dell'amore<br />

amo la mancanza di libertà l'infinito<br />

possesso, l'oscura cecità soave. M'angoscia<br />

il viscido muschio che gli amanti schiumano<br />

quando il riso muore con la carne ed è carie<br />

la dolcezza, una sbadata bava. Così<br />

la pelle tua franta a febbraio al muro di una<br />

casa dalle marcite gronde.<br />

(Intenerire era sapere più a fondo di più<br />

l'effimera ferocia della mia verità).<br />

Ah, non lo dice l'amico ma in silenzio<br />

preferisce i miei versi notturni, l'acre<br />

elegia dei risvegli tristi in periferie<br />

desolate dove a pena s'ode tarlato<br />

un limpido canto raschiato come la voce<br />

che in dissonanze a volte mi si screzia.<br />

Nulla più del suo affetto m'addolcisce<br />

tenace come di ragnatela ai piccoli soffi<br />

di chi spegne fiammiferi al buio.<br />

A lui questi altri versi dedico tracce<br />

di devozioni nuove nuovi ardori rinati<br />

su quel campino dove tra le maglie rosse<br />

e furenti dei giocatori a moscacieca giocava<br />

ridendo la mia docile follia d'essere al mondo.<br />

II mattino color seppia un sogno.<br />

Ah sì, Stefano dribblava i bambini e Carla,<br />

la occhiazzurri, guatava come una stella mancina.<br />

Nella scuola fra i campi, era maggio, la rosa pungeva...<br />

Ma poi la bidella nera suona la campana; e ecco<br />

s'apre il giorno simile a un lago<br />

inerte, di stagnola. Infine non mi sfugge<br />

impettita chi traghettasse nella galleria nel buio.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

32


Da Sguardo dalla finestra d’inverno<br />

Notizia d’addio<br />

- «<strong>Ferruccio</strong>, <strong>Ferruccio</strong>»…<br />

Dal tuo profilo spigoloso<br />

di grazia il pigolio.<br />

Odoravi d’ascelle. Di bucce<br />

di mele aspre, lisce.<br />

Assonnati gli occhi in prestito<br />

un giorno solo alla terra.<br />

- «<strong>Ferruccio</strong>, <strong>Ferruccio</strong>»…<br />

Aspettavi tra i binari ridendo.<br />

Ridendo fuggivi in una folata<br />

lumescente di liquidi vetri.<br />

(Sia pure su un treno spettrale, sparisti).<br />

E io (io) non così vecchio, roso<br />

dallo sconforto, dall’ebbrezza di<br />

un giorno rivederti.<br />

Oltre la porta, nella sera<br />

strofinata di fiammiferi<br />

il tempo franava aizzando<br />

un etilismo di rimpianti.<br />

Aspettavi fra i binari ridendo<br />

... Ridendo fuggivi in una folata<br />

lumescente di liquidi vetri.<br />

(Sia pure su un treno spettrale, sparisti).<br />

E io (io) non così vecchio, roso<br />

dallo sconforto, dall'ebbrezza di<br />

un giorno rivederti.<br />

Oltre la porta, nella sera<br />

strofinata di fiammiferi<br />

il tempo franava aizzando<br />

un etilismo di rimpianti.<br />

T'avviluppi, t'accartocci.<br />

Tra lenzuola guanciali scialli,<br />

attorcigliate le ciocche, arse<br />

da una fiamma calma.<br />

Bocca e labbra balbettano<br />

non soppesate dalla bocca né<br />

disciolte dalle labbra.<br />

Non ad altro pareva nata la sera<br />

temendo di turbarli<br />

ninnoli forse i tuoi capezzoli.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

33


Da Sguardo dalla finestra d’inverno<br />

Cosa c'è tra questo paese e me<br />

(tra questo involucro)<br />

che tacitato infine non sia<br />

confinato dentro un cortile.<br />

Immagine io stesso di una camera<br />

(piccola morgue di febbricole)<br />

chiusa dal di dentro.<br />

Invece d'un vetro una crepa - stucco<br />

sui ragnateli dell'intonaco.<br />

Ma l'anima costipata tossisce,<br />

specie di notte, non so se d'amore.<br />

Un dubbio<br />

Non ho risorse abbastanza per sentire<br />

(non orecchi mani olfatto gusto)<br />

se qui, in questa mucosa, il filo<br />

di ferro del tuo corpo non<br />

trafigga - intriso nella tenebra<br />

dei trapassati – la bestia il<br />

cancro che il cuore può patire<br />

quando dormi miniaturizzata e<br />

bleu mourant è il nome dei colori.<br />

Il muro dopo<br />

Ho curato le passioni<br />

segrete, i picchi d’ansia minimali<br />

tra il calorifero e il letto<br />

presso una finestra -<br />

stupefatta una eco rimandava<br />

della sazietà del mondo…<br />

(Pure un plenilunio mi sorprese<br />

o fu di lei un miraggio, di lei<br />

nella prostrante clausura?)<br />

Ma nemmeno importa claudicando<br />

sul piastrellato in attesa<br />

del colpo di spugna, di qualcosa<br />

d’eternamente senza ritegno più.<br />

Resta una matita tra le pagine.<br />

Inchiostri interrotti a un capoverso.<br />

Non cambierà il paesaggio, o in peggio.<br />

Forse è tempo di giungere al faro<br />

struggere del suo baleno,<br />

rientrare prima che la notte<br />

revochi la certezza di vederti<br />

sfilate le calze cercare<br />

meno effimero un vuoto<br />

nel vuoto tra le braccia.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

34


Da Sguardo dalla finestra d’inverno<br />

Il figlio<br />

Altri da me dall’irrimediabile<br />

mio essere figlio<br />

quei nomi<br />

- silvia, barbara, mathilde<br />

mormorati amati<br />

non m’apparterranno<br />

al fondo - là<br />

una viola occulta profuma<br />

nell’acqua morta.<br />

Nella notte materna<br />

Sul ghiaccio tra i barconi torvo<br />

nella fumea lungo l’acqua nera<br />

(dormono i cani nei cuori e<br />

chi ricorda più che rammendi<br />

la sua anima)<br />

- «Vieni figliolo sul seno<br />

che tanto hai sospirato» -<br />

calda una nenia dilaniando.<br />

Anni di prostrazione e di reparto<br />

(…) Furono il mio lager tanto<br />

che venutone fuori (dimesso)<br />

d’ogni cosa ebbi paura:<br />

tornare tra la folla che si urta,<br />

le ombre surrogare nella mia.<br />

Da allora nient’altro che un<br />

romanzo l’azzurro<br />

non riferibile alle nuvole più<br />

larvali presso il tuo sonno<br />

nella camera del cordone ombelicale.<br />

Notti e giorni al riparo dell’esistere.<br />

E sfinimento seme riverberi<br />

d’abbracci<br />

allarmati da un treno, una sirena.<br />

All’alba (nella camera accanto)<br />

quando roca non senza grazia<br />

allo specchio ti ossidavi -<br />

secco un colpo di tosse (ematico?)<br />

un capogiro erano presagio<br />

di sconfessata vita un<br />

libera nos dall’estetica<br />

delle consunzioni domestiche.<br />

<strong>Ferruccio</strong><br />

<strong>Benzoni</strong><br />

35


Intervista a <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

36<br />

Di Gabriele Zani<br />

Quando conoscesti Vittorio Sereni?<br />

Quando ancora frequentavo il Liceo, a metà degli anni Sessanta, mi fu dato l’incarico di fare un tema<br />

sull’Europa, perché scrivevo bene in italiano. Io citai Sereni: «Europa Europa…». In quei momenti esistevano i<br />

Beatles, il suicidio di Cesare Pavese, e poi per me la meteora atroce di Pier Paolo Pasolini. Quei versi di Sereni<br />

io li sentivo profondamente. Cominciai a conoscerlo da allora.<br />

Poi siete diventati amici. Che uomo era?<br />

Timido, intransigente, ossessionato, di nostalgie e rossori da liceale o ex commilitone. Ricorderò per sempre la<br />

sua inquietudine, la sua scontrosa affabilità. E i silenzi, quei silenzi!… I suoi «sentimenti di colpa» nei riguardi<br />

della storia. Voglio qui pubblicamente alludere al suo sodalizio con René Char, di cui è stato il maggior<br />

traduttore, il grande poeta soprannominato Capitaine Alexandre durante la resistenza francese. Ecc. ecc.<br />

A proposito di Char e del Vaucluse: so che tu e Sereni ci siete stati insieme e, penso, i ricordi che conservi<br />

saranno molti. Puoi rivelarcene uno?<br />

L’appuntamento era «sul finire dell’estate» (cito Sereni). Per tre anni consecutivi (’80, ’81, ’82) sul finire<br />

dell’estate si andava in Vaucluse. Era una specie di patto d’amicizia, di tacita intesa. In Vaucluse tramite<br />

Vittorio ho conosciuto Char, ma, quale ricordo? …ad esempio che a Gordes ravvisammo in una turista tedesca,<br />

anzi, Vittorio ravvisò, nientemeno che Greta Garbo; seduti a un caffè stemmo in silenzio per un’ora ad<br />

adorarla, e lui, di tanto in tanto, interrompendo il silenzio, parlava della Greta cinematografica e di come<br />

quella sua generazione di poeti ne fosse stata folgorata, ad esempio il suo coetaneo Attilio Bertolucci.


Intervista a <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

37<br />

Sei stato anche in altri posti con Sereni? Vi vedevate di frequente?<br />

Sì, e ho visitato insieme a lui alcune città mito della sua vita e della sua poesia. Luino dove è nato. Milano dove<br />

abitava. Bocca di Magra (vedi Un posto di vacanza) tutt’ora abitata da Franco Fortini e un tempo da Elio<br />

Vittorini e, come si diceva prima, la Valchiusa, che egli aveva interiorizzato con felicità, Char o non Char. Perché<br />

Sereni era una persona fedele (la sua poesia lo rispecchia) ai luoghi e ai nomi. Non sono mai stato con lui in<br />

Egitto, altro luogo deputato, altro tòpos della sua vita e della sua poetica.<br />

È nota la passione di Sereni per il football. Ne parlavate mai?<br />

Sì, molto spesso. Era anche un modo per (al di là delle sue ritrosie) liberarci dai nostri lunghi silenzi. Tifava<br />

spudoratamente Inter e, guarda caso, abitava in via Paravia (quartiere San Siro) che è a pochi passi dallo<br />

stadio. Insieme abbiamo assistito ad alcune partite. Era un tifoso non per snob (troppi letterati ciarlano di<br />

calcio), ma passionale, enfatico, estremamente fazioso. Il suo amore per il calcio mutuato anche da quelle<br />

partite improvvisate tra prigionieri durante il periodo di prigionia. Ripenso Gli immediati dintorni.<br />

Ungaretti, Saba, Montale, Bertolucci, Char, Seferis, per dire solo alcune delle personalità ricordate da Sereni nei<br />

suoi scritti. Ne parlava mai?<br />

Mi ha parlato di tutti i poeti che tu mi hai citato; anche di altri. Ma in modo, come dire?, guardingo. Una<br />

eccezione per tutte: Saba. Parlando di Saba e di aneddoti della vita di Saba quasi si commuoveva, ne parlava<br />

insieme con ilarità e struggimento. Sono certo che l’ha amato molto.<br />

Cosa pensava della sua poesia? E della tua?<br />

Della sua poesia parlava di rado. Non tanto per quel «silenzio creativo» di cui hanno discorso i critici. Quel<br />

«silenzio creativo» altro non era che la pagina bianca sospesa tra ineffabilità e desiderio di perfezione. Quel<br />

silenzio per me corrisponde (alludo a una sua poesia) al colpo micidiale del figther che combattendo riesce a<br />

mettere k.o. un ostacolo, un avversario e/o avversità. Di me pensava, e della mia poesia, a un Saba, ma non a<br />

quello di Parole e Ultime cose; piuttosto al Saba di Trieste e una donna. In una lettera mi accostò anche, «per<br />

quanto diversissimi tra loro», a un Gatto e a un Pasolini.


Intervista a <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

38<br />

A quale poeta ti senti più vicino?<br />

Credo, per esempio, a Camillo Sbarbaro. Semmai lui preferiva la tempera e io la spatola, per immediate<br />

accensioni.<br />

Fortini, nella presentazione a Notizie dalla solitudine, parla per te di un linguaggio e uno stile «disseminato di<br />

citazioni cancellate ma leggibili ancora». È solo un fatto letterario? Non si può parlare anche di una matrice<br />

sentimentale?<br />

È una bella domanda. Io penso che letterariamente abbia ragione Fortini, perché come poeta mi sento di<br />

appartenere alla tradizione dei «maestri in ombra» (Sbarbaro, appunto) e, per dirla con Pasolini: «Io sono una<br />

forza del Passato...». Però c’è anche il momento sentimentale. Esiste una geografia interiore di nomi e di<br />

luoghi che vanno vengono ritornano come la marea nella risacca. Aisha, Ilse, la cagnetta Orazio, un tailleur<br />

azzurro che è irrimediabilmente mia madre; due stanghette in similoro che sono irreparabilmente mio padre;<br />

Sereni quando dico «È sepolto là sul lago l’amico.» …Luoghi, fedeltà, mappe e appuntamenti. Quindi hai<br />

perfettamente ragione se alludi a citazioni sentimentali, che posso pure dissimulare, camuffare, ma non posso<br />

non estorcere dalle mie verità segrete.<br />

Credi che la parola ispirazione abbia ancora un valore?<br />

È una domanda maliziosa. Ebbene, ancorché desueta, probabilmente la cosiddetta ispirazione esiste. Certo<br />

varia da poeta a poeta. Ma forse che oggi non esistono i bioritmi, valutando le prestazioni di un calciatore con<br />

il gel sui capelli che proprio non ci azzecca? Probabilmente esistono poesie più vive nel senso che in sé<br />

contengono altre poesie, o riuscitissime poesie nate morte, splendide e sterili allo stesso tempo.<br />

A mio avviso la tua poesia presenta zone oscure, zone che il lettore può riempire o meno…<br />

Non credo. Credo invece che la mia poesia implichi una complicità, una familiarità, una dimestichezza. Sto<br />

pensando a una Autobiologia (cito Giudici) probabilmente più spudorata e accorata.<br />

Da diversi anni sei considerato uno dei poeti più significativi che abbiamo. Fortuna critica?<br />

Fortuna critica; non tanto editoriale. Esistono dei poeti (miei coetanei) che pubblicano un libro ogni due anni,


Intervista a <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong><br />

39<br />

che si stroncano e recensiscono a vicenda. Non so come ci riescano. Io ho avuto dei lettori-critici come Orelli<br />

Raboni Porta Fortini Mengaldo Sereni e - ero più giovane - il nostro amico Renato Turci, Gatto e Pasolini.<br />

Lettori, come vedi, che possono avermi insegnato l’intransigente pazienza della poesia.<br />

Se ti facessi una domanda sulla morte?<br />

La morte è un po’, come dire?, una sorellastra di chi scrive. Gatto ha scritto «il vino dei poeti», ma a questo<br />

punto, non credi, potremmo stappare un’altra bottiglia…<br />

Certo, ma non ho più domande. Vuoi formulartene una tu?<br />

La donna che amo. Come vedi è qui al nostro tavolo. Non so per quanto, né per quale sortilegio.<br />

Cesenatico, giugno 1990<br />

L’intervista a <strong>Benzoni</strong> apparve dapprima su “libere carte”, n. 1, luglio 1990; numero interamente dedicato a<br />

Vittorio Sereni. La stessa intervista è poi confluita in Sereni e dintorni, Joker, Novi Ligure, 2006.<br />

Oggi è in: http://gabrielez.blogspot.com/2011/08/una-poesia-di-ferruccio-benzoni.html


Un ricordo in versi<br />

40<br />

<strong>Ferruccio</strong> di Francesco Scarabicchi<br />

Cancellerò per te l’ombra molesta,<br />

lascerò questa luce a custodirti<br />

ora che l’anno cede la sua voce<br />

da quest’ospite casa di dicembre<br />

alla beltà del dono che si perde<br />

nel silenzio notturno della nebbia.<br />

Distante dalla strada, dopo i passi,<br />

si consegna nel sonno dei bagliori<br />

a una quiete d’inverno che precede<br />

il chiarore crudele del mattino,<br />

le stagioni dei giorni, i nuovi mesi,<br />

sulla via senza nome che non torna.<br />

A te che leggi questi versi basti<br />

la verità che appare e si fa niente<br />

nell’inutile essere del mondo,<br />

. . . . . . . . .<br />

Sole di un sogno, neve<br />

fiato d’alba e di notte, aurora e buio<br />

lungo l’argine stretto dei passanti<br />

dove il secolo volta e andando lascia<br />

l’illusione del tempo a rammentarci<br />

questo esistere muto del presente,<br />

l’immagine di te che ti allontani<br />

nella luce di luglio pedalando.<br />

Da Il cancello (peQuod, Ancona, 2001)


voci


Misurare distanze, 2011,<br />

pastelli, olio e cera su carta, 23,5 x 15,5 cm


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

41<br />

«Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo». Di Danilo Mandolini<br />

L’incontro con un libro può avvenire a ridosso della prima distribuzione dello stesso, può verificarsi a distanza<br />

di molto tempo dalla sua uscita ufficiale o, come nel caso di questo mio con La donna d’oro di Cristina Babino,<br />

può anche compiersi nell’arco di più occasioni successive; di circostanze ripetute che restano come aperte, in<br />

qualche modo mai completamente definitive.<br />

L’ultima “fatica poetica” di Cristina Babino, apparsa nel 2008 per i tipi dell’anconetana peQuod, sorprende per<br />

così tante peculiarità, infatti, che dopo ogni lettura si sente quasi la necessità di riprendere in mano il testo e<br />

di affrontarlo ancora con la speranza - una sorta di desiderio inspiegabilmente rinnovato - di cogliere un altro<br />

elemento di autenticità oltre a quelli dai quali siamo già stati sedotti. Allo stesso modo, poi, è forte l’istinto<br />

che porta a voler “riascoltare” il volume ponendo l’accento proprio su uno di questi stessi e molteplici aspetti<br />

di originalità.<br />

Manuel Cohen affermava, in una nota apparsa on-line nel dicembre del 2009 [1], che La donna d’oro è «…un<br />

libro di rara fattura: raramente, almeno nella poesia italiana, la scrittura in versi ha affrontato la pittura e ne<br />

ha fatto il proprio nucleo ispirativo». Questo è già, in sé, un approccio “strategico” all’opera che denota i tratti<br />

della singolarità al limite dell’assoluto. Come si è però già accennato, sono molti i motivi che potranno farci<br />

ricordare in futuro questo lavoro in versi che Cristina Babino ha centrato sulla vita di Tamara de Lempicka:<br />

simbolo novecentesco dell’Art Deco’ e della lotta per l’emancipazione della donna.<br />

È impossibile dissentire, sempre riferendoci alla suddetta nota critica di Manuel Cohen, dall’analisi che ci porta<br />

ad osservare come l’autrice faccia sì che a parlare in prima persona sia proprio Tamara de Lempicka, che<br />

questa racconti, insieme, della propria vita e della propria arte (degli innumerevoli incontri vissuti) e che il<br />

risultato che si ottiene da questa “organizzazione” è un poema in versi imperniato sulla narrazione che<br />

diviene, a tratti, saggio (anche d’arte) e opera teatrale; un monologo in cui la misura controllata ed il ritmo<br />

incalzante dei versi definisce il tono, alto e drammatico quando serve, del racconto.<br />

Poema in versi, narrazione, saggio, opera teatrale e monologo - si è detto… Occorre qui specificare, inoltre,<br />

che ciò che a prima vista può apparire come una “semplice” appendice ragionata al libro (strettamente<br />

connessa,<br />

[1] http://rebstein.wordpress.com/2009/12/14/repertorio-delle-voci-v-manuel-cohen/


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

42<br />

connessa, anche se separata, con i nove capitoli del corpo principale dell’opera), e cioè quella parte finale in<br />

cui la Babino annota e cita - con dovizia di particolari storiografici - la Cronologia della vita e delle opere<br />

principali della pittrice protagonista del testo e i Principali riferimenti bibliografici, in realtà può intendersi<br />

anche come il decimo atto del monologo, come l’ultima e riepilogativa partitura della storia narrata. Questo:<br />

proprio nel contesto, evidentemente innovativo, della grande multi espressività (si potrebbe forse azzardare<br />

l’accoppiata di termini multimedialità letteraria) in cui La donna d’oro è immersa e considerando che, con ogni<br />

probabilità, l’intera opera è da ritenersi anche come la naturale conclusione di un lento e profondo processo<br />

di immedesimazione della Babino nell’artista russo-polacca figura centrale del volume. La voce della poetessa<br />

dei giorni di oggi che ci offre, non più in versi ed entrando lei direttamente in scena, i dettagli delle vicende a<br />

lungo studiate della vita intensa, fragile e forte della sua “musa/mito” sembra quindi essere, infine ed ancora,<br />

quella di Tamara de Lempicka.<br />

Marco Ercolani, fine narratore, saggista e molto altro, ebbe modo di commentare la nota di Manuel Cohen di<br />

cui in precedenza dichiarando: «… l’identificazione critica e poetica con artisti contemporanei è una via molto<br />

bella per fare NOSTRO il passato, oggi». Si torna sempre, trattando di poesia, al tema del ricordo, all’azione del<br />

ricordare… Se tenessimo in debito conto quanto appena evidenziato e se provassimo ad accostare, anche solo<br />

per un istante, l’imponente ed articolato lavoro svolto da Cristina Babino ne La donna d’oro (in questa breve<br />

presentazione solo accennato) alla frase che Giovanni Pascoli usò per introdurre i suoi Primi poemetti e che dà<br />

il titolo a questa nota, potremmo scoprire che un’espressione forse solo apparentemente troppo celebrativa<br />

come “poesia all’ennesima potenza” non risulterà, poi - a guardar bene, così audace da pronunciare.<br />

La donna d’oro, Cristina Babino, nota di Franz Krauspenhaar e disegni originali di Walter<br />

Angelici, peQuod, Ancona, 2008.<br />

La scelta dei testi che segue è stata curata da Cristina Babino e Danilo Mandolini.


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

43<br />

*…+<br />

IV.<br />

*…+<br />

Gardone, Il Vittoriale<br />

Milano fu pausa e riposo da meraviglie<br />

che troppe m’affollavano gli occhi, e<br />

sosta per rendere visita a Castelbarco<br />

amico e d’arte mercante che primo<br />

la sua galleria di soli miei pezzi volle<br />

occupare. Onori ed elogi riempivano sale,<br />

e l’allerta di sensi per quelle cinquanta visioni<br />

di nudi possenti, ritratti e modelli in miracoli<br />

plastici, Ritmo dipinto come canto sontuoso<br />

di corpi prestati da donne senz’arte né nome.<br />

I calici alzati in tripudio d’onore, tra<br />

tutti più in basso brillava quello in mano<br />

del Comandante: nemmeno fingeva di<br />

trattenere le dita appoggiate ai miei<br />

fianchi: parlando di genio e maniera<br />

mi travolgeva, fosse stato più giovane<br />

e bello l’avrei pure pensato in divisa<br />

abbracciare l’impresa di Fiume come<br />

eroe fascinoso di guerra e fumetto.


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

44<br />

L’invito a seguirlo al Vittoriale allora<br />

mi prese come onda d’urto e d’effluvio,<br />

profumo Acqua Nuntia che gli fioriva<br />

copiosa la pelle di scritte segnata dal tempo.<br />

Insieme a Sommi marchese e alla sua<br />

compagnia presto giungemmo ai cancelli<br />

della villa sul lago: s’aprirono ali d’airone<br />

su un regno incantato e segreto, quale<br />

grazia serbata di splendida donna<br />

che infine si fa possedere. Portata<br />

per mano per giri di stanze e di valzer<br />

mi lasciavo condurre dal duce poeta:<br />

da scrigni e armadi uscivano tesori mai<br />

visti, mostra privata di stoffe e di pietre<br />

preziose, dote e distesa fortuna di Khan.<br />

Promise una posa per farne ritratto,<br />

così dopo mesi trascorsi d’autunno<br />

a Firenze copiando i cartoni distratti<br />

dal nume Pontormo, annunciai al vate<br />

il ritorno con lettera ardente di brama<br />

a svelare il mito e il mistero dell’uomo<br />

che insieme vedevo piccolo e sommo.<br />

Quale figlia di Iorio senza riparo giunsi<br />

di nuovo a turbare le stanze solenni<br />

del ser Comandante. Non fu che congiura<br />

in quei giorni a sedurmi giovane perla


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

45<br />

venuta dal freddo. La complice ancella<br />

mi accolse con cauto disprezzo, scrivendo<br />

tra appunti di serva ognuno dei passi che<br />

l’amante padrone bramoso muoveva dietro<br />

me Dafne la slava da cogliere, lui Apollo<br />

canuto e invecchiato, aggrappato a corpo<br />

di donna già fattosi albero e fronde.<br />

Falena ero attratta in tela di ragno:<br />

tanto insisté perché io cedessi che in<br />

preda a brividi e febbri scappai a Parigi<br />

città di luce e di focolare. M’inseguirono<br />

i giorni a venire le lettere firmate a nome<br />

di Ariel spirito d’aria con cui il poeta<br />

pregava e struggeva affinché alla villa<br />

sul lago facessi ritorno, a finire il ritratto<br />

ambito talmente e neanche iniziato.<br />

Tadeusz raccolse non visto le lettere<br />

ardite e fu stridore di denti e coltelli;<br />

di nuovo volai alla fulgida alcova<br />

sapendo l’insidia che si preparava.<br />

Appena partita Donna Maria triste consorte<br />

che pronto era, e caldo, il letto per me<br />

nella stanza lussuosa di Leda, dove inciso<br />

nel legno un cigno ingannava bugiardo<br />

e incantato la fanciulla ritrosa del mito.<br />

Quella notte dalla camera chiusa agli affondi


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

46<br />

del vate, sentivo rincorrersi nel corridoio infiniti<br />

gli spasimi di lui e della serva sua amica.<br />

Il mattino seguente poi scorse tra sudici<br />

giochi e insinuazioni, e di nuovo scese<br />

dal cielo la notte e ancora mi venne a cercare.<br />

Lo lasciai scivolare sopra vesti di seta<br />

a cogliere i brividi che per estensione<br />

di corpo sfilavano multipli e freddi.<br />

Tre giorni trascorsero lenti in un rito<br />

d’assedio animale: l’ultima notte le vesti<br />

mi tolse, agile e duttile col sesso senile<br />

ed eretto ovunque mi scorse la carne.<br />

Al disgusto mio scritto sul volto<br />

infine s’arrese: io offesa lasciai finalmente<br />

la villa, stavolta per non ritornare.<br />

Senza aver consumato la storpia passione,<br />

senza averne lasciato ritratto, risolsi la fuga<br />

a Milano, in albergo a passare giorni e ore<br />

d’amore più intenso col Sommi musico<br />

amico, amante diletto. Ma un’alba con tocco<br />

alla porta mi presero il sonno d’un tratto:<br />

sull’uscio un pacco rimesso a mio nome,<br />

e dentro un topazio montato d’argento<br />

e versi a mano vergati dal vate, offerti<br />

a me donna d’oro e di gelo, conquista<br />

per sempre mancata e perduta.


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

47<br />

*…+<br />

IX.<br />

*…+<br />

Cuernavaca, Trés Bambus<br />

Tutto in quegli anni era distacco inatteso<br />

e violento, abbandono o sconfitta rinuncia.<br />

Poi in quel lento patire giunse notizia<br />

che Harold persino stava morendo<br />

di un male impazzito ai polmoni.<br />

Così dopo pochi mesi soltanto per ultimo<br />

scrissi il suo nome, dopo quello di Raoul,<br />

e Adrienne pianta anni prima, e taciuto<br />

Tadeusz in elenco per rabbia e dolore,<br />

nel quaderno dove affollavo le date di morte<br />

di quelli più cari. È cosa umana talmente,<br />

e triste e crudele, sopravvivere a quelli<br />

che amiamo, e vecchi e pesanti vedere morire<br />

i più giovani, santo il diritto a viverci innanzi.<br />

Ma l’ora sentivo anche per me doveva arrivare.<br />

Il respiro ogni notte più breve, i vuoti nella<br />

memoria di cui sempre più avevo vergogna,<br />

l’odore del corpo una volta sensuale adesso<br />

cambiato in olezzo di pelle fattasi scorza<br />

avvizzita, blu come il tono sottile di vene.


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

48<br />

Avevo ospiti a cena, quell’ultima sera, e una<br />

festa di quelle che offrivo agli amici e alla mia<br />

solitudine trascorse allegra fino ad ore notturne.<br />

Poi al momento di chiudere gli occhi, le luci,<br />

come ogni volta in più d’uno mi misero a letto.<br />

Non ricordo quale l’istante, soltanto pensai<br />

che forse non fosse peccato non iniziare<br />

di nuovo col giorno, che in fondo quelli<br />

vissuti erano stati tanti e grati abbastanza.<br />

La maschera a ossigeno, museruola odiosa<br />

scansata di lato, le palpebre chiuse per sempre<br />

sul mondo, poi aperte dall’alto in attesa<br />

di onori più veri per quello che avevo lasciato.<br />

Il corpo distrutto e bruciato, che tanto<br />

non c’era più nulla che volessi serbare,<br />

le ceneri come dettato raccolte in un sacco<br />

lavanda, colore diletto di campi e d’infanzie.<br />

Poi di me sparsero ciò che restava<br />

in cima al vulcano che sulla vallata<br />

orli di vetta ricama, un giorno di vento<br />

simile a me testardo e furioso.<br />

E io in quel soffio calore di terra<br />

e di fuoco sospesa riposo,<br />

in quella polvere indomita volo,<br />

in nessun luogo presente e in ognuno.


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

49<br />

TAMARA DE LEMPICKA (1898 - 1980). Di Cristina Babino.<br />

Tamara De Lempicka dichiarò sempre di essere nata nel 1902 a Varsavia.<br />

Documenti ritrovati di recente la attestano invece nata a Mosca, nel 1898, da<br />

Malvia Deckler, discendente di una ricca famiglia di borghesi polacchi emigrati in<br />

Russia, e da Boris Gorski, un ricco mercante ebreo russo, che scompare<br />

misteriosamente - probabilmente suicida - quando Tamara ha appena 5 anni.<br />

Perché mentire sul luogo di nascita? Per nascondere, sembra, le sue origini<br />

ebraiche: all’epoca gli ebrei subivano forti discriminazioni in Russia, e<br />

necessitavano addirittura di uno speciale permesso di residenza. Tamara crescerà<br />

fortemente segnata da questa circostanza, tanto da negare le sue origini per tutta<br />

la vita.<br />

La sua è una famiglia benestante, caratterizzata da un fortissimo impianto<br />

matriarcale, dominato dalle forti figure della madre Malvina, della nonna<br />

Clementine (che la porta per la prima volta in viaggio in Italia) e della sorella<br />

Adriana – aspetto, questo, che influenzerà fortemente il suo sviluppo personale e<br />

culturale. Tamara è una bambina eccentrica: a 9 anni prende l’abitudine di<br />

realizzare dei fiori di carta per venderli in strada e pagarsi col ricavato vitto e<br />

alloggio nella casa di famiglia. Tamara cresce tra Mosca e Varsavia, e intorno al<br />

1911 si trasferisce a San Pietroburgo a casa degli zii materni Stefa e Maurice<br />

Stifter. Proprio durante un ballo in maschera in casa degli zii, Tamara incontra<br />

Tadeusz Lempicki, giovane e nobile avvocato, di cui si innamora.<br />

Nel 1916, a San Pietroburgo, Tadeusz sposa Tamara, appena diciottenne e già<br />

in attesa dell’unica figlia Kizette. L’anno successivo scoppia la rivoluzione<br />

bolscevica: Tadeusz, a causa del suo appoggio ai servizi segreti zaristi, viene fatto<br />

prigioniero dalla Ceka, la polizia bolscevica. Tamara resta sola, povera e disperata<br />

a San Pietroburgo (Malvina, Ada e Kizette si erano infatti rifugiate prima in<br />

Danimarca, poi a Parigi): corrompe allora col suo fascino un diplomatico svedese<br />

per ottenere un lasciapassare per emigrare in Francia e la salvezza di Tadeusz. È<br />

questa la prima delle innumerevoli relazioni extraconiugali (etero ed omosessuali)<br />

che costelleranno la sua straordinaria esistenza.<br />

Nel 1918, in seguito all’Armistizio che pone fine alla prima Guerra Mondiale, si<br />

trasferisce a Parigi, dove si riunisce alla madre, alla sorella e alla figlia, e dove<br />

ritrova anche Tadeusz, estremamente provato dalla lunga prigionia ma salvo. La<br />

guerra ha messo a dura prova anche gli esuli benestanti come Tamara, che decide<br />

di intraprendere la carriera artistica per guadagnarsi da vivere, seguendo i corsi di<br />

Maurice


VETRINA<br />

La donna<br />

d’oro<br />

di Cristina<br />

Babino<br />

50<br />

Maurice Denis e André Lhote. Riscuote velocemente successo, e si inserisce nella<br />

vita artistica e bohémienne di Parigi, intrattenendo rapporti con Cocteau,<br />

Marinetti, Colette, André Gide. Tamara fa una rutilante vita notturna, e in questo<br />

periodo anche le sue prime esperienze omosessuali, come quella con Ira Perrot,<br />

con cui si reca in viaggio in Italia. Tadeusz non accetta la vita di eccessi e<br />

contraddizioni della moglie, fatta anche di uso di droghe, e la poca attenzione<br />

riservata alla figlia Kizette.<br />

Tamara continua la sua ascesa di artista. A Milano, nel 1925, durante la sua<br />

prima esposizione personale, incontra Gabriele D’Annunzio, che si invaghisce<br />

perdutamente di lei e la corteggia per circa due anni. Tamara è attratta dal<br />

personaggio, si reca più volte al Vittoriale, ma la passione non verrà consumata,<br />

lasciando il poeta con una delusione cocente. Tadeusz sarà così infastidito da<br />

questa relazione da chiedere il divorzio. Tamara ormai è un’artista<br />

conosciutissima: nel 1929 si reca in America per dei ritratti commissionati dal<br />

miliardario Rufus Bush. Tadeusz intanto si è risposato con una facoltosa polacca,<br />

mentre Tamara ha diverse relazioni, anche omosessuali: con la prostituta Rafaela,<br />

con la cantante Suzy Solidor, e in particolare con Ira Perrot. Tra il 1925 e il 1932<br />

Tamara dipinge i suoi capolavori assoluti: La bella Rafaela, Adamo ed Eva,<br />

Andromeda e il suo iconico Autoritratto sulla Bugatti verde.<br />

Nel 1934 sposa il barone ungherese Raoul Kuffner, suo mecenate e<br />

collezionista: entrambi di origine ebrea, sono costretti a emigrare in America alla<br />

vigilia della seconda Guerra Mondiale. Vanno prima a Cuba, poi girano per gli USA<br />

(Pennsylvania, Connecticut), stabilendosi quindi a Los Angeles (1940), infine a<br />

New York. Verranno raggiunti in seguito da Kizette. Nel 1961 Raoul muore<br />

durante una traversata in mare. Tamara vende la casa di New York, e si<br />

trasferisce a Houston, dove la figlia Kizette vive col marito e le due figlie. Nel 1972<br />

Alain Blondel organizza a Parigi la prima retrospettiva sul suo lavoro. È un<br />

successo enorme, e la sua arte, caduta nell’oblio per qualche decennio, vive una<br />

nuova fortuna critica.<br />

La sua salute peggiora, e dagli anni ’70 i suoi viaggi annuali in Italia vengono<br />

sostituiti con il più vicino Messico, dove Tamara compra la villa Tres Bambus, a<br />

Cuernavaca. Qui muore nel 1980, e le sue ceneri sparse sul vulcano Popocatépl,<br />

secondo le sue ultime volontà.<br />

Le riproduzioni fotografiche riportate in questa e nella pagina precedente ritraggono Tamara de Lempicka. Le immagini in questione sono state<br />

reperite in internet.


VETRINA<br />

Cristina<br />

Babino<br />

51<br />

È nata ad Ancona nel 1976. Vive tra la Costa Azzurra e le Marche. È laureata in<br />

Letteratura Italiana presso la sezione Arte del DAMS di Bologna con una tesi dal<br />

titolo Montale critico d’arte (acquisita dal Centro Internazionale di Studio “E.<br />

Montale” di Roma).<br />

Ha pubblicato i volumi di poesia L’abitudine del cielo (Blu di Prussia, 2003), La<br />

donna d’oro (peQuod, 2008), la monografia critica La ferita. Opere di Walter<br />

Angelici 1994 - 2009 (La Via Lattea, Ancona, 2010), e suoi testi poetici sono inclusi<br />

in varie antologie, tra cui L’opera continua (Giulio Perrone Editore, 2005) e Nodo<br />

Sottile 5 (Le Lettere, 2008, a cura di Vittorio Biagini e Andrea Sirotti). La sua opera<br />

poetica è stata presentata in prestigiosi contesti internazionali in Gran Bretagna,<br />

Portogallo, Francia, Belgio e Stati Uniti. Suoi scritti critici e traduzioni sono apparsi<br />

sulle riviste letterarie Poesia, Le voci della luna, Stilos, Incroci, ed è stata redattrice<br />

del mensile di cultura BuonGusto. Suoi testi poetici sono apparsi in traduzione<br />

inglese su riviste di poesia contemporanea britanniche, tra cui Aesthetica e Coffee<br />

House Poetry, nell’antologia VI Encontro Internacional de Poetas (Facoltà di Studi<br />

Anglo-Americani, Università di Coimbra Portogallo, 2007), in traduzione<br />

portoghese nelle prestigiose riviste Oficina de Poesia n.11 e Foro das Letras 17/18,<br />

e nell’antologia Poetry of the World / 6 (Poesia do mundo /6, a cura di Irene<br />

Ramahlo de Sousa Santos, Università di Coimbra, 2010). Suoi scritti sono apparsi<br />

su Nostro Lunedì (semestrale di scritture a cura di Francesco Scarabicchi) e su altre<br />

importanti riviste letterarie cartacee e on line.<br />

È vincitrice di numerosi premi letterari, tra cui il Premio Rabelais (edizioni nazionali<br />

2004 e 2005) e il Premio Nazionale Nodo Sottile 5 (2007). Nel maggio 2007 ha<br />

rappresentato l’Italia come poeta invitato al VI Meeting Internazionale di Poesia<br />

Poetas, organizzato dal Dipartimento di Studi Anglo-Americani dell’Università di<br />

Coimbra, Portogallo, ateneo presso la quale è stata ospitata, nel 2008, in qualità di<br />

European Poet in Residence. Nel 2010 le è stato conferito il Premio Cavalierato<br />

Giovanile per la Cultura. Il blog da lei curato è lacuginaargia.wordpress.com/<br />

Cristina Babino<br />

La donna d’oro<br />

peQuod


Perdere piume, 2011,<br />

stampa a secco, combustione<br />

e grafite su carta, 50 x 70 cm


Francesco Accattoli<br />

52<br />

È nato ad Ancona nel 1977.<br />

È docente di materie letterarie e latino nei licei, con esperienze di insegnamento sia in Italia che in Spagna.<br />

Nel 2002 è uscito, per la Stamperia dell’Arancio, il suo primo libro di poesie e prose: Come acqua che riposa…<br />

Dal 2003 al 2010 è stato voce, chitarra e autore dei testi dei Noa Noa. Attualmente si dedica al progetto<br />

poetico-musicale Fucine Sonore assieme al poeta Loris Ferri e al chitarrista Alessandro Buccioletti.<br />

Sue poesie sono incluse in varie antologie (si ricordano Calpestare l’oblio, a cura di Davide Nota e Fabio<br />

Orecchini, e Porta Marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti, a cura di Massimo Gezzi e Adelelmo<br />

Ruggieri), in riviste cartacee e sul Web.<br />

È stato addetto stampa dell’associazione Coneriana Cult e ha collaborato a testate giornalistiche cartacee e<br />

on-line.<br />

Nel 2002 viene premiato come terzo classificato nella sezione Giovani del Premio Nazionale di Poesia<br />

“Minturnae”, mentre nell’estate del 2003 ottiene la Segnalazione della Giuria del Premio Nazionale di Poesia<br />

“Sandro Penna”.<br />

Nel 2007 è risultato tra i vincitori del Premio “Poesia di Strada”. Nel 2009 ha vinto il Premio Rabelais e nel<br />

2010 il concorso ArteM Ex Tempore.<br />

È stato uno dei poeti impegnati nel Laboratorio di Poesia “Poesia di classe”, organizzato da Nie Wiem. Nel<br />

2009 ha affiancato Alessandro Seri nella “Bottega di Scrittura”, iniziativa organizzata dal Comune di Jesi e<br />

tenuta dal poeta maceratese.<br />

Con Fara ha pubblicato, nel 2007, la silloge Un tramonto sommario, all’interno dell’antologia del Premio<br />

Pubblica con noi.<br />

Nella primavera del 2011 è uscita, sempre per Fara, la sua seconda raccolta di poesie: La neve nel bicchiere,<br />

con prefazione di Renata Morresi.<br />

Il blog da lui curato è http://sequestocosmo.wordpress.com/.


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

53<br />

Da SEPTEMBRE<br />

*<br />

PLEURER, SANS MIROIRS CASSÉS<br />

Pas de courage,<br />

passant,<br />

le chemin<br />

n’est pas fleurè.<br />

Pleurer,<br />

sans miroirs<br />

cassés.<br />

Qui est là?<br />

Tu m’écoutes?<br />

a Mara<br />

D’ILLUSIONE E SENSUALITÀ<br />

D’illusione e sensualità<br />

ogni goccia<br />

Sopra i campi,<br />

chiede spazio alla memoria.<br />

D’illusione e sensualità<br />

l’erba alta<br />

sotto i piedi,<br />

mi confondo tra la pioggia.<br />

D’illusione e sensualità<br />

i sentieri<br />

per la mente,<br />

per il monte,<br />

non c’è traccia di ginestre.


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

54<br />

SEPTEMBRE<br />

Sono il vento<br />

che pulisce le strade,<br />

sono il sole che riscalda le piante<br />

accasciate,<br />

sono la luce attraverso le foglie<br />

invecchiate,<br />

sono la scarpa impressa<br />

nel fango,<br />

sono il colore marcio<br />

dei crinali,<br />

sono l’ombra che genera<br />

ombra,<br />

sono la nuvola che copre<br />

la vita,<br />

sono la vita che penetra<br />

il coraggio,<br />

sono il sonno che stanca<br />

le membra,<br />

sono il velo che inumidisce<br />

i pensieri.<br />

ACQUA<br />

Acqua<br />

che scorre da un rubinetto<br />

bianco<br />

rigenera il corpo<br />

per profumi e colori<br />

ormai appartenuti,<br />

schh...<br />

ormai appartenuti,<br />

schh...<br />

benedice il tempo<br />

che rimane,<br />

schh....<br />

piove ancora fuori?


