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STANZE_06_24_CITTA

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STANZE

ascolti

06/24

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fotogrammi

ombre

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CITTÀ

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visioni

zone


IN COPERTINA E IN QUARTA DI COPERTINA

Francoforte, Nicola Guida


EDITORIALE

Città del 2024

Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini

Giugno in città è una sfida di resistenza.

Le scuole chiuse, i bambini da collocare ai centri estivi, le scadenze lavorative

che ti tengono sveglio la notte ed il caldo, già feroce, che ti prende

alla gola e non molla la morsa.

Le città in estate sono un ribollire di arsura e rumori, uno spopolarsi di

abitudini scolastiche che lascia posto ad un ritmo di colpi e stridii metallici

per le strade, sulle impalcature, dentro i balconi dove incalzano le ventole

dell'aria condizionata, nel traffico più impaziente che s'infila dalle finestre

aperte assieme alle zanzare e ti lascia sperare solo nell'arrivo

della sera.

Città di palazzi serrati, negozi chiassosi, parcheggi selvaggi, profumi brutali;

di rassegne estive, locali notturni, turisti, pendolari in metropolitana,

biciclette e motorini. Città d'arte, cittadine sulla costa, capoluoghi isolani,

centri montani e capitali. Luoghi affascinanti che offrono vita, esperienze,

hanno caratteri e colori peculiari, hanno una musica specifica che li rende

contenitori in cui vogliamo entrare e da cui tentiamo di scappare. Città di

zone in crescita o in declino, sempre in movimento, più o meno nervose.

Città sotto il giogo del cambiamento climatico, pressate da un progresso

tutto umano, dall'ansia di produrre, di avere e fatturare che ha sconvolto

e scatenato la natura, quella che proviamo a riportare sui terrazzi coi

giardini verticali, quella che proiettiamo sulle facciate vagheggiando l'aurora

boreale, quella che immaginiamo in progetti visionari per un futuro

che stia al passo ma che sia anche sostenibile.

Città distrutte dalle guerre. Arse dai conflitti religiosi e dai giochi di potere.

Città di strade e vicoli oscuri dove si consumano aggressioni, di case chiuse

dove si compiono abusi e femminicidi, mentre nei palazzi istituzionali

si legifera e dietro le tende ognuno di noi cerca di vivere meglio che può.

Città vecchie dentro città nuove, perché il cambiamento è l'unico motore

e da sempre l'unica speranza. Città di uomini, tutti diversi e tutti uguali che

non hanno bisogno di specificazioni, ma forse questa è una città che deve

ancora nascere, una di quelle immaginate da Calvino, invisibile agli occhi,

vagheggiata dal cuore.

3/EDITORIALE


Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in Storia

e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Storico

Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte ad un master

dell’Accademia di Belle Arti. Autrice di testi critici per

mostre temporanee e cataloghi ragionati di artisti nazionali

ed internazionali (pubblicazioni Il Centofiorini, Skira,

La Colomba, Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film,

pazza per la musica, mamma di due bambini. La scrittura

creativa si accompagna da sempre a quella critica, come

momento di riflessione, occasione di ritrovamento, lascito

di una traccia. Interessata a trovare connessioni e sinergie

tra le forme espressive, fino ad una sintesi di parole,

immagini e suoni che non ha confini.

Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978

alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima

e impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è

un’appassionata e tenace grafica editoriale, che ha

instaurato dagli anni Novanta solide collaborazioni con le

più prestigiose redazioni di mezza Milano specializzandosi

in pubblicazioni di architettura, urbanistica, design, arte,

fotografia, saggistica. Un curioso decennio è volato tra le

altre cose affiancando gli architetti della EPFL di Losanna

nel dare una veste calzante a ricerche di respiro

internazionale. Grazie alla pandemia e ad alcune

interessanti ragazze ha ripreso in mano prima la matita,

poi la penna, per condividere con chi vorrà tutti i mondi

che popolano la sua testa irrequieta.

redazione–stanze

Redazione Stanze

redazionestanze.blogspot.com

IN REDAZIONE

Andrea Anconetani

incertipercorsi.eu

Gianfranco Garavelli

instax240.com

Nicola Guida

nicolaguida.wixsite.com/photography

Alessandro Pertosa

alessandropertosa.it

Alessandro Prandoni

theprandons.wixsite.com/blog

Paola Ricci

paolaricci.com/index.html

Chiara Riva

instagram.com/chiarariva80

Solidea Ruggiero

castelloerranteresidenza.it

CONTRIBUTI FOTOGRAFICI

Marcello Francone

facebook.com/marcello.francone.5

NUMERI PRECEDENTI

Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)

Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)

Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)

Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)

Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)

Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)

Stanze 09/23 Uomo (sabato 23/ 09/2023)

Stanze 12/23 Interni (sabato 23/12/2023)

Stanze 03/24 Punk! (sabato 23/03/2024)

4/redazione stanze


« Negli anni la città mi è entrata dentro. Ha depositato

le sue scorie sulle pareti delle mie arterie e di certi

miei pensieri a cui sempre, con violenza, mi ribello.

Saltano fuori quando sono meno vigile, alle volte, sul far

della sera. La mappa del centro e delle periferie – la

distribuzione dei palazzi – ha forgiato i caratteri delle

generazioni, ne ha determinato la disposizione a sognare

o a non farlo, a guardare avanti immaginando il futuro,

o a procedere a passo moderato, lo sguardo ben fisso

sulla punta delle scarpe. Da queste parti siamo nati tutti

all’ombra della Reggia. Le case sono basse, ancora

rispettose di quel decreto che secoli prima scoraggiava

i sudditi a costruire palazzi più alti della dimora del re.

Questa disposizione all’obbedienza appartiene

a una città che giace adagiata sugli sfarzi di un regno

che fu, la cui eredità è così pesante che non si riesce

a procedere oltre.

A sera, scendendo col motorino dalla città vecchia,

puoi vedere le colline intorno che diventano rosa

ed è uno spettacolo bello, anche se poi lo sai che quello

è il bianco delle cave aperte, pietra viva che arriva

in centro sottoforma di polvere e si appoggia sui vetri

delle macchine parcheggiate per le strade in doppia fila.

La polvere si appoggia sugli amanti nascosti

che scendono a valle separati, sui ragazzini che escono

dalla palestra e raggiungono i compagni rifugiati sotto

i portici a fumarsi le canne, sulle madri che sollevano

le buste del supermercato, sulle vecchie che vendono

a credito i calendari di Padre Pio all’uscita della messa

serale. La polvere delle cave scende insieme alla notte,

si appoggia sulla testa dei passanti e pesa come

piombo, gli inclina il capo dicendo loro di

guardare sempre a terra e mai troppo lontano. »

RAGAZZE PERBENE, OLGA CAMPOFREDA


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CITTÀ


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In copertina

Editoriale

Redazione Stanze

note/Le musiche invisibili

MARTA SILENZI

note/Musica urbana

MARTA SILENZI

ripostigli/Tokyo by car (MS)

Cartoline dalla città

MARTA SILENZI

Love and hate. Spike Lee e l’estate in cui

Bed-Stuym prese fuoco

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

ripostigli/Pretend it’s a City (PRP)

ripostigli/Manhattan (MS)

Gabriele Basilico. La forma della città

NICOLA GUIDA

#album/Ho viaggiato nel freddo

NICOLA GUIDA

Sguardi sulla città.

Le città nelle parole degli scrittori

ALESSANDRO PRANDONI

Le città Invisibili di Calvino

CHIARA RIVA

La città è un racconto

SOLIDEA RUGGIERO

note/collage #1 #2 #3

Il teatro e la città. Un rapporto problematico

ANDREA ANCONETANI

La città e i suoi segni

ALESSANDRO PERTOSA

#album/Milano in Movimento: istantanee

GIANFRANCO GARAVELLI

Volumetrie impossibili

PAOLA RICCI

note/Hundertwasserhaus e la città felice

MARTA SILENZI

note/Harlem Wandering. Cortocircuito

geografico

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

note/La Barcellona di Zafòn

MARTA SILENZI

ripostigli/ From Venice to Shanghai (PRP)

ascolti

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fotogrammi

ombre

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visioni

zone


«Magari Wolfe e Lyla arriveranno fino

in Canada. Magari abbandoneranno

le rispettive vite, che sono ricche

e piene ma...

Chissà, magari Montreal, dove Robbie

non è mai stato ma che ha sempre

vividamente immaginato: una città

di sfavillanti palazzi di ghiaccio,

un posto dove la gente va al lavoro

pattinando su fiumi gelati, dove

gli amanti si abbracciano in stanze

illuminate da candele sotto una

montagnola di trapunte e piumini, dove

l’ombra di Leonard Cohen indugia

davanti alla chiesetta di Nostra Signora

della Baia, cantando Suzanne

sommessamente tra sé e sé. A chi non

piacerebbe caricare la macchina

di giunchiglie e giacinti e proseguire,

proseguire fino a Montreal?»

DAY, MICHAEL CUNNINGHAM


«Devi essere un po’ sbalestrato.

Se non ti adegui, New York ti spezza,

perché è lei stessa a essere

sbalestrata. Non è rotonda, è piuttosto

un girotondo, e tutte le volte che ti fermi

è sempre in un posto diverso.

Così se cerchi di procedere per linee

rette ti stronca. Ma poi ti imbatti

in un tassista rumeno che in auto

manda a tutto volume musica rumena.

Ha una foto di Malcolm X sul cruscotto,

in testa porta un berretto

della Budweiser e indossa le scarpe

spaiate – una da tennis e una Oxford.

E ti parla di un locale del Queens.

È pazzesco, è eccitante,

ti dà assuefazione…

richiede un allenamento speciale.»

«New York è come un’arma:

vivi con tutte queste contraddizioni

ed è intensa, a volte insopportabile.

È un luogo in cui pensi che dovresti fare

di più per quello che vedi intorno a te,

un luogo in cui l’urgenza di fare una

foto al barbone fuori dal tuo

appartamento diventa più importante

della sua stessa urgenza di ottenere

una crosta o un posto per dormire.»

TOM WAITS


Le musiche invisibili

MARTA SILENZI

Le città invisibili di Calvino (in cui si

addentra Chiara Riva a pagina 100

di questo numero) compongono un

libretto inventivo, pieno di rimandi

semantici, storici ed estetici, di

emozioni e sensazioni che variano

col bagaglio sensibile e culturale

del lettore e danno l’impressione

che quella che Marco Polo racconta

a Gengis Khan sia una storia fatta

di pagine mutevoli e creative, che

si muove sotto la superficie della

carta e prende un volo immaginifico,

diverso per ogni lettore, diverso

ad ogni lettura.

Forse è per questo che il batterista

e compositore Andrea Ruggeri,

nel tradurre le città in musica,

ha pensato ad un concerto per un

ensamble variabile, in cui cambiano

tipi e numero di strumenti sul

palco, che può passare dall’acustico

all’elettrico, all’elettronico,

ampliando all’infinito l’esperienza

del viaggio attraverso queste città

dell’impero che il sovrano mongolo

non vedrà mai.

Cavalcando il cinquantenario

del libro, nel 2022 esce per Da Vinci

Jazz Musiche invisibili, una suite

in 7 tracce suonata dall’ARE,

Andrea Ruggeri Ensamble, composto

da Elsa Martin (voce), Mirko Onofrio

(flauti, sax tenore, voce), Gabriele

Mitelli (pocket trumpet, tromba

preparata, flicorno), Francesco

Ganassin (clarinetti, sax alto),

Christian Thoma (oboe, corno

inglese, clarinetto basso),

Francesco Saiu (chitarra classica

e chitarra elettrica), Elia Casu

(chitarra elettrica, live electronics),

Pasquale Mirra (vibrafono), Oscar

Del Barba (pianoforte, fisarmonica),

Daniele Richiedei (violino, viola),

Annamaria Moro (violoncello),

Giulio Corini (contrabbasso),

Andrea Ruggeri (batteria,

composizione), 13 elementi che

però dal vivo possono cambiare

e dare così origine a differenti

e suggestive narrazioni.

Calvino sostiene che il libro “è uno

spazio in cui il lettore deve entrare,

girare, magari perdersi” e che

“deve avere un intreccio, un

itinerario, una soluzione”.

L’approccio di questo ensamble,

con spazi di elaborazione,

improvvisazione, contrazioni

ed espansioni, influenze ariose

e fortemente narrative si accorda

al metodo calviniano, dimostra

di averlo inteso e di saperlo

restituire tradotto in musica,

espressione che più di tutte sa

rendere visibile ciò che non lo è.

Suoni, sussurri, parole-non parole,

l’uso della voce di Elsa Martin,

come uno strumento tra gli altri,

traina l’ascoltatore nel viaggio,

tra le intercapedini di questi spazi,

intrecciando la trama e l’ordito

dei tessuti sonori, suggerendo

suggestioni e stati d’animo,

caratteristiche di una città

o dell’altra, da Zaira a Despina,

da Zirma a Dorotea.

Proposte in anteprima nel

2017, al Salone Teresiano della

10/ASCOLTI/note


Biblioteca Universitaria di Pavia

(https://www.youtube.com/

playlist?list=PLFVZzxm5uhLgOLE

mu4bEBkjjSJoRvLq1s) e poi

pubblicate nel 2022, per il

cinquantenario dell’uscita del libro

di Italo Calvino, queste Musiche

invisibili dal vivo si mescolano a nuove

composizioni per le quali si prevede

un secondo volume concepito sia per

piccolo che per grande ensamble,

dalle influenze ancora ampie che si

muovono fluide dal jazz alla musica

da camera, dalla musica popolare alla

world music, moltiplicando i viaggi, le

immagini, le esperienze invisibili.

Lucca. Piazza Anfiteatro

Foto di Marcello Francone

“ACCADE GIÀ NELLA LETTERATURA, COSÌ COME IN ALTRE ARTI:

QUELLO DI CUI LEGGIAMO, O CHE POSSIAMO VEDERE, ACQUISISCE

UNA SUA CONCRETEZZA MENTRE NE FACCIAMO ESPERIENZA.

CREDO CHE IN CIASCUNA ARTE QUESTA POSSIBILITÀ POSSA POI ESSERE

PIÙ O MENO DETERMINANTE. NEL CASO DELLA COMPOSIZIONE,

PERSONALMENTE SEGUO UNA IDEA CHE COLTIVO ANCHE IN AMBITO

DIDATTICO: RIUSCIRE A SCOLPIRE LA MASSA SONORA. UNA IDEA

CHE HA NATURALMENTE INFLUENZATO ANCHE MUSICHE INVISIBILI

E CHE SI TRADUCE NEL TENTATIVO DI DARE UNA FORMA AL SUONO

ANCHE MEDIANTE I SILENZI, I CAMBI METRICI, GLI ALLONTANAMENTI

DALLA LINEARITÀ, LE SOTTRAZIONI DEI SUONI.”

