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legal privilege - Studi sull'integrazione europea

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252<br />

Sergio M. Carbone<br />

zioni, se non vuole provocare situazioni in cui la responsabilità dello Stato italiano<br />

venga messa in discussione in ambito comunitario.<br />

Inoltre, la circostanza che anche altre Corti costituzionali degli Stati membri<br />

della Comunità <strong>europea</strong> (si pensi, ad esempio, alla Corte costituzionale austriaca,<br />

alla Cour d’arbitrage belga) abbiano dimostrato, come ripetutamente rilevato<br />

dalla dottrina italiana, “una notevole attitudine cooperativa della propria qualità<br />

di organo di giurisdizione nazionale tenuta a proporre il rinvio pregiudiziale di<br />

interpretazione a norma dell’art. 234 CE”, ritengo abbia contribuito a convincere<br />

la Corte costituzionale italiana a rendersi più disponibile nei riguardi dell’impiego<br />

della pregiudiziale comunitaria. Solo in tal modo, infatti, può essere garantita<br />

uniformità di trattamento e di applicazione del diritto comunitario, anche in<br />

occasione del controllo di costituzionalità delle norme interne.<br />

6. Per quanto riguarda, infine, la tutela giurisdizionale direttamente riservata<br />

dall’ordinamento italiano nei riguardi di atti amministrativi che si pongono in<br />

contrasto con situazioni giuridiche protette dal diritto comunitario, secondo la<br />

prevalente corrente di pensiero, il relativo regime è quello previsto in generale<br />

dal diritto interno nei confronti degli atti amministrativi viziati da illegittimità.<br />

In tal senso, d’altronde, si è di recente pronunciato il Consiglio di Stato (con<br />

sentenza 10 gennaio 2003 n. 35), osservando che la violazione, da parte di un<br />

atto amministrativo, di una norma comunitaria che attribuisce ai privati una<br />

situazione giuridica direttamente protetta “comporta, alla stregua degli ordinari<br />

canoni di valutazione della patologia dell’atto amministrativo, l’annullabilità del<br />

provvedimento viziato nonché, sul piano processuale, l’onere della sua impugnazione<br />

dinanzi al giudice amministrativo entro il prescritto termine di decadenza<br />

pena la sua inoppugnabilità”. Si parifica, pertanto, la violazione delle<br />

disposizioni comunitarie all’inosservanza delle norme ordinarie di diritto<br />

interno. Tale soluzione, d’altronde, è stata sostanzialmente condivisa dalla Corte<br />

di giustizia (con la sentenza 27 febbraio 2003 in causa C-237/00) allorché si è<br />

precisato che l’estensione del sistema di impugnazione degli atti amministrativi<br />

illegittimi, anche per contrasto a principi e norme comunitarie, è coerente con i<br />

principi dell’ordinamento comunitario allorché fissa “termini ragionevoli a pena<br />

di decadenza” in quanto in tal modo si “risponde, in linea di principio, all’esigenza<br />

di effettività (…) ed al principio della certezza del diritto”.<br />

Tuttavia, si è osservato, la contraddittorietà di tale soluzione con quella in<br />

precedenza assunta in merito agli effetti del contrasto di disposizioni legislative<br />

con norme comunitarie in quanto la soluzione in esame garantisce agli atti<br />

amministrativi contrastanti con il diritto comunitario una forza di resistenza<br />

superiore a quella prevista nell’identica situazione nei confronti di norme di<br />

legge adottate in violazione del diritto comunitario. Infatti, mentre il contrasto di<br />

una legge con norme di diritto comunitario produttive di effetti diretti a favore<br />

degli individui e delle imprese può essere fatta valere sostanzialmente senza<br />

limiti di tempo da parte dei soggetti interessati o rilevata d’ufficio con conseguente<br />

disapplicazione da parte del giudice nazionale della relativa disposizione,<br />

altrettanto non avviene con riguardo agli atti amministrativi. In tal modo, così,

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