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

55<br />

Da COME ACQUA CHE RIPOSA…<br />

*<br />

«…con le braccia colme di nulla,<br />

farò da guida alla felicità.»<br />

NEI PRESSI DI UN BISBIGLIO NASCE LA VITA<br />

Nei pressi di un bisbiglio<br />

nasce la vita.<br />

Piccole mani lavorano<br />

in silenzio<br />

e due occhi<br />

sposano un millennio<br />

senza farsi vedere,<br />

un sole lieve e limone<br />

ci raggiunge,<br />

semplicemente.<br />

Adesso e domani<br />

e più di ancora,<br />

tornerà<br />

un’altra vita<br />

sopra ponti di carta e magnolie.<br />

5 novembre 2000<br />

(Giuseppe Ungaretti)<br />

a Giovanni e Paolo,<br />

per la loro dolcezza<br />

ed il loro affetto sincero<br />

SE MI OSSERVI BENE<br />

Se mi osservi bene,<br />

nelle mani di un vento rosato,<br />

il carcere<br />

è il santo recinto di luce<br />

perpendicolare,<br />

finché il ministro, lui l’altare,<br />

sognerà una coltre nel sole,<br />

spalmandola sugli spasmi della cenere.<br />

Cieco, se mi osservi bene,<br />

e il buio dell’occhio<br />

veste di rosso i suoi pascoli,<br />

e di porpora,<br />

e la pioggia e il notturno<br />

rovesciano il nodo di metallo<br />

e brama.<br />

Perché il bambino e il poeta<br />

recano anni e fiori<br />

al naturale parallelo.<br />

5 novembre 2000


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

56<br />

SULLE SOTTANE DELL’OGGI<br />

Sulle sottane<br />

dell’oggi<br />

dipingo una fanciulla<br />

di carta<br />

sorridente<br />

ed un violino saltella<br />

sbarazzino<br />

bisbigli dorati<br />

come d’amore,<br />

credo,<br />

mentre siedo<br />

dinanzi a pascoli di stelle<br />

aspettando<br />

che si calmi il vento.<br />

9 luglio 2000


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

57<br />

BALLATA DELL’AMORE RITROVATO<br />

Passa lento uno stormo<br />

e come sfondo<br />

una nuvola di carta.<br />

Dove vai, donna distratta?<br />

- A cercare il mio amore smarrito.<br />

Che volto aveva, donna distratta?<br />

- Era bianco, era blu, non ricordo.<br />

Oggi sono triste.<br />

Ho raccolto io il tuo amore<br />

e l’ho nascosto in me.<br />

(fiori di magnolia aperti,<br />

fiori di magnolia chiusi)<br />

- Perché hai bisogno del mio amore?<br />

Non ho più vesti, donna distratta.<br />

E dimmi, era dolce il tuo amore?<br />

- Un gigante ai miei piedi<br />

era,<br />

fili tessuti di stelle le sue labbra<br />

e pugnali e terribili ferite<br />

le sue parole.<br />

Era dolce il tuo amore?<br />

- Non ricordo. Oggi sono triste.<br />

Dove conduce il sentiero?<br />

Sulle rive della compassione, donna distratta.<br />

- Dove conduce il sentiero?<br />

Sulle distese del domani, donna distratta.<br />

- Dove conduce il sentiero?<br />

Alla tua casa e al mio cuore.<br />

- Tu che parli della mia casa<br />

odorosa di solitudine<br />

sei forse il vento che avvolge tutto?<br />

No, donna distratta.<br />

- Sei forse il silenzio che ascolta tutto?<br />

No, donna distratta.<br />

- Allora svelami il tuo nome,<br />

Giovane sognante.<br />

Sono l’amore che hai smarrito<br />

e vai cercando,<br />

lungo i campi del perdono.<br />

(Fiori di magnolia chiusi<br />

e come sfondo<br />

una nuvola di carta).


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

58<br />

NINO E LA MORTE<br />

Quando Nino ebbe compiuto undici anni la Morte gli fece visita.<br />

Lui se ne stava sdraiato sul letto, leggendo il fumetto acquistato all’uscita dalla Messa domenicale. In<br />

sottofondo una musica triste, la sua musica preferita, si diffondeva tenue, per non svegliare i genitori nella<br />

camera accanto.<br />

La luce fioca della lampada, posta sul comodino, animava le venature del legno dei mobili, rendendole vive e<br />

quasi parlanti.<br />

Nino era triste ma continuava nella sua lettura. «Perché ho voglia di piangere? - pensò - non ho paura<br />

eppure vorrei tanto piangere».<br />

La Morte si sedette accanto a Nino, con le gambe sul letto, accanto alle sue, mentre con la mano gli<br />

accarezzava la testa.<br />

«Hai paura di me, Nino?».<br />

«Chi sei?» rispose lui.<br />

«Sono la Morte. Hai paura ora?».<br />

«No - rispose Nino - sono felice di vederti. Ti ho aspettato per molto tempo.»<br />

«Hai paura?» insistette la morte.<br />

«Perché sei venuta soltanto ora e non prima, quando desideravo tanto ascoltare la tua voce?».<br />

La Morte lo strinse al petto: «Ti sono sempre stata accanto. Ma ora sei grande, sei capace di ascoltare la mia<br />

voce».<br />

Nino pianse dolcemente, poi sorrise in faccia alla morte. Fuori il vento annunciava impetuoso l’arrivo del<br />

temporale. Le persiane della camera sbattevano impazzite. Nino non aveva paura.<br />

«Tornerai ancora? - domandò - Tornerai ad accarezzarmi i capelli?»<br />

«Sarò l’amore della tua vita, ti siederò accanto tutte le volte che vorrai. Insieme costruiremo parole che il<br />

mondo non ha mai ascoltato e, quando sarai stanco, ci addormenteremo all’ombra di una quercia.».<br />

Nino sorrise di nuovo: «Ma io avrò di sicuro una moglie e dei figli e non avrò tempo di riposare».<br />

La Morte lo guardò teneramente: «Sarà così, figlio mio, avrai la vita che spetta ad ogni uomo. Ma quando<br />

sarai spaventato dai fantasmi che infestano il giorno, tornerai a cercare la mia voce. Quando il tuo cuore si


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

59<br />

sentirà trafitto dall’ignoranza e dalla violenza, sentirai le mie mani accarezzarti ancora i capelli».<br />

«Perché - aggiunse Nino - gli uomini hanno paura di te e perché le tue vesti non sono di terrificanti stracci<br />

neri e i tuoi occhi non sono fuoco?»<br />

«L’uomo teme ciò che non comprende e s’accanisce contro chi tenta di sottrarre dalle sue mani la materia<br />

che ha accumulato nel corso della sua vita. Come vedi le mie vesti sono del colore delle nuvole e del cielo<br />

stellato e i miei occhi sono di un verde intenso, come quelli di tua madre.<br />

Figlio mio, tu morirai e rinascerai e morirai ancora e rinascerai ancora ed io sarò sempre accanto a te come<br />

una candela, che ti accompagna nel buio dell’ignoranza.»<br />

«Sai dirmi, allora, cos’è che abita il mio cuore e che mi rende così triste senza che ce ne sia una ragione?»<br />

La Morte restò in silenzio, poi si fece seria: «Quando sei venuto alla luce, ti ho fatto dono della conoscenza<br />

dei segreti della vita e delle sue leggi. Ti spingerai così lontano che più nessuno sarà in grado di seguirti. Per<br />

cui non ascoltare chi ti dirà che sei nato con il cuore malato. Il tuo spirito è così intensamente vivo e puro<br />

che potrai comprendere l’inesprimibile. Questo dono, però, ti costringerà a nasconderti dagli uomini e dalle<br />

loro vanità e il silenzio dovrà essere la lingua dei tuoi pensieri.<br />

La profonda conoscenza mostra spesso all’uomo cose che non può affrontare, o sopportare.<br />

Ma col tempo tu imparerai a controllare questo terribile dolore che ti accompagnerà per il resto dei tuoi<br />

giorni, ed anzi, sarai capace di trasformarlo in gioia e amore.»<br />

Nino la baciò su una guancia e poi l’abbracciò con tutta la sua forza.<br />

La Morte gli accarezzò di nuovo il viso.<br />

«Sarò dunque un uomo felice?» domandò sicuro Nino.<br />

«Sarai l’uomo più felice ed io gioirò, come una madre gioisce per i successi del proprio figlio.<br />

Ma adesso dormi. Buonanotte, piccolo mio».<br />

La Morte lasciò la stanza e corse verso il cielo. Nino la seguì con lo sguardo fin quando le sue vesti non si<br />

confusero tra le stelle, uscite allo scoperto dopo il temporale.


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

60<br />

Da MIROIR<br />

*<br />

Si agita e pensa:<br />

«Domani è un gran giorno».<br />

Si agita e pensa,<br />

la nube si china e rameggia.<br />

Le sua spada onnipotente:<br />

«Domani è un gran giorno».<br />

Riposa elegante le spalle:<br />

«Ottobre e novembre, il decimo, e poi,<br />

più uno, ho lasciato».<br />

Si agita e pensa,<br />

la coltre s’allarga<br />

in ogni direzione .<br />

Davanti le pianure assorbono neve.<br />

«bello come l’incontro fortuito,<br />

su un tavolo anatomico,<br />

di una macchina da cucire<br />

e di un ombrello».<br />

(Lautréamont)<br />

a Delphine<br />

e all’arte.<br />

Sempre.<br />

*<br />

La veste rossa<br />

divaricando;<br />

la traccia, è polvere;<br />

si scioglie, e riappare,<br />

sotto le lenzuola;<br />

un cane urla;<br />

il silenzio rischia.<br />

Oh le porte bianche del mattino!<br />

*<br />

Tu mi guardi<br />

come abbandonata,<br />

appena sopra il tramonto,<br />

e sorridere ti fa bene.<br />

(il calore sul fiume)<br />

La luce rosa<br />

scorre sulla tela della sedia;<br />

l’assedio<br />

dell’oggi<br />

finisce di crollare.


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

61<br />

*<br />

Il raggio di sole<br />

attraversò l’inverno<br />

e scelse il suo nido.<br />

(Io restavo sulla porta)<br />

«Sei di vento -<br />

disse -<br />

e malta.<br />

Potrei mai cedere?»<br />

L’inverno partorì rancore,<br />

si vestì da donna<br />

e mutò il rigore<br />

in labbra scolpite.<br />

(Io restavo tra i pioppi)<br />

«Adorami donna<br />

dentro tutti i toni del rosso»<br />

- rumore del raggio che cade -<br />

La pioggia lavò il trucco<br />

dagli occhi;<br />

la notte<br />

li scoprì amanti.<br />

(Io giocavo con la mia ombra)<br />

*<br />

LA CASA DI GAUGUIN<br />

Ho abitato la casa del pane<br />

e quella<br />

del riso bianco;<br />

saggio, senza finestre<br />

- il capitano circumnaviga<br />

il centro -<br />

povero, nel dimenarsi<br />

di mangrovie.<br />

Ho abitato la casa del pane<br />

e quella<br />

del riso bianco;<br />

nella ciotola,<br />

a bruciare,<br />

fogliefuoco di pandrani<br />

- maestro, forse era solo sangue… -.<br />

Dopotutto non nevica mai.


Da Come acqua che riposa…<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

62<br />

*<br />

Dans l’estomac d’un miroir<br />

crient<br />

le peint et le pain<br />

comme<br />

la ligne d’un couteau d’or;<br />

c’est toujours terrible de finir le didi et le dodo<br />

(silence d’un oeuf dans la poche)<br />

et des bibelots s’amuse le rOi.


Su Come acqua che riposa…<br />

Un’oltranza sentimentale ed erotica che si maschera di continuo in cerca di astuti alibi anima i versi di Francesco Accattoli su cui si riversa una<br />

sensualità attiva tanto nel versante delle combinazioni lessicali, quanto nella più ampia definizione delle immagini, senza mai tuttavia dar luogo<br />

ad eccessi di pronuncia che, per lo più, si attenua e si rapprende in un sublimante meccanismo metaforico.<br />

Il connotato psicologico di questa poesia, in realtà, vive dell’irrisolto contrasto tra energia del senso e prevalente castità dell’eloquio, e, ad<br />

uno stadio più profondo, tra una spinta volitiva e coscienza della sua trasgressività, che sfocia in una condizione di ingenuità preclusa.<br />

Il tutto affidato ad una scrittura estremamente controllata che subisce, sul piano tonale, l’ambivalenza dell’esperienza: ora ferma e decisa, ora<br />

aspra e dolente, ora dolce e vaga, ora impulsiva, ora sfrontata.<br />

Poesia di “itinerari” e di “sentimenti” è dunque quella di Accattoli, legata a una delicata e affettuosa sensibilità che, di volta in volta,<br />

asseconda l’inclinazione memoriale o favorisce il disegno suggestivo di un paesaggio umano che diventa luogo dell’anima, tessendo una trama<br />

sentimentale con la leggerezza di una parola sorpresa al di qua di ogni intellettualistica mistificazione: en plein air, secondo un ritmo naturale<br />

emergente dalla presa diretta con la propria sfera interiore.<br />

La “situazione poetica” di Accattoli in essenziali e nette liriche esprime le linee di un’autobiografia controllata, per scelta programmatica<br />

lucidamente agìta mediante il contestuale concorso di puntiglio razionale e rigore espressivo che danno luogo all’adozione di un “metodo<br />

stilistico” affidato, “fatalmente”, alla paratassi risolta nei suoi valori elementari, fin quasi alla frantumazione.<br />

Una tecnica impietosamente depuratoria, fino alla trasparenza dello scheletro. I nessi discorsivi sono strettamente funzionali, i passaggi<br />

intermedi vengono sistematicamente tagliati. La parola mira dritta al centro logico della situazione, svelando la sua natura epigrammatica.<br />

Stile, quindi, come trascrizione rastremata di un diagramma esistenziale che, se rifiuta l’effusione, lascia intuire il suo inquieto fondo. […]<br />

Accattoli demanda a un dettato puro e classicamente atteggiato, modulato secondo una sintassi che privilegia l’anastrofe e l’iperbato, tutta<br />

giostrata su una fine e duttile sapienza tonale, il senso di una struggente lamentazione che si raggruma in momenti di delusa spossatezza o di<br />

ferma eloquenza, senza eccessivi indugi elegiaci. Talvolta si può anche ricavare l’impressione di una certa inattualità stilistica e di un<br />

contestuale anacronismo tematico, ma è impossibile sottrarsi all’incanto delle eleganti movenze che regolano la trama verbale e scandiscono<br />

l’ordito musicale di molte liriche: il perfetto farsi del verso, il sottile gioco delle rime, delle assonanze e delle consonanze, l’abile disposizione<br />

della frase costituiscono l’indubbio fascino e il sigillo più evidente e persuasivo di una poesia che si alimenta costantemente di un dolore<br />

contenuto, ma non per ciò meno lacerante.<br />

Attorno alla centralità del tema della vita e dell’amore Francesco Accattoli elabora una più ampia sinfonia di motivi che coinvolge valori e<br />

utopie, smarrimenti e disadattamenti, dolore e speranza, in una prospettiva che si allarga a dimensione collettiva.<br />

La sua, pertanto, è la condicione “tragicamente” privilegiata per una riflessione sul destino storico e individuale che attende l’uomo in un<br />

paesaggio di sgomento, dove si consuma la dissociazione tra le voci della natura e la presenza umana: ci sarebbero tutti gli elementi per una<br />

resa definitiva, per una poesia della lamentazione e del rimpianto, insomma, per la pura modulazione elegiaca.<br />

Momenti, questi, che non mancano (e come potevano!), ma che risultano superati da una più generale tensione positiva alimentata,<br />

comunque, più dalla fede che dal convincimento.<br />

Se ne origina un tono drammatico, derivato dallo scontro di moti sentimentali contrastanti, verificabili sulla fisionomia linguistica e stilistica:<br />

una semplice operazione di accorpamento lessematico per campi semantici affini offre risultati illuminanti circa l’ambivalente polarità della<br />

tensione ispirativa.<br />

Ecco allora ardite presenze di termini opzionati dal lessico quotidiano convivere con un vocabolario attinto dalla più illustre tradizione poetica<br />

italiana e riscattato dall’usura secolare da una scabra associazione aggettivale, ovvero da un ritmo metrico prerotto e frantumato eppure<br />

sotterraneamente<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

63


Su Come acqua che riposa…<br />

sotterraneamente rispettoso delle antiche misure.<br />

Si tratta di una posizione non statica né ripiegata intimisticamente, al contrario dinamica e aperta ad una reciprocità dialettica viva e composita<br />

che svela una condizione lacerata eppure disposta a consumare le residue energie al di qua di ogni schermo illusorio. […]<br />

Un composto “impasto” sentimentale e sensuale oscillante tra elegia e risentimento, entro una fenomenologia tonale che prevede la<br />

presenza del “patetico” e dell’”ironico”, del “fantastico” e del “geometrico”, caratterizza dunque la produzione poetica di Accattoli.<br />

Per concludere questa nota va detto che il mondo poetico di Francesco Accattoli aderisce al referente immediato della sua esperienza<br />

esistenziale, dando luogo ad una scrittura che sottintende la discesa agli inferi del proprio vissuto e la conseguente riemersione in forma di<br />

parola definita e a tratti scultorea, ma non per questo priva di un’efficace connotazione musicale.<br />

Si potrebbe definire, quella di Accattoli, una poesia di occasioni, e tale di fatti è ma senza il senso limitativo che in genere si attribuisce a una<br />

simile etichetta, perché essa segue il vario e mutevole percorso che il soggetto poetante effettua nei meandri ora bui ora luminosi del<br />

quotidiano, subendo accensioni e contaminazioni, strappi e lacerazioni, trovando le ragioni dell’ebbrezza accanto alla possibilità della pena e<br />

del cruccio, in una commistione che rappresenta la stessa intricata immagine della vita intrisa di ragioni d’amore. […]<br />

Leonardo Mancino, dalla Nota introduttiva<br />

* * *<br />

Esiste una poesia che, nel suo farsi, dà per scontati i secoli di poesia che ci hanno preceduto, altra, ed è il caso di Come acqua che riposa… che<br />

ambisce a rifondare la poesia non dando nulla per scontato, per scritto, non rassegnandosi al già stato. Ciò non significa che l’autore, il giovane<br />

Francesco Accattoli, ignori la poesia dei secoli passati. Si può dire che l’ha filtrata, passata al setaccio, quasi distillata e che per compagno di<br />

viaggio abbia voluto con sé l’innovatore della poesia italiana del Novecento: Ungaretti. Le parole, pur logorate dall’uso e dal mal uso, in<br />

Accattoli riacquistano una loro verginità poetica, una loro essenzialità che estrapola dal quotidiano fino a farle diventare portatrici di senso<br />

poetico.<br />

Più che la metafora è l’analogia a rafforzare questi versi, la scoperta di legami ancestrali tra l’uomo, le cose, i suoni, i colori. Ed è nella ricerca di<br />

questi legami che si sostanzia la versificazione di Accattoli. La vicenda che genera i versi è occasionale, perché non è di amori, di languori<br />

adolescenziali che Accattoli scrive, ma di sé come vivente, di sé riconosciutosi come poeta, innamorato della parola e del suo combinarsi con<br />

essa.<br />

Talvolta la parola poetica non si basta, non evoca essenze, rischia di esondare e per renderla doma si ricorre ad una prosa didascalica, quasi a<br />

voler lasciare intravedere una costruzione logica in cui la poesia rappresenta il frammento, il bagliore, l’acme.<br />

Nasce così un prosimetro, la sezione eponima, che a mo’ di epistolario dovrebbe condurre nel campo vivo della creazione poetica o ad esaltare<br />

la goccia distillata, la parola in sé nuda e vestita dell’assoluta necessità del darsi.<br />

Accattoli procede in una versificazione apparentemente semplice, assecondando spesso la pienezza classica del verso, ma altrettanto spesso<br />

riesce a sorprendere con improvvise cesure e cambiamenti di ritmo che appartengono interamente alla musicalità del presente ed in questo<br />

risiede gran parte della fascinazione di questi versi. In questo non chiudersi alle sonorità moderne, in questo aprirsi al futuro demistificato e<br />

non più mitizzabile, neanche con gli strumenti della prosodia classica.<br />

Enrico Cerqueglini, L’acqua limpida che riposa, “Hortus”, (Stamperia dell’Arancio, Grottammare) 2004<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

64


Da Un tramonto sommario<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

65<br />

INVERNO MEDESIMO<br />

Eppure, per quanto possa,<br />

accade di nuovo nel bianco,<br />

con piccole asole ovali<br />

tra le piante e le piogge.<br />

Sulle differenze<br />

osserviamo il medesimo,<br />

decidiamo che è nostro.<br />

Accorrono i domini,<br />

assieme alla sete,<br />

dimostriamo un teorema,<br />

poi crepi l’inverno<br />

e le sue ciglia pitturate.<br />

NOTTURNO<br />

Acqua lunare<br />

sulle lande e sulle messi,<br />

il cubo,<br />

la resa,<br />

la protoforma;<br />

la tua voce annega<br />

nella sfera<br />

bruciata<br />

come zolfo alle narici


Da Un tramonto sommario<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

66<br />

BARBAGLIO<br />

Più non conosco chi amai<br />

senza nesso o figura o misura,<br />

chi fui per dare<br />

adesso rimane,<br />

sui vetri, sulle dita,<br />

sul nome che diamo alle cose,<br />

ed aria ad aria, e sedia a sedia,<br />

ed esso incontra, per sé stesso, l'ozio,<br />

ed è per questo che poi muore,<br />

per vedere se muore<br />

o se è barbaglio o se è verità.<br />

Il nome,<br />

sintomo febbrile,<br />

perfezione comunione comunità,<br />

e l'udire è geometria dritta,<br />

come l'angustia reale<br />

degli scacchi.<br />

Sembrare, mal nascendo<br />

dagli infimi sbadigli,<br />

dai filtri dei miopi,<br />

dai questo-non-esiste.<br />

Tremerà la luce<br />

sul per caso amare.<br />

ERAVAMO UN GESTO<br />

Eravamo un gesto<br />

prima di tutto,<br />

che interpretava le cose<br />

con l’efficacia d’un monsone.<br />

E le chiare stelle, contro il soffitto,<br />

le decalcomanie,<br />

ancora le ricordo,<br />

le ricalco come margini,<br />

come limiti al diritto<br />

universale.<br />

Io sono un gesto, innanzitutto,<br />

e non trovo altro imperativo<br />

che riconoscerti ancora come tale:<br />

siamo il risultato finale<br />

delle nuvole interiori<br />

che muovono arti, nervi<br />

e congiunzioni<br />

così che tutto appaia<br />

senza parlare<br />

e tutto rischi d’essere<br />

spasmo irrazionale.


Da Un tramonto sommario<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

67<br />

PIOVE SUI BACI<br />

Piove sui baci<br />

separati e sull'erba,<br />

come lento e consacrato<br />

giudizio di Dalì.<br />

AL PARQUE GÜELL<br />

Sono tornato dalle parole<br />

che mi hai detto,<br />

come un maglio su una porta,<br />

con la stessa intensità<br />

del caffè.<br />

Ora salgono i fumi di un violino<br />

tra le piante, e la pioggia<br />

a volte li condisce.<br />

Le colonne sopportano e minacciano<br />

malate, malferme, maltorte.<br />

È un ritiro primitivo, con le tane<br />

accadute per fantasia,<br />

quasi ad aspettarci,<br />

quando tutto non sarà<br />

che mare e roccia e caccia continua.<br />

Mentre ora, sotto, è festa<br />

nei tavoli da pranzo.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

68<br />

Da CAMBIO DI STAGIONE<br />

IL VARCO<br />

Non accenderò una poesia della negazione<br />

ma solo a ricordare<br />

le pecore qua ammassate e le querce<br />

che da qui robuste e stornate<br />

vedo, all'udire vocericci.<br />

Un uomo saggio pulisce il crocicchio,<br />

il varco s'allarga, gli anni<br />

devono aggiungere qualcosa di nuovo<br />

al cielo apodo e asprigno<br />

dell’autunno.<br />

L’ATTESA<br />

Io sdoppiato dai vetri di casa<br />

assestati sul cortile,<br />

passano formiche, soldati, fiamme,<br />

fontane, minuti lividi<br />

con uguale cadenza<br />

e lo schiocco dei merli sono,<br />

e delle campane;<br />

che i perdoni ci salvino,<br />

i perdoni,<br />

gli archi cremosi e innocenti<br />

suonati bene.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

69<br />

OGNI GIORNO QUALUNQUE<br />

Per queste strade non c’è passante,<br />

nessun vecchiaccio, nessun demente<br />

di paese; nessun amico a cui pensare.<br />

Somigliano a una risaia questi<br />

intrugli di corridoi; il piede è fermo,<br />

è un punto solo, ed ha paura.<br />

Eppure ecco, tra i muri passa<br />

un suono, il ridicolo volgare<br />

di quel mondo che si fa<br />

col cambio di canale; lo sgomento<br />

fisso come un cero, la cui fiamma<br />

non la smette di pregare, o morte,<br />

o miglior vita, e l’eco si fa chiara<br />

sillaba e poi balbuzie, e così assomiglia<br />

a quell’uscita che non si trova<br />

se non arriva infine il sonno<br />

se non imbruna. Così si dorme<br />

e spira tra le ossa cave un lume<br />

asciutto, una presa di calore,<br />

bastevole ad una piega della tenda<br />

a farsi mano ed indicare<br />

ciò che a tastoni<br />

sembrava ormai altrove.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

70<br />

MEMINI<br />

Ci sono parole<br />

che affondano con altre parole.<br />

Ci attendiamo un avverbio,<br />

una preposizione,<br />

è tutto una resistenza,<br />

un ciclo informativo,<br />

una mutilazione.<br />

Aspettiamo inermi, profondi, introversi,<br />

prosciughiamo i giudizi<br />

con un’infondata casualità<br />

di sillabe.<br />

Eppure<br />

sembra avere un senso.<br />

La postura delle labbra,<br />

i fiori, le diversità encomiabili,<br />

la perfezione, io che studio,<br />

io che lavoro, i balocchi<br />

di legno,<br />

le scatole di latta, i biscotti sminuzzati,<br />

le magnolie, gli scialli turgidi della nonna,<br />

le biglie, le scommesse,<br />

le parole che difendono<br />

altre parole, i calcoli falliti,<br />

le parole sono più facili,<br />

le minuscole stazioni della riviera.<br />

Concentrazione.<br />

S’impara bene dalle nonne, resta la polpa,<br />

il Pater Ave e Gloria, la paura dissipata,<br />

il segnale è dentro il corpo,<br />

come a dire: ora è già ora;<br />

eppure avrebbe un senso<br />

un poco di neve in un bicchiere.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

71<br />

LA RINCORSA<br />

Aspettano. C’è un mercato<br />

d’intenzioni lungo i fianchi<br />

delle panchine; odio i fiori regalati,<br />

i colori divorziati dalla terra.<br />

Ma se il mio punto d’equilibrio<br />

s’adattasse per un soffio<br />

allo sguardo, alla vita<br />

della giovane cassiera,<br />

ogni algebra direbbe<br />

la circonferenza pura<br />

d’ogni forma sul pianeta.<br />

Così, a mio vedere,<br />

avrà pace ed avrà modo,<br />

la rincorsa, di cessare.<br />

TI HO VISTO MORIRE<br />

Ti ho visto morire<br />

dentro cattedrali di parole<br />

e l'incoscienza aprirne le porte<br />

dorate, o d'avorio, o inutili<br />

come le misure tra gli amanti.<br />

E resta solo l'aria<br />

a suggerire i contorni lasciati,<br />

aria melmosa,<br />

liquida e assordante,<br />

di lago e di letto.<br />

Ti ho visto morire<br />

dentro cattedrali di parole,<br />

dove il suono,<br />

dove la forma,<br />

dove la luce, e il controluce.<br />

Un senso pretattile<br />

dentro,<br />

come un tramonto sommario<br />

sul tavolo di famiglia.<br />

Noi mangiamo pane, e già stiamo bene.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

72<br />

CAMBIO DI STAGIONE<br />

Se ad un tratto apparisse una porta<br />

e per quella porta s’entrasse<br />

in una stanza vuota, vedresti lo sgomento<br />

d’una sedia al centro, sola.<br />

Con tale geometria, per come<br />

mi scopri dal bancone di un bar di seconda,<br />

o da un vassoio di cannoli con la crema,<br />

mi convinci che è troppo amaro, troppo<br />

normale; morire per quella sedia, avere<br />

la colpa, e non la tregua, come ostaggio.<br />

Non è vita artificiale, non c’è nulla<br />

da fotografare, nessuna prova<br />

da esibire come gioia<br />

collettiva, assoluta, senza pudore.<br />

Tra qualche anno, mi dirai,<br />

sarà finita, avremo tutto come i nostri<br />

genitori, la stessa tiepida agonia<br />

per il genere umano dei morti di fame.<br />

Perché dunque anticipare l’ironia<br />

delle stagioni? Perché lasciare<br />

che una sedia sia l’immagine che fuori<br />

già si vede, e non dovrebbe, a quanto pare?<br />

Così, quando arriverai di sera,<br />

appendi un lume a quella porta:<br />

muta ne uscirà la morte,<br />

torneranno invece le calde alte ore.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

73<br />

Da TERRE DEL MIO CORPO<br />

PENTECOSTE NELLA RAMBLA DEL RAVAL<br />

Mi resta ancora sui baffi<br />

l’odore invadente del Carme.<br />

La folla scura lavora con la voce<br />

mentre passo, i piccoli mercati<br />

sono già sui marciapiedi.<br />

È nello stomaco il senso<br />

del Raval, e nel cuoio dei sandali.<br />

Suonano dove finisce la Rambla,<br />

i vecchi arabi sono nei loro vestiti della festa,<br />

le donne stanno come nei racconti orientali.<br />

La Pentecoste di oggi<br />

giura con le lingue del mondo,<br />

io sono io, però è facile<br />

sedersi ad una panchina, trovarsi<br />

con le labbra, salutare con un cenno<br />

universale.<br />

È così esatta la serenità dei popoli,<br />

mi resta ancora da spiegare<br />

come tutto accada<br />

senza violare i doni del tramonto.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

74<br />

Por los montantes de la galería<br />

llega el amanecer,<br />

con su color de abrigo de entretiempo<br />

y liga de mujer<br />

(J. Gil de Biedma, Albada)<br />

PASSEGGIANDO PER IL BARRIO VIEJO<br />

Mi segui con occhi di terra<br />

bruciata, aperta,<br />

nella serena posizione del sorriso,<br />

una sottile linea che guarda il mare,<br />

ne divide la potenza, ne fa un campo<br />

di grano giallo.<br />

Mi racconti come sono le estati,<br />

sono fermo nel sentire,<br />

ed ogni senso mi arriva<br />

battendomi le tempie.<br />

Ed ogni senso è morbido,<br />

appoggiato alle tue spalle,<br />

lungo le braccia, nell’eleganza<br />

delle dita, delle caviglie;<br />

ritorna la luce, se ti osservo bene,<br />

esplode il bianco tra le tue collane.<br />

a Jaime Gil de Biedma<br />

L’indecisione. Poi segue la trasparenza.<br />

Un poco di acqua<br />

ferma il respirare forte;<br />

muore la città in ombre singole,<br />

si fanno sottili le strade, legate<br />

alle piazze con pazienza.<br />

Passeggiamo con un vento vuoto<br />

alle spalle,<br />

nel centro esatto della pace.<br />

Una casa a due lati, uno sguardo ancora,<br />

un nome nuovo dato alle cose<br />

se ci sentiamo coraggiosi.<br />

Ovunque arriva l’alba,<br />

proprio mentre ritornano<br />

gli uccelli al loro ramo,<br />

e le coppie disgraziate.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

75<br />

TERRA MADRE #1<br />

Ho trovato solo volti di moneta<br />

salutarci dai deserti palazzi,<br />

perché sia vita ci vuole altro, più gerani<br />

serviranno a dare conto di una civiltà<br />

operosa di paese, capace di piegarsi<br />

all’angustia dei muri nuovi, di questi scorci.<br />

Nemmeno si scanneranno i balconi<br />

e le ringhiere, i posti auto<br />

riservati agli inquilini e profanati<br />

ostinatamente. Da lato<br />

a lato in taglio diagonale stanno<br />

i rumori di cantiere, e battono<br />

ancora, senza avvisare.<br />

Qui non è mai venuta<br />

la sinistra - la sinistra non viene mai -<br />

coi tamburi e le bandiere,<br />

sono terre di passaggio, di mezzeria,<br />

confine di confine, ultimo rintocco<br />

prima che si faccia sera.<br />

E per avere noia<br />

di tanta terra madre, tre Padre<br />

Ave e Gloria, non basteranno<br />

a ripulirsi dell’assunto<br />

che il lavoro di mattone rende<br />

l’uomo più sicuro.<br />

ALBA DOMENICALE<br />

Non è colpa nostra se manca l’aria<br />

nei pomeriggi presi in prestito<br />

per traslocare e lasciarsi qui tra i girasoli,<br />

in questa nostra benedizione<br />

di girasoli. Se la polvere si assottiglia<br />

non si può staccare dalla pelle,<br />

dalle narici fumigate, nere<br />

fino alla resistenza dei muscoli, delle contrazioni.<br />

È il pensiero che vuole il suo mattino,<br />

tra le cinque e le sei, quando il convoglio<br />

è un rumore piano e le salite stanno<br />

ferme e odorano del nostro pane.<br />

Si farà l’asfalto bianco dentro<br />

un’alba domenicale, tra poco s’alzeranno<br />

le serrande in prima fila, le nostre botteghe<br />

originarie. Ed in asse con un sole cauto<br />

e popolare, il tiepido sapore della crema<br />

ci dirà che il mondo ha trovato la sua tregua<br />

e noi un posto dove stare.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

76<br />

Da EPPURE SI VIVE<br />

Por lo visto es posible declararse hombre.<br />

Por lo visto es posible decir no.<br />

De una vez y en la calle, de una vez, por todos<br />

y por todas las veces en que no pudimos.<br />

Jaime Gil de Biedma, Por lo Visto<br />

Eppure si vive e si va folti a lavorare<br />

*<br />

FESTA PARTIGIANA<br />

Dunque hai bisogno di chiedermi<br />

se questa vita sia reale,<br />

se il muro accanto al rosmarino,<br />

gli sterpi nudi nelle siepi dell’alloro,<br />

siano pitture da fondale.<br />

Ti tradisce le parlata<br />

biascicata, la puerile antipatia<br />

per le folle, per le tanto amate<br />

sigarette. Non diciamo fesserie,<br />

la terra è piatta, e pure fredda,<br />

come il mare di novembre,<br />

come il marmo scorticato<br />

di ogni nostro davanzale.<br />

Ti siedi allora - dici -<br />

aspetti il pranzo della festa partigiana,<br />

togli l’audio al televisore,<br />

preferisci il vuoto della casa vuota,<br />

il vociare nella tromba delle scale.<br />

Ed è una liberazione<br />

saperti ancora intatto,<br />

tradito solo dalla vista del cortile,<br />

capace di resistere alla noia<br />

del medesimo finale.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

77<br />

10 E 25<br />

Nemmeno a tirargli sampietrini<br />

con la rincorsa, fino a quando non bruci la spalla,<br />

si storneranno le lancette, prenderanno a funzionare<br />

alla rovescia, sino a prima dello scoppio,<br />

della deflagrazione.<br />

Ora ci pisciano i cani, si snudano i tossici<br />

alla stazione, non ci si fa caso, non importa,<br />

è già passato il Comunismo, la Magliana,<br />

la cerimonia dello Stato.<br />

Gridano negli androni, bestemmiano i turisti<br />

anch’essi intrappolati in quelle dieci e venticinque<br />

dell’orologio, che se ne fotte degli ignoranti<br />

ed anzi gode dei ritardi, dei sorpassi<br />

sul filo dei binari, del fiato corto,<br />

del destino disgraziato<br />

che fa perdere l’ultima coincidenza<br />

per tornare in salvo, a casa.<br />

Che se ne frega dei giocattoli<br />

caduti dietro le panchine, dei cartoni<br />

di vino da due lire, degli aperitivi intolleranti<br />

dentro ai bar dei Pavaglioni.<br />

Quando piove, un poco sembra che si muova,<br />

se copri l’occhio destro con la mano<br />

vedi la lancetta corta fare un giro,<br />

se li copri tutti e due<br />

sembra che nulla sia accaduto.


Da La neve nel bicchiere<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

78<br />

A QUESTA SCUOLA HANNO TOLTO LE FINESTRE<br />

A questa scuola hanno tolto le finestre<br />

e due volte muri hanno messo, perché resti<br />

tutto dentro l’odore fosco dei corridoi, e non le piazze,<br />

non ci arrivino le piazze, con le famiglie vivaci dei cortei.<br />

T’hanno mai spiegato cosa sono gli operai<br />

o gli africani cottimisti? Perché cadano<br />

dai ponteggi come chiodi arrugginiti, come<br />

grandine pesante sulle auto posteggiate?<br />

Che nessuno parli, non s’azzardi voce alcuna<br />

tra gli anziani a raccontare del Ventennio<br />

con i suoi esiliati, o dei meridionali del Dopoguerra,<br />

calciati in culo come si fa con i randagi.<br />

Non era Italia da sapere, sudavano , bestie,<br />

nei vagoni della Milano - Bari. E da quel sudore<br />

non si può scappare, come non si scappa<br />

dalla Costituzione. Gridalo ai passanti<br />

mentre aspetti il barrato delle due<br />

e pensa al suono del martello, pensa<br />

al tonfo sordo della pioggia sulle lamiere,<br />

l’algebra a fine mese dei professori,<br />

fatica con le parole, non le guardare,<br />

perché esse hanno odore e sanno la vergogna,<br />

sanno il senso dell’onore che ora è vinto, meschino,<br />

con i pugni stretti al petto e il viso storto.<br />

Oggi è giorno di lezione, leggiamo ad alta voce<br />

i nomi delle strade alla finestra: via De Gasperi,<br />

via Pertini, viale Martiri della Resistenza.


Su La neve nel bicchiere<br />

Cambio di stagione è la sezione iniziale di questa nuova silloge poetica di Francesco Accattoli. Ad aprirla è un testo intitolato Il varco, il cui<br />

primo verso recita «Non accenderò una poesia della negazione». Un doppio passaggio sta dunque al principio di questo lavoro: quello<br />

temporale dei cicli stagionali e quello fisico del valico. Insieme essi segnano il confine che siamo chiamati ad attraversare per entrare nel libro,<br />

offrendo sin da subito una dichiarazione di poetica che è anche un atto di fede: che si possa ancora credere alla poesia come via possibile,<br />

educazione alla vita, verità singolare (nel senso di propria del singolo, su misura di quell’uno/a - eppure ‘singolarmente’ ulteriore a sé -, e nel<br />

senso di ‘strana’, indiretta, sempre obliqua, inseguita verità).<br />

Accattoli accoglie il mandato umanistico e umanissimo (quindi potenzialmente irto di errori, di conflitti) della poesia come testimonianza e<br />

custodia del mondo. Non “negazione”, ma «svolta-virata positiva o comunque propositiva» scriveva Remo Pagnanelli nelle sue note di “eticapoetica”.<br />

Che accolga dunque l’invenzione e le avventure della lingua in «un progetto di rifondazione civile» [1]. Per il poeta maceratese la<br />

poesia era soprattutto ricerca di verità, scoperta e presa d’atto di ciò che siamo profondamente, svelamento di gesti e di storie: di questa<br />

tensione didattica e conoscitiva Pagnanelli fu giustamente maestro. Forse anche deluso maestro, la cui tragica parabola umana sembra<br />

denunciare la poesia come «strumento inservibile, inerme» [2].<br />

La ricerca di significati forti, di senso autentico, è viva e bruciante anche in Accattoli, che fa del rapporto tra verità e apparenza, tra<br />

autenticità e falsa coscienza, uno dei motivi dominanti, senza però rinunciare alla possibilità romantica che la poesia appartenga a un “io” e<br />

irraggi una propria luce segreta.<br />

«Nulla è sicuro, ma scrivi», diceva Fortini, pronunciando non il mesto autocompiacimento degli sconfitti, ma il riconoscimento del piacere nel<br />

continuare a dire sì al mondo. Così in Accattoli la volontà di lucidità, di consapevolezza del reale, si trasforma in laica preghiera alla coscienza,<br />

che non ceda né all’illusione, né al cinismo, e continui a illuminare una finitudine che può essere piena di stupori… […]<br />

Diffida delle «cattedrali di parole» il soggetto poetico di questi testi, si interroga sull’ambiguità della poesia come fuga dal reale, come<br />

consolazione estetica. Adotta una voce lirica nel solco di una tradizione consolidata, ma rifiuta l’incantamento che non rende conto della<br />

precarietà della condizione umana, la cui «eco giunge dalle macchine operaie e dagli aghi / dei pini» e sempre ritorna «in quel suo pianto / che<br />

non mi riesce di colmare».<br />

Alla necessità, con cui deve misurarsi sia la fragilità esistenziale, sia una dimensione sociale sempre più incerta, il poeta oppone la sorpresa<br />

dell’incontro umano, il passo d’una ragazza, la lettera di un amico, o la sapienza semplice che echeggia di un ethos contadino perduto, delle<br />

madri e del pane.<br />

Troveremo vino e feste e viaggi in questo libro, passeggeremo in strade straniere o per le sagre di provincia, mossi non dall’ebbrezza, ma<br />

dalla ricerca d’uno spirito più schietto e durevole a riempire «il boccale immenso, spumeggiante / d’oro» che già fu di Rimbaud [3].<br />

Accattoli esplora dunque il rapporto tra il volere alto dei propri desideri, stare in una tradizione poetica, l’essere «santi / nell’ispirazione», e<br />

l’evidenza delle «nostre ginocchia / sbucciate», il ritrovarsi «nudi e malandati e bastonati» in una storia che si sbriciola. Di più: abita questa<br />

“asimmetria”. Su e giù sul lembo del difficile equilibrio tra purezza e impegno materiale, tra ricerca interiore e storia pubblica, tra io<br />

appassionato e furore del mondo, il poeta cerca di rintracciare le celate vie che uniscono i destini individuali e le forme della società, poiché lì,<br />

nel loro comporsi, vede sbocciare la grazia… […]<br />

Vi è uno sdoppiamento che è intimo alla vocazione della poesia lirica come ricerca di senso: per guardare il sé e il mondo e scoprire i segreti<br />

rapporti tra le cose occorre essere autentici a sé stessi e al contempo uscirne fuori, lasciarsi investire dagli eventi e isolarsi, starsene «come un<br />

merlo dal becco giallo sopra / il legno di un baobab» e poi tornare alla parola umana. Senso e non-senso si tengono insieme, si compenetrano;<br />

noi siamo chiamati a decidere, a distinguerli.<br />

Ricorda<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

79


Su La neve nel bicchiere<br />

Ricorda Maria Zambrano che la parola poetica è gesto liberato dalle circostanze, che riporta al centro di sé stessi [4]. Non è mai al riparo dalla<br />

vita nuova che sopraggiunge, non la comprende mai totalmente, ne è sempre superata, ma al tempo stesso riporta al dato materiale, alla<br />

scaturigine che di continuo ci raccoglie e ci scaglia lontano: lo sfiorarsi delle spalle lungo il viale, «il bianco tra le tue collane», le periferie<br />

polverose, le «minuscole stazioni della riviera», il sapore della crema la domenica mattina, il profumo del basilico, i nomi orgogliosi delle strade,<br />

«un poco di neve in un bicchiere».<br />

Nell’esperienza di un bicchiere di neve bagnato di sapa, improvvisata granita di sciroppo di mosto, Accattoli rinviene una metafora felice per<br />

gestire le dicotomie: con esso recupera una memoria viscerale, un sapere limpido, un rito condiviso con gli affetti primari, il cuore dolce e<br />

freddo di un’invenzione che tiene insieme la bellezza illimitata della neve nella misura domestica d’un bicchiere. La portata immensa di un<br />

bianco indecifrato, il caos-mondo che non si può afferrare, si raccoglie nell’estensione possibile del calice. Sta, come recita l’epigrafe di Fortini,<br />

nella «misura della mia mano» quel bicchiere di neve, proprio come un libro.<br />

Non meraviglia allora che gli scenari della poesia di Accattoli compongano una mappa emotiva di passi compiuti, interni domestici, strade<br />

vissute, utopie e luoghi collettivi: dai giardini di provincia alla stazione di Bologna, dal barrio viejo di Barcellona ai corridoi della scuola, dai filari<br />

di campagna alla festa della Liberazione. In questa topografia finiamo anche «noi, costruiti come case popolari», radicati in quel che siamo e<br />

protesi verso fuori, come «il mio cuore, nel farsi davanzale».<br />

Gettati nel mondo, nel suo rumore indifferenziato, non si scelgono i vicini o l’origine, non si scelgono la famiglia o il paese: si accade tra e con<br />

loro, e insieme a loro (a volte contro) si è chiamati a intessere fedi contraddittorie e fragili speranze, moti vivi e scelte complesse, che, con<br />

fortuna o dolore, più spesso entrambi, diventeranno l’irripetibile biografia di ciascuno. In qualche modo, per la sua unicità, sempre un<br />