11/ASCOLTI/note


Musica urbana

MARTA SILENZI

Nelle esperienze di mindfulness si

parte cercando un focus leggero

che non ci faccia soffermare su

niente in particolare ma che ci

permetta di accorgerci dei suoni

che ci circondano. Di solito essi

sono un misto di cinguettii di vario

genere e suoni urbani a seconda

delle zone in cui ci troviamo e delle

stagioni dell’anno. Max Casacci (dei

Subsonica), musicista allenato alla

ritmica, abituato a riconoscere e

lavorare con i suoni, ci ha costruito

sopra due album: Earthphonia

del 2020 e Urban groovescapes

(Earthphonia II) del 2022. Se il

primo si apre al contesto naturale

portando con sé riflessioni inevitabili

sulla bellezza in natura e sugli

stravolgimenti climatici, il secondo si

concentra sul tessuto sonoro urbano,

sul rumore cittadino e metropolitano

che comporta componenti ritmiche e

giochi acustici inaspettati.

Firenze. Ponte Vecchio

Foto di Marcello Francone

12/PAGINE


Non possono non tornare alla mente

Bjork che intona melodie sui ritmi

cadenzati e regolari delle macchine

nella fabbrica di Dancer in the dark di

Lars Von Trier, o i bombardamenti

da risonanza magnetica dell’album

IRM di Charlotte Gainsbourg e Beck

ma, mentre quelli erano ambienti

al chiuso, Casacci registra suoni

in giro per la città, come un Philip

Winter (tecnico del suono che

girava per Lisbona a caccia del

tappeto sonoro per un film in Lisbon

Story di Wim Wenders) molto più

tecnologico e volto al pensiero di una

riqualificazione del nostro rapporto

con la città e di un rifamiliarizzare

con suoni che teniamo, spesso con

fastidio, in un sottofondo quotidiano

ma che possono invece essere

apprezzati se ascoltati.

Mezzi di trasporto, tram, voci

che annunciano le fermate della

metropolitana, rumori dei bar,

cantieri stradali, ronzio di biciclette

e rombi da Formula 1 sono la base di

partenza del musicista per questo

progetto di dieci tracce volto a

ripensare la nostra relazione con

lo spazio urbano, a recuperare

suoni memoriali ed esperenziali

che andiamo dimenticando: “Chi

ricorda, per esempio, l’esperienza

acustica del gettone nella cabina,

insonorizzata, del telefono? Il

suono dell’attesa, il rumore della

città proveniente da un modo

improvvisamente divenuto esterno,

mentre con la cornetta in mano

aspettavamo le parole di una voce

familiare filtrata dai microfoni a

carbone? Suoni estinti, come quelli

di molti organismi tecnologici,

elettromeccanici di un’era

precedente alla digitalizzazione”.

Urban Groovescapes (Earthphonia

II) è un album che, quasi del tutto

senza strumenti musicali, gioca

a svelare il groove nascosto della

città, attraverso la ricerca e la

manipolazione delle fonti sonore

urbane, inserendo messaggi affidati

alle voci degli annunci ferroviari o

della metro, di personaggi famosi,

come Monica Bellucci, seduti

ad un caffè, agli schiamazzi del

pubblico del tennis, in una sfida

all’immaginazione fatta di suoni

quotidiani, di ritmi, di movimenti,

per scoprire quanta vita c’è sotto

il suono che producono le azioni di

tutti i giorni e quanto tutto questo

lavorio concorra al racconto di una

città, che è un misto di tante città,

da Londra a Courmayeur, ma che è

anche fortemente Torino, casa del

musicista, come si evince dalle tracce

Messaggio di Gioia (Urban transports

Torino/Milano), Tramvia 1 (A tram ride

Torino/Firenze), ATP Finals but the bass

(100% Tennis: but the bass).

“LE CITTÀ COMINCIANO

A CAMBIARE SOLO QUANDO

RIUSCIAMO A IMMAGINARLE

DIFFERENTI”.

“Non lo spazio alienante, grigio

e che spesso viene descritto con

compiaciuta e persistente estetica

del degrado, ma una città che gioca

a ripensarsi e che qui, idealmente,

danza sui suoni di un groove-set

dilatato, ampio, spazioso. Le città

diventano come le immaginiamo.

E oggi, inevitabilmente, il mondo

stesso potrebbe essere ripensato a

partire da esse. L’ho detta forse un

po’ grossa ma l’ho detta in musica,

con quest’album che è un disco, ma

vuole anche essere un contenitore

aperto, in costante evoluzione,

pronto ad arricchirsi.”

La trasformazione del rumore in

musica è il lavoro dei musicisti,

ed è questo il visionario progetto,

realizzato sulla base di registrazioni

di anni, di Max Casacci per 35mm,

sezione cinematografica/sperimentale

di 42 Records. Se il primo capitolo

di Earthphonia punta all’universale, il

secondo esplora la contingenza delle

tensioni umane e tecnologiche che

fanno parte di questa società sempre

più in rapido cambiamento, leggendo

bene un presente nervoso e mai del

tutto fermo.

13/ASCOLTI/note


Firenze. Uffizi e loggia sul Lungarno

Foto di Marcello Francone

14/ASCOLTI


TOKYO BY CAR

È una delle magie di Wim Wenders quella di

mostrare una metropoli solo quando il protagonista

della pellicola sale in macchina e la attraversa,

e di far partire la musica solo quando parte

il mangianastri della stessa macchina.

Così, in Perfect days, la musica racconta lo stato

d'animo di Hirayama e la strada percorsa

racconta la sua città.

The Animals – The House of the Rising Sun

The Velvet Underground – Pale Blue Eyes

Otis Redding – (Sittin’ On) The Dock of the Bay

Patti Smith – Redondo Beach

The Rolling Stones – (Walkin’ Thru The) Sleepy City

Lou Reed – Pefect Day

Sanchiko Kanenobu – Aoi Sakana

The Kinks – Sunny Afternoon

Maki Asakawa – The House of the Rising Sun

Van Morrison – Brown Eyed Girl

Nina Simone – Feeling Good

Patrick Wilson – Perfect Day

MS

15/ASCOLTI/ripostigli


CARTOLINE

DALLA CITTÀ

16/FORME


MARTA SILENZI

Il rigore e la proporzione delle città ideali di Leon Battista Alberti; la Venezia

settecentesca del Canaletto; le città futuriste in preda al movimento e alla

furia cromatica di Umberto Boccioni; le mute piazze metafisiche di Giorgio

De Chirico; le austere fabbriche di Mario Sironi; le composizioni meccaniche

tra grattacieli e tunnel di Fortunato Depero; la Parigi degli impressionisti

sotto la pioggia; le città destrutturate e i palcoscenici onirici dei surrealisti;

le romantiche rovine cartaginesi di William Turner, inondate da una

luce calda e liquida che sfuma i profili e li lascia all’intuizione. Sono tante e

diversissime le immagini di città che salgono alla mente pensando alla

storia dell’arte ma il paesaggio urbano si afferma come genere pittorico

non prima del ‘700, negli anni d’oro del vedutismo che elabora minuziose

e realistiche riproduzioni per le quali sembrano servire diottrie sovrumane.

In precedenza la città è un corredo del dipinto, generalmente posta in lontananza

alle spalle di soggetti religiosi o storici. È un ancoraggio per committenti,

un omaggio a determinati luoghi, un pretesto simbolico.

Lentamente paesaggi naturali e urbani diventano comprimari e protagonisti.

Con i Grand Tour si diffonde l’uso dello studio di luoghi e architetture,

dal bozzetto alle incisioni che, con la loro riproducibilità, sono l’anticamera

della fotografia.

Da strumento d’indagine e documentario a mezzo di per sé di espressione

artistica, la fotografia poi amplia le possibilità dell’arte, anche quando,

nel corso del ‘900, il dato realistico è permeato e stravolto dal fattore

emotivo, dal messaggio critico, dall’esperienza storica e dalla sperimentazione

pittorica.

Volendo spedire dieci cartoline dalle città sparse per il mondo e per i secoli,

la nostra scelta è caduta su una selezione che vi proponiamo dalla nostra

biblioteca.

17/FORME


LA CITTÀ IN COSTRUZIONE

LA GRANDE TORRE DI BABELE

Pieter Bruegel il vecchio

1563, olio su tavola

Vienna, Kunsthistorishes Museum

Anversa. La città che evoca Pieter Bruegel in questa grande opera di Vienna,

come pure nella versione più piccola conservata a Rotterdam (una

terza, perduta, è nominata in alcuni documenti come Torre babilonese) è

Anversa, che nel corso nel 1500 affronta un boom di crescita socio-economica:

è un un centro nevralgico del commercio mondiale, favorita dalla sua

posizione e dalla scoperta delle rotte che costeggiano l’Africa, arrivano in

Asia e, attraverso l’Atlantico, raggiungono l’America. Questa rapida espansione

destabilizza la situazione perlopiù di piccoli comuni facilmente controllabili,

raddoppia gli abitanti di cui gran parte stranieri, con lingue, usi e

costumi differenti: la collettività si fa multiculturale, con grande diffidenza

e difficoltà di comprensione ed intesa, soprattutto religiosa.

Qualcosa di molto simile alla società odierna, segno che tanto progresso

non è affatto avvenuto sul piano socio-culturale. È decisamente attuale la

metafora biblica della Torre di Babele (nel I libro di Mosè, 8 della Torà e in

Genesi, 11 della Bibbia) secondo la quale re Nimrad ordina una torre alta

fino al cielo. Dio punisce questa superbia e presunzione umana privando

gli uomini di una lingua comune così che, non potendo comprendersi, non

riescano mai a portare a termine i lavori.

18/FORME


L’opera di Bruegel è imponente, per dimensioni, per concezione, per impianto

prospettico e cromatico, per gli incredibili dettagli. I pittori fiamminghi

sono conosciuti per la loro grande capacità di rendere definiti i più

piccoli elementi, specie le “vedute” che, se ingrandite molte volte, mostrano

un’esattezza sorprendente data da minuscoli tocchi di colore.

Al di là della torre centrale e protagonista, resa con uno stile che risente

dei viaggi in Italia e della conoscenza sia di costruzioni gotiche che antiche

come il Colosseo; al di là di particolari rivelatori come l’ambientazione accanto

ad un porto fluviale importante per il trasporto dei materiali e l’impiego

di mezzi di costruzione contemporanei all’artista quali il cantiere

edile e le gru; al di là della scena simbolica in primo piano con il re Nimrad

che fa visita ai tagliapietre inginocchiati con entrambe le ginocchia (e non

con uno solo come si usa in Europa) per rispetto del re orientale, è l’immensa

città che si estende in profondità oltre le torre il vero capolavoro di Bruegel:

gli edifici alti, scuri, i tetti appuntiti, i ponti sul fiume, l’acquedotto e, ancora

oltre, la campagna parzialmente illuminata a destra per concessione

delle nuvole.

La versione di Rotterdam , più piccola, è più inquietante, il cielo più minaccioso,

la torre più cupa e scura; la scena del re scompare ma all’altezza

dell’orizzonte – dove cioè prima e più facilmente si posa lo sguardo

– il pittore inserisce una minuziosa processione che sale con un baldacchino

rosso, tipico delle autorità ecclesiastiche: una nota critica contro

la chiesa cattolica evidentemente incurante di qualsiasi eventuale accusa

di superbia.

TUNISI, LA CITTÀ CALDA

DAVANTI ALLE PORTE DI KAIRUAN

Paul Klee

1914, acquerello su carta su cartoncino

Berna, Kunstmuseum, fondazione Paul Klee

Il 7 aprile 1914 Paul Klee raggiunge Tunisi assieme agli amici pittori Louis

Moillet e August Macke per un viaggio studio che sia di stimolo reciproco,

ospitati dal medico Ernst Jäggi.

Dopo qualche giorno di disegni e dipinti tunisini, al porto e nei quartieri

arabi, i tre si recano a Saint Germain, nella tenuta di campagna del dottore

e poi a Cartagine. Il 14 aprile raggiungono Kairuan dove Klee ha una sorta

di epifania pittorica: tiene un diario di viaggio, riporta aneddoti su confronti

e scambi riguardo la pittura, scrive che “il sole è di una forza oscura. La

chiarezza colorata sulla terra è promettente (…). Interrompo il lavoro, un

senso di conforto penetra in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il

19/FORME


colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per

sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno.

Sono pittore.”

Si tratta dell’applicazione delle teorie sulla luce di Delaunay – di cui Klee ha

tradotto il testo – e delle dissertazioni sulla percezione del colore tra i tre

artisti, mixate e sperimentate secondo una sensibilità personale che portano

Klee ad un lavoro delicatissimo e rivoluzionario sugli acquarelli: i colori

sono stesi gli uni sugli altri in trasparenza a partire dall’immagine naturalistica

e arrivando alla progressiva astrazione che racchiude

gentilmente gli elementi paesaggistici e architettonici in velate griglie geometriche.

Klee è un teorico, uno studioso analitico, il suo occhio permea la

realtà per scovarne gli elementi elementari per poi combinarli con percezione

autonoma, irrequieta e sapiente; la sua concezione di astrazione è

questa, estrinsecare i rapporti pittorici puri (come riescono a fare i bambini)

per poi comporli in infinite possibilità associative.

Gli acquerelli di Tunisi risentono del calore di quella terra e di quelle temperature,

c’è una sorta di bagliore diffuso e di caldo tangibile anche negli

azzurri e nei grigi, nei notturni come nei diurni. È così ne Il sorgere della luna

St. Germain (Tunisi), dove la griglia cromatico-geometrica è piuttosto evidente,

o in Vista di Kairuan, dal taglio orizzontale, la tavolozza aranciata,

l’impianto architettonico orientale dinamico tra lo scacchettato degli edifici

e il tondeggiare delle cupole.

Davanti alle porte di Kairuan mostra una veduta più lontana, un paesaggio

arcaico, è una cartolina preziosa dalle tonalità indefinite e liquide, i grigi

violacei, le terre azzurrate, qualche dettaglio come i cammelli e l’asino sul-

20/FORME


LA CITTÀ ECOLOGICA

la linea centrale , la cupola bianca sul fondo, i riquadri tenui appena percepibili,

un accenno di paesaggio ancora sulla sinistra: l’immediatezza di un

disegno di viaggio, l’impressione di un momento ma filtrata da un’attenzione

non comune.

GLI ALBERI INQUILINI NON DORMONO – GLI ALBERI INQUILINI SONO SVEGLI

Friedensreich Hundertwasser

1973, tecnica mista su tela

Tunisi

Tutto comincia nel 1972 col manifesto “Il diritto della finestra-il dovere dell’albero”

che questo artista austriaco, pittore, architetto visionario e soprattutto

ecologista, scrive proponendo di coprire i tetti delle case di vegetazione

e di personalizzare e diversificare le facciate delle abitazioni – una cosa che

oggi sembra molto di tendenza ma che ha origini lontane, negli happening

e nelle ideologie anni settanta che si oppongono all’architettura razionalista,

rivendicando il diritto all’individualismo decorativo e all’armonia con la

natura.