‘successo’. Per altri versi, comunque un dissolversi anonimo nel tutto. Per resistere e orientarsi in questa «cospirazione tra caso e infinito» [5]<br />

Accattoli scrive poesia che, pur nello scenario degli eventi contemporanei, ha inclinazione gnomica e pulsa di tensione classica, poiché cerca il<br />

senso anche nella sua vocazione musicale. Il tono epico-lirico si alterna a quello orante cantato in “ferma eloquenza” [6], in dettato che vuol<br />

essere chiaro e alto. Si abbandona, sì, ma non panicamente, bensì con la suggestione che il senso profondo da sapere è nella viva materialità<br />

del tocco. Perché “la verità”, dice il poeta, “è un incontro”. È da un gesto puro e realissimo come uno sguardo che, non dubito, la poesia di<br />

Francesco Accattoli proseguirà la sua ricerca.<br />

[1] Remo Pagnanelli, Punti per una improbabile etica-poetica, in “La Collina”, 8, 1987 (oggi in www.remopagnanelli.it).<br />

[2] Massimo Gezzi, Nel cielo delle infinite potenzialità: l’eredità di Remo Pagnanelli, in In quel punto entra il vento, a cura di F. Davoli e G. Garufi, Quodlibet,<br />

Macerata, 2009, p. 93.<br />

[3] Arthur Rimbaud, Al Cabaret - Vert, Opere, Mondadori, 1997, p. 69.<br />

[4] Vedi Maria Zambrano, Perché si scrive. Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano, 1996, pp. 21-31.<br />

[5] Alain Badiou, Manifesto per la filosofia, Cronopio, Napoli, 2008, p. 74.<br />

[6] Leonardo Mancino, Nota introduttiva a Come acqua che riposa… di Francesco Accattoli, Stamperia dell’Arancio, Grottammare, 2002, p. 8.<br />

Renata Morresi, dalla Prefazione<br />

* * *<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

80


Su La neve nel bicchiere<br />

[…] La neve nel bicchiere è un libro limpido e sottile, le cui parole paiono intagliate con la cura dell’artigiano nella morbida materia naturale, un<br />

arpeggio semantico nella cui grazia il poeta sa condensare i movimenti della vita materiale ed anche intellettuale, sulle orme liriche e filosofiche<br />

di Leopardi e Fortini. Questa capacità di cantare il pensiero anche politico ed impuro «come un tempo si sarebbero cantati gli usignoli»<br />

(Mandel’stam), e cioè nella sublime sobrietà degli eventi naturali, è il talento di Accattoli. Come un fiocco di neve, cristallo che solo un attimo<br />

saprà durare nella sua precaria perfezione formale, si è posato nel contenitore vitreo della cultura umana e storica. […]<br />

Davide Nota, Le parole fatte di neve di Francesco Accattoli, “Il Resto del Carlino” di Ascoli Piceno, 14 aprile 2011.<br />

* * *<br />

[…] Nella prefazione ad Accattoli, Renata Morresi richiama giustamente i Punti per una improbabile etica-poetica, pubblicati da Pagnanelli sulla<br />

Collina nel giugno 1987… «[…]Distinguo nel corpo della poesia, della lingua della poesia, due attitudini mentali, quella della meraviglia e quella<br />

del rigore, consapevole che queste “tensioni” si fondono nel fare.» Le due direttrici si fondono già nelle prime parole del libro, ovvero nel titolo,<br />

che rimanda sì alla neve – momento di stupore, per il bambino che è in molti di noi – ma contingentandola nell’ordine artificiale delle cose, il<br />

bicchiere.<br />

In altre parole, la bellezza finisce per aderire ai limiti imposti da una disciplina che, prima che metrica, è l’esito di un’istanza etica ben precisa,<br />

evocata qui e là («non accenderò una poesia della negazione»; «…possa io vivere in vere parole / l’adunarsi di lumi e di lune / attorno ai tavoli<br />

dei caffé…»; «noi mangiamo pane, e già stiamo bene»), senza per questo farsi disciplina asfissiante, castrante.<br />

Non vi è, né vi può essere, ortodossia ideologica, in un tempo di sciatto postmodernismo politico (vedi la Filastrocca comunista e<br />

postelettorale), né, per altro verso, ci si può affidare fideisticamente, o religiosamente, a un rigido assetto valoriale. È così, per esempio, che<br />

una poesia come C’è nero e nero riesce ad evocare con delicatezza e complessità di sguardo temi etici, che sono stati generalmente trattati con<br />

faciloneria e manicheismo.<br />

Alla base vi è, limpido e chiaro, anche se non specificato sotto il segno di alcuna bandiera, un «progetto di rifondazione civile» (Pagnanelli), o<br />

comunque si scopre, per usare le parole di Jaime Gil de Biedma, che por lo visto es posible decir no.<br />

Dal no, che è dissenso, ma che, come si è visto, non si bea della negazione in quanto tale, si può far partire quella rivolta morale che può<br />

sostenere tutta un’impresa poetica, e politica. Con la misura equilibrata e a un tempo paradossale, naturalmente, della neve nel bicchiere.<br />

Inoltre, Gil de Biedma non è solo un punto di riferimento letterario, massimamente anomalo in una cultura poetica italiana generalmente<br />

provinciale, o comunque avvezza a praticare la poesia angloamericana o francese piuttosto che quella di lingua spagnola. È epigrafe e simbolo<br />

ideale per la seconda sezione del libro, Terre del mio corpo, dove l’occhio e il corpo del poeta esplorano geografie iberiche – che, peraltro,<br />

risultano essere molto di moda, oggi. In ogni caso, così facendo, Accattoli si mantiene rigorosamente fuori dalla mitologia del «fuori dall’Italia,<br />

fuori dall’Italia!» cui queste allusioni potrebbero benissimo puntare, in un poeta, e in un giovane, poco più che trentenne. Insomma, non c’è qui<br />

il piagnisteo dell’”esilio” (che in realtà si possono permettere ormai ben pochi giovani, al giorno d’oggi…), ma la volontà di assumere geografie<br />

inedite nel proprio corpo, affrontandole carnalmente, perché «…ritengo che la poesia sia sempre comunicazione e martyrion (testimonianza e<br />

sacrificio), parola che regge il peso della sconfitta sostanziale nell’impotenza d’una solvibilità pratica del cambiamento (e qui ammetto il<br />

magistero avantestuale di Fortini).».<br />

Perché solo moltiplicando le distanze critiche e arricchendo di altre voci il proprio bagaglio si potrà giungere a nuovi scenari (morali, estetici e<br />

politici)<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

81


Su La neve nel bicchiere<br />

politici) di parola. Per lottare contro il silenzio della poesia e nello stesso tempo tornare alla propria terra madre – perdòn, tierra madre.<br />

Lorenzo Mari, Por lo visto es posible decir que no, http://letteraturalaginestra.wordpress.com/2011/04/30/por-lo-visto-es-posible-decir-queno-francesco-accattoli-la-neve-nel-bicchiere-fara-rimini-2011/<br />

* * *<br />

Esempio di poesia civile avremmo detto un tempo o forse più semplicemente della capacità di spinta sociale ha saputo intercettare con autori<br />

fondamentali come Gianni D’Elia o da altre parti Eugenio De Signoribus, in questo libro voluto dalle edizioni del riminese Alessandro Ramberti si<br />

ritrova lo stesso spirito di necessità, la stessa spinta che in qualche modo rende la poesia propriamente della gente e che ovviamente vive e si<br />

riflette con maggiore efficacia proprio nel momento in cui vengono abbandonati i passaggi lirici per concentrarsi sugli inserti e i resoconti in<br />

qualche modo comuni, propri di un mondo che non può essere privato ma che al contrario deve diventare di tutti. È il mondo delle tematiche<br />

più importanti, il mondo che guarda direttamente all’uomo invece di scavare all’interno del proprio personale percorso, è in quei passaggi che<br />

Accattoli maggiormente dimostra le sue potenzialità assumendo anche un ruolo di educazione e di conoscenza che in qualche modo gli va<br />

riconosciuto.<br />

Il libro per il resto si districa tra elementi di poetica, dichiarazioni, progettualità e ampi spazi dedicati ai viaggi, agli incontri, una poesia<br />

normalmente meno cara all’Italia (si veda però da una parte il lavoro di Davide Rondoni e dall’altra quello di Edoardo Sanguineti) ma che a<br />

livello internazionale ha sicuramente mantenuto negli ultimi decenni i giusti spazi e dall’altra il «mandato umanistico e umanissimo» per<br />

utilizzare le parole con cui Renata Morresi firma la prefazione «della poesia come testimonianza e custodia del mondo» in cui nuovamente<br />

ribadisco si trova la giusta sintesi del lavoro dell’autore (ottimo in questo senso il testo riguardante la strage alla stazione di Bologna).<br />

Un piccolo discorso va infine doverosamente dedicato all’importanza data da Accattoli (più volte citato nel corso del libro) al dialogo, allo<br />

scambio, alle letture, al rapporto anche con le scritture altrui, al laboratorio, all’artigianato quotidiano direi io: solo in questo modo si può<br />

progredire nella propria scrittura si possono trovare forme di crescita che necessariamente definiscono l’ossatura di ognuno di noi, a qualsiasi<br />

livello e che anche in uno spazio come questo certamente non posso dimenticare di sottolineare.<br />

Matteo Fantuzzi, La neve civile della poesia, “La voce della Romagna”, 9 maggio 2011<br />

* * *<br />

[…] …un grande lavoro, omogeneo, senza cadute. La scrittura di Francesco … l’ho trovata morbida e, soprattutto, una scrittura che dice,<br />

accompagna parlando e si racconta. Si sente la vicinanza con tanta poesia spagnola (classica e contemporanea), in una in particolare, Sevillana,<br />

si sente proprio un gusto pittorico, il gusto del tratto e del disegno alla Lorca, o per meglio dire delle canzoni per chitarra di Lorca. Terra<br />

madre#1 è molto molto bella, talmente familiare che si può cucire anche addosso alla memoria della mia terra.<br />

Sono cartoline di un tempo che sembra sospeso tra memoria, reale ed ideale, tra presente, passato prossimo e condizionale, come denota il<br />

passaggio repentino di modi e tempi verbali, che ne scandisce il ritmo in un continuo fluire. Inoltre ho notato che, coraggiosamente, mantiene<br />

l’uso della congiunzione a inizio verso con tutto il sapore della continuità con la poesia buona di Montale e Quasimodo, ad esempio, e gli riesce<br />

bene.<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

82


Su La neve nel bicchiere<br />

bene. C’è una sottile ironia qui e lì che accende piccoli fuochi nella neve, mentre la vena civile, senza cadere nel tranello del cronachismo e del<br />

raccontino sul perché ed il percome delle cose, trova la sua cifra distintiva e originale. Compratelo, fa bene alla ragione del tempo e delle cose.<br />

Natàlia Castaldi, 5 giugno 2011, http://poetarumsilva.wordpress.com/2011/06/05/novita-editoriali-la-neve-nel-bicchiere-francesco-accattolifaraeditore-2011-piu-un-cadeau/<br />

* * *<br />

[…] Il libro di Accattoli … è un avvenimento per la giovane poesia italiana di oggi, perché segna il ritorno ad un modo di fare poesia quanto mai<br />

legato a ciò che è esperibile nelle problematiche della società attuale: precariato, scuola e povertà sociale, sono i temi dominanti del libro.<br />

Anche la condizione esistenziale dell'uomo, descritto nella sua inquieta solitudine, è "analizzata" con una dedizione squisitamente frontale,<br />

ovvero con la precisa intenzione ad uscire fuori dal proprio "daimon" interiore per abbracciare la moltitudine del mondo. D'altronde è Accattoli<br />

stesso a riferire che per lui la verità è un incontro, si dà nell'esercizio ad uscire fuori dal proprio sé, mediante una sorta di "ékstasis" laica, un<br />

incontro con l'altro (che non è Dio) centrato su una pacata riflessione civile, giocata con un linguaggio ricercato ma mai altezzoso.<br />

L'opera di Accattoli è la prova evidente di una poesia che non è morta affogata tra i fanghi dell'egotismo estetizzante, ma vive e assume forme<br />

e canti di natura polimorfa, tra l'uso meditato della parola e lo sguardo rivolto al presente, in cerca di direzioni inaspettate e nuovi itinerari della<br />

realtà sociale. Una poesia civile, dunque.<br />

Personalmente del libro di Accattoli non dimentico le poesie maggiormente ispirate dai sentimenti individuali, dall'intonazione di un canto che<br />

parte dal proprio sé per allacciare un dialogo con il mondo; anzi, rischio nel sostenere che La neve nel bicchiere è una buona prova di come si<br />

possa unire la tensione a nominare il mondo esteriore, nei suoi drammi e nella luce più intima, e ciò che fa parte del proprio vissuto. La poesia<br />

Alba domenicale è una prova evidente di questa mediazione tra le esigenze dell'io e la volontà di rivolgersi al mondo. […]<br />

Andrea Cati, La poesia civile di Francesco Accattoli, “Quotidiano d’Abruzzo”, 15 giugno 2011<br />

* * *<br />

[…] Liquidità limpida in Accattoli: un punto d’inizio e d’arrivo, di crescita consapevole, di gradino irrinunciabile. Si trovano, nel caso, voci amiche,<br />

strade percorse (e da percorrere) insieme, rinvenimenti da scavo esistenziale, reperti d’affetti vissuti anche in altri luoghi di viaggi e<br />

d’occasione, vicinanze.<br />

Per necessità di un’àncora che sia, ancòra, soglia di una maternale (e paternale) nascita: dove le indifferenziazioni nutrono e le sottrazioni non<br />

sono divenute tali, dove il senso del proprio esserci non s’è smarrito, non ha tradito, non si è fatto fagocitare … dal non essere costruito da<br />

estraneità su orpelli e negligenze e dimenticanze e sopravanzamenti di oscurità.<br />

In quest’ultimo caso, allora, è liquidità solidifcata, ri-attratta in staticità, ri-voltata rispetto ad una presenza a sé, agli altri, al contesto. Anzi è il<br />

rovescio di un’attesa: salificazione del “non” giungere […].<br />

È lo “sguardo” (di cui parla Renata Morresi in clausola alla sua prefazione), ma strettamente unito ad un modo di sentire cose, persone, spazi, di<br />

intravederne il consistere. E, prima di calarsi nel proprio io messo, in parte, in una nudità concomitante, non tanto per semplicemente dirsi<br />

quanto per chiedere, nel dirsi, di quel sentire una ragione nella ricaduta contestuale a largo raggio, in cui ha posto la memoria (meglio, il<br />

ricordo)<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

83


Su La neve nel bicchiere<br />

ricordo) di lontane narrazioni.<br />

Che non prevaricano l’oggi, per la sintonia che Francesco Accattoli vive – uomo di questo tempo – come modalità individuale e condivide con i<br />

poeti suoi coetanei.<br />

Maria Lenti, www.farablogspot.com, luglio 2011<br />

* * *<br />

La dimensione “civile” o, per dirla con Pasolini, “in/civile” dei versi de La neve nel bicchiere di Francesco Accattoli si palesa già con il primo verso<br />

del primo testo, intitolato Il varco: «Non accenderò una poesia della negazione», dove per negazione si intende rimozione ma anche<br />

sottrazione di senso all’agire umano e al travaso in forma/versi che è spesso l’essenza della scrittura poetica. Negazione è anche il nichilismo<br />

trionfante, l’accettazione fatalistica di un presente che si dà per ineluttabile, magmatico, caotico, tentacolare e disarticolante. Il recupero della<br />

memoria, insieme al “varco” - eco montaliana - come ricerca di un passaggio nel presente per rimarcare il bisogno della centralità dell’elemento<br />

umano contro le forze che da più parti sembrano indicare la necessità del superamento dell’umano, fissano i confini della scrittura di Accattoli.<br />

Nei versi di questo volume scorrono le immagini di un secolo appena chiuso: immagini di vita, di lotta, di morte, di diritti dati e negati, di una<br />

civiltà contadina distrutta da un frainteso senso del progresso che ha finito per sradicare la realtà in nome di astrazioni capaci di surrogarla ma<br />

non sostituirla. È in questo contatto col mondo e con le sue rappresentazioni che la poesia si fa strumento indispensabile per capire e cogliere<br />

le incongruenze e le contraddizioni palesi del presente; diventa in/civile quando coglie l’impotenza di un mondo a riequilibrarsi con le strutture<br />

che si è dato, quando coglie l’essenza di uomini monadizzati e quando spunta l’esigenza della ricerca di un varco, di uno scavo nel passato e nel<br />

presente per individuare strade che possano proiettarci oltre la notte epocale.<br />

La neve nel bicchiere finisce per essere non una reminescenza di un mondo contadino tramontato, una nostalgia di tempi andati ma il punto da<br />

cui ripartire, come poeti e come uomini, una riduzione eidetica, per dirlo con Husserl, dell’essenziale da contrapporre all’insensatezza dei<br />

pregiudizi di inutili e complesse variazioni di una cosa in sé.<br />

Motivazione per la segnalazione al Premio naz.le di Poesia SANDRO PENNA XXXIIIa ediz. 2011<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

84


Inediti.<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

85<br />

ELS AMANTS DE SABADEL<br />

Ci sono delle mani che a prima mostra<br />

parlano di opere<br />

dure, di calce e di ferro. Alle mie donne<br />

piacciono più delle cure della carta<br />

sulle dita. Che non sanguinano<br />

né premono forte i loro fianchi,<br />

mentre perdono di sudore, e di vita.<br />

Biondina catalana, svuoti<br />

i tuoi occhi su di un volto<br />

operaio e familiare, a me<br />

resta il fumare delle circostanze<br />

serali, il fissare la punta delle scarpe<br />

e con i minuti giocare a morire<br />

per vedere quanto é muscolo<br />

il cuore. A vederti bene<br />

avrei preferito la licenza media<br />

ed un sorriso sorprendente.<br />

Piovesse un poco, starebbe il mondo<br />

segreto, attorno al fuoco d’un abat-jour.<br />

CALDO SCIROCCO<br />

A volta<br />

ed ad arco,<br />

sereno,<br />

sposta i fiori<br />

fino ai vuoti palazzi bianchi.<br />

Dell'ombra<br />

del sale<br />

dell'ocra<br />

del cuore<br />

la polvere<br />

mista a pioggia<br />

il tubo caldo scirocco<br />

sembra miele<br />

sui tetti.


Inediti.<br />

Francesco<br />

Accattoli<br />

86<br />

FU LA MACCHINA A VAPORE<br />

Fu la macchina a vapore -<br />

ed altre invenzioni -<br />

che consegnò l'uomo all'uomo,<br />

come pure l'odio e l'amore,<br />

così pure il sangue<br />

e l'invidia mediocre.<br />

Non potrà mai<br />

essere di eguale misura<br />

l'amare e il soffrire;<br />

sarà un sibilo invisibile<br />

in un angolo teso e pungente.<br />

UVASPINA<br />

Sai come ‘l pà che non se sfragne e dura<br />

da ‘n pezzo e non svampisce la posa<br />

dei bagi, de corpi nvuricchiati,<br />

un po’ rosa e un po’ cilesti , de noialtri<br />

bitorzoli ciaccati a trentanni,<br />

quadrucci nt’un brodo sciapo pe’ i dolori<br />

d’esse granni. Mesamianni che mijòra<br />

se ‘n tantì ce piasse da guardacce<br />

‘n faccia e guardavve e po’ chiedece quanto<br />

costarìa pogo misurà sa dò passi pel paese<br />

el tempo che c’è rmasto piccigato nte le spalle,<br />

l’udore dei treni e de le curriére<br />

che manco a schioppettade lo lei da la pelle.<br />

Noialtri semo acini duri d’uvaspina:<br />

la pelle ce sbrillucciga del viola,<br />

la polpa ce profuma e ce martira.<br />

Sei come il pane che non si rompe e dura<br />

da un pezzo e non evapora la posa<br />

dei baci, dei corpi intrecciati,<br />

un po’ rosa e un po’ celesti, di noi<br />

torsoli schiacciati a trentanni,<br />

quadrucci in un brodo sciapo per i dolori<br />

d’essere grandi. Mi sa tanto che migliora<br />

se un po’ volessimo guardarci<br />

in faccia e guardarvi e poi chiederci quanto<br />

costerebbe poco misurare con due passi per il paese<br />

il tempo che c’è rimasto appiccicato alla pelle,<br />

l’odore dei treni e delle corriere<br />

che neanche con le fucilate lo togli dalla pelle.<br />

Noi siamo acini duri d’uvaspina:<br />

la buccia ci brilla di viola,<br />

la polpa ci profuma e ci condanna.


Prede, 2011,<br />

stampa a secco, olio e combustione<br />

su carta rosa spina, 50 x 70 cm


Guglielmo Peralta<br />

87<br />

È nato a Palermo, dove vive, nel 1946.<br />

È poeta, scrittore, saggista, critico letterario e autore di testi teatrali. Ha seguito i corsi dell'Istituto superiore di<br />

Giornalismo e si è laureato in Pedagogia all'università La Sapienza di Roma.<br />

Ha pubblicato diversi saggi, trai quali: Realismo e utopia in G.A. Borgese (Quaderni dell’Ottagono Letterario,<br />

Palermo, 1990); Praga vista da Ripellino (“Arenaria”, Palermo, Maggio - Agosto, 1990); Il personaggio di Vlaika<br />

Brentano ne La baronessa dell'Olivento di Raffaele Nigro (“Arenaria”, Palermo, Settembre – Dicembre 1990);<br />

Comunicazione e spettacolo: la via della poesia nel nuovo progetto educativo (“La fiaccola sopra il moggio”, a cura<br />

del Sublimismo, Palermo, 1994); Doleo ergo sum. L'iter poetico di Salvatore Quasimodo da Nuove poesie a La vita<br />

non è sogno (L’Ottagono Letterario, Palermo, ventennale 1983 - 2003); In principio fu la fiaba (“della Soaltà”,<br />

Palermo, 2005); Buzzati. Dintorni e oltre (“della Soaltà”, Palermo, 2006); "L'infinito" di Leopardi e "La poesia" di<br />

Neruda (“della Soaltà”, Palermo, 2007 - “Arenaria”, nuova serie, Palermo, Gennaio 2007); Il ritorno di Orfeo (“della<br />

Soaltà”, Palermo, 2007); Le cose: il sogno, l'uso, l'oblio, la resurrezione (“della Soaltà”, Palermo, 2008); Dolce stil<br />

novo: echi d'amor corrente tra letteratura e vita (“della Soaltà”, Palermo, 2008).<br />

Sono ad oggi inediti i saggi La morte il mito la solitudine nell’opera di Cesare Pavese e La poesia della vita e<br />

l’abolizione del tempo in Proust.<br />

Un intertesto, La Parola, è stato recitato negli anni ’90 dagli attori della Scuola di teatro di Michele Perriera e,<br />

successivamente, è stato rappresentato con il titolo di In cammino, al teatro Lelio di Palermo.<br />

Le sue opere in versi sono: Il mondo in disuso (I.L.A. Palma, Palermo, 1969); Soaltà [1] (Federico Editore, Palermo,<br />

2001); Sognagione (The Lamp Art Edition, Palermo, 2009 - Pubblicata anche in versione E.book da<br />

LaRecherche.it).<br />

Nel dicembre 2004 ha fondato la rivista monografica “della Soaltà” che è stata presentata a Palermo, a Palazzo<br />

Branciforte, a Capo d’Orlando, presso la Fondazione Lucio Piccolo, e a Firenze, nello storico locale delle Giubbe<br />

Rosse.<br />

Nel Giugno 2011 è uscito il romanzo H-OMBRE-S (Genesi, Torino).<br />

www.guglielmoperalta.it<br />

[1]: neologismo che fonde insieme sogno e realtà e che ha dato origine alla nuova visione del mondo dell’autore


Da Soaltà<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

88<br />

SOGNAGIONE<br />

Coltivo<br />

nella piantagione<br />

dei sogni<br />

una stella<br />

rubata<br />

al sillabario<br />

celeste<br />

Tra costellazioni<br />

di sillabe<br />

nasce<br />

la<br />

parola cometa<br />

ed è pianta<br />

di luce<br />

che tra cielo e<br />

terra<br />

fiorisce<br />

LE PAROLE RICCHE<br />

CIELO non è certamente<br />

una parola povera<br />

così SOLE e STELLA<br />

Le pronuncio e<br />

m’inondo<br />

di luce<br />

Di più m’inondano<br />

SOGNO e UNIVERSO<br />

ESSERE e INFINITO<br />

parole ricche<br />

in cui respira il cosmo<br />

che in me respira<br />

quando le pronuncio<br />

UNI-VERSO<br />

E se ci scoprissimo<br />

ad un<br />

tratto<br />

a<br />

p a r l a r e<br />

il linguaggio<br />

del sole?


Da Soaltà<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

89<br />

FOLGORAZIONE<br />

(a S. Mallarmè)<br />

Ricca e solare è la notte<br />

in quei fulgidi<br />

attimi<br />

in cui si mostra<br />

-sublime sostituto<br />

dell’universo-<br />

il Libro!<br />

S O A L T À<br />

Un altro cielo<br />

è il sogno che attraverso<br />

a ridosso delle stelle<br />

e quest’ombra<br />

che adesso mi conduce<br />

è una luce<br />

infinita…<br />

la soaltà senza tempo


Da Soaltà<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

90<br />

SENZA MUSICA<br />

C’era musica nel grido<br />

che conquistava la terra<br />

Canto di confini e di lontananze<br />

Canto di soledad e d’amore<br />

Ora danzano poche note in un grido<br />

Stanno / uccidendo / la musica<br />

E non c’è più solitudine sulla terra<br />

L’uomo S O L O<br />

viaggia col mondo nell’oceano glocale<br />

e il suo io solitario clicca hard-files<br />

per cuori digitali<br />

E non c’è più amore sulla terra<br />

Il mondo è un villaggio cloacale<br />

e se il sabato è virtuale<br />

domani sarà festa di cloni e di ominidi<br />

E non c’è amore E non c’è più<br />

solitudine<br />

Nel sito unidimensionale<br />

il mito ritorna in catene<br />

L’uomo-ombra è un gigante<br />

a misura di pollici<br />

Collaziona lune di carta<br />

in labirinti di password<br />

E non c’è musica se i golem<br />

conquistano la terra<br />

Se la solitudine è omologata<br />

il canto non si propaga<br />

Stanno / uccidendo / la musica<br />

Nell’immobile cyberspazio<br />

capolina una stella transgenica<br />

La sua luce non brilla<br />

nel trapianto del cielo<br />

si accende con l’ultimo grido<br />

che spegne la terra<br />

E non c’è amore E non c’è più<br />

solitudine<br />

Stanno / uccidendo / la musica<br />

Stanno / uccidendo / l’uomo


Da Soaltà<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

91<br />

QUO VADIS, HOMO?<br />

Navigatore antico senza remi<br />

sei approdato in terra di celluloide<br />

nelle figurali sequenze di un Lang<br />

Figlio sedotto e prodigo<br />

in futura necropolis<br />

Hai lasciato risonante dimora per siti solitari<br />

Ti abbagliano faraoniche immagini<br />

mentre navighi in nuove galere<br />

dentro l’occhio cimmerio del globo<br />

senza porto né nóstos<br />

Nella Metropolis virtu-ale<br />

sei Ulisse accecato da Polifemo<br />

sei re David fiondato da Golia<br />

e sei il nuovo Adamo fagocitato da Apple<br />

In questa terra desolata<br />

dentro il suo cielo capovolto<br />

giaci Senza serpente né Golgota<br />

E per virtù dell’ale sei Icaro<br />

caduto fuori dal mito<br />

ALLA PENNA<br />

A te<br />

che sei dispersa<br />

nel grave oblio dell’uso<br />

levo tra solitudini d’inchiostro<br />

questo canto<br />

che mi conduce alfine<br />

al tuo respiro<br />

E t’invento<br />

(alla luce del mio essere)<br />

piuma d’uccello<br />

come la prima volta<br />

che nascesti<br />

a questo eterno gioco dello scrivere<br />

E ti vedo<br />

nel bianco volto del cielo andare<br />

vaga di stelle<br />

tra il sogno che trascrivi<br />

ed il risveglio<br />

che quasi per incanto ti sorprende<br />

a decifrare<br />

in improvviso volo il mondo!


Da Soaltà<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

92<br />

PRIMA VISIONE<br />

La prima volta che vedemmo il mare<br />

fu sogno poi smarrito dentro il cuore<br />

ora speranza è nella lunga attesa<br />

il naufragar degli occhi a nuova luce<br />

La prima volta che vedemmo il mare<br />

fu musica rubata alla conchiglia<br />

ora nel cielo dentro i nostri sogni<br />

salpa leggero un dolce cuore d’acqua<br />

La prima volta che vedemmo il mare<br />

fu azzurro sulle ali di farfalla<br />

poi… l’attimo improvviso della sera<br />

e un fossile ricordo da inventare


Su Soaltà<br />

Coglie nel segno Giuseppe Cottone quando afferma che «poetica e poesia nel testo di Guglielmo Peralta non si contraddicono, ché la prima<br />

si scioglie nella seconda». Nel poeta palermitano, infatti, la trattazione di carattere estetico non si priva all’occorrenza (in ogni caso,<br />

efficacemente) di metafore - per non dire di certi slanci lirici - che sarebbero di più stretta pertinenza poetica, mentre il testo poetico non<br />

disdegna talvolta toni di raziocinante discorsività.<br />

In Peralta il poièin, per quanto possa essere tributario di illuminations più o meno rimbaudiane, è prevalente frutto di meditazione; questa,<br />

non di rado, va a sfociare in una contemplazione non esclusiva né permanente, anzi finalizzata all’azione quale effetto delle acquisizioni<br />

contemplative e della logica traduzione di quanto all’azione stessa può tornare utile, nella conduzione dei giorni. […]<br />

Una poesia nella quale (così come accade per i termini “poesia” e “poetica”) azione e contemplazione si richiamano e si chiariscono a<br />

vicenda, in una ricerca di conciliazione di opposti, che trova il suo fulcro nel superamento di ogni antinomia (non di ogni specificità) tra sogno e<br />

realtà e nel conseguente concetto di soaltà, in cui va a consistere l’asse della poetica e della poesia di Peralta: un termine che è assai più di un<br />

felice neologismo (un originale innestogramma, per dirla con Elio Filippo Accrocca) e che finisce per essere formidabile input creativo, chiave di<br />

volta nell’interpretazione del reale e visione stessa dell’universo (Soaltanschauung).<br />

Soaltà è, come lo stesso autore chiarisce in premessa (ma anche, variamente argomentando ed esemplificando, in altri testi), un “innesto”<br />

tra sogno e realtà, mirato ad una realtà comprensiva del sogno, quale sua parte costitutiva. […]<br />

Attraverso la soaltà può tornare a rendersi praticabile il mondo in cui viviamo, che fin dagli anni giovanili era apparso al Peralta “dilacerato”:<br />

la sua precedente silloge poetica, edita nel 1969, intitolata Il mondo in disuso, vedeva l’uomo del nostro tempo “andare d’inerzia”: una umanità<br />

disorientata procedeva come attratta da un magnete… Ma c’era già, in quel libro, l’impulso a reagire a prepotenti forze esogene, a non subire<br />

negativi condizionamenti, … a trovare in se stesso le spinte a non soccombere, a risollevarsi… […]<br />

In questa nuova opera troviamo rinnovato (in Senza musica, ad esempio) il canto desolato per l’uomo contemporaneo che, ebbro di<br />

interconnessioni, ritiene di non essere più solo nel villaggio globale (che rischia di farsi “cloacale”) in quanto non si accorge di esserlo ancora di<br />

più proprio perché privato della stessa solitudine, in una relazionabilità virtuale…<br />

Bisogna imparare a sognare, comprendere il sogno: è questo l’invito del poeta. Poeta è l’uomo che sogna, il quale non è affatto il sognatore<br />

con la testa tra le nuvole (secondo un’abusata e vacua immagine popolare), bensì l’uomo che ha imparato a sognare, a coniugare visione del<br />

mondo e mondo della visione. Il poeta è il cavaliere della soaltà, che impara a usare il mondo (impedendo che diventi “in disuso”). È un sogno,<br />

dunque, che va fatto ad occhi aperti … e con un maximum di veglia. […]<br />

Sottesa alla poetica peraltiana c’è una concezione mitica e profetica del poeta, considerato un battistrada, un precursore, in quanto capace<br />

di realizzare il mondo della soaltà servendosi dello strumento privilegiato della parola: la parola sburocratizzata, liberata, quale è appunto la<br />

parola poetica… […] Parola poetica capace di racchiudere l’universo in poche sillabe (l’uni-verso, che si fa mitico come l’unicorno), in un circuito<br />

ascensionale, spiralitico (“cielo - sogno - universo - essere - infinito”), che trova la sua spinta motivazionale nella pulsione del poeta ad<br />

abbeverarsi d’infinito. […]<br />

Una poesia fortemente propositiva, che può apparire, sulle prime, se non urticante, quanto meno provocatoria, per una sua insistita<br />

sapienzialità, che è invece ambizione di compiutezza. Si è che il mondo poetico di Guglielmo Peralta ha bisogno di essere penetrato nei suoi vari<br />

aspetti e lentamente assorbito, perché se ne possa avvertire il fascino e la forte carica di idealità che lo permea e lo anima.<br />

Una poesia che, pur muovendosi nell’ambito della migliore tradizione novecentesca, ha saputo far tesoro di certe esperienze<br />

neosperimentali, comunque attentamente filtrate, dalle quali non è stata mutuata, ad esempio, perché non condivisa, l’espoliazione dei<br />

significati in un formalismo asettico.<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

93


Su Soaltà<br />

Un poetare, infine, capace di farsi carico di valenze tanto più inaspettate quanto più il secolo ormai trascorso sembrava averle spazzate via<br />

come cascami tardo-romantici, vale a dire idealità, sentimenti, sogni, che qui riemergono non come appannaggio di scuole o di correnti, bensì<br />

quali dimensioni dello spirito, poiché tali sono. Ed è proprio all’alba della nuova centuria che tali istanze tornano a farsi vive, non in una sterile<br />

riproposizione, ma in una visione nuova, interpretate in sintonia coi tempi e, in proiezione, con le aspirazioni della contemporaneità.<br />

Lucio Zinna, dalla prefazione<br />

* * *<br />

C’è poi, e soprattutto - perché è questa l’essenza della poesia di Peralta, il giungere contemporaneo del poetare e del filosofare: un verso che è<br />

già pensiero, una parola che è, al tempo stesso, dolce abbandono e profonda riflessione. È un esercizio, un contenuto ed una forma, ciò che si è<br />

appena descritto, che pervade l’intera architettura dei testi e che pone in evidenza la volontà dell’autore di tentare di cogliere l’istanza prima -<br />

diremmo l’urgenza primordiale - del dire umano … e di suggerire una via per vivere la vita che è oltre l’istinto della razionalità… È un percorso<br />

che varca i limiti dell’osservare comune ai più - quell’osservare nel quale si riconosce un unico orizzonte; un itinerario lungo il quale soltanto la<br />

voce di dentro, soltanto una pronuncia alta e sincera può divenire chiave di volta per una nuova interpretazione del mondo… […]<br />

Danilo Mandolini, da Vivere inventando un sogno, in “Distrazione” (http://digilander.iol.it/gicomma/luti.html), 10 settembre 2001<br />

* * *<br />

[…] Ciò che mi ha molto colpito della poesia di Peralta è questa profondità immediata, lanciata come una freccia nell’universo. Mi ha fatto<br />

molto pensare a un testo orientale: il Ching, il libro dei mutamenti, un libro di filosofia orientale dove ci sono 66 segni e questi segni in realtà<br />

compiono un percorso di meditazione con delle frasi che non sono delle frasi ma sono degli haiku che vengono lanciati nella mente delle<br />

persone. […]<br />

Beatrice Monroy, in occasione della presentazione del libro avvenuta a Villa Niscemi - Palermo, il 29 novembre 2001<br />

* * *<br />

[…] Ad una prima impressione la poesia di Peralta ci colpisce per una pressante esigenza programmatica, per il tono apodittico quasi e per<br />

una forza visionaria e catartica, che imprime all’opera un crisma di palingenesi, variamente ricreato nei versi e, con una sorta di caparbia<br />

precisione, sottolineato nella parte in prosa. Ma non si tratta solo di questo, non si tratta di uno spunto meramente formale: la minuziosa<br />

dissertazione ha la precisione delle costruzioni che si elevano per raggiungere un equilibrio da funamboli.<br />

Nella poesia di Peralta dunque colpisce, in primo luogo, la “forza del volere”, questa ardua, quasi ostinata, determinazione, questo credo<br />

profetico da cui trae la linfa che l’alimenta: un clima di attesa messianica che si manifesta negli stessi titoli delle composizioni: Epifania, Angelus<br />

novus, Genesi, Creazione, Battesimo e crocifissione, Nascita e resurrezione, Fede; e poi il ricorrere di una sorta di ideografia o allegoria astrale: il<br />

cielo, il cosmo, l’universo, gli astri, e tra tutti, la cometa, metafora dell’annuncio, un “nuovo” annuncio del sacro.<br />

Non diversamente da quanto si dà in una ricerca metafisica, il poeta è portato allo sconfinamento dall’ambito della normale conoscenza. La<br />

conoscenza del poeta, come quella del mistico – e talvolta del filosofo – è estatica perché è ricerca che oltrepassa la soglia del fenomenico,<br />

complementarità.<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

94


Su Soaltà<br />

trascendendone il carattere cronotopico. […]<br />

Come Parmenide il poeta indaga «il cuore della ben rotonda verità», cioè l’intima essenza della perfezione, attraverso la strada che conduce<br />

al sacro. […]<br />

Questa esigenza e questa ricerca ci pare di scorgere nelle pagine del Nostro Autore quando immagina l’Intero come Sogno + Realtà dove il<br />

sogno starebbe ad indicare un aspetto antitetico della realtà che chiede l’atto divino di una Sintesi, di una interna coniugazione con la materia<br />

del reale.<br />

Vi si potrebbe leggere un’esigenza di riconoscimento del proprio mondo interiore, una sofferta brama che acquisti sostanza proprio in questa<br />

coniugazione-accettazione dentro alla realtà. Ma il sogno peraltiano sconfina dalla visione individuale verso quella cosmica dove l’unione dei<br />

due elementi diviene panica.<br />

Così, in un’atmosfera di sospensione estatica, i versi di Soaltà invocano il sogno dentro il reale ed educano l’uno e l’altro alla<br />

complementarità. Pertanto la poesia di Peralta è tutto un annuncio di quanto nella realtà si pone come paradossale e, tuttavia, necessario;<br />

tutta un’istanza che chiede a sé e al mondo la realizzazione di una sua luminosa idea di perfezione.<br />

Rossella Cerniglia, “Il Sigillo”, Anno VII, n.1 - Nuova serie, marzo 2003<br />

* * *<br />

In questo nuovo libro di Peralta troviamo nuovamente alcuni suoi temi: l’attenzione e la denuncia accorata della situazione desolata in cui<br />

vive l’uomo contemporaneo, dove tutto pare celare la solitudine esistente, infatti si vive di relazioni che sono virtuali, appunto. Torna anche il<br />

tema del sogno: è importante saper sognare, pensa il poeta siciliano, perché significa unire la realtà alla visione di ciò che non ancora è attuato.<br />

Significa quindi saper pensare un mondo diverso … In questo senso possiamo capire il valore etico, oltre che estetico che Guglielmo Peralta dà<br />

al fare poesia e al poeta, che è chi non accetta l’esistente e sa scorgere prima di altri la possibilità di un mondo nuovo. […] Si nota la<br />

predisposizione all’invenzione formale di Peralta, oltre che nell’utilizzo di neologismi, anche nell’inserimento di forme impreviste di stesura<br />

grafica dei testi: troviamo testi a filamenti verticali; alcune poesie in scrittura laterale rispetto al foglio bianco, altre che vedono segni alfabetici<br />

misto a tracciati quasi matematici, il che ricorda certe modalità proprie della poesia visiva. […] …i migliori esiti … risentono del forte intreccio<br />

tra visione e pensiero, tra intuizione e descrizione del mondo che è tipica di questo autore, capace di testi forti, perché provocatori nel loro<br />

intento e comunque tesi a scuotere il lettore dal torpore di cuore e mente.<br />

Gabriela Fantato, “La Mosca di Milano”, giugno 2007<br />

* * *<br />

[…] …nasce il neologismo Soaltà, termine creato nel 1979 da Guglielmo Peralta, che sta ad indicare, come attesta egli stesso, una<br />

weltanschauung ossia una nuova “visione del mondo”.<br />

Questo “neologismo”, questa “unione di termini” … non rappresenta soltanto un percorso di ordine letterario, ma piuttosto tratteggia una<br />

filosofia del linguaggio, una pratica di vita in cui confluiscono elementi estetici ed etici.<br />

La rivista “della Soaltà” nasce da una profonda intuizione: la necessità di attuare attraverso l’autentica ricerca della bellezza la sognagione<br />

(stagione<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

95


Su Soaltà<br />

(stagione o piantagione dei sogni), ossia la capacità di fare del sogno una pratica che non rappresenti esclusivamente il nostro mondo onirico o<br />

la nostra dimensione interiore.<br />

Di più.<br />

Il sogno, dunque, non staccato dalla esistenza, ma come necessità della nostra quotidianità, sogno voluto, cercato e coltivato attimo dopo<br />

attimo.<br />

“Sogno e realtà” insieme: Soaltà.<br />

Quello proposto dal nostro autore non è un simpatico gioco di parole o un divertente diversivo linguistico, rappresenta piuttosto un<br />

importante atto comunicativo che invita allo stupore, all’incanto, allo scavo interiore, al colloquio profondo con se stessi e con gli altri.<br />

In sintesi comunica e propone una inconsueta visione della vita, un modo diverso di guardare e contemplare «la liquida luce dell’est».<br />

E in tal senso Soaltà fa del nostro autore oltre che un pedagogista un vero poeta.<br />

Egli propone, infatti, una condizione illuminante e insieme razionale, fortemente spirituale che riesce a creare o meglio ricreare un mondo,<br />

un’atmosfera, un sentimento, uno stile.<br />

Poesia è bontà e bellezza etica ed estetica insieme, nel senso più alto del termine.<br />

E Guglielmo Peralta oltre a proporci una importante pratica letteraria, con bontà e bellezza dona ai suoi lettori un sentiero da percorrere,<br />

ognuno secondo il suo modo di sognare. In fondo la Soaltà è una eventuale strada di riumanizzazione. […]<br />

Tommaso Romano, in Scolpire il vento - Collezione del Mosaicosmo n.6, pubblicato nel dicembre del 2007 per conto dell’ISSPE<br />

* * *<br />

[…] La Soaltà di Guglielmo Peralta è una rivoluzione semantica in fieri dell’intimo letterario; in definitiva anche un modo di poetare, ma anche di<br />

scrivere letteratura, nuovo, che si avvarrebbe di tutti i possibili neologismi idonei ad esprimere e a significare la biunivocità dell’esperienza alla<br />

quale la lingua ufficiale sottrae gli epifenomeni fondamentali che costituiscono quel substrato emozionale ancora non identificato ed<br />

effettivamente non detto, che invece secondo il Peralta è possibile considerare, e quindi identificato e conservato anche nel significato più<br />

etereo, salvandolo in quella struttura minima, ma necessaria per farlo esistere come parte di una possibile combinazione di radici e desinenze<br />

costitutive della ontologia “soale”; di quel neologismo cioè, idoneo ad identificare il substrato razionale che preesiste alla parola come un<br />

rumore di fondo inconfondibile, innestato nell’ipostasi di una radice o di una desinenza di guisa che diverrà il neologismo che darà<br />

all’ispirazione vita propria esistendo come morfema completo.<br />

Nella Soaltà di Peralta, il sogno, la visione, l’ombra di una immagine o il retrogusto di un sapore, un sentore, una premonizione o un dejà vu, un<br />

sentimento indistinto e originale, ognuno di questi epifenomeni è in attesa di essere scritto nell’anagrafe della Soaltà per elevarsi a singolarità,<br />

per essere adottato e trasfuso in qualche eponimo. […]<br />

Marcello Scurria, supplemento della rivista “Il Convivio”, aprile 2009<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

96


Da Sognagione<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

97<br />

L’ALBERO DELLA VISIONE<br />

Dammi Signore<br />

la mia cecità<br />

quotidiana<br />

affinché io possa<br />

mangiare<br />

dell’albero<br />

della visione<br />

Nel giardino<br />

soale<br />

insegnami<br />

ad arare<br />

a coltivare<br />

il canto<br />

prodigioso<br />

Ed io<br />

mi nutra<br />

del sonoro<br />

frutto<br />

E la terra<br />

ne abbia<br />

messe copiosa<br />

E gli occhi<br />

esultino<br />

per la vendemmia<br />

RAPPRESENTAZIONE<br />

Nella visione reale<br />

dileguano<br />

il sogno e lo s-guardo<br />

Soaltà<br />

attrice<br />

apre il sipario<br />

nel mondo<br />

Guardiamo fuori<br />

e in noi si apre<br />

la scena<br />

FUORI SCENA<br />

Destiamoci<br />

al sogno<br />

per crescere in<br />

v i s i b i l i t à<br />

Coltiviamo<br />

sulla scena<br />

il suo seme<br />

di luce<br />

affinché<br />

il canto<br />

fiorisca<br />

tra gli applausi<br />

e il mondo<br />

apra gli occhi<br />

allo stupore<br />

RIVELAZIONE<br />

Nel sepolcro<br />

di stelle<br />

la notte<br />

sapiente<br />

custodisce<br />

il suo<br />

canto<br />

E il mondo<br />

che all’improvviso<br />

si svela<br />

ha il volto<br />

del sogno<br />

che squarcia<br />

i sipari


Da Sognagione<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

98<br />

LA VISITA<br />

Io canto l’amore<br />

che con passo di danza<br />

viene a visitarmi Ed ecco<br />

il mio s-guardo si nutre di oro puro<br />

plana nella notte profonda<br />

come un sole-gabbiano<br />

e l’ospite prima inatteso<br />

ora mi è familiare<br />

Nel giardino soale<br />

cresce<br />

col sillabario celeste<br />

l’albero della visione<br />

Amo quest’amore<br />

che nel cielo infinito moltiplica<br />

le mie braccia<br />

Quando l’angelo viene<br />

ha inizio lo spettacolo<br />

il sogno si spalanca sulla scena<br />

e apre nuovi sipari<br />

Con mille bocche riproduce<br />

il suono delle cornamuse<br />

tracima il firmamento<br />

con tutte le stelle<br />

nello spazio fiorito<br />

e la voce che chiama<br />

silenziosa<br />

è un fiume di luce<br />

Io amo<br />

questa veglia d’amore e di fuoco<br />

amo la soglia segreta<br />

il mistero numinoso<br />

che fa di me un viandante<br />

Amo<br />

la Poesia<br />

che con fruscio d’ali<br />

bussa ed annuncia<br />

Allora i miei passi conoscono<br />

lo stupore del cosmo<br />

E le cose<br />

anche le piccole<br />

e dimenticate cose<br />

sognano il loro angelo<br />

E l’uomo<br />

che vinto si piega all’ascolto<br />

libera le neurostelle [*]<br />

per il convivio d’amore<br />

[*] le idee, splendenti come stelle (neologismo dell’autore)


Da Sognagione<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

99<br />

LA LUCE BUONA DEL GIORNO<br />

Nella sacralità del silenzio<br />

custode della scena<br />

si apre d’incanto<br />

lo spettacolo<br />

In preda allo stupore affondano<br />

i passi<br />

nella notte profonda<br />

a catturare<br />

qualche stella diurna<br />

Così mentre nascono i sogni<br />

e le crisalidi prendono forma<br />

apprendiamo leggeri<br />

il primo respiro del mondo<br />

Fuori la vista<br />

si distende in paesaggio<br />

cresce in visibilità<br />

e attraverso la soglia<br />

s’accende d’un fiato<br />

la luce buona del giorno<br />

Allora si cammina sull’acqua!<br />

In verità non c’è posto<br />

per la fioritura<br />

dove l’albero è secco<br />

e mette radici di pianto<br />

ma dove c’è nuova vista<br />

l’occhio ritrova in natura<br />

l’antico riposo<br />

Allora nel tempio irrompe<br />

l’universo<br />

e sulla diafana scena inizia<br />

la cielificazione [*]<br />

Qui è il belvedere dove il sogno<br />

supera la veglia<br />

Qui i passi<br />

hanno un suono d’ali<br />

un bisbiglio di luce<br />

che agguanta l’aurora<br />

Ed ecco!… con noi incede<br />

la Bellezza<br />

e nella sacra virtù<br />

l’occhio discerne<br />

il divino fuoco per il mondo<br />

[*] lett. rappresentazione, manifestazione del cielo interiore;<br />

est. processo di purificazione attraverso l’irruzione del cielo nella<br />

coscienza (neologismo dell’autore)


Da Sognagione<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

100<br />

NEL DIVINO SPLENDORE<br />

Con occhi ancora inesperti attendiamo<br />

nel tempo della povertà<br />

l’hölderliniana svolta<br />

Ancora fuggitivi sono gli dei<br />

nell’olimpo degli eroi virtuali<br />

nella fucina di carne e d’acciaio<br />

ove si consuma<br />

nel sacrilego rito della tecnica<br />

l’oro della Bellezza<br />

Il mondo pende ancora sull’abisso<br />

dove osa lo s-guardo che si abbarbica<br />

sull’estiva radice affinché cresca<br />

il sogno<br />

nel divino splendore del Vero<br />

Ma…<br />

dove sono i poeti del pane e del vino?<br />

dove si materializza il loro spirito?<br />

perché non siedono in cerchio alla visione?<br />

perché non celebrano e non battezzano?<br />

Dove un dio non può<br />

nel tempo consunto della povertà<br />

molto è concesso nella devozione<br />

dello s-guardo<br />

che vede nel fondo dell’abisso<br />

una radiante eternità<br />

Qui si edifica<br />

il tempo della spiga e della vite<br />

Qui nella notte sacra<br />

la ragione si concede allo spettacolo<br />

e sulle tracce degli dei congiunge<br />

il cielo e la terra<br />

Così i poeti rigenerati<br />

nell’inaudito cerchio realizzano la svolta<br />

Da oriente a occidente aprono il cammino<br />

sulle orme del sogno<br />

e l’occhio che apprende la rivoluzione<br />

cede allo s-guardo grande amante<br />

del verbo mattutino<br />

Nella vigna dell’iride cresce alfine<br />

la visione<br />

e il canto che tra le stelle fiorisce<br />

vince nel mondo<br />

l’essere epocale<br />

Straniera la Bellezza<br />

conquista la terra<br />

col passo estivo degli dei<br />

Nottetempo risorge<br />

l’antica voce dei poeti<br />

e con la fiammeggiante Aurora<br />

l’essere scintilla<br />

canta<br />

con voce celeste<br />

Oh dimorare con occhi sapienti<br />

nella vivente scena della notte


Su Sognagione<br />

[...] In tempi in cui i poeti scrivono spesso al di fuori di ogni elaborazione consapevole di poetica, il fatto che i versi di Peralta siano inscindibili<br />

da essa, significa trovarsi di fronte ad un autore che “sa” cosa dire perché ha elaborato una visione coerente del mondo, alla quale ha anche<br />

prestato una terminologia originale, che sarebbe inutile e fuorviante volere spiegare sulla base dell’etimologia ufficiale, poiché, invece, poggia<br />

su una rete di relazioni analogiche, di sovrapposizioni concettuali, di accorpamenti di parole e, perfino, su una sorta di procedimento sillogistico<br />

operato sui significanti, da cui germinano nuovi e sorprendenti significati.<br />

In questa silloge, titolata Sognagione che è appunto uno dei neologismi coniati da Peralta, che lo spiega come «piantagione (o stagione) dei<br />

sogni» l’autore ha voluto tipograficamente evidenziare, all’interno d’ogni testo, con il colore blue, quei termini tratti proprio dal suo “manifesto<br />

poetico”, probabilmente allo scopo di indicare al lettore le giuste chiavi di lettura, rimandandolo alla sua enunciazione teorica.<br />

È una scelta che dà forza a quanto si è detto finora: è come se l’autore si sia dato il compito di costruire intorno ai nuclei portanti della sua<br />

soaltanschauung, così come la chiama, la sua scrittura poetica, così che, come già ha scritto Giuseppe Cottone, «la prima si scioglie nella<br />

seconda».<br />

Quanto detto potrebbe far pensare ad una macchinosa costruzione, se la soaltanschauung di Peralta non coincidesse con un’accensione<br />

spirituale ed una vibratilità percettiva che volta per volta investono l’atto creativo. È da questa tracimazione del cuore e dell’intelletto che si<br />

dipartono i neologismi, i quali trasformano la realtà in sogno ed il sogno nella realtà interiore, quest’ultima incorruttibile avendo come stoffa<br />

non la labilità dei sogni shakespeariani, non la incoerenza e la frammentarietà dei sogni notturni, ma i valori più alti dello Spirito umano.<br />

Altrimenti non si spiegherebbe la qualità mistica di un lessico poetico che attinge ampiamente a quello evangelico, costruendo un ardito<br />

parallelismo tra la funzione messianica del Cristo e quella del Poeta, che raccolgono entrambi “la tragedia del mondo” per purificarla con un<br />

atto d’amore, che passa attraverso il sacrificio della croce.<br />

Molti simboli del Cristianesimo, molte immagini, tratte dalle parabole del Vangelo, descrivono il gesto poetante e la sua offerta di bene e di<br />

bellezza… […]<br />

Dunque Peralta sacralizza il poeta e la poesia, investendoli entrambi di quel compito rivoluzionario proprio delle cose sacre, nel momento in cui<br />

si innestano nel mondo, mutando la vista in visione, il buio in luce, l’interiorità in visibilità, il sogno in cose, le cose in sogno, fino a che, come<br />

scrive lo stesso autore, «lo s-guardo e il sogno incontrandosi ‘dietro le quinte’, si toccano sulla scena e dileguano nell’unità della visione... ».<br />

Un altro simbolo, più che biblico, archetipale è quello dell’albero che produce frutti, definiti da Peralta “sonori”, in quanto, ovviamente, hanno<br />

la funzione di indicare i versi secondo l’uso di una metafora, che bene si inserisce all’interno di una costruzione allegorica: il poeta è<br />

l’agricantore che coltiva il campo della sua interiorità, nutrendo sogni che come alberi producono frutti , cioè versi, in grande quantità, così da<br />

potere essere donati a quanti l’ascoltano imparando da lui a coltivare i propri sogni e a trasformare il mondo in un Paradiso.<br />

In questa idea di poesia si innesta l’atteggiamento polemico di Peralta, non troppo rilevato, seppure ben manifesto e ripetuto, verso quanti la<br />

seminano al di fuori del campo dello spirito: «in verità non c’è posto / per la fioritura / dove l’albero è secco / e mette radici di pianto» (in La<br />

luce buona del giorno), persuasi dai nuovi «eroi virtuali / della fucina di carne e d’acciaio / ove si consuma / nel sacrilego rito della tecnica / l’oro<br />

della Bellezza», (in Nel divino splendore).<br />

L’invito che l’autore rivolge agli altri poeti d’Oriente e d’Occidente affinché si rigenerino, realizzando la svolta con l’aprire «il cammino / sulle<br />

orme del sogno» non solo dà la misura dell’intensità con cui egli sente la necessità di una palingenesi universale, ma soprattutto ribadisce la<br />

volontà di costruire un progetto comune di rinnovamento del mondo, affidato soprattutto ai poeti, che ricorda in qualche modo l’utopia<br />

platonica, e anche il convincimento di Dostoevskij che sarà la Bellezza a salvare il mondo.<br />

In fondo è il ritorno, ma rivisitato alla luce dell’etica cristiana, della perfetta corrispondenza di buono e bello di memoria greca, come valori<br />

portanti<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

101


Su Sognagione<br />

portanti del fare poetico e dell’arte in genere. Così etica ed estetica coincidono e a maggior ragione per un poeta come Peralta che,<br />

trasformando anche le parole in alberi di sogni, che nutrono frutti sonori, può scrivere: «L’est è la radice dell’est-etica. Nella sua luce cresce e<br />

s’innesta la nuova pianta dell’etica», laddove per est egli intende sia il punto cardinale che vede il sorgere della luce, sia la voce latina dal verbo<br />

esse, cioè “la voce dell’essere” ed il “grande Oriente del mondo”… […]<br />

Certamente l’originalità concettuale di questa poesia, le assicura già un posto privilegiato nello scenario letterario contemporaneo, ma questo<br />

pregio non sembra affatto rimanere l’unico. Anche a chi non dovesse essere un conoscitore della sua soaltà il libro è in grado di donare altre<br />

gioie ed incanti, legati alla raffinatezza del lessico, alla gradevolezza dei suoni, alla costruzione efficace dei periodi e alla sua compattezza<br />

espositiva che ne fa un sorta di poemetto, caratterizzato dal ripetersi di molti echi interni e, come si è già osservato, dall’abbondanza dei<br />

neologismi, tutti velocemente spiegati nelle note a piè pagina.<br />

Sognagione resta, comunque, un libro mistico ed iniziatico, che può leggersi secondo vari livelli interpretativi…<br />

Il simbolismo della luce, termine tra i più ricorrenti nei versi di Peralta, si allaccia in modo evidente alla mistica cristiana, dal suo inizio fino ai<br />

prolungamenti più tardi, e forse, più vagamente, anche a quella orientale. Ritengo, tuttavia, più probabile che tale simbolismo, più che per<br />

derivazione diretta (Eckhart, Böhme) provenga a Peralta attraverso il filtro della poesia stessa, da Dante a San Giovanni della Croce, da<br />

Hölderlin a Novalis.<br />

In modo particolare l’idea della notte come prefigurazione della morte, passaggio obbligato dell’anima verso l’unione mistica con la luce<br />

celeste, (così che la luce del giorno si rivela vanità ed inganno ed il buio della notte-morte si converte in luce e visione), ricorda, infatti, i versi<br />

della Notte oscura del mistico spagnolo, come anche Gli inni alla notte di Novalis, che in essi volge il suo sguardo verso «la santa, l’inesprimibile,<br />

la misteriosa notte».<br />

Ma è soprattutto il progetto poetico-filosofico di Peralta a rimandare a Novalis ed al suo “idealismo magico”, secondo il quale il poeta tedesco<br />

affida alla poesia il compito di spiritualizzare la materia, in modo da «trasformare i pensieri in cose e le cose in pensieri», di operare la fusione<br />

fra sogno e realtà… In questo modo la poesia diventa «l’autenticamente, l’assolutamente reale», il viaggio iniziatico che conduce il poeta verso<br />

il cuore dell’essere, così da trasformarlo in una sorta di divino veggente, capace di rinnovare il mondo e restituire all’umanità la sua “infanzia”,<br />

il suo “tempo sacro”, quelli annunciati da Cristo.<br />

Benché si tratti di un ritorno all’idealismo magico di età romantica, il progetto di Peralta appare ugualmente rivoluzionario, sia dal punto di<br />

vista etico-spirituale, in quanto innestato nella temperie di decadenza spirituale e di corrosione delle cose divine del nostro tempo; sia dal<br />

punto di vista letterario, in quanto del tutto solitario all’interno della produzione poetica contemporanea; e, inoltre, rende testimonianza<br />

all’integrità morale e spirituale di questo poeta che sa coltivare ancora il sogno e dialogare con la sua anima.<br />

Franca Alaimo, dalla prefazione<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

102


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

103<br />

PARTE PRIMA – Nel Castello<br />

II<br />

Il salone degli specchi<br />

Nel salone degli specchi K. fu abbagliato da una luce sfavillante. Poco dopo scorse, gradualmente e fino ad averne piena<br />

visibilità, coloro che erano lì ad attenderlo in piedi e in piccoli gruppi variamente distanziati. K. si sentì confortato dal loro sorriso<br />

accogliente e si fermò ad osservare le loro immagini riflesse e moltiplicate sulle lucidi superfici degli specchi, non patinate dal<br />

tempo, in cui colse anche la propria figura. I loro volti gli furono subito noti. Egli ricordò di ognuno il nome e le vicissitudini e non<br />

si meravigliò di trovarseli di fronte, sebbene non fossero suoi contemporanei né lo fossero tra di loro. Riconobbe Sigismondo [1] e<br />

don Chisciotte, sorridenti e immancabilmente sognanti. Un po’ discoste, a formare un altro gruppo, c’erano Euridice, Sierva Marìa<br />

[2] e Sonja Marmeladova [3]. A mezzo del salone se ne stava, isolato, l’inquieto principe Amleto. In fondo, circondati da una luce<br />

ora soffusa, ammiccavano i Sei Personaggi, fra cui spiccava la figura del Padre, ombroso e interrogante. Fu proprio costui ad<br />

andare incontro a K., il quale, in verità, era rimasto sorpreso nel vedere materializzate quelle Sei Figure irreali e si chiedeva come<br />

fossero riuscite a evadere dalla finzione e divenire uomini a tutti gli effetti! Il Padre si rivolse a lui parlando a nome di tutti i<br />

presenti.<br />

«Sapevamo che saresti arrivato prima o poi, perché qui tutti ci si incontra un bel momento. Non sappiamo per quale via tu<br />

sia qui giunto, né possiamo nasconderti lo stupore che ancora proviamo per la tua presenza al Castello, la quale non cancella<br />

probabilmente quella tua colpa segreta, su cui molto discutemmo. D’altra parte, un mistero è la vita e nessuno è esente dal<br />

peccato. Presumo che la tua colpa sia quella di Josef, al quale molto assomigli! Egli, probabilmente, peccò per eccesso d’amore e<br />

di fede verso sé stesso; per avere sempre creduto di essere immune da ogni colpa. Questa sua presunzione lo spinse a cercare le<br />

ragioni di quella tacita e improvvisa condanna e gli impedì di comprendere che essa era, piuttosto, la prova suprema che avrebbe<br />

dovuto fargli guadagnare la coscienza di essere peccatore e spenderla per la propria purificazione e salvezza. Impaziente e ribelle!<br />

Avrebbe fatto bene a seguire gli esempi eclatanti di Gregorio Samsa [4], che accettò la degradazione fino a trasformarsi in<br />

scarafaggio; di Giobbe, che con pazienza e sottomissione sopportò sofferenze tremende e “ingiustificate”; di Abramo, pronto a<br />

sacrificare il figlio Isacco per ubbidire al Signore; di Gesù Cristo, che abbracciò la Croce per la redenzione e la salvezza degli<br />

uomini. Incauto fu a proclamarsi, in cuor suo, innocente cercando non soltanto giustizia, ma soprattutto quella grazia e quella<br />

salvezza che si concedono solo a chi si pente umilmente. Tranne l’Agnello che è di un altro regno, nessuno può dirsi veramente<br />

innocente. Nascere è già una colpa, come sa bene Sigismondo... A me e ai miei familiari fu negata l’esperienza di esistere. Volere<br />

esserci<br />

[1] Personaggio de La vida es sueňo, di P. Calderόn de la Barca<br />

[2] Personaggio del romanzo Dell’amore e di altri demoni , di G. G. Màrquez<br />

[3] Personaggio del romanzo Delitto e castigo, di F. Dostoevskij<br />

[4] Personaggio protagonista de La metamorfosi, di F. Kafka


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

104<br />

esserci è la colpa che ci segna fin dalla nascita!... Ma tu non devi meravigliarti della nostra presenza, perché in fondo noi siamo<br />

reali, essendo la nostra vita una delle tante possibili forme di esistenza. Nati dalla fantasia di un autore, dal quale siamo stati<br />

rifiutati e abbandonati perché ‘umani, troppo umani’, a lungo vagammo in cerca di un altro autore, di un padre che rendesse<br />

possibile il nostro essere nel mondo. Ora qui, nel Castello, dove siamo misteriosamente approdati, attendiamo il dono di una<br />

verità che ci manifesti. Una Donna nobile saggia e beata verrà ‘a mostrarci un miracolo’, a svelarci un segreto, affinché possiamo<br />

orientarci in questa labirintica sede, dove nessuno giunge per perdersi ma per ritrovarsi! Ella verrà nell’ampio giardino del<br />

chiostro presso l’eccelsa Torre dove, come tu hai avuto modo di vedere, si è già radunato il popolo del Castello. Tutti ti abbiamo<br />

atteso e abbiamo molto sperato che anche tu godessi della visione che presto ci sarà concessa. Per te molto ha pregato e<br />

implorato la nostra dolcissima Sonja, alla quale si sono strettamente unite, per intercedere in tuo favore, anche Euridice e Sierva<br />

Marìa. Grazie a queste sante donne tu sei stato accolto dal supremo Castellano che siede al decimo e ultimo piano della Torre e<br />

che governa questo luogo sacro… Ecco! Con me tutti hanno parlato all’unisono e tutti in questo momento avvertiamo una grande<br />

e indescrivibile emozione. Come negli specchi si riflettono i nostri volti, così in ciascuno di noi penetrano e si manifestano i<br />

pensieri e i sentimenti di tutti. Così sarà d’ora in poi … anche per te, K.! Sì. Ognuno sarà specchio dell’altro… Qui è già iniziata la<br />

nostra rivelazione!...».<br />

Sigismondo, essendosi Il Padre a lui riferito, si sentì sollecitato a parlare.<br />

«Sì. “Il maggior delitto dell’uomo è l’esser nato”» – confermò con una punta di malinconia. E aggiunse, un po’ risollevato:<br />

«Qui conviene mettere da parte pensieri così bui… Se “in una torre incantata” e oscura fui prigioniero, ora nella sacra Torre spero<br />

di riacquistare la luce della libertà e dell’azione! Qui non si può restare sospesi tra dubbio e verità, come il nostro principe Amleto,<br />

né tra ragione e follia, come il nostro nobile hidalgo. Con spericolatezza da funambolo, io mi sforzo di trovare un equilibrio tra il<br />

sogno e la realtà, perché credo che ci sia nell’uno una dose equivalente dell’altra, e viceversa. Tuttavia, se la vita è sogno e il<br />

sogno è per noi una prigione, è ragionevole cercare di evaderne. Ma se noi non abbiamo altra realtà che questo sogno, a nulla<br />

vale sognare una vita diversa, ché sarebbe ancora un sogno! Di realtà in realtà, di sogno in sogno andando, non c’è terra<br />

d’approdo… Terreno fertile, allora, è il dubbio, se vi attecchisce il seme dell’esistenza, se vi si annida qualche verità. Nel dubbio<br />

può cullarsi una ragione, può maturare una nuova stagione. Quale migliore follia di questo dubitare che getta il sogno tra le<br />

braccia di realtà?...Sì. C’è del metodo in questa follia!».<br />

Sigismondo tacque vedendo Amleto venire incontro a lui e a don Chisciotte e scambiare con quest’ultimo un fugace sguardo<br />

d’intesa. Sigismondo vi colse un’espressione tra il dubbio e la certezza e gli sembrò che fosse una conferma di quanto egli aveva<br />

esternato. K. si era disposto ad ascoltare il principe di Danimarca e gli altri, nonostante sentisse crescere dentro di sé il desiderio di<br />

conoscere quella Donna celeste, per mezzo della quale avrebbe ottenuto il perdono per essere nato e con esso il dono di una vita<br />

nuova. Gli Ospiti lessero nel suo cuore quell’ardente desiderio di rinascita che era anche il loro e convennero di mettere da parte i<br />

discorsi per non differire ancora quell’incontro molto atteso da tutti. Anche K. scrutò nei loro cuori trepidanti e si sentì sollevato<br />

da quella decisione e pronto ad accogliere la luce della rivelazione insieme con quegli amici e grazie, soprattutto, all’intercessione<br />

delle tre donne, alle quali volle rivolgere parole intense e di sincera riconoscenza.


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

105<br />

«Sonja, Euridice, Sierva Marìa!...I vostri nomi dolcissimi rintoccano dentro il mio cuore e vi imprimono, con i loro suoni armoniosi,<br />

i tratti delicati dei vostri visi leggiadri… Come posso ricambiare l’attenzione e la cura che avete rivolto proprio a me che sono<br />

straniero a me stesso e che più di ogni altro uomo non so chi io sia veramente, né quale sia la mia origine, né dove io vada!...Con<br />

quale nome mi avete battezzato e reso presente al sommo Castellano, dal momento che il mio nome è una campana senza<br />

battaglio?...K. da solo, o con Josef, non basta a fare di me una persona viva e compiuta … ma … per amor vostro, per vostra<br />

compassione mi sarà data un’identità e per questo vi sarò per sempre riconoscente!...Ma ditemi: come avete saputo di questa<br />

Donna così beata da possedere qualche verità, e così umile e onesta da svelarcela?».<br />

Sonja rispose, in perfetta intesa con le sue amiche: «L’amore, di cui riluce la tua persona e che manifesti con le tue parole, dà<br />

prova della profonda e sincera gratitudine che tu già nutri per noi. Ed essa già vale molto di più di qualsiasi fatto o gesto concreto.<br />

L’amore, che va oltre l’individuo, non ha bisogno del suo nome per perorarne la causa. Così l’individuo che va oltre sé stesso<br />

rinuncia volentieri al proprio nome per chiamarsi umanità, la quale è l’altra faccia dell’amore, in cui egli ritrova l’Identità perfetta!<br />

Perché di grado superiore all’ecceità [5] è l’affinità, che gli fa abbandonare la sua torre d’avorio confermandolo unico nel<br />

riconoscimento e nell’accoglienza dell’altro… La Donna che stiamo aspettando mi è apparsa in sogno, come una Madonna!<br />

Nessuna parola uscì dalle sue labbra, e quel che udii fu a mezzo del suo onesto portamento. Verità amore e salute espressero i<br />

suoi occhi e il suo saluto. Quando mi destai, fui certa della sua prossima venuta e che a me toccava di annunciarla. E il mio cuore<br />

era gonfio di quel sentimento dell’affinità universale che ti ho appena esternato, e io ardevo così tanto del desiderio della tua<br />

salvezza, che rivolsi in silenzio e con fervore la mia preghiera al Castellano affinché ti accogliesse in mezzo a noi. E fui subito certa<br />

della clemenza di questo Signore che, in verità, nessuno di noi ha mai incontrato!... Ma adesso è giunto il momento di recarci nel<br />

chiostro, dove il nostro comune desiderio sarà finalmente soddisfatto. Andiamo, dunque, e più non rimandiamo».<br />

La sollecitazione di Sonja impedì a K. di darle una risposta che, tra l’altro, richiedeva una riflessione attenta e profonda, nella<br />

quale egli subito s’immerse, stimolato da quelle parole ispirate. Per K. fu come sprofondare in un sogno. Pensò, infatti, che la sua<br />

vita somigliava molto a un sogno, e anche quella di Josef così assurda e inverosimile. Ma una verità, intravista e filtrata attraverso<br />

le parole di Sonja, scintillò fugando l’immagine di quella vita anonima e sbiadita e gli aprì il cuore a un’inedita possibilità.<br />

Comprese che l’amore, quel sentimento più grande e più affine, arricchito di luce buona e fraterna, avrebbe potuto dargli, più<br />

dello stesso nome e in mancanza del nome, quell’identità a lungo cercata e fare di lui (e di Josef) una persona nuova e compiuta!<br />

Pensò che un uomo è un individuo, un essere senza identità se non ha un nome che lo riveli all’altro. Pensò pure che un uomo,<br />

anche se in possesso del nome, può essere reso individuo dall’indifferenza e dal disamore altrui. Comprese allora che non poteva<br />

imputare alla mancanza del nome quei suoi trascorsi patimenti, quella sua vita d’individuo escluso dalla comunità; che non<br />

bastava possedere un nome per avere anche un volto ma, al contrario, occorreva mostrare il volto per essere riconosciuti e<br />

chiamati! Occorreva, sì, andare oltre, superare la propria individualità. Perché individuo è ciò che non si può con-dividere: è<br />

l’indivisibile<br />

[5] in Duns Scoto: perfezione che si realizza in ogni ente quando passa dalla condizione di natura specifica a quella di natura individuale, dalla<br />

specie universale all’individuo unico e irripetibile


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

106<br />

l’indivisibile, è l’impronunciabile!...È persona, maschera senza volto, di cui si tace il nome. Comprese, ancora, che l’amore, quel<br />

sentimento, quel canto innamorato di Sonja avrebbe potuto colmare l’abisso tra l’individuo e l’uomo, tra l’essere anonimo e<br />

l’umanità, e consentire a ciascuno di ri-conoscersi nel volto dell’altro andando oltre sé stesso. E si vide in cammino, nello spazio<br />

aperto dell’affinità! Pensò che accogliere in sé Josef sarebbe stato un passo verso l’oltrepassamento. Ma Josef non era l’altro, ma<br />

il suo doppio. Sì. Josef era lui, K., ed egli era Josef… E il risultato di questa duplice anima era un essere incompiuto, dissociato e<br />

senza identità. Si sentì allora sconfortato da questo pensiero, ma non si perse d’animo restando ancorato alle parole trasparenti di<br />

Sonja. E con quel barlume di verità, destandosi un poco dal sopore della meditazione, galleggiando tra il sogno e la veglia, lasciò<br />

scorrere lentissimamente lo sguardo sui Sei Personaggi, poi sulle tre Donne, infine su Amleto, su Sigismondo, su don Chisciotte.<br />

Vide i loro sembianti attraversare in fuga gli specchi e vanire lasciandovi un’ombra sottile, una traccia. Allora egli si ricordò di<br />

Alice, del gatto del Cheshire e del suo grin. Osservò quell’ombra vuota e vi colse la propria immagine insieme con le effigie degli<br />

altri Personaggi!<br />

«Che significa questo?...» - pensò K. ed ebbe voglia di urlare, ma si trattenne perché i suoi occhi erano coscientemente aperti<br />

sui volti sicuri e tangibili dei Compagni che, ancora una volta e con pazienza, lo avevano atteso! Sì. Il sogno aveva prevalso sulla<br />

veglia ed egli lo aveva assecondato, come era accaduto ad Alice, che aveva capovolto nel sogno la realtà sapendo benissimo che le<br />

sarebbe bastato aprire gli occhi perché tutto tornasse vero e reale!… Sì. I suoi occhi ora erano aperti, spalancati sulla realtà. Pensò<br />

che non poteva dubitare della propria esistenza, dell’esistenza dei suoi Amici, dal momento che le loro forme, i loro volti<br />

apparivano negli specchi. Di nuovo egli sentì Sonja che sollecitava tutti ad andare, a non più rimandare. Si avviarono. K. lasciò per<br />

ultimo il salone degli specchi dietro ai Sei Personaggi, sui quali, spinto da un’improvvisa curiosità, non poté fare a meno di porre<br />

insistentemente lo sguardo. E si sentì invaso da uno strano senso d’inquietudine.


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

107<br />

PARTE TERZA – La Notte<br />

III<br />

Golem<br />

Un bagliore improvviso li destò per qualche istante alla coscienza vera del mondo. Avvertirono tutta la pesantezza del<br />

corpo ma i loro occhi rimasero spenti, persi in una lontananza abissale. Compresero che la verità era separata dalla vita e ne<br />

richiedeva il sacrificio attraverso la morte. E la morte era la verità negata, proibita: era il volto inguardabile di Euridice, il canto<br />

ammaliante delle Sirene, la mela della “sapienza” nel giardino dell’Eden. Ed era la vita, per la quale i Personaggi erano pronti e<br />

decisi a morire, per esistere! Considerarono che la loro “vita”, nata per volere e per capriccio degli dei minori, non era altro che<br />

una duplicazione della vita umana, con le sue inquietudini, miserie, nefandezze, ma anche con i suoi lati positivi, e intuirono che<br />

essi, come gli uomini che stavano sulla terra sospesi dentro lo spazio infinito, erano, con molta probabilità, pure nel mondo, ma<br />

immersi nello spazio chiuso del Castello che non avevano mai abbandonato. Pensarono che il Castello era una sorta di enclave<br />

dentro la realtà mondana, e che la loro vita assolutamente dipendente, alienata ed estranea, scorreva in parallelo con quella degli<br />

uomini. Sì, erano nel mondo. Nel mondo era il Castello, il loro regno sotterraneo che si era aperto attraverso quel Ponte, sospeso<br />

tra il sogno e la realtà, in quel cielo e su quella valle che, nella chiarità della notte lunare, lasciavano indovinare una maestosa<br />

Bellezza che si prometteva, come un dono, ai loro occhi rinnovati, pronti a stupirsi e ad accogliere la prima visione del mondo.<br />

Una luce nuova allungò le loro Ombre giù nella valle, dove un placido fiume, che prima non c’era, accolse il luccichio<br />

d’innumerevoli stelle. I Personaggi sollevarono gli occhi in alto, oltre la luna rimasta immobile appena sopra la vallata, e le videro<br />

tremule e belle, lontane e tangibili. Un senso di profonda beatitudine chiarì le loro coscienze di farfalle in volo. Si sentirono anime<br />

terrene dentro il respiro del mondo e ascoltarono il loro cuore pulsare nella veglia di un sogno incantevole. Colmi di luce,<br />

pensarono di essere in Paradiso. Per la prima volta vedevano il cielo con occhi umani. Per la prima volta si apriva per loro<br />

quell’infinita visione. Pensarono che il Paradiso era perduto negli occhi degli uomini incapaci di cogliere tanta Bellezza, di stupirsi<br />

di fronte a quello spettacolo assoluto. Essi sarebbero stati gli uomini nuovi, capaci di vedere il mondo con occhi rinnovati e<br />

contemplarlo. Veri spettatori e attori della vita, avrebbero dimenticato il loro passato di Personaggi e non avrebbero mai<br />

sospettato di essere stati delle Ombre; mai Pinocchio avrebbe potuto credere di essere stato un Burattino! Nel nuovo teatro del<br />

mondo non ci sarebbe stato spazio per la finzione, perché non ci sarebbe stata altra rappresentazione che la loro vita reale. Essi<br />

non avrebbero avuto bisogno di un autore, perché sarebbero appartenuti solo alla vita, nella pura convinzione che questa non<br />

avrebbe ammesso altri autori che sé stessa.<br />

Dunque, la loro fuga era già cominciata?...Ma non erano, forse, ancora sul Ponte?...Pensarono alla loro “morte” eterna, alla<br />

loro “vita” alienata e immortale e convennero che la morte, quella umana, era un migliore destino, perché rendeva padroni della<br />

vita! Avrebbero accettato con gioia quella finitezza, quella caducità, certi che la vita era qualcosa d’importante da indirizzare verso<br />

una meta significativa, quale l’amore per tutto il genere umano e ancora oltre, verso l’abbraccio mistico di tutto il Creato, ad<br />

imitazione di fratello Francesco, che essi avevano accolto con grande commozione nei loro cuori d’ombra, dopo l’appassionato<br />

racconto


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

108<br />

racconto della sua vita che ne aveva fatto Beatrice. Si rammaricarono, allora, della loro vita tanto nebulosa, poco ardente e poco<br />

esemplare e si convinsero di essere profondamente immersi in uno stadio larvale, prenatale, dal quale dovevano a tutti i costi<br />

risalire per passare alla vita degli umani, per nascere allo stadio mortale e sperare nel Paradiso, del quale, forse, era solo un<br />

riflesso quella visione che si apriva ai loro occhi rinnovati dal desiderio dell’esser-ci, dalla fede profonda nel cambiamento. Ad un<br />

tratto si levò dalla valle una musica soavissima che, però, lasciava avvertire dentro le sue note un adagio triste, una pena,<br />

un’amarezza appena annunciata, fugace. E alla musica si accompagnò il respiro ormai inconfondibile delle Cose. Ai Personaggi in<br />

ascolto esse parlarono all’unisono, premurose e sapienti, mal celando preoccupazione e risentimento.<br />

«Amiche Ombre…» - dissero - «…figlie di un dio a voi e a noi sconosciuto, molto poco sapete della vita, di cui conoscete solo<br />

l’immagine che vi è stata trasmessa dai vostri autori. Parziale, infatti, è la vostra conoscenza del mondo del quale avete una<br />

memoria molto labile. Nessuna di voi ha attraversato il lungo cammino della storia, né ha conosciuto la preistoria, a differenza di<br />

noi che siamo da sempre nel mondo. Quanto al futuro, verso il quale siete proiettati, è meglio rinunciarvi. Nuovi esseri navigano<br />

nello spazio virtuale e presto avranno una storia nel mondo. Essi sono gli umanoidi, vicini agli umani, come lo furono un tempo i<br />

primati. Ma al contrario di questi che precorsero l’uomo, sono muniti di intelligenza artificiale e ne preannunciano la fine. Molto<br />

temiamo questa minaccia reale e peniamo per voi che amate la vita a tal punto da volere rinunciare all’immortalità. Ma qui, nel<br />

mondo, vivere è il male più grande, per cui non conviene morire! Ritornate al Castello!...Il mondo è un’enorme cosa che, per<br />

imprudenza e non per caso, si è lasciato invadere e conquistare dal male regredendo così, inevitabilmente, verso il caos. Se esso è<br />

il vaso di Pandora dal quale, anziché i mali, è fuggita solo la speranza; se esso è il grande velo di Maya, che fa ciechi i vedenti e dà<br />

a chi non ha occhi come noi la consolazione dell’intuizione, per voi il mondo resta il sogno di un dio che continua a illudervi e ad<br />

allettarvi lasciando apparire ai vostri occhi di nebbia quella realtà dalla quale egli stesso, come del resto tutti i mortali, è, in piena<br />

luce, ingannato! Così, se vi capitasse davvero di uscire da questo sogno, cadreste inevitabilmente in quel mondo altrettanto falso<br />

e senza speranza, restando imprigionati per la seconda volta in un sogno, in quella realtà che è solo ciò che appare agli uomini,<br />

incapaci di strappare quel velo e guardare! Da tempo immemore noi ci siamo rassegnate alla cecità che ci consente una visione<br />

migliore e ci ripara dagli orrori del mondo. Vedere è la più grande delle illusioni e sarebbe per voi una grave delusione. Rinunciate<br />

alla vista! Tenetevi i vostri umbratili occhi, ché è fortuna per voi che non li bagni il pianto degli uomini e non li mortifichi lo<br />

scempio delle loro miopi azioni. L’umanità sprofonda nella follia informatica, che genera i nuovi mostri di una ragione che ha<br />

abdicato a favore di una fantasia sfrenata. Essi hanno nome di Replicanti, di Cyborg, di Golem e la loro vita è “ottusa” perché<br />

senz’anima e senza ali. La loro aspirazione è diventare umani, proprio come voi, ma anche se essi saranno sempre di più sembianti<br />

all’uomo e lo supereranno in intelligenza, mai riceveranno da lui quel soffio vitale che egli, per discendenza, ricevette e riceve<br />

ancora da quell’inimitabile Dio, che con amore lo insufflò nel corpo di Adamo. Sì. Anche voi desiderate essere umani e, sebbene<br />

forme vuote e inesistenti, assomigliate all’uomo più degli umanoidi, perché non siete vite “ottuse” ma “vite” disincarnate, anime<br />

erranti in cerca di un corpo, a differenza dei Golem che sono dei simulacri, degli ibridi: incrocio di carne e d’acciaio, alla ricerca di<br />

un’anima. Quanto a noi, povere Cose, siamo più vicine a questi fantocci tecnologici perché, come loro, non abbiamo un’anima né<br />

una vera coscienza, e siamo molto distanti dall’uomo perché non abbiamo emozioni e intelligenza e, inoltre, stiamo peggio di voi<br />

perché


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

109<br />

perché non ci è stato concesso di vivere nemmeno nel sogno degli dei, dove, tutt’al più, entriamo solo per arredare la scena o per<br />

servire, e siamo trattate sempre con poca attenzione e poco riguardo!... ».<br />

Sigismondo non esitò a interrompere le Cose per interrogarle su quest’ultimo punto nel quale aveva colto una forte<br />

contraddizione. E non fu solo a formulare le domande perché la perplessità che lo spinse a parlare era anche quella dei suoi<br />

Compagni.<br />

«Che dite?... Perché affermate di non avere ciò che invece dimostrate abbondantemente di possedere, e cioè: anima,<br />

coscienza, sapienza, sentimento e intelligenza, che sono qualità esclusive della vita, della quale dite pure di non godere?»<br />

Risposero pronte e aperte le Cose: « Noi, in verità, non viviamo. Siamo mute presenze, natura morta, dalla quale rifuggono<br />

quelle qualità che appartengono solo alla vita. Tuttavia, se mostriamo di possedere queste virtù, è perché celato dentro di noi vive<br />

lo spirito dell’uomo e cioè quel sogno, ch’è la nostra origine e che nella sua unione con la realtà fa della nostra natura morta una<br />

natura soale!... E così, in virtù della soaltà, anche se noi non viviamo, siamo tuttavia nel mondo! Della soaltà è cavaliere il vostro<br />

don Chisciotte. Egli ne ha ricevuto l’investitura da Montag, per la sua antica e rinnovata fede nel sogno, creduto e vissuto come<br />

realtà vera e autentica. Tuttavia, nessuno di voi è soale, perché non siete nel mondo, perché siete solo un sogno incorporeo, privo<br />

di realtà. Eppure vivete in qualche modo nei libri, che sostituiscono la terrena dimora. Solo l’uomo, gli animali, le piante, vivono e<br />

sono nel mondo. Ma forse la vita, per tutti e indistintamente, qualunque sia la sua forma, è un incredibile sogno! E se questo<br />

sogno è la Creazione, allora la vita è Dio e il sogno di questo Dio universale!... Tornate al Castello, nella sacra dimora, dove splende<br />

quella luce divina che diraderà la nebbia e accenderà i vostri occhi. E allora voi vedrete l’alba nella profondità della notte! Dalla<br />

nostra irriducibile cecità nacque il sogno, che accese un lucore dentro la nostra interminabile notte svelandoci le forme del<br />

mondo. Di esso tutto sappiamo, dalla preistoria alla storia, grazie anche a nostro fratello Computer che, nato in tempi recenti, ci<br />

ha fatto più dotte e sapienti sul nostro dio e sulla nostra condizione. Siamo umili e servili verso questo sommo artefice che però<br />

abbiamo smesso di amare, perché molto ci mortifica l’essere trattate da merce! L’uomo non ha occhi per la nostra natura soale<br />

che in sé unisce le due realtà: quella umana del sogno che ci concepisce e quella divina della natura da cui il nostro artefice trae la<br />

materia prima con la quale veste il sogno dando così a noi un corpo reale. Sì. Noi siamo l’incarnazione del sogno e la sua realtà<br />

visibile!... Sogno e realtà, spirito e materia sono la nostra anima e il nostro corpo. Tuttavia, siamo natura morta in attesa della<br />

resurrezione! La quale potrà avvenire solo se il nostro artefice ci restituirà alla bontà e alla bellezza del sogno liberandoci dall’uso<br />

che ci degrada e in cui siamo obliate e condannate alla sparizione. Nelle mani del nostro dio non ci sentiamo più custodite e<br />

amate. Usurate e mercificate, non siamo più le nobili Cose che servono all’uomo, ma piuttosto oggetti anonimi e passivi che lo<br />

servono. Molte di noi, inoltre, sono dei cattivi sogni nei quali la bontà è scissa dalla bellezza e sostituita, nel peggiore degli usi,<br />

dall’odio e dalla violenza che servono la devastazione e la morte. Belli e mortali sono così il pugnale, la spada, la pistola, il<br />

cannone, il bombardiere, la bomba atomica… A questi nostri sfortunati simili, che delinquono nelle mani dell’uomo, ci sentiamo<br />

brutalmente accomunate quando, fuori dal benefico uso per cui siamo state create, ci usano come strumenti di offesa. Così<br />

avviene, ad esempio, quando l’amica Sedia che serve alla stanchezza, ovvero al riposo, è usata come corpo contundente e mortale<br />

contro qualcuno. Cosicché essa perde la bontà della sua funzione originaria e subisce l’abuso dell’atto violento. Come potete ora<br />

comprendere


Da H-OMBRE-S<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

110<br />

comprendere, noi siamo in balìa del nostro dio e come voi non godiamo di una vita autentica e autonoma. Ci consoli, tuttavia, care<br />

amiche Ombre, lo sguardo del sognatore che ci ha fatto incontrare in questo sogno, solo alla fine del quale, forse, a voi sarà<br />

concesso di attraversare questo Ponte e divenire esseri soali, sì, uomini-libro, piuttosto che essere consegnati in un altro libro,<br />

essendo voi già Personaggi di altri romanzi… Forse anche l’uomo è un Personaggio nel grande Libro del mondo, e la sua vita è il<br />

sogno di quel Dio dal quale, indirettamente, provengono le nostre diverse esistenze! Nati tutti nel Castello dell’uomo, un giorno,<br />

forse, ci ritroveremo nell’eccelso Castello di Dio: nell’Empireo di Beatrice e del suo amatissimo Dante e nel Paradiso più vero di<br />

Adamo.<br />

Un tempo, qui sulla terra, fu la stagione dell’oro, la primavera eterna, in cui con i fruttuosi semi cresceva il buon seme<br />

dell’ozio che molceva gli animi degli dei, ancora non usi alla guerra. Nate non erano ancora dai sogni cattivi le nostre malefiche<br />

sorelle e noi, in segreto, nelle mani degli uomini, ancora in quel tempo riconoscenti e generosi, godevamo della bontà e della<br />

bellezza del nostro lavoro e ci sentivamo utili e vitali al di là della nostra semplice e muta esistenza. All’oro seguì il falso metallo<br />

dell’evoluzione e fu una rovinosa discesa nei sogni sempre più malvagi, un crescere e un precipitare nelle messi abbondanti<br />

dell’odio e della violenza che spensero in noi, con quel pallido gusto della vita, anche l’amore e la gioia di servire alle necessità<br />

degli umani, i quali, purtroppo, resteranno tali ancora per poco. Un terribile destino li attende, una metamorfosi irreversibile, una<br />

tragica caduta in una nuova materialità, che abolirà la distanza tra il loro corpo di carne e l’attraente metallo delle macchine, e<br />

che li renderà esseri senza identità e reificati, convertiti alla religione virtuale, al grande moloch tecnologico. Rinunciate, dunque,<br />

care amiche, a ogni pretesa di vita in un mondo destinato a diventare un regno delle ombre, lontano dall’assomigliare al vostro<br />

regno edificato dal sogno e dall’amore! Accontentatevi, come noi, solamente di esistere nella cecità totale dei sensi, come l’aria,<br />

l’acqua, la terra, il fuoco, che non vivono e danno vita; come i mari, i monti, il cielo, le stelle che, anch’essi, non vivono e<br />

dispensano doni e godimento ai nostri dei irriconoscenti e ingrati. Anche senza vita è bello esserci!...sapendo di essere utili, di<br />

piacere ancora a qualcuno, di alleviargli le fatiche con i nostri servigi, di dargli giusti guadagni senza sperpero né lucro e<br />

assicurandogli, come fate voi soprattutto, gioia, distrazione, emozioni, arricchimento e contemplazione attraverso le vostre storie<br />

raccontate nei libri. Sì. La bellezza paga ancora in questo mondo labirintico e tentacolare popolato di nuove fate e di nuovi orchi,<br />

di boschi informatici e virtuali… Povero Pinocchio, che con Geppetto e Lucignolo lotta contro loschi figuri, assai più temibili del<br />

Gatto e della Volpe, i quali allettano e attirano i bambini nel “villaggio globale”, nel nuovo Paese dei balocchi!...Voglia questo<br />

nostro dio ch’egli ritorni Burattino!… Perché nel mondo non ci sono fate turchine che gli possano assicurare cura ed amore, come<br />

un tempo le madri ai propri figlioli. Ritornate dunque al Castello, nell’unico luogo sicuro dove dimora l’essenza vera dell’uomo, la<br />

sua parte più bella, che si rispecchia nelle sue buone azioni ed opere, e nella natura di cui egli è parte e che è Opera del Dio<br />

universale».