Si tratta di un preciso programma di arte, architettura ed ambiente che

Hundertwasser propone in giro per il mondo, fatto di esposizioni, gesti simbolici,

discorsi impegnati e realizzazioni grafiche inerenti come locandine

e francobolli, per storicizzare queste sue campagne socio-culturali.

Per Hundertwasser l’uomo ha 5 pelli: l’epidermide, i vestiti, la casa, l’ambiente

sociale; la quinta pelle è legata al pianeta, alla qualità dell’aria, allo stato

della Terra che ci ospita e ci nutre.

Queste pelli si presentano visivamente in forma di cerchi concentrici, come

le sezioni dei tronchi degli alberi, coloratissimi e portatori di storia, conoscenza

e significati. In pittura, come nelle azioni che lo vedono piantare fisicamente

alberi-inquilini su balconi e facciate di importanti palazzi a Milano,

per la Triennale del ‘73, e poi in Austria e in Germania, e persino nei

progetti architettonici, l’impostazione è anticonformista, ecologista e visionaria.

Nel dipinto conservato a Tunisi la città è invasa dagli alberi, inquilini

dei palazzi che si scorgono dietro i cerchi dominanti e all’interno di un fluire

dinamico: tutto è collegato e tutto è in movimento, connesso, vivido. “Gli

alberi che crescono nelle e sulle case pagano l’affitto, senza sosta, con

molte monete e in una preziosa valuta, con l’ossigeno, il silenzio, la riduzione

della polvere, regolando la temperatura e offrendo bellezza.”

21/FORME


22/FORME


LA CITTÀ ASTRATTA

ASHEVILLE

Willem De Kooning

1949, olio e smalto su cartoncino montato su tavola

Washington, The Phillips Collection

Asheville è una cittadina della Carolina del Nord vicino al Black Mountain

College dove De Kooning insegna nell’estate del 1948. L’opera, relativamente

piccola, è uno di quei portenti che condensano molti elementi e che

quindi vanno osservati a lungo, in cerca di indizi e dettagli avvicinandosi e

in cerca di una sensazione d’insieme guadandoli da lontano. Gli espressionisti

astratti puntano ad una pittura immediata, al gesto veloce, ad una

frammentazione che trova una sua unità altra, individualista, esistenzialista.

L’artista olandese cavalca questa nuova espressione creando l’illusione di

una tecnica mista: sembra nascondere disegno e collage tra la pittura,

consegnando un’immagine casuale e impulsiva ma che in realtà ha vari

studi e quattro ulteriori versioni alle spalle che gli permettono di elaborare

una composizione finale priva di veri elementi di collage, evocato però da

rotture e salti come fossero ritagli ed inserti (una puntina da disegno, un

lembo di carta staccato); tutto questo senza perdere la freschezza e l’irrequietezza

del gesto emotivo. Contribuiscono all’effetto generale le numerose

raschiature e stratificazioni e l’utilizzo bordante del nero con un pennello

da fodera, solitamente usato dai pittori di insegne.

La cittadina ritratta è rintracciabile nello skyline della zona centrale in alto

23/FORME


VICOLI DI CITTÀ

LA STRADINA

Johannes Vermeer

1657 ca., olio su tela

Amsterdam, Rijksmuseum

del dipinto che richiama le Blue Ridge Mountains che incombono sui terreni

del Black Mountain College; l’area azzurra sottostante evoca l’Eden Lake,

adiacente alla scuola. Poi ci sono frammenti di occhi, mani, una bocca, un

riquadro verde, profili di lettere, tutto combinato e ritmato per confondere

e moltiplicare i significati, codificare la realtà secondo una visione personale

e rispondere alle numerose possibilità espressive che gli anni ‘50 (sia in

Europa che in America) stanno covando.

Una “scena di cortile” dipinta dal maestro degli interni con la stessa magia,

la stessa sensazione di silenzio e raccoglimento nelle faccende domestiche,

ognuno intento nel proprio lavoro, un giorno come un altro tra i vicoli e

sotto il cielo grigio di Delft.

Un edificio di mattoni rossi, una facciata dalle imposte quasi del tutto chiuse,

tre scene distinte che animano la casa e la via ma con garbo: un ram-

24/FORME


LA CITTÀ SEPARATA

mendo nell’androne della porta, il lavorio di una domestica nel cortile interno,

due bambini che giocano a sollevare piastrelle (motivo ricorrente nei

quadri religiosi olandesi del XVII secolo).

La ricchezza di dettagli e la sensibilità per la luce ed il colore dati a tocchi

sul lato sinistro del quadro e distribuiti in un’infinità di minuziosi particolari

fa del piccolo dipinto una tra le più belle opere di Vermeer, che sa restituire

il fascino di Delft pur vista da un umile vicolo, legando la facciata principale

al resto dei fabbricati, spingendoci in profondità a partire dalla linea in primo

piano del canale di scolo, esortandoci ad alzare progressivamente lo

sguardo sui pigoni delle costruzioni e lasciandoci immaginare l’intreccio di

molte altre stradine così all’ombra delle parti più importanti e rappresentative

della città.

Vermeer ha dipinto perlopiù scene d’interni, momenti cristallizzati, figure

fissate in un attimo reso eterno dalla luce: la lettura di una lettera, la scelta

di un gioiello, il peso delle perle, inondati dal calore e da gradazioni luminose

opportunamente filtrate quasi sempre dalla stessa finestra e poi ritratti

e allegorie universalmente conosciuti, esempi altissimi del luminismo seicentesco.

Ma questo quadruccio, come la più grande e ariosa Veduta di

Delft, conservano la maestria, i tagli angolati, l’uso della camera oscura per

controllare la composizione, la magia ed il mistero di uno degli artisti di cui

si hanno meno notizie nell’intera storia dell’arte.

LA CASA BLU

Marc Chagall

1917 ca., olio su tela

Liegi, Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain

Marc Chagall è un pittore russo, un ebreo chassidico, un visionario che

resta sempre indipendente dai movimenti artistici che lo circondano, ne

trae soltanto ispirazione per trovare una sua via peculiare che è narrativa,

colorata, fiabesca, malinconica e romantica.

Cresciuto all’interno di uno shetl, un ghetto ebraico fatto di baracche, una

scuola e una sinagoga, per quanto abbia poi viaggiato e conosciuto altri

mondi, resta quello lo spazio del suo immaginario pittorico: sono piccoli

borghi di casupole gli scenari urbani che gli vediamo rappresentare nelle

sue opere, ma questi umili luoghi sono solo la parte terrena di un insieme

che prende quasi sempre il volo, nei colori e nelle forme della fiaba chassidica,

come se l’individuo, vessato dall’isolamento e dall’odio, trovasse in uno

spazio intermedio tra terra e cielo il proprio mondo, dove i colori esplodono,

le spose cavalcano asini rossi e gli angeli suonano il violino.

25/FORME


È una di queste baracche il punto di vista sulla grande città de La casa blu

e de La casa grigia, due versioni in diverse condizioni di luce e con variazioni

di dettagli e ambientazione in cui Chagall mostra la separazione: il

blu-violaceo di una delle costruzioni del ghetto, in legno e mattoni, fragile

e povera, che potrebbe essere spazzata via da un soffio di lupo, di fronte

alle più solide strutture in pietra di Vitebsk.

Il luogo potrebbe essere il sobborgo di Liozno, in cui Chagall è nato e cresciuto,

diviso da Vitebsk in cui svetta il monastero barocco, dalle trasparenti

acque del fiume Dvina, che nel dipinto accoglie un riflesso violaceo della

città e taglia in due la colorata campagna.

Prospettiva e tavolozza non sono realistici, piuttosto espressionisti, e acuiscono

la favola e il dramma in essa nascosto.

La versione conservata al Thyssen-Bornemisza di Madrid è in grigio-verde,

il punto di vista è ribassato e tutto assume toni e forme più grotteschi, il

monastero è più dettagliato, il cielo è un’astrazione minacciosa e un grosso

steccato rende inequivocabile il concetto della reclusione.

Nell’angolo a sinistra un ebreo, forse lo stesso Chagall, sembra ondeggiare

stagliato su un muro di pietre o un catasto di legna.

Le variazioni tra i due dipinti mostrano molto bene quanto il filtro immaginifico

e la forza dei colori siano a sostegno della libertà espressiva dell’artista.

26/FORME


LA CITTÀ DELLE LUCI / LA CITTÀ VERTICALE

NEW YORK, NOTTE

Georgia O’Keeffe

1929, olio su tela

Lincoln, Collection of the Sheldon Memorial Art Gallery, University of Nebraska Art Galleries

Nel 1925 la pittrice americana Georgia O’Keeffe e Alfred Stieglitz, suo marito,

mercante e fotografo, si trasferiscono ai piani alti dell’Hotel Shelton di

New York. Sono i primi ad abitare sopra i tetti di Manhattan, in locali solitamente

riservati agli uffici.

La vista è spettacolare, la città è verticale, come osserva Le Corbousier.

Il grattacielo, con la sua forma a torre e l’intento di svettare, è già simbolo

di modernità: sebbene si debba aspettare gli anni trenta per vedere il tipico

skyline di New York, edifici come il Radiator Building e lo Shelton ne

anticipano il fascino.

La O’Keeffe è pittrice di elementi naturalistici, o meglio, di come la sensazione

e la percezione del fiore, del paesaggio, dei teschi di mucca li trasformino

sulla tela. Il suo approccio alla città non è differente:”Non si può dipingere

New York come essa è, ma piuttosto come la si avverte”.

Il suo punto di partenza è fotografico, gli scatti di Charles Sheeler, Paul

Strand e dello stesso Stieglitz hanno tagli e prospettive insolite, i grattacieli

si slanciano, spiccano e su di essi s’impone la luce. La pittrice semplifica e

ripulisce l’immagine da tutti i dettagli e lascia la descrizione unicamente

alla luce. Quella diurna crea effetti particolari su quegli edifici che quasi la

27/FORME


ostacolano e giocano di riflessi, è evidente in Hotel Shelton, New York, No.1

(1926, Regis Collection, Minneapolis) che assomiglia ad un controluce, quando

con la macchina fotografica si scatta guardando il sole, che avanza sul

lato del palazzo e gradatamente aumenta il bagliore, cancellando finestre

e profili e distribuendo bolle dorate e magiche in caduta sulla strada.

Quella notturna è cantata da artisti di ogni genere: le luci artificiali della

metropoli sono un emblema, dalle infinite finestre degli uffici, ai fari apicali

sui tetti, ai semafori, ai neon, alle pubblicità. Dai piani alti della sua abitazione

la O’Keeffe ha una visuale favorita e protetta, si affida alle sfumature

scure per semplificare le sagome e ai bagliori colorati per rendere l’atmosfera,

dai toni aranciati in New York, notte, dalle vibrazioni più argentee in

Radiator Building – Night, New York (1927, Fisk University). Interessante è anche

un altro notturno, City Night (1926, Mineeapolis Institute of Arts), stavolta

una vista del basso, i grattacieli incombono e puntano verso l’alto, tutto

è scuro tranne due bolle di luce chiara al centro e una digradante parte di

edificio completamente bianca, pienamente illuminata e molto netta.

È la sensazione per le strade di Manhattan, quando camminando non possiamo

fare altro che piegare il collo e guardare in su.

UNA CITTADINA NORDICA

RAGAZZE SUL PONTE

Edvard Munch

1902 ca., olio su tela

Mosca, Museo Puskin

28/FORME


LA CITTÀ LÀ FUORI

È una sera d’estate, quando nei paesi nordici le ore del giorno si allungano

indefinitamente. Tre ragazze si appoggiano al parapetto del ponte e restano

a guardare il riflesso nell’acqua della città di Åsgårdstrand. È un lembo

quieto della città, quasi del tutto nascosto dalla grande massa dell’albero.

Tutto è silenzioso e pacato.

La composizione è raffinata, col villaggio frontale ed il ponte in diagonale

che creano lo spazio per lo specchio d’acqua. La pittura è magnifica: morbida,

quasi mossa, dai contorni marcati e i toni freddi serali. Munch è pittore

di stati d’animo profondi e trattiene nelle sue opere un simbolismo a

volte delicato, come in questo caso, a volte straripante come ad esempio

ne L’urlo (1893, Oslo, Munch Museet). Entrambi i dipinti presentano la tematica

del ponte, che ha a che fare con la transitorietà, il collegamento ma

anche l’allontanamento, qui coniugata con quella dello specchio, che allude

all’autocoscienza, allo scrutare dentro se stessi. È forse su questo che riflettono

le tre donne di spalle, avvolte nella dimensione intima della sera.

Su questo ponte sono solo sussurri quelli che nell’altro quadro sono grida.

Le ultime case bianche nella cittadina sonnecchiano a distanza, la luna è

tenue nel cielo ancora chiaro, l’acqua si muove appena.

OFFICE IN A SMALL CITY

Edward Hopper

1953, olio su tela

New York, The Metropolitan Museum of Art

Edward Hopper dipinge interni. Teatri, caffè, stanze d’albergo, scompartimenti

di treno, cinema, uffici, motel. A volte sbircia nelle finestre illuminate

di case e palazzi. E poi dipinge esterni. Blackwell’s Island, angoli di New York,

il traffico di Yonkers, villette isolate nei pressi della ferrovia, Whashington

Square, fari e tramonti, Corn Hill, Cape Cod. Cerca la luce del sole che scende

o che sorge, il suo punto di vista è quello del narratore nascosto, pronto

a cogliere un accadimento minimo nell’assoluta e semplice quotidianità.

Le sue città sono l’America tra gli anni trenta e cinquanta: i palazzi, i ristoranti,

i negozi, i caseggiati, popolati da figure in abiti immediatamente identificativi

di uno stile e di un’epoca.

E tutto ha il sapore parimenti di realismo ed irrealtà, di un tempo fermo, di

uno stand by.

In questa sospensione la luce e la geometria si combinano in composizioni

geniali, come in quest’Ufficio in una piccola città, che è un gioco di rapporti tra

interno ed esterno molto cinematografico: il pittore sembra seduto dietro

una macchina da presa rialzata, così da poter guardare dentro quest’ufficio

29/FORME


QUARTIERI MISTERIOSI

dalle enormi vetrate prive di aperture, così da poter cogliere contemporaneamente

l’impiegato e la città che sta osservando, il palazzo scuro di fronte

stagliato contro il bianco disadorno delle due costruzioni che lo circondano.

Hopper sceglie sempre una semplificazione d’insieme: non ci sono dettagli

del lavoro svolto nell’ufficio, né scritte sul palazzo, solo il consueto gusto per

le forme geometriche, le superfici perlopiù piatte, gli angoli e l’incastro di

volumi, essenzialità e sintesi, nelle quali la luce produce ombre bellissime

e strisce dorate sulla scrivania. La cittadina potrebbe essere una delle tante

dello Stato di New York, la modanatura in basso a destra crea assonanza

con lo stile architettonico del palazzo di fronte e richiama subito alla mente

l’urbanistica americana del periodo, così come richiama anche una certa

metafisica (Sironi più che De Chirico) affatto turbata dalla presenza

dell’uomo, che è fermo nel suo pensiero, staccato dalle circostanze del presente:

la luce impone il silenzio e la dimensione è solo quella dell’ascolto.