Su H-OMBRE-S<br />

«Sono ombre, non sono mortali, nel fuoco potrebbero morire…». Sono i personaggi della scrittura, convenuti da alcuni capolavori della cultura<br />

occidentale, si danno convegno nel Castello dell’agrimensore K., convergono su La vita è sogno, provengono dall’Iliade, da L’Asino d’oro, dalle<br />

Metamorfosi sia di Ovidio sia di Kafka, da Le avventure di Pinocchio. Sono personaggi di Dante Alighieri, Pirandello, Shakespeare, Dostoevskij,<br />

Gabriel García Márquez, Calderón de la Barca, Cervantes, Ray Bradbury, Philip Kindred Dick. Sono orientati a un’indagine sul sacro, sulla<br />

bellezza, sulla verità, in una cornice apocalittica giovannea, cercano la Luce che s’origina dal Vangelo, ma sono ombre, cioè icone proiettate<br />

sullo schermo della scrittura a causa di un diaframma che si è interposto tra loro e la luce, sono lemuri e fantasmi, prigionieri di un processo<br />

creativo imperfetto, da cui vogliono liberarsi, per raggiungere il decimo cielo, la suprema visione, che non hanno raggiunto nei progetti<br />

vanamente ambiziosi dei loro autori.<br />

Spettacolare allegoria dell’arte, in particolare della scrittura, ma estensibile alle altre espressioni più nobili della creatività, come la musica e la<br />

pittura, il libro H-ombre-s - gioco linguistico italo spagnolo tra uomini e ombre - definisce un territorio conteso tra fantasia e ragione che<br />

Guglielmo Peralta con un neologismo battezza soaltà, amalgama di sogno e realtà, in cui si tenta «il teatro nel teatro», la «pittura dietro la<br />

tela», il «significato oltre il significante», l’individuo fuori dalla storia, la verità fuori dal mondo reale. Il processo liberatorio peraltiano è<br />

destinato a suscitare nuovi enigmi e altri dubbi, quali: l’invenzione artistica è liberazione ovvero incubo? La creazione dell’arte è persuasione o<br />

retorica, per usare le categorie di Carlo Michelstaedter? i personaggi che si muovono nelle opere d’arte sono degli ingannevoli trompe l’œil o<br />

delle categorie di pensiero autonomo? In generale tutta l’attività creativa umana è orientata a creare il senso della libertà o una nuova<br />

prigione? Il punto più alto, wagnerianamente è: che cos’è il ‘sacro’?<br />

Gioiosamente raccontato in forma di vicenda con una trama di consequenzialità, che non esclude un finale a celestiale sorpresa, come se il libro<br />

fosse un giallo-azzurro, senza morti ma con qualche cherubino, questo favoloso viaggio nella cultura e nella letteratura della civiltà occidentale<br />

ha il pregio di non riuscire mai pedante, mai intellettualistico, ma sempre conviviale e colloquiale, con un continuo riannodarsi della memoria a<br />

situazioni di lettura note e frequentate dai medi lettori di un qualsiasi Paese occidentale, con nomi, vicende, protagonisti e figure minori che<br />

sovente sono anche state oggetto di riduzioni cinematografiche a beneficio del vastissimo pubblico, ma anche con punte di raffinata<br />

esplorazione erudita, tuttavia esposte in modo godibilissimo anche dai non addetti ai lavori. Esempio riuscitissimo di narrativa di alta<br />

concezione creativa e filosofica, H-ombre-s è un romanzo che sa sorprendentemente affascinare anche come narrativa di intrattenimento<br />

librario e documentaristico.<br />

Sandro Gros-Pietro, nota di 4a di copertina<br />

* * *<br />

… ricevo e leggo nel mio paese, dove trascorro l’intera estate, il suo libro geniale. È un’opera che ha reinventato il genere romanzesco in modo<br />

mirabile, almeno in Italia ridottosi a ripetizione, banalità, lingua commerciale, assenza di vita e d’anima.<br />

Lei è riuscito a dare vita e anima alle creazioni della letteratura e, di conseguenza, ha offerto la più alta verità della parola, della storia e dei<br />

tempi. […]<br />

Giorgio Bàrberi Squarotti, corrispondenza privata del 3 agosto 2011<br />

* * *<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

111


Su H-OMBRE-S<br />

Ci sono delle opere letterarie che si sottraggono ad una precisa definizione e H-ombre-s di Guglielmo Peralta è una di queste.<br />

Intanto vi abbonda più la riflessione che l’azione, più il monologo che il dialogo, così che potrebbe definirsi in qualche modo un saggio<br />

romanzato sulla funzione e la necessità della letteratura e su altri aspetti che intorno ad essa da sempre si dibattono: Perché si scrivono opere<br />

letterarie? È più piena e completa la vita letteraria o quella che viviamo? Qual è il rapporto fra l’idea e la scrittura? Tra l’autore e i personaggi?<br />

Tra l’autore e il lettore?<br />

Potrebbe, questo romanzo, essere pure definito un’autobiografia o, meglio una biobibliografia romanzata, visto che Peralta, attraverso esso,<br />

rende omaggio agli autori che più ha amato, mostrando al lettore in modo assai singolare la propria biblioteca e il proprio percorso di<br />

formazione; e potrebbe, ancora, essere pensato come un trattato di metafisica romanzata, poiché, attraverso i monologhi e i dialoghi dei<br />

personaggi messi in scena, egli affronta importanti quesiti etici e scioglie un inno alla grandezza del Creatore ed ai suoi doni, tra cui quello della<br />

scrittura, grazie alla quale lo scrittore può porglisi quasi a fianco in qualità di inventore di mondi paralleli. Ma, soprattutto, H-ombre-s a me<br />

pare la teatralizzazione della filosofia elaborata da Peralta, nota come soaltà, intorno alla quale egli ha pure scritto un manifesto vero e<br />

proprio e che ha dato nome ad una pregevole rivista edita a Palermo per più anni. E, a proposito di teatralizzazione, H-ombre-s presenta<br />

caratteristiche più di opera teatrale che di romanzo, per cui ci si augurerebbe di vederlo rappresentato sul palcoscenico di un teatro.<br />

Forse, a ben riflettere, H-ombre-s costituisce un insieme di tutte queste cose e, forse, qualcos’altro in più. Insomma, il romanzo H-ombre-s di<br />

Peralta è davvero un’opera originale, direi unica nella storia della letteratura contemporanea. Protagonisti di questo romanzo sono alcuni<br />

personaggi della letteratura di tutti i tempi, che cercano di autogiustificare la loro esistenza dandosi una dimensione più certa di quella di icone<br />

di carta, desiderosi di una vera vita, in modo che, come ipotizzano «la morte, quella ricevuta insieme con l’immortalità, quella subita, per<br />

incanto, da occhi estranei» possa essere «espulsa dai loro corpi di nebbia», ed essi diventino capaci di accogliere «come autentica compagna e<br />

senza remore, la morte mortale» salendo «dal regno delle ombre all’impareggiabile regno della luce».<br />

Il luogo in cui si svolge la vicenda è il Castello dell’agrimensore K., con la sua altissima torre, la biblioteca, la valle, un fiume lontano, un ponte<br />

(che rappresenta il passaggio dalla vita sognata per i personaggi alla vita vera del mondo) immersi in una notte senza fine, allucinata, tra incubo<br />

e struggente finzione.<br />

La struttura del romanzo appare come il risultato di una personalissima elaborazione di elementi tratti da diversi autori della letteratura:<br />

l’atmosfera ricorda quella del Purgatorio dantesco, poiché tutti i personaggi sembrano in attesa della beatitudine promessa, sospesi fra il<br />

ricordo della propria imperfetta vita letteraria e il desiderio della visione suprema che li affiancherebbe agli essere umani. Simbolo di<br />

quest’attesa, come dicevo prima, è il ponte che sovrasta la valle e resta a lungo lo scenario di micro-eventi, emozioni e perplessità, fra ripetuti<br />

indietreggiamenti e piccoli avanzamenti che sembrano reciprocamente annullarsi, come le provvisorie decisioni sul da farsi via via dibattute. A<br />

Dante rimanda pure l’uso abbondante dell’allegoria; per esempio, la Torre rappresenta, come svela Beatrice, la misura incolmabile delle idee.<br />

Ogni piano è un cielo in cui brillano le idee generatrici delle opere. La Torre cresce e s’infinita di nuove idee per emanazione divina attraverso<br />

gli autori. Questa torre, non si può fare a meno di notarlo, è l’esatto capovolgimento di quella di Babele, torre del caos e della disgregazione<br />

verbale, mentre qui il decimo cielo rappresenta la Parola di Dio, dalla quale la parola umana discende.<br />

La personalità, invece, e gli atteggiamenti psicologici dei personaggi ricalcano quella sottigliezza intellettuale, quel complesso e sofistico<br />

ragionare propri dei personaggi pirandelliani e quella drammaticità di sentimenti estremi che caratterizza gli eroi tragici di Shakespeare.<br />

I dialoghi a tesi fra i personaggi rimandano, invece, a quelli del filosofo Platone per la ricchezza delle metafore, la qualità poetica e la vibrazione<br />

del sacro che li animano.<br />

Infine, il sogno di riunire tutti i personaggi e i libri della letteratura è simile a quello della Biblioteca universale di Borges.<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

112


Su H-OMBRE-S<br />

Perfino il linguaggio è fatto di tòpoi letterari e come infarcito di continue citazioni che però non appaiono più tali, perché convergono in una<br />

pronuncia “soale” tutta peraltiana, a metà tra sogno della lingua letteraria (spesso anche fiabesca ed oleografica) ed il realismo del linguaggio<br />

comune. La sua qualità dominante, lirica ed effusiva, porta in sé l’impronta del lungo esercizio poetico dell’autore, ma anche del suo spazio<br />

interiore, delicato e spirituale.<br />

Potrei ancora continuare in questa disamina, ma ritengo bastino queste osservazioni per sottolineare come le caratteristiche dei diversi autori<br />

letti da Peralta si siano amalgamate in una concezione unitaria, armoniosa e singolare. E come, in ultima analisi, come prima accennavo, anche<br />

questo romanzo s’inserisca all’interno della filosofia della soaltà che è cosa tutta peraltiana, cioè di quell’amalgama di sogno e realtà, in cui,<br />

come scrive acutamente nella prefazione Sandro Gros Pietro, che ne è anche l’editore, «tenta il teatro nel teatro, la pittura dentro la tela, il<br />

significato oltre il significante, l’individuo fuori dalla storia, la verità fuori dal mondo».<br />

Questo romanzo rivela anche una solida eticità ed una centralità cristica, così da determinare anche una lettura nuova di certi capolavori della<br />

letteratura, come accade per K., protagonista de Il processo di Kafka, attraverso la bocca del Padre, uno dei Sei personaggi in cerca d’autore di<br />

Pirandello; cosi come nuova è la lettura del mito di Narciso per bocca di Beatrice.<br />

Ogni personaggio di questo romanzo rappresenta una qualità umana, una sfaccettatura psicologica molto evidente: Sonja la fede nella Bellezza<br />

e nel Sacrificio di sé, Sierva Maria l’amore al suo più alto stadio di purezza ed elevazione spirituale; K. la ricerca di un’identità, ma anche l’uomo,<br />

che non accogliendo in sé la colpa, non sa amare gli altri; Pinocchio l’incontro fra materia cosale e materia umana, ma, in senso più lato, la<br />

fantasticheria e l’infanzia; Amleto il disagio d’essere, il dubbio; Orfeo il poeta che vuole trarre alla luce l’altra faccia del canto; Euridice la<br />

consapevolezza che con i sensi non si può conoscere la verità; Odisseo la curiosità per le cose terrene e, in genere, i valori del mondo pagano; il<br />

Padre (uno dei Sei personaggi in cerca d’autore) il rimorso del peccato ed il desiderio di redenzione.<br />

Tutti i personaggi, questi e gli altri che non ho nominato, sono, però accomunati dalla consapevolezza della necessità e dell’utilità della<br />

letteratura, pur soffrendo per la loro natura di creature soltanto sognate dall’uomo. Facciamone parlare alcuni, uno dopo l’altro:<br />

Beatrice (parlando ai personaggi): «Anche se siete solo delle Ombre, grazie a voi l’uomo partecipa del mistero della vita, ovvero della Bellezza<br />

della creazione».<br />

Il Padre: «Attraverso di noi l’uomo si guarda vivere, facendosi più umano; a volte più estraneo; oppure si distrae, semplicemente, o si scopre<br />

divino».<br />

Odisseo: «Noi non siamo nati Ombre per inseguire la vita, ma per rappresentarla agli uomini come in uno specchio affinché attraverso di noi<br />

(…) si prodigassero per seguir virtute e canoscenza e mettersi in cammino verso la verità.»<br />

Sierva Maria. «I libri sono la prova e la giustificazione estetica della nostra strana e favolosa esistenza.»<br />

Amleto: «Ora ci giunge il respiro accattivante dei libri che ci tiene tutti abbracciati e siamo noi quel respiro che è spiraglio di luce. »<br />

Sonja: «Le lacrime versate e raccolte nei libri bagnano gli occhi di qualche gentile lettore, ne innalzano l’anima e la purificano… C’è bellezza nei<br />

libri! E i libri, non sono forse il corpo con cui abbracciamo il mondo?»<br />

Adesso veniamo alla trama del romanzo, sebbene i fatti siano davvero pochi, per cui preferirei parlare di alcuni punti vitali, psichico-emotivi: K.<br />

arriva nel Castello dove trova riuniti i personaggi della letteratura di tutti i tempi, ai quali Beatrice, la musa di Dante, promette la visione del<br />

Decimo cielo. Tuttavia, anche dopo questa promessa, i Personaggi tentennano fino al punto di stare per cedere al consiglio di Odisseo di<br />

bruciare la Biblioteca e fare cessare per sempre la produzione dei libri, così che le loro anime, liberate dal sogno, possano emigrare nei corpi<br />

degli uomini per vivere un nuovo e vero romanzo. A lui si oppone, e ovviamente, Montag, l’eroe di Fahreneit 451 di Ray Bradbury, che esalta la<br />

Bellezza custodita nei libri e, citando il passo dell’Apocalisse, in cui si dice: «Furono aperti i libri e fu aperto anche un altro libro, quello della<br />

vita. vita.<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

113


Su H-OMBRE-S<br />

vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere…», la investe di un’aura di sacraIità. La<br />

stasi della scena viene interrotta dall’improvviso salto di Pinocchio dal ponte e dalla sua morte in una chiazza di sangue che è, secondo<br />

l’opinione del Padre dei “sei personaggi”, la prova che il burattino è morto e vissuto veramente, «che vera fu la metamorfosi dalla sua natura di<br />

legno all’umana natura» e che, dunque, sarà per loro più semplice, «essendo più vicini al vero», avverarsi. A questo punto si inserisce il discorso<br />

di Don Chisciotte che espone la teoria della soaltà peraltiana, sostenendo che il sogno non è fantasia ed ha il primato sulla realtà che esso<br />

stesso genera. Successivamente prendono la parola le Cose stesse che cercano di dissuadere i Personaggi dal volere vivere in un mondo abitato<br />

dal caos e dalla follia informatica, incitandoli a tornare nel Castello: esortazione che viene rafforzata da quella del Padre che mette in risalto la<br />

necessità per gli uomini di rinunciare al male. Anche Odisseo, eroe pagano, comincia a capire che il passaggio verso l’immortalità va cercato in<br />

profondità attraverso il ponte verticale, cioè attraverso un’ascesa spirituale realizzabile solo grazie ad una guerra giusta ed altruista per salvare<br />

la specie umana dagli umanoidi. Ancora una volta il dialogo fra i personaggi viene interrotto dall’irruzione di alcuni uomini- rinoceronti (con<br />

evidente allusione a Jonesco), uno dei quali si ferma, mostrando di reggere sulla groppa nientemeno che Pinocchio redivivo, il quale chiede<br />

l’aiuto degli altri per lottare e riconvertire i rinoceronti in esseri umani, nella convinzione che «Finché c’è fiaba, c’è ancora speranza per<br />

l’uomo!», così come l’apparizione di un liocorno testimonia la necessità per gli umani di storie, di favole e di poesia. Infine i Personaggi<br />

conquistano la visione del decimo cielo, cioè la Galassia dei segni, il paradiso della scrittura, l’Empireo in cui campeggia l’albero della Visione.<br />

Questi nodi narrativi costituiscono l’occasione per una serie di dialoghi e monologhi, anche se in questo romanzo la differenza fra le due cose è<br />

molto sottile, poiché anche i monologhi si riverberano sulla psiche degli altri personaggi determinando mutamenti, dubbi, sentimenti corali.<br />

Per finire, va sottolineato che tutti i Personaggi, anche quelli pagani, compiono, di capitolo in capitolo, un percorso verso l’Amore cristico e che<br />

è per questo che diventano degni della visione del Decimo Cielo. Dice, infatti, Sonja, la più ardente e quasi mistica fra i personaggi: «L’amore e<br />

la compassione saranno il nostro progresso spirituale» e, ancora, «Solo l’amore riconduce il mondo a Dio».<br />

Franca Alaimo, Palermo, 29 ottobre 2011<br />

* * *<br />

[…] I Personaggi, in questo romanzo di Guglielmo Peralta, sono una scala per giungere a quell’Empireo cui tutti aspiriamo o aspireremmo. E qui<br />

è il potere, in fondo, salvifico della letteratura, non soltanto puramente contemplativo, estetico, del vedere e del sentire, ma anche del non<br />

vedere perché è la coscienza, perché è con gli occhi chiusi che si ritrova dentro di noi quel dio, quella bellezza a cui tutti aspiriamo. Religione,<br />

etica, letteratura diventano quindi un percorso di questo testo, complesso, ricchissimo di spunti, di riflessioni, di meditazioni, di<br />

approfondimenti, per cui non si può leggere assolutamente una sola volta. È, in qualche modo, una Divina Commedia in prosa, potremmo dire,<br />

dei nostri tempi fra l’altro, perché è un’ampia visione del mondo, della vita, del posto degli uomini e della letteratura. La soaltà si specifica<br />

finalmente come una visione parziale. Un personaggio soltanto, Don Chisciotte, fa presente che cos’è la soaltà e come funziona. Gli altri poi<br />

finiscono col capire, col condividere, ma non sono portatori di questo punto di vista, lo accettano, finiscono per condividerlo perché capiscono<br />

che loro sono dentro il sogno, dentro la letteratura e che, quindi, il loro esistere dipende da quello, ma fondamentalmente è un modo di vedere<br />

anche parziale, che però tende a dilatarsi, a diventare forma unica della visione e del modo di salire all’Empireo.<br />

Salvo Zarcone, Palermo, 29 ottobre 2011<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

114


La poesia della vita e l’abolizione del tempo in Proust<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

115<br />

C’è un’età della vita, in cui ogni uomo può vantarsi di essere un dio e godere di una natura “immortale”. L’eternità sembra<br />

essere una condizione naturale dell’esistenza umana, la morte un evento impossibile, che non appartiene all’uomo-dio e su cui<br />

non ha senso soffermarsi… È l’età dell’infanzia che ha il suo ponte ideale, il suo prolungamento nell’adolescenza. In questo stato di<br />

grazia, il tempo è “abolito”: il passato non esiste, o non gode di molta considerazione presso la memoria che lo sfiora appena, e il<br />

futuro è un a-venire incompatibile con quell’età che respira in un presente duraturo.<br />

Proust, il “ricercatore” per eccellenza del “Tempo perduto” dell’infanzia, sembra porsi in contraddizione con la dimensione<br />

eterna di questa età, in cui il tempo “si assenta” e, perciò, non può essere “perduto”. Tanto più che a Proust non sfugge questo<br />

sentimento del tempo immortale, segnato dal passo del “dio” che vi lascia orme incancellabili. All’interno della Recherche, la<br />

grande illusione dell’eternità, portatrice, conservatrice di una «vita ancora intatta e che solo il mattino successivo si sarebbe<br />

iniziata» [1], è infranta dalle parole che il padre, parlando con la moglie, rivolge a Marcel: «Lui non è più un bambino» [2],<br />

insinuando in lui «due sospetti tremendamente dolorosi. Il primo era che (…) la mia esistenza fosse già cominciata (…) Il secondo<br />

sospetto (…) era ch’io non fossi situato al di fuori del Tempo, ma sottoposto alle sue leggi» [3] . È, dunque, questa brusca “caduta”<br />

nel tempo che dà inizio all’esistenza e rende possibile e coerente la Recherche, dove l’ansia di ritrovare il passato convive,<br />

spesso, con il desiderio di annullarlo.<br />

A suscitare fortemente tale desiderio è il Capodanno in cui Proust, finite le visite di famiglia con la mamma, corre ai Champs-<br />

Élysées per consegnare, tramite la venditrice ambulante, una lettera a Gilberte, dove confessa di volere dimenticare «i torti e le<br />

delusioni» auspicando di potere costruire insieme con lei «dal 1° gennaio un’amicizia nuova» e sottolineando che «l’antica<br />

amicizia spariva con l’anno trascorso» [4]. Alla sera, la speranza di potere confidare nel nuovo anno, foriero “di un nuovo mondo<br />

dove nulla sussistesse dell’antico”, viene meno con «la sensazione e il presentimento che il Capodanno non fosse un giorno<br />

diverso dagli altri, che non fosse il primo giorno d’un mondo nuovo dove avrei potuto, con probabilità ancora intatte, rifare la<br />

conoscenza di Gilberte come al tempo della Creazione, come se non esistesse un passato» [5]. Abolire, dunque, il tempo, ritornare<br />

al primo mattino del mondo, iniziare una nuova vita con la speranza di dimorare felicemente in un eterno presente, è, tutto<br />

questo, un pensiero ricorrente, l’anima della Recherche, che s’intreccia con la coscienza del divenire, con questo flusso interrotto<br />

dal movimento opposto della memoria involontaria, la quale sembra assecondare, obbedire al desiderio ideale e consapevole di<br />

rivivere il passato, di fare del suo fermo immagine, dei suoi ritorni istantanei e felici una dimora duratura. Se il passato è il Tempo<br />

ritrovato, se esso travalica la sfera del vissuto e, sciabordando e scorrendo nel letto della scrittura, si distende, raccogliendosi,<br />

nelle acque del presente, allora il divenire si arresta nell’eterna ripetizione, nella realtà dell’essere che dura. Perché la durata va<br />

oltre il semplice ricordo, è un evento reale, è ciò che accade di nuovo in un nuovo segmento del tempo; non è «un’ombra, un’eco<br />

di sensazione passata … ma quella medesima sensazione». Così, l’inciampare nel lastricato del cortile di Guermantes è<br />

quell’inciampare<br />

[1] M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, Oscar Mondadori, 1970, pag. 58; [2] Ibidem; [3] Ibidem<br />

[4] Ivi, pagg. 62-63<br />

[5] Ivi, pag. 63


La poesia della vita e l’abolizione del tempo in Proust<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

116<br />

quell’inciampare sulla pietra irregolare del Battistero di San Marco: un evento, questo, accaduto molti anni prima e dimenticato e<br />

che si ripresenta di colpo, sovrapponendosi, coincidendo in modo simultaneo con l’altro evento più attuale. Qui, il Tempo<br />

ritrovato non è il frutto di una percezione sensoriale suscitatrice della memoria involontaria, ma di un insignificante incidente che,<br />

sorprendentemente, produce in Proust una gioia improvvisa, quella sensazione di felicità «provata un tempo su due lastre<br />

disuguali del battistero di San Marco» e alla quale si accompagnano tutte le altre sensazioni già narrate e disseminate nel<br />

romanzo. «[…] tutto il mio scoraggiamento svanì di fronte alla medesima felicità che, in periodi diversi della mia vita, mi avevano<br />

procurato sia la vista d’alberi che avevo creduto di riconoscere in una passeggiata in carrozza intorno a Balbec, sia la vista dei<br />

campanili di Martinville, sia il sapore d’una maddalena inzuppata in un infuso» [6] . E questo senso di felicità si accresce quando<br />

nel palazzo dei Guermantes il nostro Narratore, ovvero, l’io narrante di Proust, avverte il “tinnìo” di un cucchiaio che batte contro<br />

un piatto, o quando si asciuga la bocca con un tovagliolo ruvido: fatti, questi, che gli ricordano, rispettivamente, la martellata d’un<br />

ferroviere su una ruota del treno fermo in aperta campagna, durante un suo viaggio di ritorno a Parigi e «la stessa inamidata<br />

rigidezza dell’asciugamano» che egli aveva usato il giorno del suo arrivo a Balbec. [7]<br />

È grazie a queste analogie, a queste «corrispondenze», colte prima dal Romanticismo e poi magistralmente usate da<br />

Baudelaire, che entriamo nel mondo di Proust, penetriamo nel suo cuore, nella sua anima profonda, esploriamo la sua personalità<br />

complessa. Si tratta di semplici “impressioni”, di visioni fuggevoli e indistinte, d’istanti “puri” e abbaglianti, che si verificano<br />

raramente nella nostra vita vissuta e a cui diamo solo un’importanza relativa e superficiale, ma che Proust ha saputo valorizzare,<br />

riportare in profondità ed evidenziare attraverso la scrittura e che abbiamo imparato a chiamare “resurrezioni”, “intermittenze”,<br />

“estasi”, “epifanie”, provando così una gioia nella bocca, intravedendo, afferrando in esse una verità, ravvisandovi qualcosa di<br />

sacro. È nella scrittura, dove il tempo è raccontato, che quel banale incidente dilata le proprie proporzioni e acquista uno spessore<br />

caricandosi di messaggi, di significati, che sono il frutto di riflessione, di meditativa immaginazione, mossa da una realtà ideale,<br />

non astratta, e da un sentimento nuovo del tempo. Quell’incespicare, quella quasi caduta, quella sensazione passeggera che ne<br />

consegue e che fa inter-essere passato e presente, fondendoli in un unico istante, è per sempre fissata dalla scrittura che la<br />

descrive come un evento fuori dello spazio e del tempo, con quei due flash in essa r-accolti: l’apparizione di Venezia e<br />

l’apparizione di Guermantes, che con la loro intemporalità cancellano, di colpo, la realtà presente, passata e futura aprendo al<br />

nostro Poeta (finalmente tale!) una porta magica, offrendogli una possibilità di salvezza. «Ma a volte, proprio nell’attimo in cui<br />

tutto ci sembra perduto, giunge il messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davan tutte sul nulla; e la sola per<br />

cui si può entrare e che avremmo cercato invano cent’anni, in quella urtiamo inavvertitamente, e s’apre». [8]<br />

È la poesia della vita, della natura umana, racchiusa dentro quella multipla sensazione, che rimuove in Proust il dubbio circa<br />

le proprie doti letterarie e lo consacra poeta a tutti gli effetti dandogli quella gioia che è vocazione alla scrittura e certezza di<br />

vivere u<br />

[6] M. Proust, Il tempo ritrovato, Oscar Mondatori, 1970, pag.175<br />

[7] Ivi, pagg. 177 - 178<br />

[8] Ivi, pag. 175


La poesia della vita e l’abolizione del tempo in Proust<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

117<br />

una vita più vera in quei miracolosi istanti, in cui avverte di «respirare un’aria nuova - nuova proprio perché è un’aria che s’è già<br />

respirata altra volta - aria più pura» [9]. «La gioia che gli dà il potere di scrivere non l’autorizza a scrivere qualsiasi cosa, ma solo a<br />

comunicare tali istanti di gioia e la verità che palpita dietro tali istanti». [10]<br />

Così un semplice evento, una semplice percezione diventa un pezzo di vita nel corpo della scrittura, e in questa “tranche de<br />

vie” respira un’intera esistenza, un uomo rinnovato, «affrancato dall’ordine temporale», il quale ora sa di potere attingere in sé<br />

stesso e di potere confidare negli uomini («Gli uomini potrebbero ispirarmi quello che la natura non mi dà più») e nella gioia,<br />

grazie alla quale «è comprensibile che la parola morte non abbia più senso per lui, situato fuori del tempo». [11]<br />

L’uomo, dunque, diventa per Proust la vera e unica fonte d’ispirazione, in grado di risvegliare in lui l’amore per la natura e il<br />

desiderio di trasmettere al lettore «un godimento privato», di partecipare la gioia di ritrovarsi in «un frammento di tempo allo<br />

stato puro». La pietra in cui egli inciampa diventa il fondamento della scrittura, la quale alimenta, descrivendola,<br />

dettagliatamente, con molte colorazioni nel linguaggio e nello stile, quella felicità suscitata dalle reminiscenze involontarie che lo<br />

trasportano in una «realtà extratemporale» lasciandogli così intuire che il tempo può essere abolito e la morte sconfitta, o vissuta<br />

con indifferenza e perciò differita. «Ma perché mai le immagini di Combray e di Venezia mi avevano suscitato, nell’un momento e<br />

nell’altro, una gioia simile a una certezza e bastevole, senza altre prove, a rendermi indifferente la morte?»<br />

È ancora un episodio, un fatto banale, che gli fa prendere realmente coscienza, questa volta, della realtà tragica della morte,<br />

la quale gli si presenta nella sua spietata verità, con il suo carico di dolore e di sofferenza, nel volto della nonna ormai morta e<br />

risuscitata nel ricordo, attraverso quel futile gesto di togliersi le scarpe che egli compie, non più bambino, in Normandia, in quella<br />

camera d’albergo in cui anni prima era stato con lei. È la nonna, è lei che gli slaccia le scarpe, come allora, sovrapponendosi la sua<br />

immagine al gesto da lui ora compiuto! Ed è qui, in questo semplice gesto, in questa tragica rivelazione che si annuncia, per la<br />

prima volta, quella salvezza che ritroviamo realizzata in Le Temps retrouvé, in quella pietra d’inciampo, in quella gioia, che è il<br />

tempo abolito e il tempo miracoloso della scrittura.<br />

La Recherche non è un andare verso il passato per ritrovarlo e perderlo di nuovo nel tempo presente; non ci si riempie gli<br />

occhi di ciò che si è vissuto per ritornare nel presente ad occhi vuoti; non si va per ritornare, ma per entrare in una nuova<br />

dimensione, in una realtà altra, diversa dal passato e dal presente e che non è né l’uno né l’altro, ma l’uno e l’altro insieme. Non<br />

c’è circolarità nella Recherche che si risolve nell’abolizione del tempo, dove nulla si perde e nulla si ritrova, esistendo soltanto un<br />

eterno presente, un “eterno ritorno” dell’uguale, per dirla (alla lontana) con Nietzsche, a differenza del quale non è la «volontà di<br />

potenza» a vincere sul tempo distruttore, ma la memoria involontaria con i suoi istanti di felicità, in cui si raccoglie un’intera vita<br />

umana. Questa memoria involontaria, che sembra in contraddizione con l’atto volontario della “Ricerca”, proprio in quanto agisce<br />

liberamente, sfugge «all’ordine del tempo» ed è per mezzo di essa che la Recherche può avere inizio e compiersi con il<br />

ritrovamento<br />

[9] Ivi, pag. 179<br />

[10] M. Blanchot, L’esperienza di Proust, in Il libro a venire, Einaudi, 1969, pag. 28<br />

[11] M. Proust, Il tempo ritrovato, cit. pag. 182


La poesia della vita e l’abolizione del tempo in Proust<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

118<br />

ritrovamento del tempo, che equivale a trarsi fuori da esso.<br />

Il Tempo ritrovato, dunque, è il Tempo abolito. È la Poesia della vita, sono le intermittences du cœur a generare e orientare<br />

in quella direzione tutta la Recherche. Esse dominano sulla grande mole dell’opera, vi gettano una luce ristoratrice, purificatrice,<br />

che inebria e consola, che ci sprofonda e ci innalza e che ci fa sognare con la coscienza di vivere qualcosa di reale, che ci<br />

appartiene, che ci è familiare e che è all’origine della nostra esistenza: il mito inviolato della felicità. Queste illuminazioni, da sole,<br />

bastano a rendere la grandezza dell’opera, permettendoci di sorvolare, di pazientarci, di “digerire” le lunghe, prolisse descrizioni,<br />

divagazioni e digressioni. E annunciandoci e mettendoci sempre in attesa di nuove estasi c’introducono, poco per volta, nelle<br />

grandi cattedrali dello spirito e del pensiero, dove la Poesia della vita è custodita e, a sua volta, custodisce e alimenta il proprio<br />

linguaggio facendosi, essa stessa, poesia, arte, vocazione. Essa è la sorgente, solo dalla quale è possibile attingere quella gioia pura<br />

che il reale non è in grado di suscitare. («Avevo troppo sperimentato l’impossibilità di attingere dal reale ciò che era in fondo a me<br />

stesso»). [12] Queste illuminazioni sono il corto circuito del tempo, ne spezzano la circolarità separando passato e presente, di cui<br />

realizzano quell’unione più profonda che è la loro intemporalità: «l’eterna ripetizione, l’eterna restaurazione della felicità prima e<br />

originaria. Questa idea elegiaca della felicità (che si potrebbe anche chiamare idea eleatica) è ciò che per Proust trasforma<br />

l’esistenza in una riserva del ricordo!». [13]<br />

Non è, forse, l’ex-sistentia, secondo la lezione di Heidegger, ma già nel suo etimo latino, uno “stare fuori” dell’essere ontologico e,<br />

quindi, una «deiezione» [14], una caduta nel tempo da cui bisogna risalire? E l’abolizione del tempo non è, forse, questa risalita?,<br />

un trarsi fuori dal tempo, dal suo essere mortale? E quest’idea della felicità, che sembra porre Proust sulla scia di Parmenide e<br />

che è il cuore della Recherche, non è, forse, il tempo dell’essere originario, l’unità «estatica» di passato, presente e futuro, sepolta<br />

nell’oblio esistenziale e che trova nell’esistenza la maniera di manifestarsi, di epifanizzarsi attraverso quegli “istanti puri” in cui si<br />

raccoglie l’eternità?<br />

Queste “resurrezioni”, in cui la vita si eterna, trovano nel linguaggio, soprattutto poetico, la loro espressione più naturale.<br />

Sono, esse, la poesia della vita, del mondo interiore, o dello spirito, che chiama e sollecita Proust all’opera. E in questo senso, la<br />

Recherche è, per Proust, un prendere coscienza della propria vocazione di scrittore e metterla in pratica, ed è una risposta a sé<br />

stesso e all’angoscia attraverso quella gioia, suscitata dalle immagini di Combray e di Venezia, che gli danno la certezza della<br />

salvezza, e che è bastevole a rendergli la morte indifferente.<br />

[12] Ivi, pag.186<br />

[13] W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, 1973, pag. 30<br />

[14] Il termine (ted. Verfallen) è heideggeriano e sta a significare l’essere decaduto dell’uomo, il suo «essere-gettato» nel mondo della<br />

quotidianità, dell’opinione, al livello delle cose.<br />

In Conversazioni con Proust, AA.VV., www.larecherche.it e www.ebook-larecherche.it, luglio 2011


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

119<br />

SCENA<br />

Intertesto: un’idea per un teatro monografico<br />

Personaggi<br />

L’uomo - La donna - Il poeta<br />

Testi di<br />

G. Bachelard - S. Beckett - G. Benn - H. Bosco - M. De Unamuno - T. S. Eliot - T. Gautier<br />

S. George - J. G. Hamann - M. Heidegger - F. Hölderlin - E. Jabés - G. Lukács - P. Neruda -<br />

F. Nietzsche - Novalis - G. Peralta - R. M. Rilke - J. Supervielle - R. Tagore - G. Trakl<br />

* * *<br />

Una grande mappa celeste, in cui costellazioni di lettere prendono il posto delle stelle. Sullo sfondo un albero capovolto dalle<br />

radici azzurre e dai rami spogli. Si animerà ogni volta che l’uomo e la donna attaccheranno ai suoi rami pagine azzurre con versi<br />

dorati. Al centro della scena un monolito, sul quale è aperto un libro dalle pagine azzurre.<br />

AZIONE<br />

L’azione si svolge nella penombra. Di tanto in tanto, un occhio di bue illuminerà il volto degli attori. La luce dominerà nel finale.<br />

Ogni volta che il poeta farà scaturire, dal profondo delle sue meditazioni, la parola-immagine della Parola, l’uomo e la donna si<br />

porranno in devoto ascolto, fisseranno la mappa celeste e accenneranno o eseguiranno molto lentamente piccoli passi lungo un<br />

immaginario percorso.


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

120<br />

Buio. Su un sottofondo musicale si udranno, registrate, le seguenti parole:<br />

«Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle stelle rischiara.<br />

Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari<br />

tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa dell’essenza delle stelle: come la luce dal fuoco, così il<br />

mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. Perché il fuoco è l’anima di ogni<br />

luce e nella luce si avvolge ogni fuoco». [1]<br />

(Una nota musicale si leva in climax ascendente mentre la scena torna in penombra. L’uomo e la donna poco discosti l’uno<br />

dall’altra, con le spalle al pubblico, osservano la mappa celeste. Il poeta è su un lato della scena, di fronte al pubblico e assorto<br />

nelle sue meditazioni. Poco dopo la nota si spegne, l’uomo inizia a parlare).<br />

L’uomo: (indica, in direzione della mappa, un punto imprecisato)<br />

Lon-ta-no … Lon-ta-no…<br />

La donna: Lontananza è solo oblio. Ricorda e sei stella! Lontananza è il tempo che ci fa smemorati.<br />

L’uomo: (a sé stesso, con stupore) Ricorda e sei stella!... Stel-la! (pausa) Nel cuore si accende la stella, ma nella mente si<br />

spegne la luce del mondo (alla donna). Dove andiamo?<br />

La donna: «A casa, si va sempre a casa. In noi e in nessun altro luogo è l’eternità coi suoi mondi, il passato e l’avvenire». [2]<br />

(breve pausa) Il passato è l’avvenire del mondo!<br />

L’uomo: (lunga pausa) Dal cielo cadono parole come stelle, ma i desideri rimangono impronunciati. Fra tante costellazioni<br />

siamo muti ed erranti. In quale parola abbiamo riposto il tempo … in quali sogni ci siamo trastullati e dispersi?!... In questo<br />

cammino vedo solo ombre, e per quanti sforzi io faccia non distinguo il principio!<br />

La donna: Lunga è la via, ma alla fine il tempo cederà la sua cometa.<br />

L’uomo: (come seguendo un suo pensiero) In principio era il verbo…<br />

[1] G. Lukács, Die Theorie des Romans, 1920<br />

[2] Novalis


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

121<br />

(alla parola “verbo” una luce illumina i volti dei tre attori, come in un quadro del Caravaggio. Pochi attimi, poi i volti rientrano<br />

nella penombra)<br />

La donna: (sospirando) Adesso è un sogno, interminabile.<br />

L’uomo: «Tutto l’essere del mondo, se sogna, sogna di parlare». [3]<br />

La donna: «Fiore sonoro della luce tenebrosa, faro e porto del mare dell’infinito, aurora senza principio né fine che trama<br />

l’Universo e lo lavora, Copernico è la lingua creatrice, pegno d’ultima pace è la Parola». [4]<br />

L’uomo: (al poeta, che se ne sta discosto e assorto) Perché non parli?... «Se vi sono delle gole nella montagna, non è<br />

perché il vento, una volta, vi ha parlato?» [5]<br />

La donna: Una parola, una sola parola può schiudere l’Universo (al poeta) Parla, poeta, ché voce del mondo è la tua voce!<br />

L’uomo. «Se tu non parli colmerò il mio cuore del tuo silenzio e lo sopporterò. Pazientemente, a testa china, resterò muto<br />

e attenderò come la notte, in veglia stellata. Certamente il mattino verrà, svaniranno le tenebre e la tua voce verserà per il cielo<br />

raggi dorati. Allora le tue parole prenderanno ali in canzoni da tutti i miei nidi d’uccelli, le tue melodie fioriranno in tutte le mie<br />

foreste». [6]<br />

Il poeta: (come destandosi da un sogno) Io sogno … io parlo… «L’immagine è formata dalle parole che la sognano». [7]<br />

«Nessuna cosa è dove la parola manca». [8]<br />

(Lunga pausa. Il silenzio è rotto dalla seguente voce registrata)<br />

Voce d’uomo: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole sinché ce ne sono, bisogna dirle sinché mi<br />

trovino, sinché mi dicano…strana pena, strana colpa, bisogna continuare; è forse già cosa fatta, mi hanno forse già detto, mi hanno<br />

forse portato<br />

[3] Théophile Gautier, Les vacances<br />

[4] M. De Unamuno, Canzoniere<br />

[5] T. Gautier, Les vacances<br />

[6] R. Tagore, Gitanjali<br />

[7] E. Jabès, Les mots tracent<br />

[8] S. George. Das neue Reich


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

122<br />

trovino, sinché mi dicano … strana pena, strana colpa, bisogna continuare; è forse già cosa fatta, mi hanno forse già detto, mi<br />

hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s’apre sulla mia storia; mi stupirei si aprisse, questa<br />

porta». [9]<br />

L’uomo: «Le parole sono i tesori della terra … per mezzo di esse si manifesta l’essenza invisibile della nostra anima… Senza<br />

parola, niente ragione, niente mondo». [10]<br />

La donna: Parla, poeta … perché il mondo esista!<br />

Il poeta: Io parlo e ascolto il mondo … il suo respiro è la mia voce; il mio orecchio, il suo polmone … ma i miei occhi non<br />

toccano il suo costato e nel cammino mi perdo dietro i suoi passi senza orma… Dove sono?... Ditemi se io sono!<br />

L’uomo<br />

e La donna: Sei nei dintorni, e se parli, sei!... «La parola è la casa dell’essere!» [11]<br />

Il poeta: Loquor: ergo sum? (scuote la testa) Il mio verbo è il silenzio! (dopo una pausa, sussurra) Io silenzio, tu silenzi, egli<br />

silenzia, noi silenziamo, voi silenziate, essi silenziano.<br />

L’uomo: Il fatto è che siamo al grado zero della parola e ci perdiamo nei suoi dintorni.<br />

La donna: Il più delle volte la dissipiamo in una montagna di parole e quando crediamo di poter ritornare ad essa come tanti<br />

figliuol prodighi, in verità di più ce ne allontaniamo<br />

L’uomo: E il tempo trascorre invano perché la parola non sta alla sua ruota… (si avvicina al monolito. Con tono carezzevole)<br />

«O Bellezza, scolpita nella pietra, tra la furia e l’urlo della vita te ne stai immobile e muta, solitaria e appartata. Il grande Tempo<br />

siede innamorato ai tuoi piedi, e sussurra: - Parla, parlami, amore; parla, mia sposa! - Ma le tue parole sono chiuse nella pietra, o<br />

immobile Bellezza!» [12]<br />

La donna: (osserva il monolito, si avvicina, lo tocca, poi sfiora il libro come se volesse carezzarlo) La pietra che partorì la<br />

torre scava già detto, mi hanno forse portato<br />

[9] S. Beckett, L’innominabile<br />

[10] J. G. Hamann<br />

[11] M. Heidegger, Essere e tempo<br />

[12] R. Tagore, Il Giardiniere


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

123<br />

torre scava dentro l’anima caverne di versi, dove il tempo è un bambino che dorme e sogna di risvegliarsi. E l’angelo delle culle<br />

viene ad asciugare le ore e in quel sonno pesante mette un sogno di gioia<br />

L’uomo: La pietra che segnò il cammino ora cela il suo monolitico canto. Quale parola tenterà il silenzio delle mani che si<br />

raccontano e che scavano nel segreto affiorare di un volto che germoglia. Quale selce potrà mai pronunciare la parola che si<br />

chiude alla radice. «Rimpiango il tempo in cui la linfa del mondo, l’acqua del fiume, il sangue roseo dei verdi alberi nelle vene di<br />

Pan iniettavano un universo!» [13]<br />

La donna: La pietra metterà radici. Ma dove sono le radici dell’uomo, dove quelle della parola?... In quale direzione<br />

dobbiamo guardare per vedere … per parlare? “In interiore homine”, certo!... ma è un bel dire… Io per conto mio sono cieca.<br />

Il poeta: «Nessuno si conosce fin quando non lo tocca luce d’anima affine che dall’eterno arriva e gli illumina il fondo. Il<br />

tuo sentire intimo sboccia nella mia bocca. La tua vista ho negli occhi, guarda per me, mia cieca, guarda per me e cammina» [14]<br />

La donna: Guarda, poeta, parla dunque, ché in te io mi veda!<br />

(Una musica celestiale. Si ode, prima piano, poi in crescendo, infine in sottofondo)<br />

Il poeta: «Io non sapevo che dire, la mia bocca non sapeva nominare, i miei occhi erano ciechi; qualcosa batteva nella mia<br />

anima, febbre o ali perdute e mi andai facendo solo. Decifrando quella scottatura scrissi la prima linea vaga, vaga, senza corpo,<br />

pura sciocchezza, pura sapienza di chi non sa nulla e vidi d’improvviso il cielo sgranato e aperto, pianeti, piantagioni palpitanti,<br />

l’ombra perforata, crivellata da frecce, fuoco e fiori, la notte travolgente, l’Universo. Ed io, essere minimo, ebbro del grande vuoto<br />

costellato a somiglianza, a immagine del mistero, mi sentii parte pura dell’abisso, rotolai con le stelle, si sciolse il mio cuore nel<br />

vento». [15]<br />

La donna: Io non posso che sciogliermi in lacrime (tende la mano all’uomo) Non riesco a vedermi … troppo buia è la notte in<br />

cui mi sono dispersa … e in questa oscurità io ti perdo!<br />

L’uomo: Cara … cara luce dei miei occhi che non vedono che un luogo d’esilio, dove la parola ci fa erranti e quotidiani… Il<br />

quotidiano<br />

[13] Henri Bosco<br />

[14] M. De Unamuno, Poesie<br />

[15] P. Neruda, Memoriale di Isla Negra


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

124<br />

quotidiano è la nostra unica occasione d’eternità… Qui, in questa quotidiana esistenza, in eterno c’incontriamo per perderci ad<br />

ogni istante… Io e te, come tutti, di questo pane ci cibiamo, ma altra è la parola di cui dobbiamo nutrirci … (gridando) Liberaci,<br />

Signore, dal pane quotidiano!<br />

Voce d’uomo (registrata): Diamo libertà alla parola, riconduciamola alla sua forma interiore contro l’istituzione.<br />

Denudiamola della coerenza della convenzione, del suo satrapismo alla moda. Curiamo il suo virus-mentale con il visus del cuore.<br />

Contro la ragione delle ragioni diamo libertà alla parola e quando l’avremo liberata, sull’ultimo esile filo essa rivelerà a noi il suo<br />

segreto!<br />

(La musica cessa)<br />

La donna: (con agitazione e quasi correndo per la scena, un correre che è un ondeggiare) Bisogna essere desti … ché non ci<br />

trovi la parola addormentati… In questa notte perpetua non ci si può abbandonare alle lusinghe del sonno… Bisogna vegliare,<br />

perché la parola celeste, al suo improvviso apparire, non ci colga distratti.<br />

L’uomo. (accennando un passo di danza) «Con tuoni e celesti fuochi d’artificio si deve parlare a sensi fiacchi e<br />

addormentati. Ma la voce della bellezza parla sommessa: essa s’insinua soltanto nelle anime deste». [16]<br />

La donna: (stringendo le mani dell’uomo tra le sue) Vegliamo, dunque, affinché l’oblio non ci colga, in tanto disordine,<br />

impreparati.<br />

L’uomo: (stringendo, a sua volta, le mani della donna e portandosele al petto, sul cuore) «Io dico che si deve avere ancora<br />

del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza» [17] (Si separa dalla donna con una piroetta e accenna passi di<br />

danza) «Se mai giunse a me un soffio dell’alito creatore e di quel celeste costringi- mento che forza i casi a danzare la danza in<br />

tondo delle stelle: oh, come non potrei essere avido d’eternità e del nuziale anello degli anelli – l’anello del ritorno? Mai trovai<br />

donna dalla quale volessi aver figli se non questa donna che amo: poiché io ti amo, oh eternità». [18]<br />

La donna: (accenna, a sua volta, piccoli passi di danza) Oh potessi essere io la tua stella!...Danzerei nell’eterno anello di<br />

fuoco, esprimerei, danzando, l’Universo!<br />

[16] F. Nietzsche<br />

[17] F. Nietzsche<br />

[18] F. Nietzsche


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

125<br />

L’uomo: (prendendo tra le sue, le mani della donna) Oh mia stella non toccata dalla luce, lascia crescere l’azzurro a brevi<br />

passi di danza… Come allora, danzante sarà questo tempo se celeste canto lo sfiora<br />

La donna: Le parole sono astri, alcune sono stelle, altre pianeti:<br />

quelle splendono di luce propria, queste di luce riflessa. Ma le parole più splendenti sono comete… Canta, poeta, genera la parola,<br />

come allora il tempo generò la sua danza!<br />

(Di nuovo la musica. Quando va in sottofondo, il poeta recita con tono evocativo le parole che si sono udite all’inizio e che sono<br />

state pronunciate da una voce registrata. Anche il poeta accenna passi di danza)<br />

Il poeta: Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore delle<br />

stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è<br />

sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa dell’essenza delle stelle: come la<br />

luce dal fuoco, così il mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. Perché il fuoco<br />

è l’anima di ogni luce e nella luce si avvolge ogni fuoco.<br />

(La scena s’illumina)<br />

La donna: Ancora, ancora … parlaci del fuoco … sprigiona la parola in mille faville, incendia i nostri cuori colmi d’attesa<br />

(all’uomo) Semmai finiranno questi giorni gravidi di ombre, di nuovo udremo il canto del Liri o mio antico sposo … di nuovo<br />

vestiremo d’aria … toccheremo il cielo con la nostra pelle… Ma qui, ancora fonda è la notte… «Come di tanto oblio fare una rosa;<br />

di tante partenze come fare un ritorno. Mille uccelli in fuga non fanno un uccello che si posa, e tanta oscurità simula male il<br />

giorno» [19]<br />

L’uomo: Con te, stella dei giorni a venire, con te attraverserò questa notte fino ai primi segni di luce. Torneremo all’Aperto,<br />

ancora una volta insieme, come allora … ma questa volta con passo sicuro perché con noi cammina l’intero genere umano. (Al<br />

poeta) Parla, poeta, parlaci … mettici in cammino, ché lunga è la via del Canto! Fai balenare la parola, quella che fa che la cosa sia<br />

cosa, quella che tace e che ci chiama a raccolta… La parola che sia degna di essere pensata e per la quale è lecito dimenticare<br />

tutto quello che siamo venuti dicendo…<br />

Il poeta: Questo «un Dio lo può… Ma noi, come potremo? Non è il canto frutto goloso che si coglie alfine. Cantare, è<br />

essere. Facile<br />

[19] J. Supervielle


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

126<br />

essere. Facile a un Dio. Ma noi, quando saremo? E quando, intorno, Egli ci volgerà la terra e gli astri? In verità cantare è un altro<br />

soffio. Un soffio per nulla. Un sospiro in Dio. Un vento». [20]<br />

La donna: Mai, dunque, conosceremo quel Bene che pure ci è prossimo? Mai potremo toccare quella gioia con la nostra<br />

bocca? Così povero, dunque, è l’uomo cui pure è concessa dovizia di parole?<br />

Il poeta: «Così è l’uomo; quando il Bene è lì e provvede con doni un dio stesso per lui, quel Bene egli non conosce e non<br />

vede. Soffrire prima egli deve; allora egli dà il nome a quel che più ama. Allora, allora per esso devono nascere parole, come fiori.»<br />

[21] «Perciò io spero - quando a ciò che desideriamo sia dato inizio e sia la nostra lingua sciolta, e la parola trovata e aperto il<br />

cuore, e dalla fronte ebbra alto il pensiero s’elevi - che con la nostra inizi insieme la fioritura del cielo e allo sguardo aperto appaia<br />

il Numinoso». [22]<br />

«Lunga e difficile è la parola di questo avvento, ma chiaro è l’attimo. I servi dei Celesti conoscono la terra, il loro passo è verso<br />

l’abisso giovanilmente più umano, ma ciò che è nelle profondità è antico.». [23]<br />

La donna: «Molto, a partir dal mattino, l’uomo ha appreso; ma presto saremo canto» [24] (Prende una pagina azzurra del<br />

libro e va, lentamente, ad attaccarla all’albero)<br />

(Musica, di nuovo in crescendo. Poi gradatamente, in sottofondo)<br />

Il poeta: Oh «riposarsi nel cuore delle parole, veder chiaro nella cellula di una parola, sentire che la parola è origine di vita,<br />

alba nascente… A volte cerco un rifugio in una parola, una parola che comincio ad amare in se stessa … oh, come si amano le<br />

parole create nei due generi, come tutto ciò che vive… Tutte le parole che tocchino le cose, il mondo, i sentimenti, se ne vanno<br />

l’uno cercando la sua compagna, l’altra il suo compagno: la specchiera e lo specchio, la sveglia fedele e il cronometro esatto, la<br />

foglia dell’albero e il foglio del libro, il legno e la foresta, il nembo e la nuvola, il liuto e la lira, i pianti e le lacrime…» [25] Oh,<br />

parole innamorate, io vi amo perché so di essere amato dalla Parola che ci comprende e che tutte le cose ama e battezza…<br />

La donna: Molto, a partir dal mattino, l’uomo ha appreso; ma presto saremo canto! (Attacca un’altra pagina all’albero)<br />

[20] R. M. Rilke, I sonetti a Orfeo<br />

[21] F. Hölderlin, Pane e vino<br />

[22] F. Hölderlin, Gita in campagna<br />

[23] F. Hölderlin<br />

[24] F. Hölderlin, Festa della pace<br />

[25] G. Bachelard, La poetica della rệverie


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

127<br />

(Di nuovo la musica. Prima forte poi in sottofondo)<br />

Il poeta: Laudato sia il nome delle cose e col nome il Verbo sia laudato. Suo regno è il cosmo e a noi sia dato auscultarlo in<br />

erba e in sasso, in fuoco e in fiera, in ogni orma e figura e in volgere di tempo. Laudato sia il Nome perché attraverso i nomi<br />

respirano le cose e laudato sia il cosmo perché in esso i nomi hanno respiro. In loro gloria «l’anima sogna più fresche fioriture»<br />

[26] ed è un attimo d’azzurro la Parola appena ridestata: «un fulgore, un volo, un fuoco, una fiammata, uno striscio di stelle … poi<br />

buio, immenso, nel vuoto spazio intorno al mondo e a me» [27] Laudato sempre sia il sacro vuoto che il Verbo, sparendovi, fa<br />

colmo di quel che ancora medito e di quel che compongo, di quel che amo senza vederne il volto.<br />

L’uomo: Oh intima visione che fai grande il respiro dei poeti, apri i tuoi occhi sul mondo affinché con il tuo sguardo possa il<br />

mondo guardare!<br />

La donna: Oh invisibile volto, parla e sii specchio del mondo!<br />

L’uomo: Molto, a partir dal mattino, l’uomo ha appreso; ma presto saremo canto! (Come la donna, anch’egli attacca una<br />

pagina azzurra all’albero)<br />

(Musica in crescendo e subito spezzata da un brusio che si fa sempre più forte fino ad esplodere in un chiasso di parole. Buio. Il<br />

chiasso va in dissolvenza. Silenzio. Poco dopo, pianissimo, poi in crescendo, si odono in coro le seguenti parole registrate)<br />

«Vecchiezza è quando accoccolato Sputacchiando sui tizzoni Il tempo che la strega Finisca di rigovernare E ti porti il tuo vino caldo<br />

La vedi venire Nelle ceneri che amata Non fu conquistata O conquistata non amata O un altro guaio del genere Venire nelle ceneri<br />

Come in quella vecchia luce La faccia nelle ceneri Vecchia luce delle stelle Là fuori sulla terra Di nuovo sparsa… Poi un po’ dentro<br />

Attraverso l’immondizia Verso il buio dove… Finito di mendicare Finito di dare Niente più parole né senso Finito d’aver bisogno…<br />

Attraverso l’immondizia Un po’ più giù Fino al buio di dove la fonte s’intravede Poi un po’ dentro Attraverso l’immondizia Verso il<br />

nero dove Finito di mendicare Finito di dare Niente più parole né senso Finito d’aver bisogno Attraverso l’immondizia Un po’ più<br />

giù Fino al nero dove La fonte s’intravede Ancora. Ancora. Profondo sospiro … profondo…» [28]<br />

L’uomo: (gridando) Luce! Luce!<br />

[26] G. Trakl<br />

[27] G. Benn<br />

[28] S. Beckett, Parole e musica


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

128<br />

La donna: (gridando) Luce! Luce!<br />

L’uomo e<br />

La donna: (gridando) Fiat Verbum!<br />

(Una luce intensa illumina i volti dei tre attori. Poi subito penombra. Musica in sottofondo)<br />

L’uomo e<br />

La donna: (con intensità) Molto, a partir dal mattino, l’uomo ha appreso; ma presto saremo canto! (attaccano altre due<br />

pagine all’albero)<br />

L’uomo: Parla, poeta … senza pause. Un fiume di luce versi l’infinita parola ad annullare il senso del non senso<br />

La donna: Parla … parole … di specchio! Parla e guarda! ... guarda e parla! ... specchi di parole nel cui suono il volto si rifletta<br />

e la sorgente zampilli e l’uccello canti verso la terra. «Redimi il tempo, redimi il sogno, la promessa del Verbo non detto e non<br />

udito. Finché il vento non scuota mille bisbigli» [29]<br />

Il poeta: «Attraverso tutti gli esseri passa l’unico spazio, spazio interiore del mondo. Silenziosi volano gli uccelli attraverso<br />

di noi. Io che voglio crescere, guardo al di fuori ed è in me che cresce l’albero» [30]<br />

(Musica. L’albero si anima. L’uomo e la donna accennano passi di danza)<br />

Il poeta: (una luce gli illumina il volto che s’illumina, a sua volta, di una luce interiore) Parlo … guardo … ascolto… «Se la<br />

parola perduta è perduta, se la parola spesa è spesa Se la parola non detta e non udita è non udita e non detta Sempre è la parola<br />

non detta, il Verbo non udito, il Verbo senza parola, il Verbo nel mondo e per il mondo. E la luce brillò nelle tenebre e il mondo<br />

inquieto contro il Verbo ancora ruotava attorno al centro del Verbo silenzioso. Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà la<br />

parola? Non qui, che qui il silenzio non basta Non sul mare o sull’isole, né sopra la terraferma, nel deserto o nei luoghi di pioggia<br />

Per coloro che vanno nella tenebra durante il giorno e la notte il tempo giusto e il luogo non sono qui Non v’è luogo di grazia per<br />

coloro che evitano il volto Non v’è tempo di gioire per coloro che passano in mezzo al rumore e negano la voce: per coloro che<br />

sono straziati fra stagione e stagione, tempo e tempo, fra ora e ora, parola e parola, potenza e potenza; per coloro che attendono<br />

stagione,<br />

E<br />

[29] T. S. Eliot, Mercoledì delle ceneri<br />

[30] R. M. Rilke


Inediti. IN CAMMINO – (la parola)<br />

Guglielmo<br />

Peralta<br />

129<br />

nelle tenebre e sono terrificati e non possono arrendersi E affermano di fronte al mondo e fra le rocce negano nell’ultimo deserto<br />

e fra le ultime rocce azzurre il deserto nel giardino il giardino nel deserto della secchezza, sputando dalla bocca il secco seme di<br />

mela… Le vele bianche volano ancora verso il mare, verso il mare volano Le ali non spezzate E il cuore perduto si rinsalda e allieta<br />

nel perduto lillà e nelle voci del mare perduto E lo spirito fragile s’avviva a ribellarsi per la ricurva verga d’oro e l’odore del mare<br />

perduto s’avviva a ritrovare il grido della quaglia e il piviere che ruota E l’occhio cieco crea le vuote forme fra le porte d’avorio. E<br />

l’odore rinnova il sapore salmastro della terra sabbiosa. Questo è il tempo della tensione fra la morte e la nascita Il luogo della<br />

solitudine dove i sogni s’incrociano fra rocce azzurre Ma quando le voci scosse dall’albero di tasso si partono che l’altro tasso sia<br />

scosso e risponda… Sorella benedetta, santa madre, spirito della fonte, spirito del giardino, non permettere che ci si irrida con la<br />

falsità Insegnaci a aver cura e a non curare Insegnaci a starcene quieti anche fra queste rocce… Sorella, madre e spirito del fiume,<br />

spirito del mare, non sopportare che io sia separato E a te giunga il mio grido» [31] … E il cuore in volo di gabbiano tocchi a fior<br />

d’acqua la profondità e canti. Per tutte le costellazioni allora accada che poi risuoni in mille echi il Verbo e sia angelica voce e<br />

verità solenne, in plena luce e grazia. E il verde sempre alle fronde e ai fiumi e ai laghi l’acqua non manchi e il fuoco ancor celeste<br />

l’aria espanda a contener più mondi. Una sempre è la fonte, uno solo il cosmo d’eterno fiato che mi parla in canzoni e mi fa nato<br />

per nascere ogni volta. E nel suo Nome vado esplorando cieli dove in volo infinito crescono gli uccelli. Capovolti, svettano alla<br />

terra alberi dalle azzurre radici e un cielo è la terra se la chiama la parola celeste. In fiore sbocciano sogni di preludi a nuova luce<br />

che rifiata E coglieremo giorni alla vendemmia per una ebbrezza senza fine. Oh, indicibile bellezza degli abissi brulicanti di stelle<br />

ove fluisce il Suono che si leva in fibre d’Universo! Dopo lunghi silenzi, l’uomo apprende il suo Canto … e parla Ed è Parola il cosmo<br />

che si svela!<br />

[31] T. S. Eliot, Mercoledì delle ceneri<br />

(Musica. Sipario. Ancora musica)


Tra, 2011,<br />

stampa a secco e grafite, 70 x 50 cm


Lucilio Santoni<br />

130<br />

È nato nel 1963.<br />

Vive a San Benedetto del Tronto. Lavora intorno alla poesia da operatore culturale, con la consapevolezza che la cultura, al pari della<br />

poesia, non è un oggetto ma un modo di trattare la realtà.<br />

È Coordinatore editoriale di Marte Editrice e Direttore artistico de I lunedì d’autore che si svolgono a Grottammare.<br />

Ha diretto la collana video Poeti marchigiani contemporanei.<br />

Libri Pubblicati:<br />

• Dopo le orde dei numeri (Nuova Compagnia Editrice, Forlì, 1991);<br />

• Il guerriero fantasioso - Episodi di critica d’arte (Clueb, Bologna, 1993);<br />

• Apologia del perdente - Pagine dall’esistenza nuda (Guaraldi, Rimini, 1995);<br />

• Corpo di guerra (Stamperia dell’Arancio, Grottammare - AP, 2002);<br />

• L’infinito nella voce - Su poesia e psicoanalisi (FrancoAngeli, Milano, 2004);<br />

• Dell’amore - distruzione e creazione (QuodLibet, Macerata, 2005);<br />

• Sapore aspro d’amore (Marte, Colonnella - TE, 2010);<br />

• Lettere a Seneca (Marte, Colonnella - TE, 2011);<br />

• Come spuntano le ali sul dorso dei gatti (Marte, Colonnella - TE, 2011).<br />

Ha tradotto da Melville (Moby Dick), Stevenson (Ritratti e memorie), Lorca (Libri e libertà. La biblioteca di tutti) e Alemàn (L’antifilosofia di<br />

Jacques Lacan).<br />

È autore e protagonista, insieme a Susanna Parigi, dello spettacolo teatrale Dall’anima al corpo.<br />

L’opera musicale Corpo di guerra è edita dal Manifesto.<br />

Alcuni autorevoli e brevi pareri sull’opera di Lucilio Santoni:<br />

* * *<br />

«Un libricino “cangiante e poetico”, edito da Guaraldi, si chiama Apologia del perdente. Nelle pagine di Lucilio Santoni, l’autore, ho<br />

intravisto la chiave per aprire una porta chiusa, o socchiusa, del tempo nuovo». Sergio Zavoli;<br />

«Le immagini, concepite da Lucilio Santoni e create con concetto oltremodo suggestivo dalla luce magica di Renato Tafuri, scorrono al di<br />

là di un mondo fatto di nulla e descrivono una realtà, virtuale magari, ma in effetti di luce, di animalità e di pietra». Mario Bernardo, a<br />

commento della collana video Poeti marchigiani contemporanei;<br />

«Siamo di fronte a un’operazione poetica e culturale di grande spessore, un linguaggio concreto funzionale alla concretezza dell’assunto<br />

umano, storico e ideologicamente straziato che nasce dalla storia, dalla nostra storia, dilatandosi a raggiungere le radici stesse delle<br />

tragedie collettive». Roberto Natale, a commento di Corpo di guerra.


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

131<br />

1 (verso il fondo)<br />

3<br />

Me dejaré arrastrar becho pedazos,<br />

ya que así se lo ordenan a mi vida<br />

la langre y su marea,<br />

los cuerpos y mi estrella ensangrentada.<br />

Saré una sola y dilatada herida,<br />

hasta que dilatadamente sea<br />

un cadáver de espuma: viento y nada.<br />

*<br />

CORPO DI GUERRA<br />

I<br />

*<br />

Miguel Hernández<br />

Soprattutto di notte, i riflessi argentati escludevano il<br />

bisogno di una fine, l’imminenza di una fine. Ma gli<br />

occhi si dissolvono presto, si perdono nelle cavità del<br />

cielo in un crivellato abbraccio con la terra.<br />

La luce d’oggi non lascia immaginare un poter essere,<br />

né un essere presente, né un essere stato. Resta solo<br />

uno scivolare verso il fondo, per cercare chi ancora<br />

non s’è fatto ombra, silenzio puro.<br />

Con le traduzioni di alcuni testi dall’italiano allo spagnolo<br />

(già in www.miguelhernandezvirtual.com, ottobre 2003)<br />

e dall’italiano al portoghese<br />

(già in http://alicerces1.blogspot.com/2009/05/lucilio-<br />

santoni-corpo-de-guerra-1-ate.html)<br />

1 (hacia el fondo)<br />

CUERPO DE GUERRA<br />

I<br />

*<br />

Sobre todo de noche, los reflejos plateados excluían la<br />

necesidad de un final, la inminencia de un final. Pero<br />

los ojos se disuelven rápido, se pierden en las<br />

cavidades del cielo en un acribillado abrazo con la<br />

tierra.<br />

La luz de hoy non deja imaginar un poder ser, ni un ser<br />

presente, ni un haber sido. Queda sólo un deslizarse<br />

hacia el fondo, para buscar a quien todavía no se ha<br />

echo sombra, silencio puro.<br />

Traduzione in spagnolo di Luisa Navarro de la Torre


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

132<br />

2 (in esposizione)<br />

Se uno ha visto la storia dei vivi<br />

sprigionati dalla carne<br />

diventati aria<br />

acqua terra e fuoco<br />

diventati il sale del mondo,<br />

se uno ha visto la storia<br />

per la prima volta,<br />

allora può anche trovare un corpo<br />

esposto al confine,<br />

che sta in esposizione<br />

per testimoniare la propria vita infame.<br />

3 (fuggono)<br />

È un odio<br />

proveniente da un altro tempo;<br />

è un desiderio che deriva dai secoli.<br />

Ed ora essi hanno perso se stessi,<br />

hanno perso la propria città senza mai averla.<br />

Dappertutto le piogge, gli autocarri che viaggiano lenti,<br />

la stanchezza, il cappotto pesante come un sudario.<br />

Fuggono.<br />

*<br />

*<br />

2 (em exposição)<br />

Se alguém viu a história dos vivos<br />

separados da carne<br />

transformados em ar<br />

água terra e fogo<br />

transformados no sal do mundo,<br />

se alguém viu a história<br />

pela primeira vez,<br />

então pode encontrar também um corpo<br />

exposto aos confins,<br />

em exposição<br />

para dar testemunho da própria vida infame.<br />

3 (fogem)<br />

É um ódio<br />

que vem de outro tempo;<br />

é um desejo que deriva dos séculos.<br />

E agora mesmo eles se perderam,<br />

Perderam a sua própria cidade sem nunca a possuírem.<br />

Por todo o lado, a chuva, os camiões que viajam lentos,<br />

o cansaço, o casaco pesado como um sudário.<br />

Fogem.<br />

Traduzione in portoghese di Ruy Ventura<br />

*<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

133<br />

4 (quattro)<br />

E non parla<br />

non dice del suo tormento,<br />

chiusa in una lingua a metà<br />

piena di consonanti, s’affida<br />

alla voce dei vendicatori e intanto sogna<br />

delira nel tardo pomeriggio<br />

chiama i morti, perché vengano<br />

alla sua festa. Il suo respiro lieve<br />

è di quelli che lasciano immaginare<br />

la perdita di tutto.<br />

5 (l’odio)<br />

Quando il sangue e la memoria sono una cosa sola<br />

non serve coprire la nudità, non serve<br />

evitare la tortura, non serve salvare l’anima.<br />

Basta gridare «odio tutti quei volti, vi odio».<br />

*<br />

*<br />

4 (cuatro)<br />

Y non habla<br />

no dice de su tormento,<br />

encerrada en una lengua a medias<br />

llena de consonantes, se confía<br />

a la voz de los vengadores y mientras sueña,<br />

delira al final de la tarde,<br />

llama a los muertos, para que vengan<br />

a su fiesta. Su respiración leve<br />

es de las que dejan imaginar<br />

la pérdida de todo.<br />

5 (el odio)<br />

Cuando la sangre y la memoria son una sola cosa<br />

no hace falta cubrir la desnudez, no hace falta<br />

evitar la tortura, no hace falta salvar el alma.<br />

Basta gritar «odio todos esos rostros, os odio».<br />

Traduzione in spagnolo di Luisa Navarro de la Torre<br />

*<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

134<br />

6 (voi)<br />

Siete stati chiamati<br />

voi tutti siete stati chiamati a produrre macerie<br />

a vivere il tempo della menzogna e delle sentinelle.<br />

Assistete ora alla corsa delle uniformi<br />

verso il mare<br />

anch’esso corrotto dalle città di sabbia.<br />

Oh le fughe… i ritorni<br />

le rovine della primavera, il vetro<br />

opaco che si rompe in mano al viaggiatore prima nell’arrivo nella terra promessa.<br />

I vostri occhi torneranno all’orizzonte, per non vederlo,<br />

in un inutile dolore sommerso dall’etnia della polvere.<br />

6 (vós)<br />

*<br />

Fostes chamados<br />

fostes chamados para produzir escombros<br />

para viver o tempo da mentira e das sentinelas.<br />

Assisti agora à corrida dos uniformes<br />

na direcção do mar<br />

também corrompido pelas cidades de areia.<br />

Oh, as fugas… os regressos<br />

as ruínas da primavera, o vidro<br />

opaco que se quebra na mão do viajante antes de chegar à terra prometida.<br />

Os vossos olhos voltarão ao horizonte, para não o verem,<br />

numa inútil dor submersa pela etnia do pó.<br />

Traduzione in portoghese di Ruy Ventura<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

135<br />

7 (padre)<br />

Non è giusto che le cose durino a lungo,<br />

pensò guardando il disertore che non voleva cadere.<br />

Il chiarore asciutto del sottoponte era quasi accogliente<br />

e quel corpo si agitava, forse per la primavera<br />

o forse per le pallottole che lo riempivano sotto la pelle.<br />

Immaginò i millenni e i popoli, e avvertiva un dolce languore<br />

come se la materia delle stelle fosse entrata nelle arterie.<br />

Padre, ricordo che anche tu facevi fatica a stare in piedi…<br />

Perché non cade?<br />

*<br />

7 (padre)<br />

No es justo que las cosas duren demasiado,<br />

pensó mirando al desertor que no quería caer.<br />

El resplandor seco de debajo del puente era casi acogedor<br />

y aquel cuerpo se agitaba, quizás por la primavera<br />

quizás por las balas que lo llenaban bajo la piel.<br />

Imaginó los milenios y los pueblos, y advertía una dulce languidez<br />

como si la materia de las estrellas hubiese entrado en las arterias.<br />

Padre recuerdo que a ti también te costaba trabajo mantenerte en pié…<br />

¿Por qué no se cae?<br />

Traduzione in spagnolo di Luisa Navarro de la Torre<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

136<br />

8 (otto)<br />

Bruciarsi nel corpo di un altro,<br />

così senza farsi notare<br />

ci sarà pure un motivo, un criterio, una ragione<br />

e invece trattengo il respiro per non piangere<br />

quando tutt’intorno non vi è altro che quel corpo immenso nel furore<br />

dei singhiozzi. I documenti bruciati, l’oriente l’occidente immenso<br />

disorientato da un corpo e da una voce<br />

che non so neppure io di chi fosse e perché non parlava.<br />

8 (oito)<br />

*<br />

Queimar-se no corpo de outro,<br />

assim sem dar nas vistas<br />

haverá decerto um motivo, um critério, uma razão<br />

e no entanto sustenho a respiração para não chorar<br />

quando a toda a volta não há mais do que aquele corpo imerso no furor<br />

dos soluços. Os documentos queimados, oriente ocidente imenso<br />

desorientado por um corpo e uma voz<br />

que nunca soube de quem fosse ou que razão a mantinha calada.<br />

Traduzione in portoghese di Ruy Ventura<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

137<br />

9 (la brezza fra gli ulivi)<br />

Voi certamente ricorderete com’era triste la brezza fra gli ulivi,<br />

in quell’ora precisa di quella sera.<br />

Ma io dico che l’ho desiderata<br />

come a volte si desidera un grumo di sangue e di speranze,<br />

Dio che hai fatto di questo regno un giardino<br />

fa’ che giunga al più presto la resurrezione della carne.<br />

La mia bocca impastata di parole andrà in processione, tutti i giorni da lei<br />

e farò in modo che le tue opere vengano in processione da me, nel mio corpo<br />

che vuole risorgere e non importa, no, nient’altro.<br />

*<br />

9 (la brisa entre los olivos)<br />

Vosotros ciertamente os acordaréis de lo triste que era la brisa entre los olivos,<br />

en aquella hora precisa de aquella tarde.<br />

Pero yo digo que le ha deseado<br />

como a veces se desea un grumo de sangre y de esperanzas,<br />

Dios que has echo de este reino un jardín<br />

haz que me llegue cuanto antes la resurrección de la carne.<br />

Mi boca empastada de palabras irá en procesión, todos los días hacia ella<br />

y lo haré de tal forma que tus obras vengan en procesión hacia mí, a mi cuerpo<br />

que quiere resucitar y no importa, no, nada más.<br />

Traduzione in spagnolo di Luisa Navarro de la Torre<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

138<br />

10 (sfinita)<br />

Voi non avete visto niente della mia città.<br />

Siete venuti, avete portato cibo e medicine, avete portato le armi,<br />

ma non avete visto niente. Voi avete cercato di alleviare la nostra via crucis,<br />

avete sperimentato il fiele e l’amarezza, ci avete fatto un dono regale,<br />

ma non avete visto niente.<br />

Io, signori, reclinata su un fianco, sfinita<br />

tanto da non somigliare più a me stessa, vi prego di non coprire<br />

di non nascondere il mio corpo, affinché tutti possano vedere, finalmente,<br />

la città che mi dona allegria, l’agonia e la pasqua dentro questo silenzio.<br />

10 (esgotada)<br />

*<br />

Não haveis visto nada da minha cidade.<br />

Vistes, trouxestes comida e medicamentos, trouxestes armas,<br />

mas nada haveis visto. Tentastes aliviar a nossa via sacra,<br />

experimentastes o fel e a amargura, viestes dar-nos uma oferta régia,<br />

mas não vistes nada.<br />

Eu, senhores, reclinada sobre o flanco, esgotada<br />

ao ponto de não me reconhecer, rogo-vos que não queirais cobrir<br />

que não queirais esconder o meu corpo, para que todos possam ver, finalmente,<br />

a cidade que me dá a alegria, a agonia e a páscoa dentro deste silêncio.<br />

Traduzione in portoghese di Ruy Ventura<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

139<br />

11 (l’altrove)<br />

Dice di vedere, lì, sotto quel ponte, di vedere i suoi simili<br />

in carovana. Abbandonano la città, seguendo le grandi strade a nord<br />

verso il nord del mondo. Dice che vorrebbe partire anche lei<br />

da ciò che resta, lasciare quel corpo, quella memoria immensa<br />

non sentire più il tanfo dei sopravvissuti. Dice di vedere…<br />

ma intanto non guarda, ha gli occhi chiusi sul tempo<br />

che si sbriciola. Le domande dell’esistenza sono tutte lì, con calma<br />

si affollano oltre il groviglio de3i sentimenti. Dice di vedere<br />

di intuire il millennio che c’è fuori, ma fuori c’è la storia<br />

giocata sulle barricate, farcita di nebbie e leggende;<br />

c’è l’altrove infinito.<br />

11 (en otro lugar)<br />

*<br />

Dice que ve, allí, debajo de aquel puente, que ve a su semejantes<br />

en caravana. Abandonando la ciudad, siguiendo las grandes carreteras hacia el norte<br />

hacia el norte del mundo. Dice que ella también querría irse<br />

de lo que le queda, dejar aquel cuerpo, aquella memoria inmensa<br />

no sentir más el tufo de los supervivientes. Dice que ve…<br />

pero mientras tanto no mira, tiene los ojos cerrados al tiempo<br />

que se desmenuza. Las preguntas de la existencia están todas allí, con calma<br />

se agolpan más allá de la maraña de sentimientos. Dice que ve<br />

que intuye el milenio que hay fuera, pero fuera está la historia<br />

que se juega en las barricadas, rellena de nieblas y leyendas;<br />

hay otro lugar infinito.<br />

Traduzione in spagnolo di Luisa Navarro de la Torre<br />

*


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

140<br />

12 (dodici)<br />

*<br />

Qui si compie la mia storia, anche se la vita non vuole andarsene, non può andarsene. Comincia<br />

ora lo stillicidio delle parole vuote, delle ore senza senso. Mi sento andare a fondo nella cavità<br />

dell’essere, dove non c’è voce, dove il buio si è aperto al buio e la terra alla terra.<br />

13 (più nulla)<br />

*<br />

Alla fine più nulla. Ma io continuo a vivere, in un tempo imprevedibile, misterioso tanto quanto<br />

quello passato, nelle carezze, e quello futuro nel quale mi dissanguo.<br />

12 (doze)<br />

*<br />

Aqui se cumpre a minha história, ainda que a vida não queira partir, não possa partir. Começa<br />

agora o gotejar das palavras vazias, das horas sem sentido. Sinto-me a cair nas cavidades do<br />

ser, onde não há voz, onde a escuridão se abriu à escuridão e a terra à terra.<br />

13 (nada mais)<br />

*<br />

No fim, nada mais. Continuo, porém, a viver, num tempo imprevisível, tão misterioso quanto o<br />

passado, nas carícias, e o futuro em que perco o sangue.<br />

Traduzione in portoghese di Ruy Ventura


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

141<br />

*<br />

CORPO DI GUERRA<br />

II<br />

*<br />

In quelle immagini, in quel film da semplice operatore, da aspirante giornalista spintosi fin lì per brama di carriera, ella sta<br />

ripiegata sul fianco sinistro. Le ginocchia in flessione, mentre le braccia sono quasi diritte. Aspetta. Sembra aspettare. Ma<br />

non la morte, ch’è lì vicina e quasi tangibile - oh che bella la morte, col suo riposo infinito, con le celesti praterie e la<br />

visione del Signore - ella sembra aspettare direttamente la resurrezione della carne.<br />

*<br />

Giace con tutte le dita delle mani slogate. Gliele avevano ritorte e quasi frantumate affinché non potesse usarle per<br />

difendersi, per scacciare da sé quegli orrendi soldati resi goffi dai pantaloni abbassati, simili a pinguini in calore. Giace lei,<br />

ora, legata al suolo da filamenti di sangue e liquidi organici. Nel film non si vedono gli occhi, coperti dai lunghi capelli, ma<br />

immaginiamo che li tenga chiusi per non vedere l’orrore del proprio corpo, o forse per stanchezza, o magari per quella<br />

infantile, antica paura dei topi. Anche se lì non pare un posto da topi… troppo affollato e troppo di passaggio. In tredici<br />

secondi, tanto dura il film, passano otto persone accanto al corpo di lei. E non si possono fermare, certo, perché<br />

tutt’intorno scoppiano le granate. L’operatore cerca di raccogliere qualche parola da quella bocca. Ma vediamo la<br />

mandibola in posizione innaturale. La corona dei denti, aperta per sempre, non nasconde un buco profondo dal quale<br />

fuoriesce l’abisso della vita, viene sputato fuori da una tosse emorragica, insieme a vomito e poltiglia infetta. Ma non fa<br />

schifo, neppure l’operatore prova disgusto e anzi affonda i piedi in quella pozzanghera che non è d’acqua piovana.<br />

L’articolazione dei suoni in forma di parole ha bisogno di ben altro apparato fonatorio che non quell’ammasso di lingua e<br />

palato, di labbra e gengive. No, impossibile la parola.<br />

*<br />

Anche lei non prova schifo, per se stessa e per ciò che la circonda. Magari la disturba dare uno spettacolo così miserando<br />

di sé. Immagina una scena da macelleria. In effetti è quasi nuda. Per la precisione le rimane in dosso un indefinibile<br />

brandello di stoffa intorno alla vita e i residui di una camicia sopra le spalle. Le natiche sono graffiate brutalmente ma la


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

142<br />

linea sinuosa del corpo è intatta. Bella. L’operatore cerca di non soffermarsi sulla parte bassa del corpo, ma pochi<br />

fotogrammi sono sufficienti per intuire la violenza avvenuta fra quelle gambe, piegate ma non troppo, corrose dall’umana<br />

tortura, ora chiuse intorno al lungo che ha fornito piacere, chiuse per sempre.<br />

*<br />

Lui, si sofferma invece sulla schiena, per pudore, e allora vediamo spuntare sotto gli stracci la forma delle scapole.<br />

Vediamo alcune vertebre che a causa della curvatura del dorso spingono la pelle in più punti. Alcuni di questi fotogrammi,<br />

tanto veri da sembrare costruiti, potrebbero far parte di un servizio di moda. Intanto dall’altra parte della schiena<br />

immaginiamo due seni martoriati, e poi li vediamo, negli ultimi secondi, ammassati verso terra. Vediamo il ventre.<br />

Respira, sì respira. È viva, questo già lo sapevamo. Ora sappiamo che ha sperimentato le passioni assolute, nella crudeltà.<br />

Non ci resta niente da capire, niente da ascoltare, un silenzio. Meglio non sentire, non provare nulla, parlare del tempo e<br />

del fine settimana. Oggi sarà una bella giornata, si prevedono code in autostrada. La primavera è esplosa e sta per<br />

riversarsi nell’estate. Spero che anche voi abbiate delle ferie lunghe e serene. Dopo un anno di lungo lavoro, in fabbrica o<br />

in ufficio, a scuola o al ministero, godetevi il verde dei prati e l’azzurro del cielo.<br />