L’EMPIRE DES LIMIERÉS II

René Magritte

1950, olio su tela

New York, The Museum of Modern Art

Ecco un’altra situazione di reale irreale. Magritte è il maestro dell’illusionismo.

Dipingere le cose così come sono mette immediatamente in discussione

“i loro corrispettivi nel mondo reale”. L’intento del pittore belga è

30/FORME


sovvertire le leggi per mostrare il mistero del mondo, la magia, la poesia.

Non è la soluzione dell’apparente rebus che si deve cercare, non il significato

del quadro, ma l’ambiguità, lo straniamento, di cui prendere atto e

meravigliarsi.

Quest’opera di Magritte è in forma di pensiero e in termini di luce e buio.

Un quartiere di Bruxelles? Forse. Una via residenziale curata e silenziosa.

Luci tenui nei caseggiati, le chiome degli alberi confuse nell’oscurità, il punto

focale dell’elegante lampione. Nessuna forte emozione se non la quiete

della sera.

Ma è davvero sera?

Perché il cielo è chiaro e cosparso di nuvole bianche.

In alto è pieno giorno. Nessun taglio di luce emotivo per Magritte, mai, la

sua tavolozza è sempre fredda e raffinata, l’effetto è sempre calcolato, sobrio,

eppure i soggetti sono del tutto sopra le righe, extramentali, onirici,

surreali.

Due tempi in uno, giorno e notte, sopra e sotto.

Uno sguardo frettoloso ci fa propendere per la sera, il crepuscolo, l’imbrunire,

ma il cielo non è per niente bruno, il celeste potrebbe essere quello

delle tre del pomeriggio e le nuvolette sono in viaggio verso sinistra senza

che gli alberi sotto risentano di alcun vento.

È una compresenza, la strada di una cittadina notturna sotto un cielo diurno.

Perché no.

31/FORME


HATE AND LOVE

Spike Lee e l’estate in cui

Bed-Stuym prese fuoco

GENTE MIA, GENTE MIA. COSA

POSSO DIRVI? COSA POSSO DIRVI?

HO VISTO, MA NON HO CREDUTO.

NON HO CREDUTO A QUELLO

CHE HO VISTO. RIUSCIREMO

MAI A VIVERE INSIEME? INSIEME

RIUSCIREMO MAI A VIVERE?

Mister Señor Love Daddy, dopo la rivolta


PAOLA RANZINI PALLAVICINI

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

IL RUOLO DELL’ARTISTA È QUELLO DI RISPECCHIARE

LA SOCIETÀ IN CUI VIVE NEL PROPRIO LAVORO.

LA MAGGIOR PARTE DEI MIEI FILM PARLA DI DOVE VIVO.

HO AFFRONTATO DIRETTAMENTE IL PROBLEMA RAZZIALE

IN JUNGLE FEVER E FA’ LA COSA GIUSTA, PER ESEMPIO,

PERCHÉ RITENGO CHE È STATO, È E CONTINUERÀ

A ESSERE IL PROBLEMA PIÙ URGENTE E GRANDE

NEGLI STATI UNITI. QUESTO, FINO A CHE NON SARÀ

AFFRONTATO COSÌ COME MAI È STATO FATTO.

Il castoro cinema, 2007

FA’ SEMPRE LA COSA GIUSTA.

TUTTO QUI?

TUTTO QUI.

Da Mayor

Shelton Jackson Lee

La città è sempre stata l’assoluta protagonista delle pellicole di Spike Lee.

Nato ad Atlanta nel 1957, figlio di un’insegnante e di un musicista jazz, si

trasferì quasi subito prima a Chicago e poi a Brooklyn. La corporatura gracile

lo allontanò dai sogni di gloria legati al baseball per avvicinarlo a letteratura,

cinema e teatro, a Malcolm X, ai giornali studenteschi e, come legante

di tutto questo, alla causa afroamericana.

33/FOTOGRAMMI


Il primo corto di Lee risale ai tempi del college, al termine del quale si iscrisse

alla New York University e prese la decisione definitiva sul suo futuro da

regista. Il resto è storia: una ricca filmografia in molti passaggi fortemente

autobiografica, una miscela esplosiva di fattori determinanti: impegno sociale,

passione sfrenata per la musica (il regista ha anche diretto molti videoclip),

lo sport, l’arte contemporanea afroamericana.

Ispirazione, ideazione, evoluzione di Do the Right Thing

Fa’ la cosa giusta è del 1989, anno in cui Lee fondò la sua casa di produzione,

la 40 Acres & a Mule Filmworks, Il cui nome deriva dalla promessa di risarcimento

- 40 acri di terra e un mulo - fatta agli schiavi africani al termine

dello schiavismo: promessa mai mantenuta.

Lee serbava il ricordo di un telefilm visto da piccolo, probabilmente di Hitchock,

basato sulla tesi che, con il superamento dei 90 gradi sul termometro,

in città aumenta la percentuale di omicidi commessi.

Nei suoi appunti questa tesi venne assimilata e rielaborata assieme a due

gravi fatti di cronaca di quegli anni, l’uccisione nel 1983 dell’artista afroamericano

di New York Michael Stewart da parte di otto poliziotti successivamente

tutti assolti - ricordata anche in un famoso dipinto di Jean-Michel

Basquiat - e l’Howard Beach Incident nel 1986, rinsaldando così le basi per

l’ideazione del film.

L’ambientazione scelta risale al ricordo autobiografico legato ad un periodo

di magra in cui Lee aveva pochi soldi a disposizione, e poteva permettersi

di mangiar fuori solo nelle pizzerie d’asporto, seduto a prendere appunti

sui clienti che andavano e venivano.

Questo gioiello preannuncia la febbre indemoniata descritta da Jungle Fever,

la calura inquietante di Summer of Sam, contiene il germe del monologo

di Edward Norton ne La 25esima ora, la gioventù dei genitori di Nola

della serie She’s gonna have it, e ridiviene purtroppo attuale dopo che il

movimento Black lives matter torna a far parlare di sé dopo la terribile uccisione

di George Floyd negli Stati Uniti: rivederlo alla luce del 25 maggio

2020 fece un certo effetto, un parallelo che mette i brividi e che ha spinto

il regista qualche giorno dopo a montare e pubblicare sui social un cortometraggio

con scene del film alternate a quelle degli assassinii di Floyd e

di Eric Garner, anche lui morto ripetendo le parole: “I can’t breathe”.

Due anni dopo l’uscita del film, nel 1991, si accese una rivolta a Crown Heights

tra neri ed ebrei, a fare il paio con il conflitto nero-italiano (e, in misura

molto minore, nero-coreano) raccontato da Lee. Sempre nel 1991 Rodney

King venne preso a pugni da una banda di poliziotti. Nel 1999, gli agenti

della polizia newyorkese uccisero con quarantuno colpi Amadou Diallo,

34/FOTOGRAMMI


innocente, guineano, nei pressi di casa sua. Nel 2014 Eric Garner (grande

e grosso come Raheem, il ragazzo del film) fu soffocato a morte, sul marciapiede,

senza motivo.

ALL’ORIGINE DELL’IDEA DEL FILM C’È INNANZITUTTO

IL RICORDO DI UNA RIVOLTA A HARLEM NEGLI ANNI

QUARANTA; LA SUGGESTIONE DEL FILM LA MORTE CORRE

SUL FIUME (NIGHT OF THE HUNTER, DI CHARLES LAUGHTON,

1955), CHE SPIKE LEE HA VISTO DA BAMBINO; I DUE

TATUAGGI “HATE” E “LOVE” CHE ROBERT MITCHUM

PORTA SUL DORSO DELLE MANI, DESTRA E SINISTRA,

A DISPENSARE SOFFERENZA E PACE SI RITROVERANNO

SULLE MANI DI UNO DEI PERSONAGGI DEL FILM, RADIO

RAHEEM, SU DUE PUGNI DI FERRO PLACCATI IN OTTONE,

CHE RIPRODUCONO LE DUE SCRITTE: ODIO A SINISTRA

E AMORE A DESTRA.

Il castoro cinema, 2007

Di questo film Spike Lee è regista, produttore e sceneggiatore, e recita nel

ruolo di Mookie.

Do the Right Thing viene girato in inglese, spagnolo, italiano, coreano, a New

York nel 1989, per la durata di 120 minuti che scorrono in un lampo accecante.

Il titolo cita una delle frasi tipiche della comunità afro americana.

Bed-Stuym

Ci troviamo all’incrocio della 173 Stuyvesant Avenue, angolo nordest di

Quincy Street, nel cuore di Brooklyn, a Bed-Stuym che è la crasi di Bedford-Stuyvesant,

le due strade di Brooklyn dove Lee aveva ambientato

anche il cortometraggio della sua tesi di laurea, Joe’s Bed-Stuy Barbershop:

We Cut Heads).

L’amore del regista per il luogo in cui sta girando trasuda ad ogni inquadratura:

enfasi, curiosità, ritmo, una poetica rafforzata dalla fotografia di

Ernest Dickerson.

L’immaginario di noi ragazzi oltreoceano si è formato su film come questo,

dove la città di New York è la vera star, con i suoi idranti schizzati a metà

del marciapiede per far giocare i ragazzini, il miscuglio di musiche, stili e

parolacce, i colori violenti (alcuni muri vennero ridipinti per l’occasione

dalla troupe, per accentuare i contrasti tonali forti tra cielo, case, vestiti

estivi). Quell’immaginario per Lee era l’unico possibile, nel momento in cui

si trovava, l’unico degno di essere rappresentato a quel punto della sua

35/FOTOGRAMMI


crescita artistica: avere 32 anni, due film indipendenti all’attivo e uscire

molto semplicemente per la strada a fare la cosa giusta, documentare, con

testa e cuore.

Do the Right Thing nel panorama cinematografico americano degli anni

Ottanta costituisce una spinta innovatrice fenomenale; verrà citato spesso

da Obama perché la sua visione al cinema fu scelta dall’ex presidente per

il primo appuntamento con Michelle.

Il film ha avuto una tale rilevanza per il quartiere, oltre che per la storia cinematografica

di quegli anni, che il 30 giugno 2014, in occasione del suo 25°

anniversario, si poterono acquistare canotte DTRT e magliette Boycott Sal,

e il regista mise in piedi una festa gratis a Brooklyn. Ma soprattutto la città

di New York cambiò il nome di Stuyvesant St. in Do the Right Thing Way.

Gli abitanti del quartiere

Il sampling in musica è una tecnica che nasce con l’hip-hop degli anni ‘70 e

‘80 e comporta l’utilizzo di campionature derivanti da svariante fonti per creare

un pezzo nuovo, spesso mandate avanti in loop, sovrapposte e mixate.

Spike Lee con Fa’ la cosa giusta sfrutta la medesima tecnica mettendo in

scena un campionario di personaggi che interagiscono in un sistema chiuso,

in questo caso il quartiere con la pizzeria che fa da fulcro, un’orchestrazione

di caratteri molto diversi tra loro che porta a un punto di non ritorno.

TINA, portoricana

I titoli di testa sono entrati nella leggenda. Qui incontriamo subito Tina,

davanti al muro di una brownstone, in short e canottiera, il primo personaggio

dei tanti, la fidanzata portoricana di Mookie, che balla tarantolata sulle

note di Fight the Power, che i Public Enemy scrissero apposta per il film.

Questo pezzo fortissimo è il filo conduttore della pellicola, lo sentiremo risuonare

in diversi momenti chiave come un monito. Il videoclip ufficiale

della canzone verrà poi girato da Spike Lee stesso.

La ballerina Rosie Perez, scovata dal regista in un nightclub di Los Angeles

e subito scelta per il ruolo, girò per otto ore quella scena sfiancante, esasperata

dalle sue pretese. Lee raccontò in seguito di essersi ispirato a una

scena di Ciao, ciao Birdie, musical degli anni Sessanta che la generazione

successiva scoprirà attraverso una delle più riuscite puntate della straordinaria

serie di Matthew Weiner, Mad Men.

Tina vive con la madre, Carmen, e ha un figlio con Mookie; è innamorata di lui

ma fa della sua vita un eterno sguaiato borbottio, e le scene del film sono regolarmente

intervallate dalle sue lamentele in spanglish, perché il ragazzo

non è in grado di trovarsi un vero lavoro e di mantenerli come si converrebbe.

36/FOTOGRAMMI


DO THE RIGHT THING

(FA’ LA COSA GIUSTA)

Stati Uniti d’America, 1989

DURATA

120 minuti

LINGUA ORIGINALE

inglese, spagnolo, italiano, coreano

REGIA E SCENEGGIATURA

Spike Lee

CASA DI PRODUZIONE

40 Acres & a Mule Filmworks

FOTOGRAFIA

Ernest Dickerson

MONTAGGIO

Barry Alexander Brown

EFFETTI SPECIALI

Steven Kirshoff

MUSICHE

Bill Lee

SCENOGRAFIA

Wynn Thomas

INTERPRETI E PERSONAGGI

Spike Lee: Mookie

Danny Aiello: Salvatore “Sal”

Frangione

Ossie Davis: il Sindaco

Ruby Dee: Mother Sister

Richard Edson: Vito Frangione

Giancarlo Esposito: Buggin’ Out

Bill Nunn: Radio Raheem

John Turturro: Pino Frangione

Paul Benjamin: ML

Frankie Faison: Coconut Sid

Robin Harris: Sweet Dick Willie

Joie Lee: Jade

Miguel Sandoval: agente Ponte

Rick Aiello: agente Long

John Savage: Clifton

Samuel L. Jackson: Mister Señor

Love Daddy

Rosie Perez: Tina

Roger Guenveur Smith: Smiley

Steve White: Ahmad

Martin Lawrence: Cee

Leonard L. Thomas: Punchy

Christa Rivers: Ella

Frank Vincent: Charlie

Luis Ramos: Stevie

Richard Habersham: Eddie

Gwen McGee: Louise

Steve Park: Sonny

Ginny Yang: Kim

Sherwin Park: bambino coreano

Shawn Elliott: gelataio portoricano

Diva Osorio: Carmen

37/FOTOGRAMMI


LA POPOLAZIONE

DI NEW YORK È COSÌ

ETEROGENEA CHE

DA PICCOLO NON

PENSAVO MAI A ME

STESSO

IN TERMINI

DI COLORE

DELLA PELLE.

da Questa è la mia

storia e non ne cambio

una virgola

Kowalski Editore

MOOKIE E JADE, fratelli afroamericani

Mook in italoamericano vuol dire negro. È questo il ruolo che si è scelto il

regista per partecipare anche in veste di attore alla pellicola: il garzone

afroamericano della pizzeria locale.

Mookie si vanta di non aver mai consegnato una pizza fredda, tuttavia

questo incarico non gli permette di avere un’indipendenza economica, motivo

per il quale vive ancora con la sorella minore, Jade - la vera sorella di

Lee, la splendida Joie che abbiamo amato in moltissimi film del fratello,

interprete di Lola Darling, Aule turbolente, Mo’ Better Blues, e autrice di Crooklyn.

Jade dagli abiti color caramella, svolazzanti, che incanta Sal e a dire

il vero incanta tutto il vicinato.

Mookie, con i suoi capelli a due piani e la casacca bianca a risvolti rossi e

verdi a rappresentare il suo datore di lavoro italiano, è un pigro e rilassatissimo

ragazzo che porta a spasso i cartoni delle pizze conditi da una

moltitudine di chiacchiere e aneddoti a beneficio della comunità.

Molto attaccato al denaro, non a caso nella prima scena in cui viene inquadrato

sta contando delle banconote e nell’ultima le raccoglie; un personaggio

che si presta a molteplici interpretazioni e che lascia perplessi per via

delle molte contraddizioni che incarna.

SAL, PINO e VITO, italoamericani

Sal Frangione ha messo in piedi una pizzeria da solo, da molti anni, e insieme

ai figli Pino e Vito è l’unico rappresentante bianco del quartiere.

L’attore Danny Aiello disse a Spike Lee dopo essere stato scelto: “Spike, tu

sei la persona più di sinistra che conosca, io sono bianco, italiano e di destra.

Cosa mai potremmo fare di buono, io e te insieme?”. Tuttavia venne scelto

su consiglio di De Niro, che Lee inizialmente avrebbe voluto nella parte.

Sal ha visto crescere tutti i ragazzi del quartiere divorando la sua pizza, sa

come destreggiarsi, e si è affezionato a molti di loro. Ogni mattina arriva

con la sua Cadillac e i suoi due litigiosi figli caricati dietro, pronto a sfornare.

Ha costruito tanto, da zero e, pur esasperato dalla tensione sociale in cui

vive, non ha nessuna intenzione di tornare in un quartiere italiano dove

essere solo uno dei tanti.

Pino, uno strepitoso e giovanissimo John Turturro, non sopporta i neri, è

rancoroso e sopra le righe.

Se da un canto Aiello era restio a usare il termine nigger con così tanta

disinvoltura in un contesto tanto complicato, Turturro visse l’imbarazzo di

interpretare il personaggio più biecamente razzista del film; in uno scambio

concitato racconta a Mookie la sua grande ammirazione per Magic Johnson,

Eddie Murphy e Prince, sostenendo che questi ultimi sono così in gamba

da essere “più che neri”.

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“IT’S DIFFERENT. MAGIC, EDDIE, PRINCE ARE NOT NIGGERS,

I MEAN, ARE NOT BLACK. I MEAN, THEY’RE BLACK BUT NOT REALLY

BLACK. THEY’RE MORE THAN BLACK. IT’S DIFFERENT.”

Vito è grande amico di Mookie. Sal passa praticamente il tempo a calmare

le acque tra i tre, che si confrontano continuamente su questioni razziali,

accusandosi a vicenda.

Entrambi indossano la wife-beaters, la caratteristica canottiera bianca degli

immigrati. Ma mentre il razzista Pino la indossa bianca, l’amico dei neri Vito

la preferisce nera: ogni dettaglio è rivelatore, in questo film.

“YOU GOLD TEETH, GOLD CHAIN WEARING, FRIED CHICKEN AND

BISCUIT EATING, MONKEY, APE, BABOON, BIG THIGH, FAST RUNNING,

HIGH JUMPING, SPEAR CHUCKING, THREE-HUNDRED-AND-SIXTY-

DEGREE BASKETBALL DUNKING, TITSUN, SPADE, MOULAN YAN. TAKE

YOUR FUCKING PIZZA PIECE AND GO THE FUCK BACK TO AFRICA.”

IL SINDACO (DA MAYOR), e MOTHER SISTER, afroamericani

Il suo è solo l’ironico soprannome che gli è stato affibbiato nel quartiere, in

realtà si tratta di un anziano alcolizzato, che gira con un vecchio completo

stazzonato da mattina a sera e chiacchiera con tutti quelli che incontra,

venendo sbeffeggiato il più delle volte. Di animo gentile e pacifico, possiede

una certa saggezza che è un valore aggiunto in mezzo al nervosismo che

impera.

Mother Sister è l’altra anziana per eccellenza tra i personaggi: vive alla finestra

e tutto osserva, tutto sa (“Mother Sister always watches”). Borbotta

di continuo per le avance del Sindaco ma gli vuole molto bene.

Ruby Dee e Ossie Davis sono stati sposati per quasi 60 anni nella vita reale.

BUGGIN’ OUT, afroamericano

Aspirante attivista politico, petulante amico di vecchia data di Mookie, grande

rompiscatole, la sua giornata nel quartiere è fatta di toni accusatori e

poco di concreto.

La Sal’s Famous Pizzeria ha le pareti tappezzate di foto di italo-americani

che ce l’hanno fatta: Sinatra, Di Maggio, De Niro, Pacino. Dietro il registratore

di cassa c’è un dipinto di Papa Giovanni Paolo II.

Buggin’ Out attacca Sal con accuse di razzismo ed avanza pretese per

qualche fotografia di afroamericani, un Michael Jordan ad esempio. Sal lo

caccia, rivendicando di appendere ciò che più ama all’interno del proprio

regno, così lui trama vendetta tempestando gli altri ragazzi del quartiere

di inviti a non comprare più al locale. Tutti vanno pazzi per la pizza di Sal,

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nessuno ha voglia di cambiare le proprie abitudini e nemmeno la gente

vede qualcosa di strano nelle scelte dell’italiano. Ma il boicottaggio di Buggin’

Out porterà involontariamente ad un’evoluzione tragica.

“PERCHÉ NON CI SONO FRATELLI SUL MURO?”

“È CASA MIA, E QUANDO TROVERAI CASA TUA, POTRAI METTERE

CHI VUOI SULLA TUA PARETE”

“NON CI SONO MOLTI ITALO-AMERICANI CHE COMPRANO LA PIZZA

NEL LOCALE DI SAL, QUINDI FORSE IL MURO DELLA FAMA DOVREBBE

INCLUDERE ALCUNI NERI”.

RADIO RAHEEM, afroamericano

La voce di Chuck D, in Fight the Power, ci arriva dal boom box di Radio Raheem,

un ragazzone dal taglio di capelli flat top con una t-shirt che recita

“BED-STUY DO OR DIE”.

Gira tutto il giorno senza sosta, silenzioso, solido, sudando con lo stereo

“ghetto blaster” sulle spalle e pompando a volume esagerato sempre lo

stesso pezzo, quello dei titoli di testa.

È silenzioso, concentrato, adorabile nel suo amore per la musica.

Il discorso più lungo lo fa durante uno dei tanti incroci con Mookie per mostrargli

il suo nuovo anello di ottone“amore-odio” a 4 dita, sintesi perfetta

del non-messaggio del film.

Radio Raheem è un simbolo ma anche uno stereotipo, una bandiera, un

eroe senza vittoria, un portavoce silenzioso eppure rumorosissimo, e infine

una vittima.

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MISTER SEÑOR LOVE DADDY, afroamericano

Il disc-jockey della stazione radio locale, Radio We Love, colui che sveglia gli

abitanti del quartiere con tono squillante e, con tono suadente, li accompagna

verso il tramonto. Il felino Samuel L. Jackson, che a un certo punto

della giornata elenca 74 artisti neri e li ringrazia.

La prima parola pronunciata in Fa’ la cosa giusta è “Wake Up”, e la dice lui: è

anche quella con la quale finiva il precedente film di Lee, Aule turbolente.

“WAAAAKE UP! WAKE UP! WAKE UP! WAKE UP!

UP YA WAKE! UP YA WAKE! UP YA WAKE!”

SMILEY, afroamericano

Balbuziente, naif, gira senza sosta tentando di vendere a tutti delle immagini,

ricamate di scarabocchi, di Martin Luther King e di Malcolm X (pilastri,

spiriti-guida del film e autori delle citazioni che ci fanno riflettere all’inizio

dei titoli di coda)

La corona che Smiley ha disegnato sulla testa di King assomiglia molto alle

corone usate da Jean-Michel Basquiat nei suoi dipinti quando onorava gli

eroi neri del passato. Anche Basquiat fu scioccato dall’uccisione di Stewart,

e gli dedicò un dipinto, Defacement (The Death of Michael Stewart)

I tre perdigiorno afroamericani seduti sul marciapiede a tirar sera e a lamentarsi:

ML, COCONUT SIDE SWEET DICK WILLIE.

Non hanno voglia di far nulla ma non risparmiano nessuno con le loro critiche

strafottenti. In primo luogo se stessi.

I coreani

SONNY, KIM E IL LORO BAMBINO, possiedono il negozio di alimentari che

si trova dall’altra parte di Stuyvesant Avenue rispetto a Sal. Stanno per i

fatti loro, sospettosi, di poche parole, e battibeccano tra loro quando si trovano

da soli.

CLIFTON, bianco

Il ciclista “gentrificato” dalla verde maglia dei Boston Celtics che calpesta accidentalmente

l’immacolata Jordan di Buggin’ Out, suscitando stupore e ira.

Gli agenti bianchi

MARK PONTE e GARY LONG

I ragazzi neri del quartiere: CLIFTON, AHMAD, CEE, PUNCHY, ELLA, EDDIE.

I portoricani: STEVIE E I SUI AMICI.

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La storia

La pellicola è immersa in un barile di aranciata, per raccontarci il sabato

più caldo della calda estate del 1989 a Bed-Stuym, simbolo delle periferie

multietniche di tutto il mondo, metafora dell’America. Il desiderio di Lee era

quello di girare una storia che trovasse inizio e conclusione nell’arco di

ventiquattro ore.

Italiani rancorosi con catene, crocifissi e medagliette al collo, canotte e

capelli imbarazzanti. Neri con Air Jordan da cento dollari scintillanti ai

piedi, anelli da 4 dita hate and love, polemici e con poca voglia di lavorare.

Tutto è una seccatura, un pretesto, una ripicca. Italiani che si lagnano dei

neri, neri arrabbiati con i coreani, coreani che disprezzano tutti, neri che

sfottono altri neri, sudamericani che danno dei falliti ai neri, neri che danno

dei tirchi ai bianchi, italiani che danno dei piantagrane agli afroamericani,

poliziotti bianchi che tengono d’occhio in silenzio i neri, neri che si

offendono, in un’eterna ruota di ore che sgocciolano apparentemente

uguali, ma in un crescendo di musica jazz che si srotola vellutata e sfarzosa

per i quartieri.

L’uomo delle granatine, il camioncino del gelato, i disegni dei bambini per

terra fatti con i gessetti, i ventilatori che girano lenti appesi alle finestre.

Muri di mattone che recitano “Tawana told the thrut” (la scritta fa riferimento

a un fatto reale: Tawana Brawley era un’adolescente nera che affermava

di essere stata rapita e abusata da diversi uomini bianchi, inclusi

agenti di polizia, e non venne creduta); recitano anche “DUMP KOCH”

(Lee ritiene il sindaco di New York Koch responsabile della morte di Eleanor

Bumpers).

Il famoso muro rosso ridipinto in occasione del film, punto in cui stazionano

sotto ad un buffo ombrellone i tre amici di mezza età, ha questa insegna:

“no pall playing allowed”. Divieti, abitudini, paletti: regole scritte e non scritte.

Un crescendo, una miccia, una scintilla.

Per tutto il film si trattiene il fiato perché si intuisce che la commedia possa

tramutarsi in tragedia, da un momento all’altro. E quando ne escono tutti

sconfitti, ed è notte, ci accorgiamo che quell’arancione che sembrava aranciata

fresca è il colore delle fiamme che bruciano tutto, che tutto rovinano,

il colore del sugo di pomodoro rovesciato sul pavimento, il rosso della camionetta

dei vigili del fuoco arrivati troppo tardi. È il rosso della camicia di

Smiley che sorride mentre appende la foto di Malcom X alle pareti a pezzi.

Finalmente. Ma inutilmente.

E proprio due citazioni, una di Martin Luther King ed una di Malcom X,

aprono la strada alla riflessione privata - ma non solo - che scaturisce inevitabilmente

dopo una visione di questo tipo, la prima, più pacifista, ribadisce

quanto la violenza sia un sistema impraticabile, la seconda, più conflit-

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ORIGINAL MOTION PICTURE

SOUNDTRACK

Fight the Power (Public Enemy)

Don’t Shoot Me (Take 6)

Can’t Stand It (Steel Pulse)

Tu y Yo (Rubén Blades)

Why Don’t We Try (Keith John)

Hard to Say (Lori Pelly e Gerald

Alston)

Party Hearty (EU)

Prove to Me (Perri)

Feel So Good (Perri)

My Fantasy (Teddy Riley)

Never Explain Love (Al Jarreau)

WE LOVE Radio Jingles (Take 6)

Lift Every Voice and Sing (James

Weldon Johnson e Rosamond

Johnson)

BILL LEE FEAT. BRANFORD

MARSALIS – ORIGINAL SCORE

Mookie Goes Home

We Love Roll Call Y-All

Father To Son

Da Mayor Drinks His Beer

Delivery For Love Daddy

Riot

Magic, Eddie, Prince Ain´t Niggers

Mookie (Septet)

How Long ?

Mookie (Orchestra)

Da Mayor Loves Mother Sister

Da Mayor Buys Roses

Tawana

Malcolm And Martin

Wake Up Finale

Bass – Robert Hurst

Drums – Jeff “Tain” Watts

Engineer – James Nichols

Mastered By – Vlado Meller

Orchestra – The Natural Spiritual

Orchestra

Piano – James Williams, Kenny Barron

Producer, Mixed By, Composed By,

Conductor – Bill Lee

Recorded By, Engineer – Patrick

Smith

Saxophone [Alto] – Donald Harrison

Saxophone [Tenor], Saxophone

[Soprano] – Branford Marsalis

Trumpet – Marlon Jordan, Terence

Blanchard

A Spike Lee Joint

Recorded December 12-16, 1988,

Mixed July 17-19, 1989

at RCA Studios, NY

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tuale, che invoca il diritto all’autodifesa nel momento in cui ci si trovi

costretti. Due posizioni nette, chiare, su cui meditare e su cui ha meditato

il regista: a noi la sensibilità di capire per quale strada Lee propenda.

Alla fine compare la famosa foto che divenne poi un simbolo: Luther King

e Malcom X che sorridenti guardano oltre l’obiettivo.

C’È VOLUTO UN PO’ DI TEMPO PERCHÉ FA’ LA COSA

GIUSTA GUADAGNASSE IL PIENO RISPETTO

DELL’INDUSTRIA. E QUESTO NON VUOL DIRE CHE

L’INDUSTRIA SIA CRUDELE O RAZZISTA, NEMMENO CHE

NON SAPPIA RICONOSCERE UN CAPOLAVORO. FORSE

VUOL DIRE CHE PER ACCETTARE LE COSE COME SONO

BISOGNA DARE TEMPO AL TEMPO, E ALLA VISTA DELLE

PERSONE TUTTO IL TEMPO DI CUI HA BISOGNO PER

ABITUARSI ALL’OSCURITÀ.