*<br />

Ella avrà un nome, e forse quel nome la contiene tutta , avrà un uomo o magari più uomini, qualcuno che vorrebbe<br />

amarla, magari anche nella melma purulenta in cui si trova vorrebbe abbracciarla, vorrebbe guardarla negli occhi e<br />

baciarla mescolando la propria saliva a quei lividi infetti provenienti dalle cavità più recondite del suo corpo. Qualcuno<br />

vorrebbe forse sporcarsi con le croste e le deiezioni sparse sul corpo di lei, magari con le mani pulirle, magari deponendo<br />

un po’ di saliva sul polsino della camicia e poi sfregando delicatamente sulle ferite per disinfettarle. Vorrebbe forse dirle ti<br />

amo, sei bella come la luna quando la luna è piena. Ti amo, voglio portarti con me nel posto più lontano dalla follia della<br />

guerra. E intanto le accarezzerebbe le dita slogate, la vestirebbe con i propri pantaloni e la propria giacca. Piangerebbe<br />

per quel supplizio che lei ha subito e tutto ciò rafforzerebbe il suo amore per quella carne inguaribilmente viva,<br />

condannata alla vana attesa della resurrezione.<br />

*<br />

Trecentoventicinque fotogrammi, tanto dura il film nell’orologio dei vostri occhi, sembrano registrare il martirio. Ma così<br />

non è. Perché voi siete lontani, siete immersi nell’assenza, non siete da nessuna parte. Voi potete anche provare rabbia,<br />

volendo,


Corpo di guerra<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

143<br />

volendo, o addirittura commuovervi, ma rimanete e rimarrete assenti, precipitati in un’altra lingua e in un’altra abitudine,<br />

collocati in un’aria spenta da cimitero. Avete nelle orecchie il racconto della felicità, il ricordo di quando si parte la<br />

mattina e si carica il bagagliaio per la montagna. Arrivate forse alla nostalgia, come esperienza ultima che vi è concesso di<br />

provare. E allora chiedete a lei, in quei tredici secondi, di aiutarvi a vivere. La implorate che vi faccia toccare con mano<br />

quella carne che a voi è sconosciuta. Le domandate se sia possibile entrare in quel martirio. Ma non è possibile. Ella<br />

invece è lì. Sta facendo notte e lei non parla, non vede, forse non ascolta, forse solo l’olfatto le porta l’acre odore della<br />

propria esistenza, ma vive, gettata come un escremento, vive e dovrebbe provare pietà per voi che le chiedete ciò che lei<br />

non può darvi.<br />

*<br />

Ella invece non chiede nulla, anzi offre il proprio sacrificio, offre la propria sconcia sacralità carnale. Ecco la guerra degli<br />

uomini. Ecco il turpe inganno, sembra volere dire il suo corpo vittima della depravazione. Guardatelo in tutta la sua<br />

impudicizia e procedete alla vostra masturbazione di rito. Poi dimenticate tutto. Non abbiate paura e dimenticate ciò che<br />

vi si è presentato come nuda esistenza. Al termine dei tredici secondi voltatevi dall’altra parte, guardate attraverso la<br />

finestra, sulla strada. Vi saranno altre donne e altri uomini, impegnati nella battaglia quotidiana, corpi dotati di una<br />

bellezza feroce e bestiale, specchi di voi stessi. Non dimenticateli. Li vedrete passeggiare nella vostra anima, li vedrete<br />

coperti di urina e di sterco, li osserverete versare sangue scuro, a fiotti, poi si uniranno a voi e andrete ad accecarvi dritti<br />

verso i raggi del sole, privati persino di un nome, in cerca del nulla e della sua pace.<br />

*<br />

Il film è finito. Tredici secondi sono passati. Un’eternità trascorsa senza parole e senza sguardi. Ella è stata la<br />

testimonianza, per sempre vivente, del dolore estremo di non poter morire. Voi siete stati testimoni della condanna<br />

totale, marchiata sui vostri corpi, di non poter vivere.<br />

volendo,


Da L’infinito nella voce<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

144<br />

PER DIRE IL LEGAME<br />

GLI OCCHI DELLA DEMOCRAZIA<br />

Murmuran que hablo muy poco<br />

alma los que nada saben<br />

de nuestros largos coloquios.<br />

Miguel Hernández<br />

Il volto attira su di sé gli ultimi sguardi. È pallido, quasi superbo nel disgusto. Il sole s’abbassa all’orizzonte della città.<br />

Uomini smarriti. Abitanti della storia che guardano, fra le palpebre sottili, altri occhi che forse non torneranno a chiudersi.<br />

Tutto è luce. Sarà mai possibile? Dicono: sarà Dio, sarà il destino. Invece è solo la luce a tenere insieme le cose. Sotto le<br />

ciglia una pupilla colpevole. Non si spegnerà più, come la memoria della rivolta, come una caduta nel tempo. Fall in love,<br />

invecchiare indenni. Eppure lo sguardo non è più lo stesso. Crepuscolo. Aperti, aperti i buchi neri, della pelle e del dolore.<br />

Spalancati sul futuro, pigro orrore, insostenibile. E allora pagare il debito con la misura, con la geometria, ricca di<br />

consolazione, fino all’origine. Ahi la musica della materia! Eccolo, dopo l’autunno, il fondo senza fine del cuore in inverno.<br />

Al buio. Sotto le stesse ciglia, a malapena, filtrerebbe un barlume di saggezza: cambiare la sostanza delle galassie,<br />

integrarle con la catastrofe del nulla. E consapevolmente farla finita. Andandosene senza rivederla. Addio, di nuovo e<br />

sempre. Addio alla lentezza, addio alle persone e alle cose, a tutte le cosmologie. È tempo che i fari si spengano, le parole,<br />

le luci. Stop, crolla l’universo. Si delineano nuovi contorni. L’oggetto è cambiato. Peggiorato. Abbandonato alla<br />

dannazione, ma non disintegrato, questo no. Resta uno e non due. Per caso un volto, l’anarchia degli esordi, ossia la<br />

forma politica dell’amore. Con le pupille tremanti, vale ancora la seduzione? Esiste ancora nutrimento per la retina? O<br />

rimane solo la città dalla quale non c’è ritorno?<br />

LA BOCCA DELLA DEMOCRAZIA<br />

Dentro il profumo intenso la testa vive il suo momento. Di olii ed escrementi. Fin là dove scompare la saliva per


Da L’infinito nella voce<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

145<br />

crudezza estrema. Le facciate delle case, in faccia agli stranieri. Per riprendere da loro la gioia impensata. Quella oltre il<br />

confine. Di guardare le labbra delle fanciulle polite dal vento. Oh schiamazzo di giochi! E che sospiri! D’aprile, era mattina.<br />

Io mi ricordo. Le lancette lente, a scandire i minuti migliori. Prima del disastro. In un’aria d’illusione uscivano parole.<br />

Flatus vocis. Tracce di serenità su quella bocca. Piacere. Quanto piacere fornì a chi s’era avviato verso la terra, verso<br />

l’acqua e il fuoco. Non avendone l’aria aveva parlato da uomo serio e ferito. Addio angeli. Arrivederci adorabile città. La<br />

mia carogna ti lascia e se ne va. No, nessuno stupore. Penserà lei alle pietre e agli abbracci. Basta che mi permettiate di<br />

vivere il disfacimento. Ai confini dell’essere l’insenatura fra le labbra sembra un infinito. Non chiuso luogo, no… direi…<br />

un’espressione del mondo. Una natura cullata fra cielo e terra. Calma. Che calma di voce! Nel restare all’unisono. Una<br />

spensieratezza della lingua o un crivellamento del dubbio? La testa che pesa nelle molecole arricchite e nelle sembianze,<br />

all’estremità della ragione. Non v’è più nulla. Solo bacio. Deliziato suggere di abissi. Trasparenze. Solarità. Sofferti frattali.<br />

Mostrano la vastità del naufragio. Mio amore, love me so tender. Si squarciavano le gole, ingoiando. E denti, e gengive.<br />

Un tempo votati alla fonazione. Relitti. Sussurra ancora questa nazione in forma di città. Fracassata. Ancora fascinosa. Un<br />

portento di strade che conducono oltremare. Ma i ricordi s’inaridiscono, talvolta. Quando il vuoto è troppo spinto per<br />

rientrare in porto. Non torna nessuna nave. Scompare ogni traccia. Solitudine, burrasca e rancore. Se rimanesse pure una<br />

geografia del desiderio sarebbe solo un tesoro senza mappa.<br />

IL CORPO DELLA DEMOCRAZIA<br />

Strade di rabbia verso fosse comuni. Ti ho vista e non le dimentico. Ancora negli occhi. Di quando eri a lutto. Finita la<br />

rivolta. Ma rimaneva un corpo. Ubriaco ma un corpo. Il mio, un insulto. Di carne incerta, tremolante. Per vedere sua<br />

madre, nuda nel quadro. Scomparso il pittore, forse cieco. Forse troppo immerso nei freddi misteri. Ah che dolci ragazze<br />

bionde! Per questo i miei desideri faranno naufragio. Gli amori che avevo están olvidando mi nombre. E quello della città<br />

dove non vivo. Oh come sogno le vetrine del quartiere latino! I falsi specchi che restringono la figura. Mentono in faccia al<br />

mondo. Apertura di finestre surreali. Di circuiti dipinti e files infetti. Stanca per le parole, si gettò. Proprio lì. Nel lasso di<br />

tempo che intercorre fra il diritto universale e l’esatta memoria di un deserto. Era libera. Quel corpo appariva eterno e<br />

necessario come la passione che aspettavamo da sempre. Oppure essere viaggiatori. Abbandonare l’affitto dei cuori e<br />

delle dimore. Piangere per tutta la bellezza. Senza poter andare a cena con la storia. La bellezza che non abbiamo saputo<br />

accarezzare. Violentati dal sospetto. La ragazza scenderà alla fermata del Kursaal. Dopo averle parlato, la dovrò<br />

dimenticare. Datele i miei resti. Chiamatela forte. Prima che questo odio sia totale. Fra nazioni e cittadini. Durante la<br />

navigazione illimitata. Fra stranieri. Agli estremi confini del sud, all’estremità del nulla. In un remolino di petali. Rosa<br />

anch’essi, come le carni maciullate. Come i desideri inespressi. Oh, di che colore è il tempo? Di quale tonalità il candore<br />

delle vittime? E che dire poi dei carnefici? Anche loro alla deriva. A cercare una morte immensa. In pace col corpo. Io ho<br />

memoria


Da L’infinito nella voce<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

146<br />

memoria della vita. Del formarsi delle retine. All’orizzonte s’avvicinano, quasi s’abbracciano. Ma restano soli.<br />

LA GUARDO, LASCIO CHE ACCADA<br />

Dal mio letto vedo spuntare il sole. Di nuovo. Dal mio letto che è quasi una nave scruto la nuova luce e penso al<br />

principio di ogni vita. Di là c’è un’altra finestra. Ci sono le sedie sdrucite. C’è l’altrove dei raggi. Me ne sto impalato nella<br />

luce che cresce. Le mani sul tavolo, reggono il corpo. La fortuna di vivere ancora. Datemi qualcuno. È il caso che qualcuno<br />

mi ascolti. Davanti, il casotto. I casotti. Lì da sempre, come a indicare la felicità. Spingono a ricordare. Come protetti dal<br />

destino. Poco oltre, gli esseri sfiniti che trovano riposo. Uno spettacolo. Difficile da dire, esteso come il mare, come il<br />

male. L’uomo sarà? Ci sarà? Mi stupisco dell’orizzonte, sempre quello. Immobile mentre mi allontano. Con la lentezza dei<br />

dubbiosi volto le spalle. Dimentico. Non vedo più. Sbaglio, forse, nel pensare il nuovo millennio. I viventi senza voce, in<br />

processione.<br />

Pianto di stelle, lei non parla più con se stessa. A occhi chiusi, è attratta da un luogo. Tugurio, reggia, lei lo raggiunge,<br />

sempre. Diritta appare sulla sabbia. Un lunghissimo camminare. Indistinto movimento che dura ancora da millenni. Tanto<br />

tempo. Long time. E sembra dileguarsi, a volte. No, non come un miraggio, certamente non come un’illusione da album<br />

fotografico. Sfoglia il giorno. Vi cade dentro. Ne abita le peggiori pagine. In attesa, chissà. Pianto di stelle, la chiamo.<br />

Lontano da casa. È sera. È notte. La sua reggia ha solo una porta all’aurora. In lontananza vede tutto il resto. Vede la città,<br />

con una luce radente. Senza i volti, completamente cancellati. Finisce. Che finisca, la vita dicibile, il racconto stucchevole.<br />

Basta. Lei ha bisogno di una fine; cerca una gloria che la consumi e la faccia scomparire agli altri.<br />

Abbasso lo sguardo. Non so come dire. Anche impreciso ma dire. Ammettere. Tradire i miei passi e la paura stessa. Per<br />

inane profundum, chiamo la politica, affinché se ne prenda cura. Sulla città cade lo sguardo, che immagina, che sogna,<br />

l’insonnia e il male a venire. Si riempie di lacrime. Ma l’assenza non l’avevo considerata. Immagino la gonna marrone, odo<br />

il mare. Volto mal rigato dalle lacrime. Il ciuffo di peli, lì, il triangolo. Spettinato. A lungo questa immagine fino a che si<br />

offusca. Improvvisamente è sera. Distratto dal cielo, m’accorgo solo ora dell’infinito al crepuscolo. L’occhio fissa la<br />

finestra vuota. Nulla s’è mosso. O forse tutto e non c’è modo di rimediare. I muscoli a posto. Scattanti. S’è allenata tutta<br />

la vita, come si può vedere. Me ne andrei. Vado, ora. Ha un fascio di nervi che potrebbero comandare un purosangue.<br />

Una precisione assoluta. Ma questo, tutto questo è niente. Quel corpo non riesce a saltare, ad andarsene. Glielo<br />

invidierebbero i campioni. Eppure sente che potrebbe accartocciarsi, da un momento all’altro. C’è qualcosa che manca. Il<br />

muro che mi copre il nord ha delle crepe. La chiarità, potrà scaturire la chiarità da quella buia spaventosa ferita?


Da L’infinito nella voce<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

147<br />

La maledizione originaria. Quella della vita che scorre via, così, con la carne, i muscoli e le ossa. E chi se ne frega! Tutto<br />

è ingarbugliato. Tutto è semplice. La maledizione della furia originaria, mista a tenerezza, questa è lei. Se solo uscisse così,<br />

raggiante, da quel casotto che toglie l’angoscia. Ombra della sua ombra, e della mia. Oh che semplicità! La maledetta<br />

regalità di amare la vita. Due luci, due lumini, due fari al posto degli occhi. Oltre il limite, oltre l’asticella va lei, pianto di<br />

stelle, col cuore che batte l’impulso invisibile del sangue. A quell’altezza, nell’aria, il corpo non è più, ridiventa puro<br />

pensiero. Mai più quel fastidioso involucro. Escribà appose il corsivo: Vieni, morte, così celata / che non ti senta venire /<br />

perché il piacere di morire / non torni a darmi vita. Niente soffitto, necessariamente. Tutta la preparazione del salto è una<br />

preparazione al silenzio. Lei va su e giù. Ma anch’io sono stato là, in alto, insieme ad alcune parole. E dopo? Nel casotto, a<br />

porta chiusa, starebbe al buio, senza niente che scricchiola, esattamente come le piace.<br />

Il desiderio, sì. C’è stato un tempo in cui il desiderio era preciso e nitido come lei femmina e musa, come il suo nome in<br />

qualsiasi lingua. Ma non si è mai in due. All’epoca dei fatti io non c’ero. Sono inquieto e non so niente. In faccia al sole,<br />

qui, mi divoro. Gli occhi sgranati. Alberi, solitudine. Non resta nulla. Si stanno allontanando. Le ore, i minuti. I cerchi senza<br />

senso si eclissano col nome di chi non conosco. Lascio eclissarsi tutto l’universo. Oh quanto amore, quale corpo cova il<br />

suo nutrimento! È una traversata dolce. Che armonia! Che andatura! Il tempo grida il tempo che non ha più. Occhi bassi,<br />

si volge a oriente. A oriente del mondo. È là che vediamo la scena della catastrofe. Il volto senza grinze del domani. Un<br />

pianto. E si sente solo il pianto. Ragazza bruna, o forse bionda geometria. A immagine del cielo, dell’assenza, ciuffo di peli,<br />

labbra. Alba di carezze. Chiarore di corridoi. Bianchezza d’abiti. Si risolleva, lo sguardo si risolleva dal suo dolore. Brillanti e<br />

granelli di sabbia. Mai più tradimenti. Senza far rumore la risacca la vede, la tocca. Lei è là. Eternamente là. Nessuno<br />

sente. Solo l’acqua, gli scogli, la sera a mani vuote. Mossi i fianchi, di lei? Degli alberi? Intravedo, fra le crepe, a nord, la<br />

rovina dei secoli. La sera non finisce mai e se pianto di stelle continua così arriverà alla poesia.<br />

Che svanisca pure questa coinè. Solo nero. Solo bianco. Vuoto e basta. Ecco, neanche una parola. Sarebbe la resa.<br />

Mangiare. Bere. Sistole e diastole. Sulla sedia, immobile, quando all’improvviso uno spettacolo. Una neve a sfida sulla<br />

primavera. Quelle orme. Quelle ossa coperte dalla coltre. C’è stoffa o è solo carne? Potrà mai risplendere quell’ammasso<br />

di quadricipiti? Potrà saltare? Di chi è la colpa? Chi potrà giudicare? Dove sbattere la testa. Rimane la traccia, il ciuffo. La<br />

deriva dei testardi. Verso sud, invece, c’è vita. Voglio tornarvi. E desiderare, di nuovo. Che dolce compagnia! Distante una<br />

donna. Mille arabeschi. All the women… ma quel sorriso, unico e irripetibile. Ecco le viscere, le offro. Mi apro. Apritemi.<br />

Fatemi passare nella vostra carne rivoltata. Fatemi toccare le corde vocali, il cortocircuito fra angoscia e pensiero. Ho<br />

avuto in sorte lupi affamati. Non potrò trattenerli dal mordermi il ventre. Con garbo li saluto. I miei aguzzini che sanno.<br />

Capiscono. Dove sbattere la testa. Cuore in alto guarda nell’abisso. Vede i sopravvissuti. Vede i morti e li chiama, perché<br />

vengano alla sua festa. Parlare, parlare. Con loro. Nel tanfo della carcassa. Uno stillicidio, quelle ore vuote, quei racconti


Da L’infinito nella voce<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

148<br />

fatti di demenza. Che svaniscano. Ebbene, tu vuoi che io qui concluda? Oh com’è ingiallito il calendario. Sabato 5 Aprile.<br />

Sprofondo nella data.<br />

In carne e ossa è pianto di stelle. Infinita fra le cose reali. Di fronte al Kursaal, medita numeri immaginari. Il<br />

mistero, del resto, come dirlo? Al contrario. Pregusto la vita, come si dice, prima di morire. Si parla così quando la<br />

coperta ancora riscalda le ossa. In su, la testa inala aria e moscerini. Se anche fossi già morto, tutto sarebbe uguale a<br />

prima. Aperta la finestra. Aperta la camera, che tutti guardino. Senza ragione. Crivellato di lacrime, il cielo<br />

meriterebbe un poema. S’avversano gli astri, invece. La luna nella luna. Venere su Marte. Dio, com’è amaro svelare il<br />

sembiante! In lontananza, i casotti, la felicità, la testa sotto la coperta; binari morti; camicia abbottonata, per<br />

sempre. Sta con gli occhi chiusi e vede tutto. Questo già lo sapevamo. La storia. La storia interminabile, da<br />

Alessandro a Robespierre. Divini fanciulli, eravamo, e m’immaginavo di vederla arrivare. In lontananza. In linea retta<br />

verso di me. Nell’inverno dei giusti. In uno scenario di tombe e cani. La mia passione. Al padre e al gatto come due<br />

gocce d’acqua, in paradiso. Del ricordo struggente. È solo un altrove. È solo l’esilio, quello degli uomini. E allora,<br />

avanti a capriole. Separazioni. Anime indistinte. Sorvolo tutti voi, dall’alto di alcune parole. Di certe disperate notti<br />

rammento solo la domanda. Nella testa l’attesa straziante. Come saltare? Come tornare avanti fin oltre il Verbo? Lei<br />

si perde. Ha parole solo per la mia luce. Più niente da vedere. Prima che sommerga tutto, la parola, si schiude un<br />

teatro di carne viva. Eccolo, il sorriso, che anticipa ciò che deve accadere.


Alcuni autocommenti alla traduzione del Moby Dick di Melville<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

149<br />

Da MOBY DICK (traduzione a cura di Lucilio Santoni, Marte Editrice, Colonnella - TE, 2010)<br />

(Introduce)<br />

Il mio compito inquieto. Di collocare la vita nella sua occulta pazzia. Un’invincibile dolcezza del sangue. Dalla bocca<br />

scomposta. E allontanarsi. Dai mesi, dai giorni e dagli anni. Come fossero libri, oggetti ardenti in disuso. Una vita può<br />

tremare dall’inizio alla fine. L’orrore di Ahab, nel nome del nulla. Il mio compito è di allontanarmi nella lingua verso le<br />

fiamme. È un mestiere. Lo apprendo lentamente. Costruisco un luogo di silenzio. In fondo alla gola e sotto la fronte. Negli<br />

occhi. È un mestiere violento. Al fondo il fiore delle parole. Le parole in alto come girasoli. Gravitano sull’incerto<br />

momento che sta in bilico tra l’esterno e l’interno. Un’incisione, un geroglifico fa tremare le arterie. Perturbazioni. Sangue<br />

maschile. Orde marine. Numeri. Rischierò tutta la mia vita in questa inestinguibile, inesprimibile notte. In questo pensiero<br />

bianco di balena.<br />

(Recitativo di Ishmael)<br />

Il manicomio della mente. Lo vedo. Lascia senza parole. Ma qualcuno parlò in mia vece. Giocavo con pensieri<br />

inesistenti. Pensieri che ingannano e ci riempiono il cuore. Quanto basta per vedere la profondità del vuoto. E non cadervi<br />

mai. Magari diventare viaggiatori. Togliendo il vanto. Togliendo la sposa. Ma mettendo le ali all’oblio. E che diventi pure<br />

farfalla! Basta ch’io viva. Non per continuare a respirare. Non per sperare nel dolce dialogo. Solo per potervela<br />

raccontare. Io stesso l’ho ascoltata. Dalla voci. Dal silenzio. Nel centro esatto dell’assenza di tutto. E voi. Non siate solo<br />

miei testimoni. Perdetevi ogni volta. E ogni volta ritrovatevi. Soli e senza scuse. Vagliate la vita. Siate una spada.<br />

(Recitativo di Ahab)<br />

I seduttori presiedono le costellazioni. Con o senza donna. Ho guardato in alto a lungo. Per ammirarti, Dio dei cieli. E<br />

ne valeva la pena. Ogni tanto sogno, che passi accanto a me. Che abitiamo accanto. Dove ti possa sentire, vedere, anche<br />

annusare. A torto, ma sarei un altro uomo. Imparerei. Sarei irriconoscibile. Un tempo pensavo… ora non più. Difficoltà per<br />

la mente. Non ricordo quasi più neppure il seno che mi nutriva. Sono uno che manca e non due. Una l’angoscia, una la sua<br />

ombra. Un altro l’infinito che dispera. Non parole. Neppure quelle sbagliate. Neppure quelle vuote. E se la mente dovesse<br />

andarsene? No, no, rimango saldamente aggrappato a qualche vocabolo, a qualche suono. Alla balena bianca che sta là<br />

nell’oceano. Oggetto reale più dannato di ogni inferno. Non nella mia testa, non nella mia lingua. Ma cosa farei senza di<br />

lei quando le parole mancano e tutto crolla verso l’abisso?<br />

(Recitativo di Starbuck)<br />

Onde del desiderio. Corpo mal detto. Mal ascoltato. Non si innesta nessuna carne. Solo un’iscrizione sulla pelle; che


Alcuni autocommenti alla traduzione del Moby Dick di Melville<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

150<br />

non parla, non gode, non ama. Mi resta solo il coraggio. E che coraggio! Come se non sapessi arrivare ad altri esseri. Li<br />

guardo da lontano. Non mi sorridono. E non lo faranno, benché li supplichi. Il pensiero va. Entra nel ricordo. Di quando<br />

entravo nel tuo. Corpo semiaperto. Ma tutto è passato. Credimi però, da una distanza incolmabile, pur stando al di là del<br />

mare e della vita, che ti ho qui davanti. Di fronte ai miei occhi. Due in uno, come sempre. Anche se ho paura di morire per<br />

troppa fede o per troppa speranza. Ferito, sì. Ma non peccatore. Non uscirò mai da nessun labirinto. Pagherò i miei debiti,<br />

ma intanto il tempo se ne sarà andato. Senza nessuno che mi avrà raccontato perché sono qui e chi sono i miei creditori.<br />

Fu in un caldo settembre che mi venne detto il mio nome, ormai dimenticato da tutti, e mi sapeva di malinconia. Ma è<br />

stato in aprile che sono caduto nel mare dell’odio, crudele come non avrei immaginato.<br />

(Moby Dick)<br />

Non c’ero. Sono entrata nell’esistenza. Tutto blu intorno a me. Sopra. Sotto. Le distese marine mi hanno colmato il<br />

cuore. Le distese vuote le ho riempite con i battiti. Con la mia coda. Col mio corpo. Che si andava facendo immane. Un<br />

giorno cesserò d’esistere. Anch’io. Quando l’angoscia cesserà di dominare. Ahab. Il suo cuore. Il suo spazio. Divorare è il<br />

mio compito. Sono gettata, fra le onde, per questo. Non ho tentato neppure di dire. Di pensare. Morirò di niente, dopo<br />

aver vissuto di tutto. Ahab è sempre stato a meno di due miglia da me. A due bracciate. A due soffi che rompono l’aria. In<br />

arcobaleno. Vedevamo, entrambi, l’universo uscire dagli abissi e negli abissi rituffarsi. Assenza delle cose. Ma a ciò che ci<br />

sfugge apparteniamo. L’oceano. Il Pequod. Per sempre inaccessibili. Il vuoto, prima dell’uomo, accoglie me. Il pesce. Mi ci<br />

rifugio. Ed è anche la mia sofferenza. Dolore selvaggio. I ramponi lacerano solo in superficie, sapete. Non alberi e vele per<br />

Ahab. Non profondità ignote per me. Nessun elemento per chiudere la falla. I miei denti strappano, ma da essi non<br />

escono parole. Per questo ci cerchiamo, Ahab. Nell’erranza. Serenità perduta da sempre. Un’intesa silenziosa che<br />

scandalizza. Che importa! Sarò sempre la voce che ti chiama, anche se ignori chi io sia. Sempre io sarò l’ospite della tua<br />

anima.<br />

(Recitativo di Melville)<br />

Non dire. Che bello! Solo pensare. Prima e dopo i pasti. Prima e dopo la tenerezza. Proprio mentre lui lascia la sua<br />

unica impronta sul cuscino nuziale. Pensare di non poter trasformare le cose, la tradizione. Pensare di sprofondare nella<br />

polvere. Gli sguardi annullati. I progetti naufragati. Non sarò tra i ministri del mondo. Ma allora devo dire qualcosa. Di più.<br />

Al di là dei normali dialoghi. Oltre l’innocenza e la colpa. Una nuova lingua. Insensata eppure pensata, a lungo, nella<br />

maledetta miseria. Nuove scritture. Cogliere lei, proprio mentre cancella l’impronta. Oh, quanto tempo è passato! Amore,<br />

amare, tristezza. Sono riconoscibile ora. Rispettabile. Non mi confondo con la mostra degli oggetti, dei souvenir, degli<br />

uomini vuoti. S’è allentato il filo fra noi. Forse spezzato. La voce, ormai mia. Tutto si spezza. Ascoltatemi.


Alcuni autocommenti alla traduzione del Moby Dick di Melville<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

151<br />

(Recitativo di Pip)<br />

Salto. Sono saltato. Cielo. Onde immense. Non luogo. Tempo, solo tempo. Ogni bracciata che faccio dura secoli. Verrà<br />

mai nessuno? Non nuoto più. Mi lascio trascinare. Vivo rapidamente. Come corre il tempo! Come morde se stesso! E io<br />

non riesco a vederne la fine. Scorre, senza governo. Nulla c’è scritto sopra. Oh, non sapevo che la morte potesse essere<br />

così pigra! Le lance non torneranno. Non mi raccoglieranno. Il tempo non passa. Tutto è senza confini. È vastità. La mia<br />

carne, pure, è illimitata. Orrido vuoto che la contiene. Corpo non più mio. Pip diventa un altro. Io mi interrogo. Ma Pip sta<br />

là, che muore. Non ha pensieri. È solo ignavia. È solo incapacità. Io lo studio nella sua viltà. Non c’è dialogo. Le sue ossa<br />

biancheggeranno. La mia paura annienta l’angoscia. Lascia spazio alla verità. Oh, basta domande! Terribili quesiti.<br />

Assaporo il sale amaro del pelago, reale intorno a me. E nessuno m’intende più, Ahab. Perché non parlo. Scandisco me<br />

stesso e la solitudine. Nell’immensità del vuoto.<br />

(Rumore del mare)<br />

L’acqua che vedete è il corpo, l’infinito. Nessuno torna dalla terra dei morti. Tranne alcune parole. Una voce. Basto a<br />

me stesso. Mi muovo senza bisogno di nessuno. Ascoltatemi. Contengo la terra e le cose. Una volta qualcuno mi cadde<br />

dentro. Rari nantes, si disse. Da allora conosco le lingue, gli idiomi, i dialetti. Tutto, da allora, continua in eterno. Goccia<br />

dopo goccia. Lacrime. Lunghi anni di storia. Secoli. Molti se ne sono andati. Preferisco le balene. Si tuffano. Mentre<br />

l’occhiataccia degli uomini…! Vogliono parlare. Parlarmi, addirittura. Ma come posso io ricordare le storie mute, il dolore,<br />

la stanchezza del cuore! Gli umani. I pesci. I pesci non si augurano di morire presto. Io sono l’inferno. Non potete parlare<br />

con me. Della solitudine e di altre sofferenze. Io conosco l’ardire del capitano. Questa è la vita. Ottusa. Il nulla. Niente.<br />

Non un rumore, tranne il mio. Gli occhi negli occhi. Annegati. Tranne l’oceano.<br />

(Traduce)<br />

L’oceano sta nel fondo della mia lingua. Cioè nel fondo di me stesso. Mi ci vedo. (Nella voce, il blu intenso). Ci sono<br />

nato? Amo quella lingua; e tanto basta. Ricordo le prime calligrafie. Segni che inventavano l’universo. Nel silenzio e nella<br />

lettera. Chi, poi, ha riconosciuto le mie parole, me le ha rivelate. E allora ho iniziato ad ascoltare. Senza più riconoscermi.<br />

Ho vagato. Nei meandri di un pensiero. Che non era il mio. Non sarebbe mai più stato il mio. Straziante estraneità, più<br />

intima delle mie stesse viscere. Ascolto incessantemente. Proteggo il segreto del desiderio. Fino a quando non mi<br />

rimarranno che pochissime parole. Tutta la vita. Per morire sereno. Per terminare l’ascolto di quella paura. Di quella<br />

balena. Mi hanno detto qualcosa, una volta. L’ho dimenticata. Era la verità. Ora è irraggiungibile, in fondo all’abisso. Nel<br />

cuore esatto della lingua che non conosco più. Spaesamento della voce. Congedo. Farò vela. Issata nell’azzurro.<br />

Guardatela. Mentre ospita il vento. Rivendicatela ai vostri occhi. Ospitate il nulla e siate inquieti nella sua pace.


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

152<br />

Non è un bene il vivere, ma il vivere bene.<br />

(Lucio Anneo Seneca)<br />

La letteratura contemporanea è quella in cui avverti l’insufficienza della catalogazione per generi. Romanzo, saggio,<br />

poesia, documento, invenzione: che differenza fa? L’energia creativa pulsa alla maniera di una vena sotto sforzo.<br />

(Eraldo Affinati)<br />

Premessa<br />

*<br />

«Le donne, lo so, non dovrebbero scrivere / ma io scrivo», inizia così Una lettera di donna di Marceline<br />

Desbordes-Valmore. È forse l’incipit più bello e più forte che poesia possa avere.<br />

Così, con un’amorevole parodia, dico che lo so, non si dovrebbe fare un libro mescolando testi in prosa,<br />

testi poetici, lettere, pensieri, citazioni, ricette di cucina, commentari calcistici, stravaganze, provocazioni,<br />

gatti. Ma io ho voluto farlo.<br />

E dentro ci sono tutti. Anche se non nominati, ci sono tutti. I poeti e gli scrittori amati, a partire da Seneca,<br />

col cui amico e discepolo mi sono sempre misurato, ma anche l’altro Lucilio, quello da cui prendo il nome; e<br />

poi gli amici, i conoscenti, la mia città, il mio quartiere, ma anche le città oltre confine, i luoghi belli e anche<br />

quelli brutti, dove ho lasciato la memoria e dove l’oblio ha lasciato dentro di me un segno che non si<br />

cancella.<br />

In questo libro ci sono tutte le cose che non ho più e che mi mancano, al pari di quelle che non ho mai<br />

avuto. I desideri rimasti tali. Gli sguardi di chi ho visto un attimo in uno scompartimento affollato oppure in<br />

riva al mare a settembre. Gli anarchici e la ragazze dai capelli rossi.<br />

Tutto questo non può essere detto in un unico genere letterario. Anzi, non bastano neppure le infinite<br />

parole dell’uomo, articolate in infiniti stili e forme, per dirlo. È un fiume di detriti e pepite, che può solo<br />

disperdersi in mille rivoli, prima di versarsi nel mare che tutto sommerge nel suo rollare, come rollava<br />

cinquemila anni fa.


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

153<br />

Da LETTERE A SENECA<br />

Lucilio Vanini<br />

*<br />

Io non canto per cantare<br />

né perché ho una buona voce,<br />

canto perché la chitarra<br />

ha un significato e una ragione.<br />

(Victor Jara)<br />

Non lascia nella storia del libero pensiero così vasta orma come Tommaso Campanella o Giordano Bruno.<br />

Non ebbe del primo gli ozi della trentennale prigionia, non ebbe come Bruno le tregue felici e feconde della<br />

Sorbona. E visse meno di tutti e due, poiché sul rogo venne arso che non aveva raggiunto i trentaquattro<br />

anni. Ma forse supera i due suoi contemporanei nella sagacia dell’intuito e nel coraggio delle conclusioni.<br />

Da frate carmelitano nega Dio e, costretto a cercare altrove, fuori dalle leggende creazionistiche, le fonti<br />

della vita, ne intravede le scaturigini nella decomposizione, nel doppio fattore chimico-fisico al quale<br />

torneranno tre secoli più tardi Haekel e De Vries. Dalle forme primordiali, secondo lui, la vita organica, in<br />

perfezionamenti successivi e continui, è addivenuta alle forme superiori.<br />

È un precursore di Lamark e di darwin.<br />

Non bisogna credere che parlasse così chiaro e così liberamente come possiamo fare noi riassumendo il suo<br />

pensiero. Erano le aurore magnifiche della rinascenza, è vero; ma anche dell’Inquisizione e delle grandi<br />

guerre religiose; e Lucilio Vanini, peregrinando in mezza Europa, era costretto a presentare «sotto il velame<br />

dei velli strani» (vedi anche l’illustre contemporaneo Galileo Galilei) ai suoi uditori, numerosi e sospettosi,<br />

la verità che dentro gli ribolliva e lo spingeva a una continua ricerca.<br />

Sarebbe potuto essere un grande prelato, ne aveva le doti. Decise di essere se stesso.<br />

L’Inquisizione, che ne spiava da tempo la vita errabonda e l’apostolato sacrilego, non abboccò all’amo. A<br />

Tolosa


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

154<br />

Tolosa le fecero arrestare sotto la precisa e terribile imputazione di ateismo. Dopo sei mesi di istruttoria,<br />

che furono sei mesi di tormenti, su requisitoria di Guillaume De Catel, il Parlamento di Tolosa condannò<br />

Lucilio Vanini ad avere la lingua strappata e a essere arso sul rogo: 9 febbraio 1619. Era nato a Taurisano nel<br />

1585.<br />

[…]<br />

Una che voleva andarsene<br />

la millenaria lotta per il possesso dell’anima e del corpo<br />

Dopo sedici anni di arbitraria e, soprattutto, non voluta tortura, una ragazza che chiameremo E. E. è stata<br />

libera di andarsene da questa valle di lacrime.<br />

Ma allora perché tanto accanimento nel tenerla in vita da parte della Chiesa ufficiale e della destra (che,<br />

come sappiamo, sono particolarmente alleate durante i regimi autoritari)?<br />

La logica e il buon senso comune vorrebbero che si usassero parole, se non proprio fatti, contro le<br />

quotidiane stragi di mafia o sulle strade o sul lavoro e così via. Invece niente, c’è stato solo un terrificante<br />

accanimento contro una sentenza della Suprema Corte che concede ad un corpo martoriato di morire in<br />

pace e contro un padre che non tollerava più torture nei confronti della figlia.<br />

Credo che molti si siano fatti tale domanda: perché accade tutto ciò?<br />

La risposta è piuttosto semplice, ma forse vale la pena di ricordarla; e si può riassumere in una frase<br />

lapidaria: chi amministra la morte, in fondo, amministra il potere.<br />

Questo la chiesa lo sa benissimo. Lo sa da duemila anni. E lo sanno coloro che alla Chiesa si alleano per<br />

amministrare il potere. Così come lo sanno tutte le Chiese di tutte le religioni, siano esse rivelate che<br />

terrene.<br />

Chi gestisce la morte, cioè chi toglie la morte, la cancella, in vista di una salvezza ultraterrena, come nel<br />

caso del cristianesimo o dell’islamismo, oppure in vista di un mondo migliore, come era nel caso del<br />

comunismo; chi gestisce la morte, dicevamo, governa le anime, sottomette i corpi in una illusoria promessa


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

155<br />

di speranza infinita, che però è più forte di qualsiasi ragione e di qualsiasi filosofia. Nella battaglia intorno<br />

alla morte di E.E. non sono in discussione questioni semplicemente etiche, bensì è in gioco il selvaggio e<br />

brutale governo delle anima, strettamente imparentato con la spietata amministrazione, attraverso il<br />

controllo dei corpi, del potere politico, economico e sociale.<br />

«Libertà. Dopo averci ben pensato ho capito che questa parola misteriosa non significa altro, infine, nel<br />

fondo di ogni fondo, che… libertà di scegliere la morte.».<br />

(Pier Paolo Pasolini)<br />

Vincitori e ricercatori<br />

Ho incontrato nella mia vita diversi vincitori. Da ragazzo li ho invidiati. Poi, con lo svilupparsi della ragione,<br />

ho disprezzato i loro nomi. Ho capito che erano carichi di egoismo e di solitudine. Alcuni di essi, una volta<br />

persa la capacità di vincere, sono diventati dei servi. Altri, parlatori drogati di consenso, hanno continuato a<br />

vincere sfruttando la debolezza e l’ignoranza di chi si sottometteva loro. Per vincere è necessario il massimo<br />

dell’individualismo combinato con il massimo dell’omologazione, bisogna vivere chiusi dentro le proprie<br />

mura e contemporaneamente in funzione degli altri, dei propri datori di lavoro, dei propri clienti, dei propri<br />

partner ecc.<br />

Ma ho anche conosciuto un’altra stirpe di uomini. Che mi ha aiutato a vivere e ad essa sono grato. Una<br />

stirpe che ha perseguito dentro la felicità di chi gli stava intorno. A volte questi uomini hanno perso alcune<br />

battaglie nella vita, ma dentro le sconfitte hanno trovato le ragioni per andare avanti insieme agli altri; sono<br />

stati presenti a se stessi e al proprio tempo; si sono appassionati alle domande, con la consapevolezza che<br />

quelle vere non hanno mai risposta e le altre la risposta non la meritano. Hanno trovato e sempre<br />

troveranno la compagnia dei simili e forse persino l’amore.<br />

[…]


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

156<br />

Da LA TRANQUILLITA’ DELL’ANIMO<br />

*…+<br />

*<br />

Un buon film politico<br />

è un film poetico.<br />

(Abbas Kiarostami)<br />

2<br />

In un barcollamento del vivere. Innamorarsi. Non fare niente, accarezzare il vuoto. Afferrarsi a un’ombra. È il mio<br />

giorno. Anelito creatore; dal quale nacqui. Come chimera. Sotto una volta notturna, di stelle e altre luci, temo un<br />

odio viscerale, eterno. Cerco di evitarlo standoti vicino. Standoti lontano. Che cos’è il piacere? Dove finisce il velo di<br />

tristezza? Ah tu che non hai voluto, ma qui mi hai trascinato! Fotografo, per un attimo, la verità. Luce che rischiara<br />

metà del tuo volto. Levante e ponente dell’anima. Sulla frontiera del naso inizia il viaggio. Fra i morti. Una nascita. La<br />

faccia semi-illuminata ha una porta socchiusa. È permessa l’entrata. In un tempo senza tempo. Nel ritratto<br />

dell’amore. Senza un destino a tutto campo, tornerò verso la panchina. Con i muscoli caldi. I nervi tesi. Accolto dalla<br />

mia colpa. Quasi fossi desideroso di una cicatrice visibile. Per la memoria. E non invece, quale è, un indecifrabile<br />

segno. No, neppure un’indicazione, un indirizzo. Una modulazione della voce che faccia capire da quale parte andare.<br />

Un sapore. Nulla. Guardo i disegni sul soffitto. Penso al mare. Scrivo lettere. La profonda trasparenza della tua amata<br />

presenza. Un altro cammino. Un’altra temperatura del sangue mi è assegnata. Magari l’allegria delle pareti<br />

imperfette. Forse l’irriverenza della casa che cambia. Nel punto più alto della città, me ne andai. Appena un<br />

movimento. Una traccia nella calce viva. Ancora non una comunicazione, ma certo un inizio. Il verbo, per così dire.<br />

Senza nostalgia e senza rimpianto. Puro presente del corpo crivellato, eppure vivo. Inguaribilmente vivo. Nelle<br />

convulsioni. Nei trasporti. Quale itinerario mi si propone davanti? E che tipo di attesa? Fotografo tutto ma non<br />

incontro nulla. Non acqua, non parole. Benedetta grammatica di un colloquio totale. Al di là degli oceani. Oltre<br />

l’angoscia. Dove le virgole cadono perfette, tra una metà del pensiero e l’altra. Prima del punto, davanti all’odore del<br />

sangue. Arrivo. Parto. Sprofondo in una carne tenera, con la bocca.<br />

[…]


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

157<br />

Da LUOGHI NATURALI<br />

*…+<br />

Luogo della luce<br />

*<br />

in questa minuscola sala d’attesa<br />

senza più un’anima viva<br />

(Antonio Alleva)<br />

Splendore del buio. Che mi batte nelle tempie e negli occhi. Prima di andare perso nelle volte senza senso,<br />

illumina i pensieri. Divora la testa che soffre e geme. Oh quale pace… e quale orizzonte! In cerca di un altro<br />

chiarore, scruta verso l’interno. Verso le profondità insondate dell’anima. Ma se ne sta già andando. Come<br />

la vita. E non è possibile recuperarla. Emozioni violente; malinconia. Tutto sta nella retina. Restituiscimi, per<br />

favore, l’istante fuggito. Non lasciarmi nell’ansia di non rivedere mai più quel volto, quell’immagine e quel<br />

paesaggio. Piove senza sosta sulla mia città. Ma prima di andartene dentro il velo d’acqua, con uno sguardo<br />

indimenticabile, lascia che la bellezza e la paura mi trascinino verso il limite. Ostacolo degli ostacoli e<br />

possibilità infinita. Oltre la turbolenza della visione. Dove le tensioni si smorzano. Le scintille e il piombo. La<br />

percezione del sangue. Tutto si compone nel traguardo pittorico. Come lampo in cui è concesso di nascere,<br />

di conoscere.<br />

Luogo della voce<br />

Istanti perduti. Con pillole di significato. Eppure il ricordo è presente. Quei due o tre secondi, non di più,<br />

avvolti dalla lontananza. Realtà cancellata; e confermata nel suo vuoto sembiante. M’intratteneva la grazia<br />

dei suoni. Parole forse, come aromi diffusi. Nel tempo, proprio dentro il tempo, mi trascinarono. Visitai così<br />

le anime di quelli che avevano giocato dentro e fuori la metafora. Un manto come di scrittura copre la<br />

mancanza della forma. Terribile esilio, disorientamento. Se solo la mia, di istanza, osasse fino al suo volto,


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

158<br />

fino al suo giudizio. Ma è già persa. E se lei mi porta con sé, è per abbandonarmi in luoghi che non esistono.<br />