Giulio D’Antona, Linkiesta

Quell’anno il film partecipò a Cannes ma non vinse nulla, e questo scatenò

molte polemiche considerando anche l’enorme successo di critica avuto in

Europa, di fatto nettamente superiore a quello ottenuto in America. Fu comunque

candidato a due premi Oscar, per la migliore sceneggiatura originale

e per il miglior attore non protagonista, Danny Aiello.

La colonna sonora

Le atmosfere create dalle musiche scelte sono parte integrante del film:

allegre, giocose, incalzanti, sexy, e poi concitate, esasperate, e poi ancora

cupe e lente.

Ogni pezzo cade in un punto preciso e sta lì a raffigurare un preciso stato

d’animo. Il sampling di personaggi non sarebbe così efficace senza questa

struttura sonora, che mischia il rap all’orchestra al pop più trascinante, al

sexy soul.

Le colonne sonore sono due, per la precisione, una contenente la miscellanea

di cui sopra, ed una prodotta da Bill Lee, il padre di Spike, della The

Natural Spiritual Orchestra, famosa per avere Branford Marsalis al saxofono.

Le sfumature del sax di Marsalis accompagnano il mutare della luce sui

volti e sugli edifici del quartiere, via via che la giornata scorre, si srotolano

sui gradini d’ingresso delle brownstone; I pezzi mandati in onda

dalla radio di Love Daddy sono energia pura pronta ad esplodere, e a

far esplodere.

La canzone Fight the Power dei Public Enemy divenne un successo mondiale,

ancora oggi trasversale nelle generazioni. Il pezzo torna e ritorna

44/FOTOGRAMMI


a enfatizzare le scene del film con la stessa dinamica incarnata nell’antichità

dal coro greco, e con la sua critica al capitalismo statunitense e al

flop dell’integrazione razziale.

Epilogo

Nessun personaggio è innocente, in questa storia. Ogni angolo del quartiere

ne è testimone. I muri e l’asfalto sono intrisi di intolleranza, ignoranza,

ostilità.

Spike Lee non predica, non insegna: espone, analizza, racconta, provoca.

Con le sue inquadrature disorientanti, i primissimi piani, i colori vibranti, la

musica protagonista sontuosa, gli oltre 200 “fuck” recitati, le scale antincendio,

gli alberi che non fanno ombra, il profumo bruciacchiato delle pizze,

il sudore che scorre nelle t-shirt fluo, Lee monta il racconto sulle contraddizioni,

sui contrasti forti, interpreta la città con amore e rabbia, vive a

fondo queste emozioni per trasformarle in una lucida analisi. Ci dice che è

necessario “fare qualcosa”, ci mostra le possibili strade e ci narra causa ed

effetto. A chi gli chiede cosa voglia dire “fare la cosa giusta”, Lee risponde

che è una domanda che di solito gli fanno solo i bianchi.

LA VIOLENZA COME MEZZO PER RAGGIUNGERE

LA GIUSTIZIA RAZZIALE È INSIEME UN SISTEMA

IMPRATICABILE E IMMORALE.

Martin Luther King

IO NON INVOCO LA VIOLENZA, MA ALLO STESSO

TEMPO NON SONO CONTRO IL FATTO

DI USARE LA VIOLENZA PER DIFENDERE SE

STESSI. IO NON LA CHIAMO VIOLENZA.

SE SI TRATTA DI AUTODIFESA LA CHIAMO

INTELLIGENZA.

Malcolm X

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… Affanculo io? Vacci tu! Tu e tutta questa merda di città e di chi

ci abita.

In culo ai mendicanti che mi chiedono soldi, e che mi ridono alle

spalle.

In culo ai lavavetri, che mi sporcano il vetro pulito della macchina.

In culo ai sikh e ai pakistani, che vanno per le strade a palla con i

loro taxi decrepiti. Puzzano di curry da tutti i pori, mi mandano in

paranoia le narici. Aspiranti terroristi. E rallentate,cazzo!

In culo ai ragazzi di Chelsea, con il torace depilato e i bicipiti pompati,

che se lo succhiano a vicenda nei miei parchi… e te lo sbattono

in faccia sul Gay Channel.

In culo ai bottegai coreani, con le loro piramidi di frutta troppo

cara, con i loro fiori avvolti nella plastica. Sono qui da dieci anni e

non sanno ancora mettere due parole insieme.

In culo ai russi di Brighton Beach. Mafiosi e violenti, seduti nei bar

a sorseggiare il loro tè con una zolletta di zucchero tra i denti.

Rubano, imbrogliano e cospirano. Tornatevene da dove cazzo siete

venuti!

In culo agli ebrei ortodossi, che vanno su e giù per la 47ma nei

loro soprabiti imbiancati di forfora, a vendere diamanti del Sudafrica

dell’apartheid.

In culo agli agenti di borsa di Wall Street, che pensano di essere

i padroni dell’universo. Quei figli di puttana si sentono come Michael

Douglas-Gordon Gekko e pensano a nuovi modi per derubare

la povera gente che lavora.

Sbattete dentro quegli stronzi della Enron a marcire per tutta la

vita. E Bush e Cheney non sapevano niente di quel casino? Ma

fatemi il cazzo di piacere!

In culo alla Tyco, alla ImClone, all’Adelphia, alla WordsCom!

In culo ai portoricani, venti in una macchina e fanno crescere le

spese dell’assistenza sociale. E non fatemi parlare di quei pipponi

dei dominicani: al loro confronto i portoricani sono proprio dei

fenomeni.

In culo agli italiani di Bensonhurst, con i loro capelli impomatati,

le loro tute di nylon, le loro medagliette di Sant’Antonio… che agitano

la loro mazza da baseball firmata Jason Giambi sperando

in un’audizione per I Soprano.

In culo alle signore dell’Upper East Side, con i loro foulard di Hermès

e i loro carciofi di Balducci da 50 dollari, con le loro facce

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pompate di silicone, truccate, laccate e liftate. Non riuscite a ingannare

nessuno, vecchie befane!

In culo ai negri di Harlem. Non passano mai la palla, non vogliono

giocare in difesa, fanno cinque passi per arrivare sotto canestro,

poi si girano e danno la colpa al razzismo dei bianchi. La schiavitù

è finita centotrentasette anni fa! E muovete le chiappe, è ora…

In culo ai poliziotti corrotti che impalano i poveri cristi e li crivellano

con quarantuno proiettili, nascosti dietro il loro muro di

omertà. Avete tradito la nostra fiducia!

In culo al preti che mettono le mani nei pantaloni di bambini innocenti.

In culo alla Chiesa che li protegge, non liberandoci dal

Male. E dato che ci siamo, ci metto anche Gesù Cristo: se l’è cavata

con poco. Un giorno sulla croce, un week-end all’Inferno, e poi

gli alleluja degli angeli per tutto il resto dell’Eternità. Provi a passare

sette anni nel carcere di Otisville.

In culo a Osama Bin Laden, a Al Qaeda e a quei cavernicoli retrogradi

dei fondamentalisti di tutto il mondo. In nome delle migliaia

di innocenti assassinati, vi auguro di passare il resto dell’eternità

con le vostre 72 puttane ad arrostire a fuoco lento all’Inferno.

Stronzi cammellieri con l’asciugamano in testa, baciate le mie

nobili palle irlandesi!

In culo a Jacob Elinksy, lamentoso e scontento. In culo a Francis

Slaughtery, il mio migliore amico, che mi giudica con gli occhi incollati

sulle chiappe della mia ragazza. In culo a Naturelle Riviera: le ho

dato la mia fiducia e mi ha pugnalato alla schiena, mi ha venduto

alla polizia, maledetta puttana. In culo a mio padre, con il suo insanabile

dolore, che beve acqua minerale dietro il banco del suo bar,

vendendo whisky ai pompieri e inneggiando ai “Bronx Bombers”.

In culo a questa città e a chi ci abita. Dalle casette a schiera di

Astoria agli attici di Park Avenue, dalle case popolari del Bronx ai

loft di SoHo, dai palazzoni di Alphabet City alle case di pietra di

Park Row e a quelle a due piani di Staten Island. Che un terremoto

la faccia crollare, che gli incendi la distruggano, che bruci fino

a diventare cenere e che le acque si sollevino e sommergano

questa fogna infestata dai topi.

No…

No: in culo a te, Montgomery Brogan. Avevi tutto e l’hai buttato

via, brutto testa di cazzo!

LA 25 a ORA, SPIKE LEE, 2002, MONOLOGO DI MONTY BROGAN

47/FOTOGRAMMI


Carrara. Piazza Alberica

Foto di Marcello Francone

48/FOTOGRAMMI


PRETEND IT’S A CITY

È del 2021 il (secondo) documentario di Martin Scorsese

su Fran Lebowitz, e va a costituire un nuovo capitolo

della sua saga sulla città di New York.

Scrittrice pigra, umorista, intellettuale, icona di stile,

opinionista, festaiola lei; regista di fama internazionale lui.

Amici da sempre, innamorati persi della loro città, della

quale rappresentano entrambi un simbolo. Per i quali la città

stessa è un simbolo malinconico degli anni d’oro, divenuta

lo stereotipo di se stessa, anche e soprattutto per colpa

dei social, che Fran non frequenta affatto, non possedendo

nemmeno un cellulare. “Penso che la realtà, la vita vera,

al di fuori della vita sul web, sia imperativa. Penso che la

cultura derivi direttamente dal fatto che le persone stiano

assieme, si frequentino, bevano in compagnia, facciano

sesso, si bacino, si confrontino sui rispettivi lavori, parlino.”

Una docuserie prodotta da Netflix, dedicata a Toni Morrison,

suddivisa in sette puntate di conversazioni sul senso

dell’identità newyorchese, girate a un tavolino del

Players Club di New York, con loro due come protagonisti

insieme ad amici e colleghi.

Lebowitz si è trasferita qui a 18 anni dal New Jersey dopo

l’espulsione dal liceo; ha svolto una moltitudine di lavori

assurdi pur volendo sempre e solo leggere come prima

cosa, scrivere per seconda. Percorre la città in lungo

e in largo da decenni, a piedi o al massimo in taxi,

e attualmente fatica a trovare un posto dove fumare

in santa pace senza divieti; è perennemente alla ricerca

di una casa che sia grande a sufficienza per contenere

tutti i suoi libri, senza potersela mai davvero permettere.

NY è stata il suo vero grande amore.

“Le persone mi chiedono spesso perché sono qui.

Eh, insomma. Dov’è che mi suggerite di andare?

Vedete, il fatto è questo: se potessi solo prendere

in considerazione altri posti, sarei già lì.” PRP

49/FOTOGRAMMI/ripostigli


Reggio Emilia. Chiostri di San Pietro

Foto di Marcello Francone

50/FOTOGRAMMI/ripostigli


MANHATTAN

Il bianco e nero. La vista sul Chrysler Building.

L’insegna lampeggiante di un parcheggio

a Manhattan.

Uno scrittore cerca l’incipit del suo libro e Gershwin

abbraccia bellissime immagini della città fino

al trionfo di fuochi d’artificio sullo skyline. Poi inizia

il racconto.

Conversazioni sofisticate e un continuo blaterare

per musei e librerie. Ex mogli, ex mariti, amanti,

analisti. Attori che sono e saranno eccezionali.

Nessuno ama New York più di Woody Allen,

con la stessa poesia retró, con la stessa loquace,

elucubrante ironia. Ricevimenti al Met, prime

al cinema, appartamenti, macchine da scrivere,

un lento ballato in penombra, i taxi nel traffico, una

panchina affacciata sul ponte di Brooklyn all’alba.

“Ragazzi! Questa è davvero una grande città!

Non m’importa di quello che dicono gli altri.

È proprio, è veramente un knock out.” MS

51/FOTOGRAMMI/ripostigli


GABRIELE

BASILICO

LA FORMA

DELLA CITTÀ

Foto della foto.

Gennaio 2016, mostra Ascolto il tuo cuore città

dedicata a Gabriele Basilico,

Unicredit Pavillion, piazza Gae Aulenti, Milano

52/OMBRE


NICOLA GUIDA

Fino alla fine del 1700, se a Milano dovevi raggiungere una destinazione

qualunque, nessuno ti avrebbe fornito un indirizzo. Molto probabilmente ti

avrebbero detto di prendere la strada a destra, poi arrivato in fronte al

castello, o a quella certa chiesa, di girare a sinistra, e di camminare fino alla

casa più grande, quella con la facciata rossa, la tua destinazione.

Non c’erano indirizzi a Milano, solo punti di riferimento.

Quantomeno fino al 1786, quando gli austriaci, abbastanza stufi di questa

situazione, decisero di battezzare le strade della città, dando questo incarico

a un nobile milanese, a cui diedero il titolo di “giudice delle strade”: il

marchese cominciò il suo lavoro dalla contrada dei Baggi, localizzata intorno

al castello, e, come primo nome da dare a una strada, scelse il proprio:

via Ferdinando Cusani.

Oggi via Cusani è una strada elegante del centro che collega il castello alla

zona di Brera e nella quale possiamo riconoscere sia i fasti di un passato

signorile, nei palazzi collocati sul lato verso il centro, sia le cicatrici lasciate

dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, sull’altro lato: nell’entusiasmo

della ricostruzione fu abbattuto tutto il vecchio: tutte le case piccole,

povere, le case popolari di corte devastate dalle bombe scaricate a

centinaia sulla città furono sostituite dagli edifici costruiti negli anni ’50

sotto il mantra di “modernità, progresso e comfort”.

È possibile trovare un’immagine di com’era quella via nel novecento: palazzi

bassi, di tre piani al massimo, con le botteghe fronte strada e le tende

tirate a proteggere le merci esposte in vetrina dal sole; in fondo, dove ora

c’è un giardinetto spelacchiato e un enorme manifesto pubblicitario che è

diventato iconico, un anonimo palazzo, con le veneziane serrate e una rosticceria

sotto.

Visualizzatela così, mentre una delle ultime bombe, annunciata dal ronzio

dei motori del Pippo, l’aereo da ricognizione che come un messaggero di

morte precedeva i bombardieri, precipitava sulla città, nell’Agosto del 1943,

cambiando completamente la sua fisionomia, sventrando le case affacciate

sulla strada.

53/OMBRE


Prima della ricostruzione, le macerie della facciata del numero 10 erano

state ricomposte ordinatamente a mucchi a bordo strada, in attesa venissero

portate via per costruire quello che sarebbe diventato il Monte Stella.

Il centro di Milano era all’epoca la zona più povera e degradata della città,

e quelle macerie, su cui intanto erano cresciute le erbacce, era l’unico parco

giochi disponibile per i bambini della zona, tra loro, uno, che abitava

proprio nel cortile interno di quella casa sventrata, sarebbe diventato un

artista capace di raccontare le città attraverso la rarissima capacità di

saper cogliere i dettagli della continua trasformazione del paesaggio, diventando

il primo fotografo di spazi architettonici, una figura che, fino a quel

momento, non esisteva: Gabriele Basilico.

Anni dopo, raccontando di quelle macerie, ricordò come per lui fossero un

simbolo di rinascita, di evoluzione: “sento che da queste rovine nascerà una

città più bella, più forte, più ricca”.

In un salto temporale di vent’anni, il bambino che giocava tra le rovine di

casa è cresciuto, e la sua passione per il disegno l’ha portato, in un percorso

quasi naturale, dal liceo artistico ad iscriversi alla facoltà di architettura.

Era il 1968, quelli erano gli anni dell’“immaginazione al potere”, dell’impegno

politico e della contestazione nelle piazze, e di quella rivoluzione culturale

che stava portando come un vento fresco tra le masse studentesche l’idea

che un mondo nuovo era possibile, in completa rottura con il precedente.

Basilico si avvicina ai collettivi studenteschi e mette da parte le matite per

dedicarsi, quasi per gioco, alla fotografia, con cui inizia a documentare manifestazioni

e proteste.

Frequentando poi l’unica galleria di Milano di quegli anni, conosce due fotografi

che saranno per lui fondamentali nella sua crescita fotografica: Cesare

Colombo e Gianni Berengo Gardin, con il quale creò un legame di

amicizia fortissimo e lo ispirò moltissimo, all’inizio del suo percorso fotografico,

nell’impegno sociale.

Un altro incontro importante di quegli anni fu quello con Ghirri, che stava

lavorando al suo libro leggendario “viaggio in Italia” e Gabriele Basilico

iniziò ad accarezzare l’idea di occuparsi seriamente di fotografia, trasformandola

da una passione in un lavoro vero.

Nel 1973 Basilico si iscrisse alla camera di commercio di Milano come fotografo,

ma finì per abbandonare ben presto il reportage, per il quale non si

sentiva poi tanto portato: distogliendo il suo sguardo da eventi e persone,

concentrò la sua attenzione sullo spazio. Probabilmente, per questa scelta,

fu fondamentale un viaggio a Glasgow nel 1969, momento che considerò in

seguito uno spartiacque per il suo modo di intendere la fotografia: a parte

il fatto che giudicasse gli scatti di Glasgow i primi con un vero valore, già da

quelle immagini si può percepire il suo allontanarsi dal centro delle città

54/OMBRE


per andare a immortalare le aree produttive urbane, i cui edifici anonimi e

deprimenti, celano invece una vita ed energia inaspettati.

Nella primavera del 1978, Basilico fu contattato per un veloce lavoro da

parte dell’Istituto Nazionale di Urbanistica: doveva documentare la sua città.

La Milano del 1978 era una città operaia e durante quei giorni, con le

fabbriche chiuse, le strade erano semideserte, spazzate da un vento fresco

che aveva ripulito l’orizzonte – come quando sembra di poter toccare le

montagne lontane – e donato una luce particolare, tagliente, che rendeva

tutto più nitido.

Cartina alla mano, il fotografo camminava per la città con la sua Nikon

35mm montata sul cavalletto e tre obiettivi in borsa (per i curiosi: un 20mm,

un 28mm decentrabile e un 55mm); arrivato in zona 14, tra via Ripamonti

e viale Ortles, in un’area dominata da fabbricati industriali, sarà che era il

week end di Pasqua, ma ebbe letteralmente un’epifania: per la prima volta,

sotto quella luce così rara a Milano, nelle strade senza rumore, né auto né

pedoni, vedeva la città in modo diverso, le facciate delle fabbriche si stagliavano

nitide, contro quel cielo così blu che sembrava isolare le costruzioni

l’una dall’altra, rendendole quasi monumentali.

Basilico scattò in modo febbrile, e, quando stampò le immagini, si rese conto

che, dalla carta, esse riuscivano a riportarlo ai luoghi dello scatto, alle stesse

emozioni, e fu finalmente certo che quella era la via da intraprendere.

Quegli scatti iniziali diventarono il corpus di un lavoro, Milano ritratti di

fabbriche, che lo tenne impegnato per almeno tre anni: da quella primavera

del 1978 a tutto il 1980, quando il sole splendeva alto e il cielo era pulito,

Basilico usciva, mappa alla mano, e andava a fotografare Milano e le sue

fabbriche.

Un lavoro mai veramente ultimato che raccontava il volto di una città in

vorticosa trasformazione, dove gli edifici si succedono l’uno all’altro o rimangono

lì per anni, a raccontare con le loro mura la storia di una Milano

operaia che iniziava a svanire.

“Mi ero dato una specie di missione”, racconta Basilico, “testimoniare come

lo spazio urbano si modifica. Oggi lo fanno in tanti, negli ultimi dieci anni è

stato considerato il lavoro più artistico che ci sia, e non c’è città al mondo

che non venga fotografata”.

E non è solo il primo grande lavoro, per Basilico, ma anche un’esperienza

che lo porterà, in quei tre anni, a chiarire gli aspetti emozionali della propria

fotografia, definendo il suo stile, in cui la luce riveste importanza primaria

per rivelare le architetture e dar loro nuovo, metafisico, significato.

Il lavoro monumentale di Milano ritratti di fabbriche era riuscito, strappando

le facciate degli edifici dal contesto, a raccontare Milano come nessuno

aveva fatto fino a quel momento: a differenza di altre città industriali, come

55/OMBRE


ad esempio Torino che si identificava totalmente con la FIAT, il paesaggio

milanese era alternato da industrie e abitazioni, e l’unico modo di vedere

la faccia operosa di Milano era di decontestualizzare le fabbriche, metterle

tutte insieme e creare una nuova morfologia, quasi un’altra città, agli occhi

dello spettatore.

Le persone, che pure fanno parte della città, erano completamente assenti

da questo lavoro. Basilico non fotografò mai più persone, se non per caso.

“La fotografia d’architettura, nella grande tradizione, è sempre senza persone,

non ci sono presenze umane perché distraggono dalla forma degli

edifici e dello spazio”, racconta Basilico.

“TENDO AD ASPETTARE CHE NON CI SIA NESSUNO,

PERCHÈ LA PRESENZA DI UNA SOLA PERSONA ENFATIZZA

IL VUOTO E FA DIVENTARE UN LUOGO ANCORA PIÙ VUOTO.

MENTRE SE LO FAI VUOTO E BASTA, ALLORA DIVENTA

SPAZIO METAFISICO, ALLA SIRONI O ALLA HOPPER”.

Milano ritratti di fabbriche divenne una mostra di grande successo, e il lavoro

di Basilico venne notato da Jean Fracois Chevrier, storico e critico

francese, al tempo consulente della Mission Photographique de la Datar

(Délégation à l’Aménagement du Territoire et à l’Action Régionale), un

grandissimo progetto del governo francese per analizzare il paesaggio in

tutte le sue componenti: le trasformazioni e quello che invece non si trasformava,

ma permaneva a dispetto del tempo che scorreva e cambiava

la forma del panorama. Non era uno strumento di documentazione sociologica,

bensì qualcosa che potesse permettere la visione e la conoscenza

di ogni area del paese toccata dal progetto.

Chevrier, che in quel periodo stava selezionando i dodici fotografi che

avrebbero dovuto realizzare questo lavoro immenso, lo invitò a partecipare.

Inizialmente Basilico non aveva ben chiaro quanto fosse importante

quella proposta ma, dopo un breve viaggio a Parigi, si rese conto di cosa

c’era in gioco, e della difficoltà di dover lavorare per sei mesi in Francia,

perdendo il lavoro in Italia che cominciava ad ingranare.

Ma accettare quella proposta sarebbe stata un’occasione unica di ampliare

i propri orizzonti, professionali e non, sarebbe stato per lui sentirsi un

po’ come uno dei suoi miti, Waker Evans alle prese con la ricerca fotografica

per la FSA, ed è questo che, in fin dei conti fu il progetto della Datar, una

sorta di FSA all’europea, che produsse forse persino più immagini.

Basilico colse l’occasione e iniziò a preparare una proposta per i responsabili

della Datar che – elettrizzato da una precedente esperienza fotografica

a Napoli – fu, senza esitazioni o ripensamenti, il mare: l’idea era quella di

56/OMBRE


fotografare le coste francesi, il “Bord de Mer” e, senza nemmeno indicare ai

suoi committenti una metodologia operativa che non riusciva a mettere su

carta, allegando solo un itinerario, spedì la sua lettera di presentazione.

E fu l’unico fotografo italiano ad essere selezionato.

In sei mesi, l’idea di Basilico era quella di percorrere e fotografare tutte le

coste della Francia, ma si rese conto quasi subito della megalomania di quel

proposito.

Cercando di ripartire il lavoro per la Datar in vari viaggi, per non abbandonare

completamente gli impegni in Italia, partendo dalla costa francese a

confine con il Belgio, dalla città di Dunkerque, iniziò a spostarsi lungo la

costa armato di una macchina fotografica 24x36.

Dopo circa 3 mesi, e duecento rullini scattati, Basilico era arrivato solo al

confine regionale tra Normandia e Bretagna.

Era un segnale, quello, di aver raggiunto l’orizzonte del suo viaggio, a meno

di 400 km dalla partenza.

Di tutti i luoghi visti, stilò un elenco, una gerarchia, dai più emozionanti a

quelli che l’avevano colpito meno: ce n’erano alcuni in cui sarebbe tornato

immediatamente, altri che avrebbe visitato con più calma.

Armato di una Linhof 10x12, iniziò il suo viaggio romantico: prese a trasformare

in immagini i sentimenti, le riflessioni, i ricordi dei precedenti viaggi

sedimentati nella memoria.

57/OMBRE


La Linhof è una macchina folding lenta, a pellicole piane, che richiede un

cavalletto e un sacco di tempo per scattare: devi fermarti, aprirla, infilare

la testa sotto al panno nero per preparare l’inquadratura, chiudere l’otturatore,

infilare il telaio con la pellicola preparata, scattare. Per poi estrarre

il telaio con la pellicola impressa e ricominciare da capo.

Lavorare con una macchina di questo tipo vuol dire solo una cosa: fare meno

scatti, ma con il vantaggio di dover osservare più a lungo ciò che si vuole

fotografare, prendere meglio le misure e instaurare una relazione maggiore

con il soggetto che appare al contrario, sullo specchio smerigliato.

“HO LAVORATO CON IL BANCO OTTICO,

E QUESTO HA RALLENTATO I RITMI:

MUOVERSI, GUARDARE, SCEGLIERE,

DECIDERE DOVE SCATTARE LA

FOTOGRAFIA, MONTARE LA MACCHINA

SUL CAVALLETTO, E MAGARI DECIDERE

DI NON SCATTARE. CONTEMPLARE,

NELLA MIA ACCEZIONE, HA IL SIGNIFICATO

DI METABOLIZZARE IL PAESAGGIO,

DI FARLO DIVENTARE QUALCOSA CHE

VIVE DENTRO DI TE. L’IMMAGINE È UNA

COSTRUZIONE, UN FILTRO CHE SI VIENE

A PORRE FRA CHI GUARDA E LA REALTÀ

CHE STA DAVANTI. […] SIAMO SEMPRE

IN DUE A RACCONTARE UNA STORIA:

IL SOGGETTO, CHE NEL MIO CASO

È IL LUOGO, E IL FOTOGRAFO,

CHE FA LA FOTO.”

Il “Bord de mer” visto con gli occhi di Basilico è un susseguirsi di spazi vuoti,

lontani e spesso abbandonati, e

si percepisce che la vera protagonista

delle sue immagini è la linea,

infinita, dell’orizzonte.

Questa esperienza per la Datar

costituì una pietra miliare nella

sua formazione di fotografo, gli

permise di definire un metodo di

procedere, di analizzare i soggetti

dei suoi progetti e di affermare

uno stile unico, scandito dal ritmo

lento imposto dall’uso del banco

ottico.

Nel 1989, l’Antifaschistischer

Schutzwall, la Barriera Antifascista,

così come la chiamava chi la

eresse, per noi semplicemente il

muro di Berlino, come una Bastiglia

dei tempi moderni, senza ruspe

né picconi cade, e con esso

l’ideologia che aveva diviso l’Europa in due per quarant’anni.

Il filo spinato arrugginito, i cavalletti di Frisia e le torrette di cemento armato

dalle quali la Volkspolizei sparava su chi aveva l’ardire di correre

lungo la cosiddetta “striscia della morte”, lo spazio tra le due strutture che

componevano la linea di confine tra le due Germanie, le sue macerie erano

ancora lì nel 1990, quando Gabriele Basilico, invitato dalla DAAD (programma

per artisti in residenza a Berlino), visitò Berlino per documentare

le conseguenze della caduta del muro: i viali deserti della zona Est, i

palazzi in stile sovietico, ancora intatti e decadenti, erano perfetti per il suo

sguardo.

58/OMBRE


Subito dopo quest’esperienza, nel 1991, grazie alla visibilità che gli aveva

dato il superlativo lavoro svolto per la Datar, Basilico venne contattato dalla

fondazione appartenente a Rafik Hariri, il primo ministro libanese: gli si

chiedeva di partecipare a un grandissimo progetto collettivo della durata

di tre mesi assieme ad altri cinque fotografi: Josef Koudelka, René Burri,

Raymond Depardon, Robert Frank e Fouad Elkoury: Basilico era il sesto, e

si sentì un privilegiato a far parte di quel gruppo. Lo scopo del progetto era

documentare la città di Beirut dopo quindici anni di guerra civile, imprimerne

per sempre nella memoria le cicatrici, le ferite inflitte dalla guerra alla

città prima di una ricostruzione che avrebbe cancellato tutto dal territorio,

e dalla memoria degli abitanti.

L’agenzia Magnum fece carte false perché al progetto partecipassero solo

i suoi fotografi ma l’organizzatrice, la scrittrice libanese Dominique Eddè,

non volle sentir ragioni e compose il gruppo basandosi piuttosto sui consigli

di storici dell’arte e amici artisti, che proposero Frank, Elkouru e Basilico.

Nell’autunno del 1991 Basilico atterrò a Beirut e ci restò per due settimane,

cogliendo la desolazione dei palazzi crivellati dai proiettili con l’unica luce

disponibile, quella ambientale: i lampioni non esistevano quasi più, e gli

edifici erano fantasmi da cui gli abitanti sembravano essersene appena

andati.

All’inizio del progetto della Datar, Basilico non era ancora pronto ad organizzare

un lavoro di tale portata, a Beirut arrivò con la conoscenza e lo

sguardo che aveva maturato nelle sue esperienze precedenti, ciò nonostante

era a disagio, spaventato dalle strade abbandonate, e con l’intimo

timore di non riuscire a cavar nulla da quel paesaggio così pieno di ferite.

Basilico era l’unico fotografo del gruppo a muoversi per le rovine con un

cavalletto, guardando attraverso la lente della sua macchina 6x9, cercava

disperatamente di trovare dei punti di rifermento per creare il suo progetto,

ma non ci riusciva.