Mi dice: sei assente, dietro il tuo nome non c’è che tempesta. Io rispondo che accompagnandomi a lei<br />

potrò iniziare di nuovo. Potrò ritrovare la serenità. Ma il danno è compiuto. Due, tre secondi non bastano<br />

alla memoria. Non c’è calligrafia leggibile nella pagina nera. Chi parla ascolta e racconta le ombre della<br />

propria esistenza. Chi ascolta parla e tace come un’ombra.<br />

[…]<br />

Luogo della paura<br />

Il rumore di un orologio incagliato nell’insonnia. La mattina fra veglia e allarmi. In strada, le auto ai<br />

semafori. La radio che scandisce i morti. Il lavoro di ognuno. Ecco un breve inventario organizzato. Finita<br />

l’estate, il Natale verrà. Senza dimenticare, poi, un’altra stagione d’allegria e d’inganno. I consuntivi. La<br />

chiusura dei conti. Dell’azienda e della vita. Parole scritte su quotidiani già vecchi. Il tentativo straordinario<br />

di delineare l’enigma della vita, il mistero della morte, la vertigine del reale. Pubblicità e televisioni.<br />

Qualcuno che tenta di spiegare i riti delle sette più strane. I lamenti di quelli che si impegnano tenacemente<br />

a distruggersi. La ripetizione delle labbra. Case costruite sui simboli del passato. Milizie e apparati di<br />

intelligence. Piani regolatori. Logge deviate; stato e mafia. Ecco come si costruisce il mondo.<br />

Luogo dell’angoscia<br />

Alcuni tavoli vuoti davanti al mare, che prendono in giro ogni prudenza. Presto si udirà un tango. Dove vivrà<br />

soltanto l’eco dell’ultima parola. Pagina bianca. Nera coscienza. E arriverà l’angelo. Dolce straniero con le<br />

lacrime agli occhi. E tu lo lascerai; te ne andrai. Al di là dei nomi, oltre i gesti ripetuti. Continuamente<br />

improvvisando l’indicibile. Perennemente parlando l’ineffabile. Ecco una profezia disorganizzata. Adagio<br />

elegiaco e sereno orgasmo. Forza produttrice di significati, che non può diventare significato essa stessa.<br />

Non saper che fare. Solo cantare l’orizzonte e scompigliato . L’universo che si squaderna per donare una vita<br />

possibile. Non certo la festa comandata, semmai l’allegria dell’inizio assoluto. L’euforia della tela<br />

immacolata


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

159<br />

Immacolata. Oh quanto è dolce naufragare in questo lago della memoria, che ormai non mi consola<br />

neppure di un addio. Tutto è smarrito. Resta solo, di necessità, il tormento celeste degli eletti. Ecco il modo<br />

in cui si disfa il mondo.<br />

[…]<br />

Luogo del capitalismo<br />

E tuttavia sei molto lontano dal suo discorso. Con occhi di straniero assisti alla sua storia. Fatta di secoli<br />

profanati. Lancinati da grida di dolore. E sordi battiti nel cuore della terra. Le moltitudini erigono<br />

monumenti verso una volta celeste lontana. Che mai raggiungeranno. In un silenzio epocale di morti<br />

dimenticati. Dentro il vuoto che tutto contiene. Tuttavia sei estraneo al suo linguaggio, che non è eroico e<br />

neppure religioso. Che ha perso l’ultima traccia d’innocenza. Annuncia solo l’orrenda ripetizione del<br />

disastro. Plus-valore, plus-godere. La terra disintegrata. Senza memoria. La storia disintegrata. Ci lascia<br />

senza parole oggi che il nome del padre si cancella e muore nei quattro punti cardinali. Democratica<br />

caricatura del rispetto, cela l’incompletezza dell’anima. E non basta più il dolore. Una nuova scrittura si<br />

sparge nel corpo. Un negoziato fallito prima di cominciare.<br />

[…]<br />

Luogo dello spasmo<br />

Andavano verso il mare. E andavano a morire. Non parlavano di loro le cronache, né le lapidi. Ma navigare<br />

era necessario. Affoga ora nelle parole l’inquietudine di una possibilità perduta. E certamente, allora, vivere<br />

non era necessario. L’angoscia di un camminatore che non segue nessuna strada, nessuna traccia. Perché ci<br />

sono solo scie nel mare. Poi la nostalgia li prese tutti. Rari nantes. Le teste fuor d’acqua. Maledetta cento<br />

volte una vita senza porto. Benedetti gli anarchici dell’amore. I cavalieri nudi. I proletari clown. I pugili che<br />

schivano e rientrano col gancio. Ma io so qualcosa della tua amarezza. Del tuo dolore. Per questo la mia<br />

voce


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

160<br />

voce è di miele. E non potrai che fare un passo verso di me. Perché sei a ovest del naufragio definitivo. E la<br />

tua coscienza marcisce nel corpo fino all’ultima molecola; all’ultima possibilità di memoria; davanti allo<br />

spettacolo osceno del desiderio a cielo aperto. Buenaventura Durruti. Buona fortuna amico adriatico.<br />

Luogo della politica<br />

Ogni popolo incontra sempre se stesso. Ogni mio incontro è un incontro mancato. Sul confine, schiere di<br />

scheletri falcianti. Salgo nella corriera che mi porta in un’altra città, oltre frontiera. Per trovare ciò che ho<br />

perduto. Per perdermi nella leggerezza. In posizione d’attesa, come un soldato. Al centro dell’evento, come<br />

un popolo che lotta. Perché un disastro è sempre meglio di una mancanza d’utopia. E allora riconoscersi.<br />

L’una divisa nell’altra. L’una donna nella propria immagine. Bocca e vagina, parola e urlo. Dietro la bandiera<br />

il nemico ti conosce dall’infanzia. Le occhiaie a forza di guardarvi nello specchio, leggendo lo stesso buio<br />

desiderio segnato dal catrame, dalle sirene spiegate, dal sangue goccia a goccia. Non supereremo mai<br />

l’esame di grammatica. Il patto fra noi è troppo difficile da scrivere.<br />

[…]<br />

Luogo del capitalismo, Luogo dello spasmo e Luogo della politica: già in Calpestare l’oblio, “La Gru” in<br />

collaborazione con “Argo”, “L’Unità”, “Left” - 2009 e 2010)


Da Lettere a Seneca<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

161<br />

Da LA CONSOLAZIONE<br />

[…]<br />

In pace<br />

Ai delusi e ai sequestrati<br />

concede di morire in pace.<br />

I suoi colori i suoi odori<br />

mi riempiono la testa,<br />

la follia è tutt’uno<br />

con il mondo che sognò Leopardi<br />

con il mare che non colma più<br />

nessun cuore e con le abbazie<br />

che gettano nell’inquietudine.<br />

Arrivano molte genti, crescono<br />

le città, cresce l’oblio, cresce<br />

La vanità, e sotto l’asfalto<br />

rimane la terra di chi c’era prima.<br />

*<br />

Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo<br />

ruberanno la fiamma al fuoco<br />

e violeranno l’aria fin dove sospira<br />

ma il mare resterà il mare:<br />

l’eterna emozione<br />

l’elemento senza futuro.<br />

(Massimo Ferretti)<br />

Ai filosofi e ai condannati<br />

aiuta ad aspettare la morte in pace.<br />

Le sue spiagge le sue colline<br />

tutte le attraverso canticchiando<br />

quella vecchia canzone che sa<br />

di tristezza e di amori perduti,<br />

che sa del vento plasmato da Fazzini,<br />

che sa di felicità aspra e oltre<br />

ogni diffida, che solo conosciamo<br />

le Marche, la rabbia e io.<br />

La poesia di ogni tempo e di ogni latitudine<br />

dice, in fondo in fondo, una sola unica cosa:<br />

mi manchi.


Su Lettere a Seneca<br />

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Queste sono pagine dedicate alla libertà. Il luogo del non potere, dove la poesia non è solo parola ma uno stile<br />

di vita. E quasi si materializza come un’ombra che ci insegue benevola, almeno finché continuiamo a camminare, a cercare. Ispirandosi a Seneca<br />

nella forma letteraria dell’epistola e alla sua filosofia, Lucilio Santoni descrive un mondo reale che sogna la sua utopia di libertà. Lettere a<br />

Seneca, pubblicato dalla Marte Editrice, è la storia di una ricerca continua, della riflessione su ogni aspetto della vita, dal quotidiano alla<br />

spiritualità di un paesaggio tra verde e mare, dove politica e società si inchinano alla forza poetica della passione. Le pagine e la carta sono lo<br />

spazio ideale, dove la parola può liberarsi nelle forme che predilige senza essere asservita alle regole della fama e della vittoria. Immune alle<br />

mani subdole del potere. Una passeggiata verso quell’orizzonte che non arriva mai ma che, in fondo, ci tiene in movimento.<br />

* * *<br />

Perché intitolare un libro a Seneca?<br />

È ispirato a tre uomini che condividono lo stesso nome: Lucilio. Il primo è l’amico di Seneca protagonista delle sue Epistole. Ho scoperto il testo<br />

al liceo e negli anni è diventato un riferimento. Da qui l’idea delle lettere e dell’omaggio a Seneca quale mio interlocutore ideale. Uno dei<br />

concetti senecani in cui mi sono sempre ritrovato è che la filosofia non è un passatempo, ma il lavoro di ogni giorno, una ricerca continua. E qui<br />

la ragione del secondo personaggio: Lucilio Vanini, al quale devo il mio nome. Fu un grande studioso del 1600. Un frate carmelitano che<br />

accortosi della corruzione della chiesa, diventò ateo e viaggiò sotto falso nome per divulgare i risultati delle sue ricerche. L’Inquisizione lo<br />

arrestò a Tolosa, gli strapparono la lingua e fu bruciato sul rogo. Il terzo sono io.<br />

Come si inserisce il personaggio di Vanini nelle tematiche del suo libro?<br />

Di lui ho scritto: «Sarebbe potuto essere un grande prelato, ne aveva le doti, ma preferì essere sé stesso», e questo è uno dei concetti chiave<br />

del mio lavoro. Avere le doti per scalare le gerarchie, ma non essere interessati a sfruttarle per ottenere il potere. Questo è un libro<br />

fondamentalmente anarchico: intende rivalutare lo spazio del non potere, un luogo dove predomina la ragione. Ipotizza la possibilità di vivere<br />

con un potere limitato che dia spazio alla libertà individuale. Le vicende del presente ci mostrano la presenza subdola dell’oppressione, e da<br />

una parte è la massa che, bisognosa di protezione, invoca una guida sempre più forte, che abbia il controllo totale.<br />

Spieghiamo la struttura del libro<br />

Tutti i concetti sono presentati o sotto forma di lettere provocatorie, o in modo poetico. Nella prima parte scrivo lettere nello stile di Seneca, in<br />

cui sviluppo argomenti partendo da personaggi o temi astratti: dalla lingua alla rivoluzione, dalla medicina all’emergenza ecologica. L’idea è il<br />

pretesto per legare il particolare all’universale. La seconda parte s’intitola La tranquillità dell’animo: un romanzo poetico in dieci capitoli, in cui<br />

temi analoghi ai precedenti sono trattai con un registro poetico. Il momento centrale è rappresentato da Luoghi naturali, in cui pieni e vuoti si<br />

alternano come la realtà e la spiritualità. Un capitolo è dedicato alle Marche, un poema per sottolineare l’identità di una regione in cui la poesia<br />

e la spiritualità trovano uno scenario ideale. C’è anche un breve testo sullo spirito del calcio.<br />

Ci racconti la genesi del suo lavoro<br />

In genere non decido mai di scrivere un libro. Mi piace prendere appunti quando sono in giro o quando ascolto un argomento interessante. Poi<br />

ci rifletto e nascono nuove idee. Quando il tutto si compone, comincia a prendere la forma di un concetto, quando capisco che c’è qualcosa da<br />

dire, allora inizio il lavoro di riordino del materiale. Lettere a Seneca è un percorso di vita. Rievoca anche memorie lontane e affettive. C’è tutta<br />

la mia vita.<br />

Come si trova Lucilio Santoni uomo e scrittore nel luogo del non potere?<br />

Mi rispecchia, sicuramente. C’è un capitolo dal titolo Vincitori e ricercatori. Da ragazzo ho conosciuto molti vincenti e li ho anche invidiati, ma<br />

seguendo<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

162


Su Lettere a Seneca<br />

seguendo la lezione di Seneca ho capito che in fondo erano pieni di solitudine: chi è abituato a vincere è solo. Per comandare devi anche<br />

essere servo degli altri. Il ricercatore è la figura che ho sempre stimato, spesso sconfitto nella vita, perché non sa dove arriverà, ma la ricerca<br />

confina con la passione. Come dice lo scrittore Eduardo Galeano, «l’utopia è come la linea dell’orizzonte, tu fai un passo e lei si sposta».<br />

Comunque ti fa andare avanti. È chiaro che spesso siamo costretti a piegarci alle dinamiche della società, ma si possono superare vivendo con<br />

passione e poesia.<br />

La cultura come cura per i mali di oggi, è possibile?<br />

Ho dedicato una pagina proprio a questo tema. Riporto un frammento dalla lettera di un condannato a morte della resistenza, che si rivolge a<br />

sua figlia ricordandole che, anche nelle difficoltà, lo studio è l’unica cosa che ti rende libero. Una testimonianza che spazza via la sciocca<br />

presunzione che la cultura e la comunicazione di massa figlie degli anni 80, possano essere un valido surrogato della conoscenza. Oggi non<br />

esiste una realtà del genere. Un evento culturale che muove le masse, in genere si identifica meglio nella propaganda più che con un reale<br />

spessore qualitativo. Per arrivare veramente agli altri con argomenti validi, la conoscenza deve essere prima di tutto intima e individuale.<br />

Ci dia una definizione di Lettere a Seneca<br />

Cito una frase di Rousseau: «È molto difficile far obbedire chi non ha nessuna intenzione di comandare». Ecco, questo è lo spazio dello spirito<br />

libertario a cui si ispira il mio libro.<br />

In: http://www.ilgriot.it/2011-10-27/653/%C2%ABlettere-a-seneca%C2%BB-la-poesia-della-vita-nello-spazio-del-non-potere/<br />

* * *<br />

Lacan propose una topologia che si avvicinasse al Reale in una maniera inedita. Un modo di avvicinare il Reale attraverso la scrittura e al di là<br />

delle rappresentazioni dominanti. Questo avvicinamento, questo tentativo di pensare e scrivere il luogo, esige la costruzione di uno spazio<br />

singolare, uno spazio che possa mostrare come il vuoto e la Cosa giocano la loro partita. Non c’è topologia che ci mostri il Reale senza quella<br />

mutualità tra il vuoto e la Cosa, quella reciprocità e quel rigetto che giocano fra i due termini. Al di là della metafora, ma anche del calcolo,<br />

Lacan propose nodi, intrecci, scritture imbricate che permettessero, almeno, di congetturare il “Luogo”, quel luogo che proprio quando si<br />

sottrae al senso costituisce la propria giusta relazione. Nella topologia che Lacan costruisce, il senso e il non-senso scaturiscono dal medesimo<br />

luogo. Questa topologia lacaniana, a differenza da quella proposta da Heidegger, è di ispirazione matematica. Lucilio Santoni affronta<br />

l’avventura di misurarsi col pensiero del Luogo, inaugurato da Lacan, in una modalità poetica. Più precisamente Santoni, abituato a navigare fra<br />

due lingue, l’italiano e lo spagnolo, e dedito all’esperienza impossibile della traduzione, propone una nuova linea di confine in comune, che<br />

unisce e separa la poesia e la teoria. In Santoni la teoria è il resto diurno, è ciò che si ricorda del sogno e che poi precipita in una scrittura<br />

poetica insistente nel mostrare il luogo a partire dal quale il malessere contemporaneo prende forma. In questo modo, in Santoni, il mathema è<br />

sostituito dal poema, creando quindi la metamorfosi del corpus lacaniano in un ordine poetico. Sta al lettore giudicare fino a dove arriva la<br />

violenza di tale trasformazione. Non si tratta della poesia come genere letterario, né si tratta della psicoanalisi come disciplina teorico-clinica; è<br />

piuttosto la vicinanza tra l’inconscio e il poema quello che Santoni ha messo per iscritto, tentando di esaminare ciò che ci governa senza parole<br />

o al di là di esse; ciò che è perduto e che, tuttavia, ci si presenta sotto molteplici maschere, poiché ogni presenza sembra irrimediabilmente<br />

morsa dalla perdita. Una topologia del dolore che è, al tempo stesso, una topologia della gioia, inaugura nella lingua un autore politico, nel<br />

senso che il più intimo e il più comune si incontrano proprio nel luogo che Lucilio Santoni ci permette di intravvedere.<br />

Jorge Alemán, su LUOGHI NATURALI di Lettere a Seneca (traduzione dallo spagnolo all’italiano di Lucilio Santoni)<br />

Lucilio<br />

Santoni<br />

163


Tra due rive, 2011,<br />

Combustione, stampa a secco<br />

e grafite su carta rosa spina, 50 x 70 cm


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

164<br />

*<br />

poi vennero i giorni veloci<br />

che rapidamente tramontavano.<br />

Salivano le voci e i rumori<br />

e quella sua vocazione di scena<br />

era stata abbandonata<br />

Giampiero Neri , Poesie (1960-2005), Mondadori, 2007<br />

Nulla di me è trasparente<br />

trattengo lontananze nebbiose<br />

paludosi canneti che celano<br />

il nido dell’avocetta e la tana della rana<br />

non mi vedete ferite e miasmi<br />

non sono trasparente sono ombra<br />

al margine dei giorni<br />

non chiamatemi per nome<br />

sono vaga anonima incognita<br />

nelle mie impigrite spoglie<br />

non ho corazza né paura né nascondiglio<br />

le mani risvegliate al ritmo del battere<br />

s’adeguano al canto in contrappunto<br />

mi resta solo la voce goffa di note<br />

_________________ forziere di parole<br />

che vi porgo perché mi vediate in trasparenza<br />

nuda oltre lo scheletro e la crescita<br />

delle cartilagini che fanno duro il moto.<br />

Non mi è rimasto nulla da cercare<br />

- io la mentitrice - fra queste piatte<br />

terre padane orlate da tonde cime<br />

non ho trovato nulla e le mie unghie<br />

si sono smangiate fino alla lunetta<br />

dunque ci ho provato senza bussola<br />

al sole o con scarso lume e luminarie<br />

__________appese ai vetri della notte<br />

so che fra abissi e cime ci sono muraglie<br />

di cocci a difesa e tra i canneti<br />

chiurli di pettirossi rare libellule<br />

_______________molta mal’aria<br />

io - la mentitrice - torno sempre<br />

sui luoghi dei miei misfatti<br />

torno a cercare ori dove stanno serpi<br />

ogni respiro è una fatica che sbolle<br />

come sott’acqua a bollicine<br />

Scivolo sugli scalini<br />

m’intrappolo le dita fra le porte<br />

dunque cosa debbo cercare che somigli<br />

ad un traguardo certo<br />

mentre sbuffa un mondo immenso<br />

di clown e ruberie senza pudore<br />

di pochi che oscurano tutto.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

165<br />

La scampata reclusa dentro reti<br />

e reticolati<br />

a gran voce chiama e grida<br />

che c’è e scaverà con le unghie<br />

fino all’osso sotto ogni rete<br />

_______ scavalcherà i reticolati<br />

vuole uno stelo fra le dita un fiore<br />

dietro l’orecchio una ciliegia in bocca<br />

tu voi loro che vi lasciate cogliere<br />

come margherite e v’intrecciate<br />

a coroncina come facevano un tempo<br />

le bambine<br />

nello scampanìo del rinnovato giorno<br />

che galoppa alla luce dentro il vento<br />

la scampata non sarà la rinnegata<br />

leggerà i quotidiani con la giusta dose<br />

d’indignazione e non parlerà oscuro<br />

e dirà che piove o fa troppo caldo<br />

mi farò una doccia un pediluvio<br />

ora vi tengo nelle mani come i grani<br />

del rosario che mi regalò la nonna<br />

grani di granati acciaccati<br />

e poi perduti in un incosciente gioco.<br />

Quando gli umili e gli ultimi scampati<br />

fuori da reti e reticolati<br />

divelti gli scranni spalancati i serragli<br />

ogni avidità disvolata oltre chissà<br />

ciascuno al suo proprio male<br />

s’adopererà per il farmaco adeguato.<br />

Delle parole accovacciate sulle labbra<br />

mi resta un ricordo scordato<br />

da cicala d’agosto che prepara la discesa<br />

nelle viscere della terra fra le radici<br />

dell’albero che gli ha offerto una foglia<br />

dove posare l’inesausto canto<br />

mi restano fogli di scritture oltre il margine<br />

di lune nere di civette in attesa<br />

io predatrice del trascolorare del mare<br />

scarso contegno nessuna ipocrisia<br />

sono la predatrice del gesto buono<br />

ne faccio mazzetti e li stringo al petto<br />

amore disperato di frusti ulivi<br />

l’ulivo era per olio e l’olio per il pane<br />

col salice si intrecciavano panieri<br />

oggi è sterile ulivo da giardino<br />

e tutto il torcersi del tronco al tempo<br />

lo rende solo più costoso<br />

non valutata la resistenza e tutto il male<br />

sotto le frustate del vento.<br />

Le parole scendono in gola trafiggono<br />

laringe e faringe s’aggrumano<br />

nell’inespresso.<br />

Alla predatrice restano gesti come<br />

trafitture nell’aria.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

166<br />

L’apprendista mimava l’esperto<br />

e si feriva un dito con le cesoie<br />

un chiodo gli trapassava il polso<br />

la bocca si riempiva di calce.<br />

L’apprendista non aveva vocazione<br />

d’apprendere al meglio il mestiere<br />

del vivere cauto e saputo<br />

aveva sempre un malore una nausea<br />

in fondo alla gola.<br />

Io l’apprendista non ho mai imparato<br />

e i giorni mi sono scorsi come sassi<br />

come profumi e calore sulla pelle<br />

ma come si può imparare la vita<br />

senza farsi del male senza scivolare?<br />

Apprendista - mi dico - e viva<br />

per lo stupore che ancora mi prende.<br />

L’indignata non battè le ciglia<br />

quando il bimbo divenne<br />

un bambolotto dalle giunture rotte<br />

indignata da troppo tempo<br />

da incancrenirsi i lombi e l’anche<br />

per tutti i mali alle sue giovani carni<br />

per storie belle che non sono bastate<br />

a seppellire la vergogna<br />

e s’indignò per ogni prepotenza<br />

e si battè per lei per noi per la bellezza<br />

per la parola data e mantenuta<br />

perché la rena si conservasse spiaggia<br />

le pesa sulle spalle quella indignazione<br />

la tiene ritrosa che la spezzerebbe.<br />

L’indignata restò a spiare dietro l’uscio<br />

sempre più curva quasi rappresa<br />

un nucleo ferroso<br />

che si alimenta in successivi istanti<br />

______________ di chiodi appuntiti.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

167<br />

Si scoprì assassina un giorno caldo<br />

mentre si tagliava con cura le unghie<br />

lei - la maleamata - coglie le vendette<br />

s’è fatta astuta usa molte strategie<br />

qualche pastiglia di onnipotenza<br />

fotoromanzi per ciglia chiuse<br />

ferro e ferraglia e proiettili di rame<br />

sassi e velame ce n’è per ogni latitudine<br />

per ogni male anche di testa<br />

e spara agli studenti alla vicina allo straniero<br />

ficca il coltello nella polpa<br />

come la nonna l’ago per il ricamo<br />

nella tovaglia di cotone<br />

assassini tutti che vegliamo i morti<br />

e non osiamo tenerli vivi<br />

come si fa per i fiori dei giardini<br />

assassini miserevoli e tracotanti<br />

dopo che nascemmo nudi tutti quanti<br />

nello stesso modo<br />

e salutammo il mondo con un pianto.<br />

La non perdonata raccolse le sue vesti<br />

e con lo zaino le pose sulle spalle<br />

sapeva troppe cose<br />

non protestò non cosparse di cenere<br />

_____________________ i capelli<br />

le latrava dentro un cane abbandonato<br />

perché lasciato cortile e catena<br />

gli mancava la scodella d’acqua<br />

____________________il poco pane<br />

tornò a vagare a peccare a essere<br />

umana dolente e innamorata<br />

di una violetta seminascosta sulle prode<br />

innocenza negletta e senza voce.<br />

Le tremarono l’omero e le scapole<br />

le si gonfiarono i piedi forse puzzava<br />

un po’ lei non si perdonava<br />

e tirava avanti a ciglio asciutto<br />

seguendo il filo irriverente del destino<br />

la non perdonata si gettò alle spalle<br />

lo zaino i vestimenti gli intimi indumenti<br />

e nuda va sulla mezzeria e suonano i clacson<br />

lampeggiano i fari le mamme proteggono<br />

i figli ponendo sugli occhi le due mani.<br />

La non perdonata va a tentoni<br />

somiglia molto ad una Maddalena.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

168<br />

Io chiedo ragione di ogni pianto<br />

delle troppe miserie dell’abominio<br />

che fa l’uomo nemico all’uomo<br />

o suo vassallo di falso contegno<br />

io chiedo ragione delle demenze<br />

dei coma perduranti delle armi<br />

col calcio caldo e delle bombe<br />

di freddo metallo che seminano fuoco<br />

_________________e fiori di carne<br />

__________ non gerani e pimpinelle<br />

io voglio un colpevole<br />

i reati sono sterminati e crepano le ossa<br />

lo scandalo grida al mio cospetto<br />

dunque non mi si dica - ottundi il dolore<br />

con pasticche e morfina -<br />

non mi si renda cinico il cuore<br />

a chi la colpa? di chi la lebbra disseminata?<br />

chi seminò le piaghe?<br />

Io non offro perdono. Io voglio colpevoli<br />

e lunghi percorsi di penitenti afflizioni<br />

non mi bastano fede e agnizione<br />

io dico basta ma sono nessuno<br />

e nessuno ascolta nessuno dentro un Mp3.<br />

La viandante aveva i piedi stanchi<br />

e già a Bologna si chiese cosa fosse<br />

quell’andare sotto il Pavaglione<br />

e la sosta in Piazza Grande<br />

uno sguardo distratto al Nettuno<br />

dio dell’acqua di ciò che va<br />

se pur costretto in argini e canali<br />

libero in mare e mosso<br />

dio dunque senza uno stare<br />

senza meta senza un ciclo di ritorno<br />

la viandante la pellegrina si pose<br />

tutta la sua stanchezza sulla testa<br />

e terga girando tornò alla scrivania<br />

ai muri noti ai volti amati<br />

s’inginocchiò sul pavimento freddo<br />

e lì restò senza un riposo in premio.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

169<br />

Cadono colpi di maglio e frustate<br />

al nerbo duro sobbalzano le membra<br />

(c’è un’altra Guantanamo?)<br />

mi specchio in una vetrina con i saldi<br />

non penso alle pene eppure dovrei<br />

perché continuo a colpire<br />

e non chiedo alla stanchezza del braccio<br />

un poco di riposo - c’è sempre un cambio<br />

sicuro non sbagliavate - sono l’ assalitrice<br />

_________________________ rubo respiri<br />

stringo forte i lacci della mia danza di stracci<br />

ma non leggete la cronaca dei giornali?<br />

Manca il mio nome - sono simulatrice<br />

e tu pure che neanche ammetti d’essermi<br />

complice nel quotidiano massacro<br />

che si sfoglia sui libri di storia e in digitale tivù<br />

Signore - ti prego fammi perduta<br />

fammi entrare a comprare una gonna<br />

nel negozio - il prezzo è buono la taglia<br />

giusta - nessun altro porto m’accoglierà.<br />

__________ Ma l’assalitrice non sosta<br />

e ai saldi prende disumane fatture.<br />

La disperata si specchia in un acquitrino<br />

non ha luce né cerchi con il centro<br />

le macerie fumano sopra polvere e fango<br />

è terremotata alluvionata soprattutto stremata<br />

col corpo disteso aspetta una serpe pietosa<br />

che non giunge e intanto la sera diventa più nera<br />

dispera la volta stellata l’aurora che sorge<br />

il caffè lungo i giochi delle bambole sparse<br />

voi lo sapevate che non c’era scampo e avete<br />

taciuto così senza un motivo preciso<br />

o per semplice vindice ignavia.<br />

La disperata dispera nella giusta vergogna<br />

e non sarà più a battere i muri<br />

a far suonare le parole fra i denti<br />

muta cicala a cui hanno strappato le elitre.<br />

Come a lei a tanti fu storpiato il canto<br />

e banchettano i vermi sui dilaniati resti .


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

170<br />

Catturo le vostre tentazioni<br />

il luccichio del nuovo e del rifatto nuovo<br />

ad libitum urgente e compulsivo<br />

soddisfo ogni mio desiderio<br />

io voglio sempre<br />

un oggetto una donna<br />

del denaro un flûte di champagne<br />

come mi avete insegnato io sono<br />

il desiderio nella sua fase crescente<br />

mangio intera la mela con il torsolo<br />

non conosco peccato e perdono<br />

la mia maschera vive sulle reclames<br />

e rido e rubo<br />

e sgomenta non sono mai contenta<br />

torno a rubare fingo la mendicante<br />

me ne sto fra amici in questa gara<br />

stiamo alzando la posta: a chi il mondo?<br />

Io sono l’ammalata la regredita<br />

busso a porte senza maniglia<br />

vorrei giocare nei cortili a nascondino<br />

mi manca il fiato cado sui miei mali<br />

che sono veri e non bomboniere<br />

per lacrime spremute come se gli occhi<br />

fossero limoni ben maturi<br />

non sono contagiosa<br />

solo nei pensieri s’annidano virus<br />

che trapassano da una sinapsi all’altra<br />

da una mente ad un’altra infettano<br />

senza consapevolezza solo<br />

per il piacere di venire fuori dal carcere<br />

serrato della mente ed esporsi<br />

come uno bucato steso al sole<br />

profumato quasi pulito<br />

di qualche macchia sopravvissuta<br />

si dirà che è la vita<br />

la vita sporca ammala torce e contorce<br />

poi regala uno spiraglio di luce<br />

che ferisce senza sostanza e immaginazione<br />

alla regredita pare latte materno<br />

la venuta della luce.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

171<br />

Aureolata di sconsolatezza<br />

vado dove l’informe ha nome e cognome<br />

e indirizzo oltre la barriera dei contenitori<br />

di rifiuti differenziati i miei innumeri limiti<br />

solo l’amore mi duole il dolce del pensiero<br />

per fragole al limone e ciliegie rubino<br />

sconsolata per il poco che si consuma<br />

a dosi quasi letali bastanti per un coma<br />

che duri e certifichi la vita<br />

sconsolata per i nidi vuoti i cieli grigi<br />

l’uomo che si fa bestia dell’uomo<br />

sconsolata da meteore perdute<br />

nelle troppe luci della città dei viali<br />

dei trivi e dei quadrivi ora rotonde<br />

che mimano l’incalcolabilità dell’infinito<br />

più comunemente sui banchi di scuola<br />

detto pi-greco.<br />

Sono la moltitudine che bela<br />

poco mansueta ma ben all’interno del gregge<br />

poco pensare scarse parole alte suonate<br />

senza visione nella nebbia dei riflettori<br />

aspiro dentro un io di latta lucidata<br />

noi voi quella volta adesso loro<br />

come su una scacchiera i bianchi e i neri<br />

a dama in una partita da cane del pastore<br />

fin dall’inizio decisa la sua conclusione<br />

issiamo frange di bandiere sfilacciate<br />

senza uno stare un essere che faccia male<br />

sono la moltitudine che niente sa del male<br />

e si suicida spesso e con fantasia.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

172<br />

Sono la precaria - l’instabile -<br />

un tempo forse m’avrebbero intontolita<br />

con i farmaci dello stare buono<br />

litio e benzodiazepine anche qualche aspirina<br />

che si deve ubbidire alla sorte<br />

ai maggiori ai genitori ai politici alla legge<br />

e al costume che ci vuole bella merce<br />

in vetrina o straccio da discarica.<br />

Ma io sono precaria e destabilizzata<br />

renitente e disubbidiente<br />

spacco la mela per cercare il verme<br />

se guardo il cielo mi perdo fra le stelle<br />

amo la teoria dei frattali<br />

qui nel mio rifugio nido esposto alle ventate<br />

precario - mi stringo poche piume al petto<br />

azzardo il volo precipito ho qualche osso rotto<br />

qualche penna all’aria che volteggia precaria<br />

non porto sciarpe non mi proteggo<br />

i giorni sono passi di percorso sgembo<br />

e la meta è miraggio vado per andare<br />

non so stare ferma sono instabile<br />

interamente precaria e forse<br />

nessuno e nessun luogo mi attende.<br />

Io aspetto la sera già sono pomeridiana<br />

di ombre mi allungo rubo luce<br />

al crepuscolo acceco meglio che posso<br />

aspetto lo schianto le ossa rotte<br />

mi ruba il tempo il serotino stare<br />

dentro una culla dove respiro caldo<br />

e si chiude il gran cerchio<br />

sono dove già fui<br />

e il gran grembo della notte<br />

che s’affaccia ha il sorriso della luna<br />

che a falce s’appoggia sul campanile<br />

e non è tagliente<br />

_____________in bilico sì ma bella.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

173<br />

Io sono un nido alle prese con la bufera<br />

attaccata con sputo e fango alla tegola<br />

reggo le ventate - appena vola via uno stelo<br />

pigola piano la nidiata rotola nel fiato grande<br />

moriranno senza voce e senza piuma i nati<br />

non avranno l’ebbrezza del volo nelle ali<br />

una melodia che urge in gola al sorgere<br />

del sole e al suo svanire.<br />

Io non ho un nido non una tegola un tetto<br />

esposta alle burrasche alzo la testa<br />

tremo e mi aggrappo a poche note<br />

sillabe non incatenate fuori dal senso<br />

mi volteggia nel cuore che impazza una danza<br />

una libertà sfrenata una paura stramazzata.<br />

Io sono la liberata la liberta che sbeffeggia<br />

l’immagine che lo specchio riflette<br />

volati via i lustrini e i decori<br />

ballo la mia danza di stracci fantasiosi<br />

che mi porta dove non muore mai il sole.<br />

La bella per ventura batte l’ali<br />

in fretta in fretta sul frutto maturo<br />

piccolo passero di minuta fame<br />

quel miele in gola quel miele canta<br />

piangerà domani nella gelata<br />

arruffata brutta infreddolita e sola<br />

dalla gola esce non esce flebile richiamo<br />

sono qui - qui sotto il coppo<br />

e tremo e ho fame e non ho voce -<br />

sono la bella per ventura che molto ha dato<br />

in frulli in cori e fantasia - la bella<br />

per ventura a la ventura - il papavero<br />

nel grano il papavero nella sua corolla<br />

fragile già un giorno prima della falce<br />

che non aspetta la sua sfioritura<br />

inutile erba fra la generosa spiga<br />

bellezza del caso - per ventura nata<br />

là dove proprio la bellezza perde ogni sfida.


SOLO INEDITI<br />

Frammenti<br />

di<br />

anatomia<br />

di Narda<br />

Fattori<br />

174<br />

Io sono la ladra depredata<br />

sulle ciglia si aggrumano in sale<br />

lacrime senza gravità<br />

il mazzo gonfio degli ideali<br />

s’è fatto smilzo perduti petali<br />

rinsecchiti gli steli negli anni<br />

un lapidario involato lieve<br />

nel mazzo smunto di scarsa grazia<br />

si spoglia una margherita<br />

senza dirmi t’ amo - ti ho amata<br />

- ti amerò - bottone senza asola<br />

e nulla a cui aggrapparmi<br />

né ponti né traghetti né nocchiero<br />

sono la depredata - del tutto<br />

si è fatto lento un niente<br />

uno specchio rotto una notte scura<br />

su una panchina in sosta mi sorride<br />

una vecchietta demente tremante<br />

accanto grida di vita un bambino<br />

solca in un volo di ritorno<br />

una rondine al nido sotto il tetto.<br />

Sono una donna di poco pregio<br />

neppure tanto salda nell’anima e nel sangue<br />

attardata e troppo avanzata<br />

insomma sempre fuori tempo fuori luogo<br />

fra crepacci osservo la crescita lenta<br />

delle margherite che restano brevi<br />

lo stelo rasoterra io mi sento rosa da dono<br />

rossa con lo stelo lungo beffarda<br />

finzione che il giardiniere taglia a luccicare<br />

in vaso spogliata dalle spine - no - meglio<br />

le margherite fiorite nei crepacci<br />

lo stelo breve la corolla stenta che nessuno<br />

coglie - donna di poco pregio appunto<br />

eppure il mio meraviglioso stare s’alza<br />

sopra il gracidare delle rane annidate<br />

nel pantano.<br />

Donna di poco pregio che gli incanti legge<br />

e tutte le miserabilia sull’omero sorregge.


SOLO INEDITI<br />

Narda<br />

Fattori<br />

175<br />

È nata a Gatteo (FC), dove risiede. È insegnante ed autrice di libri di didattica per le principali case editrici del<br />

settore.<br />

Ha pubblicato sette volumi di poesia: Se amor parla, L’autore Libri, 1995; E curo nel giardino la gramigna,<br />

(premio editoriale) Ibiskos, 1996; L’una e i falò, editrice “Il Vicolo”, 1998; Terra di nessuno, Edizioni “Il<br />

Corriere della Garfagnana”, 2000 (1° premio editoriale “Olinto Dini” di Castelnuovo Garfagnana); Verso<br />

occidente, Fara, 2004; Cronache disadorne, Joker, 2007; Il verso del moto, Moby Dick, 2009.<br />

Ha scritto il racconto lungo A Natale specialmente (“Il Vicolo”, 2007) e altri apparsi in antologie.<br />

Tutti i libri pubblicati hanno ricevuto premi nazionali.<br />

È inoltre presente, tra i vari: in ciascuno dei volumi antologici Voce Donna 1997, Voce Donna 1998 e Voce<br />

Donna 1999, editi da “Il Vicolo” di Cesena per iniziativa del municipio della stessa città; nell’antologia<br />

Santarcangelo della poesia, Luisè editore; nell’antologia Il novecento etico-religioso a cura di Vittoriano<br />

Esposito, Bastogi; con una silloge dal titolo A che punto è la notte?, nell’antologia Farapoesia e con la silloge<br />

De profundis, in Creare mondi, entrambe per Fara (2009 e 2011).<br />

È di imminente pubblicazione Dentro il diluvio (premio editoriale “Astrolabio” di Pisa) edito da puntoacapo.<br />

Si occupa di critica e fa parte di alcune giurie di premi letterari. Cura laboratori di poesia e di scrittura.


Icaro prove di volo, 2011,<br />

pastello su stampa digitale, 29.7 x 21 cm


Collage Arthur Rimbaud<br />

176<br />

*…+<br />

D’allora m’immersi nel poema del mare<br />

lattescente e infuso d’astri, divorando<br />

verdi azzurri, ove, rapito e livido flottare,<br />

talvolta, discende un annegato pensando:<br />

dove, le azzurrità a un tratto nel rossore<br />

del giorno tingendo, ritmi lenti e deliri,<br />

più forti dell’alcol, più vaste delle lire,<br />

fermentano le vampe amare dell’amore!<br />

*…+<br />

*…+<br />

Et dès lors, je me suis baigné dans le Poème<br />

De la Mer, infusé d’astres, et lactescent,<br />

Dévorant les azurs verts; où, flottaison blême<br />

Et ravie, un noyé pensif parfois descend;<br />

Où, teignant tout à coup les bleuités, délires<br />

Et rhythmes lents sous les rutilement du jour,<br />

Plus fortes que l’alcool, plus vastes que nos lyres,<br />

Fermentent les rousseurs amères de l’amour!<br />

*…+


ARCIPELAGO itaca prima apparizione. Giovanni Commare su Gianfranco Ciabatti, Adriàn Bravi, Maria Lenti, Nicola Romano e<br />

Norma Stramucci. Collage Dino Campana. Riproduzioni di opere di Giorgio Bertelli e Lorenza Alba.<br />

ARCIPELAGO itaca seconda apparizione. Danilo Mandolini su Attilio Zanichelli, Lucetta Frisa, Ivano Mugnaini, Adelelmo<br />

Ruggieri e Luigi Socci. Collage Guido Gozzano. Riproduzioni di immagini di Michele Rogani e di un’opera di Pietro Spica.<br />

ARCIPELAGO itaca terza apparizione. Contributi da interventi di Maria Lenti e Gianfranco Lauretano su Tolmino Baldassari,<br />

Danilo Mandolini su Renata Morresi, Maria Grazia Calandrone, Mauro Ferrari, Daniele Garbuglia e Massimo Morasso. Inediti<br />

di Enzo Filosa. Collage Vladimir Majakovskij. Riproduzioni di opere di Silvana Russo e Lucia Marcucci.<br />

ARCIPELAGO itaca quarta apparizione. Un ricordo di Leonardo Mancino (con un testo inedito di Biagio Balistreri), Danilo<br />

Mandolini su Anna Elisa De Gregorio, Gianni Caccia, Massimo Gezzi, Franca Mancinelli, Liliana Ugolini. Inediti di Marina Pizzi.<br />

Collage Charles Baudelaire. Riproduzioni di opere di Enzo Esposito, Giovanna Ugolini, Cosimo Budetta, Alfredo Malferrari e<br />

Giordano Perelli.<br />

ARCIPELAGO itaca quinta apparizione. Un ricordo di Alfonso Gatto (con un saggio di Laura Pesola), Rossella Maiore Tamponi<br />

(con note di Francesco Scaramozzino e Giorgio Linguaglossa), Linnio Accorroni (con note di Danilo Mandolini e Adelelmo<br />

Ruggieri), Manuel Cohen (con una nota di Danilo Mandolini), Enrico De Lea, Evelina De Signoribus, Stelvio Di Spigno ed Eva<br />

Taylor. Collage Cesare Pavese. Riproduzioni di immagini di Sauro Marini e di un’opera di Adriano Spatola.<br />

ARCIPELAGO itaca sesta apparizione. Un brano dal discorso di Eugenio Montale pronunciato in occasione dell’assegnazione del<br />

Premio Nobel per la letteratura del 1975, un ricordo di <strong>Ferruccio</strong> <strong>Benzoni</strong> (con un articolo di Francesco Magnani, un’intervista<br />

all’autore a cura di Gabriele Zani e una poesia di Francesco Scarabicchi), Cristina Babino (con una nota di Danilo Mandolini),<br />

Francesco Accattoli, Guglielmo Peralta e Lucilio Santoni. Inediti di Narda Fattori. Collage Arthur Rimbaud. Riproduzioni di<br />

opere di Agostino Perrini e di Emilio Tadini. Commento all’opera di Agostino Perrini a cura di Marco Frusca.<br />

Per effettuare il download delle ultime apparizioni di ARCIPELAGO itaca: www.arcipelagoitaca.it/download.<br />

Per ricevere, a ½ e-mail, tutte le apparizioni di ARCIPELAGO itaca, inoltrare relativa richiesta a info@arcipelagoitaca.it o<br />

arcipelagoitaca@libero.it.


Quando ti metterai in viaggio per <strong>Itaca</strong><br />

devi augurarti che la strada sia lunga<br />

fertile in avventure e in esperienze.<br />

Costantino Kavafis, <strong>Itaca</strong>


La piccola immagine in basso a destra nella seconda di copertina e in alto a sinistra nella terza di copertina raffigura la<br />

sagoma dell’isola di <strong>Itaca</strong>.<br />

La nota di Jorge Alemàn (163) è, fino ad oggi, rimasta inedita.<br />

Montale Tadini Rimbaud <strong>Benzoni</strong> Magnani<br />

Perrini<br />

Mandolini<br />

Frusca<br />

Accattoli Scarabicchi<br />

Fattori<br />

Babino<br />

Zani Peralta Santoni<br />

ARCIPELAGO itaca: Danilo Mandolini - Via Mons. D. Brizi, 4 - 60027 Osimo (AN).<br />

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