Un amico di Dominique Eddè, Selim, si accorse un giorno del suo disagio,

lo prese per mano e gli disse: “SALIAMO IN ALTO.”

Sul tetto dell’Hotel Hilton, un palazzo di sedici piani ridotto in macerie, che

scalarono lentamente un piano dopo l’altro, stando attenti a dove mettevano

i piedi per non precipitare, Basilico guardò giù in compagnia della sua

guida.

“Cosa vedi?” gli chiese Selim.

“Vedo una città distrutta.”

“Guarda bene.”

Sotto i suoi piedi Basilico vedeva solo mattoni sbrecciati, muri di cemento

crollati, travi di ferro che si protendevano verso il cielo nuvoloso di novembre

come dita tese, quasi ad accusare un Dio cieco, sordo e muto che ave-

59/OMBRE


va permesso quello scempio, ma guardando più in là, verso l’orizzonte, vide

il fumo dei camini, qualche antenna della televisione... si accorse che la

città era ancora viva.

A differenza di Berlino e Colonia, devastate dai bombardamenti alleati del

1944 fino quasi alla loro cancellazione, città morte dopo la fine della guerra,

Beirut era ancora viva, era un città ferita, e lui aveva il dovere, e doveva

trovare il coraggio, di raccontarlo.

Dai quel tetto, Selim gli aveva fatto vedere la distruzione, ma anche la gente

che si ritrovava nelle piazze devastate con la voglia di continuare a vivere.

Sceso dal tetto, Basilico si mise in mezzo a una strada col suo cavalletto

aperto e iniziò a guardare Beirut non come una città morta ma col medesimo

sguardo che avrebbe dedicato a Milano o qualunque altra città fotografata

fino a quel momento, e si accorse finalmente di aver trovato quello

che cercava: se riusciva a mostrare la città, la città esisteva, non era annullata

dall’orrore della guerra.

Le immagini di Basilico scattate a Beirut non raccontano le macerie, non

raccontano i resti, con quell’approccio che parla degli edifici o quel che ne

rimane come di una serie di sculture, piuttosto, riescono a comunicare la

speranza della ricostruzione, la voglia di una città di rinascere, di avere un

futuro.

C’è una foto scattata da Basilico molto simile a un’altra scattata da Koudelka.

In quella estremamente drammatica del fotografo di Praga si vede

del fumo dietro a del filo spinato, sembra sia appena caduta una bomba.

Basilico inquadrò la medesima immagine dall’alto: stando più in alto, vede-

60/OMBRE


va lontano, e nel suo scatto si capisce che il fumo sale da una griglia dove

qualcuno sta cucinando: il punto di vista cambia il nostro modo di vedere

la realtà, e per quanto la fotografia si sforzi di essere documento e testimonianza,

è sempre una finzione, sempre arbitraria, mutuata da chi la scatta,

tanto che basta cambiare posizione per raccontare una storia diversa.

Per i successivi vent’anni Basilico scattò ovunque, continuò a documentare

le trasformazioni delle città raccontando attraverso di esse la storia: Shangai,

Istanbul, Rio de Janeiro, San Francisco, Oporto.

Tornò nuovamente a Beirut nel 2003, per mostrare la ricostruzione della

città, ripercorrendo i medesimi luoghi fotografati durante la sua prima

visita.

Non smise mai di fotografare fino alla sua morte, e nonostante tutte le città

ritratte durante i suoi molteplici viaggi, l’unica che restò una costante per

lui fu la sua amata Milano, dove tutto ebbe inizio ed ebbe fine nel febbraio

del 2013.

Della sua città scrisse:

“QUESTA CITTÀ MI APPARTIENE E IO APPARTENGO

A LEI, QUASI IO FOSSI UN FRAMMENTO FLUTTUANTE

DENTRO IL SUO IMMENSO CORPO.”

E la sua città oggi è ancora in trasformazione.

Da quei bombardamenti che cancellarono le case affacciate su via Cusani,

la sua evoluzione non si è mai arrestata, dagli inizi esitanti dei primi anni

2000 all’evidente metamorfosi prodotta dall’Expo del 2015, che ha portato

i grattacieli a crescere fino a toccare l’altezza della Madonnina, cambiando

il suo profilo in quello di una metropoli. Questo cambiamento, così radicale,

della città che amava, Gabriele Basilico non è riuscito a vederlo ma se

avesse potuto, l’avrebbe sicuramente fotografato, continuando quel lavoro

mai concluso di documentazione del volto della città iniziato con quella

passeggiata in un luminoso week end di Pasqua degli anni settanta.

61/OMBRE


#album

NICOLA GUIDA

Francoforte

62/OMBRE/album


HO VIAGGIATO NEL FREDDO

FACCIA A FACCIA CON LA MIA

OMBRA CHE SI GETTAVA

NEL BIANCO VELO DEL TEMPO

Francoforte

63/OMBRE/album


San Paolo

64/PAGINE


65/OMBRE/album

Milano


66/OMBRE/album

Francoforte


67/OMBRE/album

Milano


Istanbul. Il titolo dell'album cita la canzone dei Litfiba dedicata a questa città.

68/OMBRE/album


69/OMBRE/album

Belo Horizonte


70/OMBRE/album

Berlino


71/OMBRE/album

Berlino


72/OMBRE/album

Istanbul


73/OMBRE/album

San Paolo


Francoforte

74/PAGINE


75/PAGINE


76/OMBRE/album

Francoforte


77/OMBRE/album

Francoforte


78/OMBRE/album

Francoforte


79/OMBRE/album

Milano


80/OMBRE/album

Istanbul


81/OMBRE/album

Belo Horizonte


82/OMBRE/album

Istanbul


83/OMBRE/album

Francoforte


Milano

Francoforte

84/OMBRE/album


Milano

Francoforte

85/OMBRE/album


86/OMBRE/album

Belo Horizonte


87/OMBRE/album

Amsterdam


Berlino

88/OMBRE/album


89/OMBRE/album

San Paolo


Berlino

Belo Horizonte

Francoforte

Berlino


Amsterdam

91/PAGINE


SGUARDI

SULLA CITTÀ

PAROLE E IMMAGINI

ALESSANDRO PRANDONI

92/PAGINE


MILANO

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio

villeggiatura. Mi riposo in Piazza

del Duomo. Invece

di stelle

ogni sera si accendono parole.

Nulla riposa della vita come

la vita.

(U. Saba, Milano, in Tre città,

da Parole, 1933-1934)

93/PAGINE


EDIMBURGO

BARCELLONA

94/PAGINE


TORINO

“E anche una casa che ciondolava fatiscentissima

(di dignitoso le case non hanno

che la fatiscenza) sull’angolo tra via

Andrea Doria e via Lagrange, acquistata

nel 1941 e poi demolita dalle Assicurazioni

Toro… Sulla via Lagrange si affacciava una

vetrina di salumeria da Ventre de Paris che

ancora, mentre la casa ormai disabitata,

sprangata, odorosa di cenere, stava attendendo

l’ultimo colpo, raggiava di luci

tremolanti di gelatine, e di candori di robiole

vestite e nude.”

(G. Ceronetti, Piccolo inferno torinese. Fogli dispersi

restaurati, Einaudi, Torino 2003, p. 66)

VENEZIA

“In questa città l’occhio acquista un’autonomia

simile a quella di una lacrima. L’unica

differenza è che non si stacca dal

corpo, ma lo subordina totalmente. Dopo

un poco […] il corpo comincia a considerarsi

semplicemente il veicolo dell’occhio

[…]. È una conseguenza naturale della topografia

veneziana, dei vicoli tortuosi e

sguscianti come anguille che alla fine ti

portano a una grande sogliola, a una piazza

con una chiesa al centro, incrostata di

santi, che ostenta nel cielo le sue cupole

simili a meduse. Qualunque meta tu possa

prefiggerti nell’uscire di casa, sei destinato

a perderti in questo groviglio di calli

e callette che ti invitano a percorrerle fino

in fondo, ti lusingano e ti ingannano, perché

in fondo c’è quasi sempre l’acqua di

un canale […].”

(I. Brodskij, Fondamenta degli Incurabili,

Adelphi, Milano 1991, pp. 41-42)

95/PAGINE


PARIGI

“Poiché desiderava poter ammirare un

vasto orizzonte, scelse la terrazza di

Saint-Germain. Si mise in cammino soltanto

dopo pranzo, e quand’ebbe visitato

il museo preistorico per scrupolo di coscienza,

perché non ci capì assolutamente

nulla, fu preso dall’ammirazione di fronte

a quella passeggiata smisurata, dalla

quale si scopre, in lontananza, Parigi e

tutta la regione circostante; le pianure, i

borghi, i boschi, gli stagni, persino delle

città, e quel gran serpente azzurrino dalle

infinite ondulazioni, quel fiume adorabile

e dolce che attraversa il cuore della

Francia: LA SENNA.”

(G. de Maupassant, Le domeniche di un borghese

di Parigi, in Racconti di vita parigina,

Einaudi, Torino 1996, p. 31)

PORTO

“Quando, il giorno seguente, starà per partire, dopo essere

andato a visitare quell’autentico gioiello che è la Chiesa di

Santa Clara, con il suo portale dove il Rinascimento affiora,

con la sua talha barocca che riconcilia la benevolenza del

viaggiatore, con quel suo patio raccolto e antico su cui si

affaccia il vecchio portone del convento – quando il viaggiatore

starà per partire, ritornerà alla Fonte del Pellicano,

guarderà quelle donne irate che, imprigionate nella pietra,

si sfidano: ed è questo che porta via con sé da Porto, un

duro mistero fatto di vie tetre e di case dal colore della

terra, il tutto affascinante come, all’imbrunire, le luci che a

poco a poco si accendono sulle pendici, una città congiunta

con un fiume che chiamano Doiro.”

(J. Saramago, “Si unisce al fiume che chiamano Doiro…”, in

Viaggio in Portogallo, Einaudi, Torino 1999, pp. 141-142)

96/PAGINE


MARKKLEEBERG

97/PAGINE


Arrivando a Genova

vedrai una città imperiosa,

coronata da aspre montagne,

superba per uomini e per mura,

signora del mare.

(F. Petrarca, da una relazione

di viaggio, 1358)

GENOVA

RIMINI

98/PAGINE


PIETROBURGO

“Cominciamo dal primo mattino, allorché tutta Pietroburgo

manda il profumo del pane caldo appena sfornato ed

è piena di vecchiette in abiti e in mantelli stracciati che

fanno le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti

compassionevoli. A quell’ora la Prospettiva Nevskij è vuota

[…]. Per le strade si trascina la gente che ha qualcosa

da fare: a volte passano contadini russi che si affrettano

al lavoro, con gli stivali talmente inzaccherati di calce, che

neppure il Canale Ekaterinskij, noto per la sua limpidezza,

sarebbe in grado di pulire. A quell’ora solitamente non sta

bene che le dame vadano in giro, poiché il popolo russo

ama esprimersi con frasi così taglienti che, per la verità,

non si sentono neanche a teatro. […] Si può senz’altro dire

che in quelle ore, cioè fino alle dodici, la Prospettiva Nevskij

per nessuno costituisce un fine, ma serve soltanto

come mezzo: essa si riempie gradualmente di persone

che hanno le proprie preoccupazioni, i propri fastidi, ma

che alla Prospettiva non pensano affatto.”

(N. Gogol’, La Prospettiva Nevskij, in Racconti di Pietroburgo,

Mondadori, Milano 1996, pp. 20-21)

ATENE

“L’acropoli ha un accesso solo e non ne presenta

altri, sulla cima com’è di un colle scosceso

e cinta da un saldo muro. I Propilei hanno il

tetto di marmo bianco e per la bellezza e la

grandezza dei blocchi eccellevano su tutti gli

altri monumenti fino alla mia epoca realizzati.

Circa le immagini dei cavalieri, non saprei dire

con sicurezza se si tratta dei figli di Senofonte

o se siano lì eretti per puro ornamento. Sulla

destra dei Propilei sorge il tempio di Nike Apteros.

Da qui si vede il mare e qui si precipitò

Egeo, secondo la leggenda, e morì.”

(Pausania, Viaggio in Grecia, Libro I, XXII, 4, Rizzoli,

Milano 1997, p. 203)

99/PAGINE


LE CITTÀ

INVISIBILI

DI ITALO

CALVINO


CHIARA RIVA

Accanto alla Londra di Dickens, alla San Pietroburgo di Gogol’ e Dostoevskij,

alla Mosca di Bulgakov, alla Trieste di Svevo, alla Parigi di Zola, Balzac e

Hugo, e poi ancora alla Berlino di Döblin e Isherwood, alla New York di Salinger

e Paul Auster, alla Tokyo di Murakami e ad altri luoghi che hanno un

volto reale e una collocazione nel mondo, ci sono le città “invisibili” di Italo

Calvino.

Le città invisibili, pubblicato nel 1972 per Einaudi e da Calvino stesso considerato

come il suo lavoro più riuscito, appartiene a quel “periodo parigino”

durante il quale lo scrittore si guadagnò la fama a livello internazionale. È

un compendio di racconti, frutto di invenzione e fantasticheria e racchiusi

da una cornice che si rifà idealmente al Milione di Marco Polo, dai quali

emergono iconografie di città possibili che riflettono sulla natura della “forma

urbana” e sul futuro a cui la città sembra essere destinata. Talmente

iconici e impattanti nell’immaginario collettivo, che gli art director delle case

editrici di vari paesi si scomodarono a cercare nell’archivio iconografico le

illustrazioni di opere di Magritte, Mirò, Max Ernst, Paul Klee, e di altri grandissimi

artisti per la grafica delle copertine delle prime edizioni.

A prima vista l’opera può risultare un artificioso esercizio metaletterario, e

una qualche critica è stata mossa al fatto che qui manchi la parte di impegno

politico e sociale rispetto ai precedenti lavori dello scrittore (entrato

ormai, con l’adesione all’Oulipo francese, in una nuova stagione creativa,

più sperimentale). In realtà Le città invisibili sono l’ultimo stadio evolutivo a

cui approda la sua riflessione sulla città, incominciata già con La speculazione

edilizia (1958), Marcovaldo o ancora La giornata di uno scrutatore (entrambi

del 1963), e portata qui a un livello di astrazione in cui la fantasia

intercetta la realtà secondo una pratica più congeniale allo scrittore.

101/PAGINE


L’oggetto del narrare non è più Torino, Milano, Sanremo; non si parla più

nello specifico di corruzione, speculazione, contrasto tra natura e tecnologia,

dell’abbandono delle campagne e dell’inurbamento, ma di città possibili,

tanto irreali, aeree, impalpabili, fantasmagoriche nelle loro fattezze

quanto terrene e concrete nei loro difetti, nella loro infelicità, nei loro paradossi.

Tra queste fantasie urbane e la città moderna in crisi d’identità non

c’è una distanza siderale, come può essere quella che separa il sogno dalla

realtà, ma anzi la nostra realtà la riconosciamo facilmente tra le righe.

Semplicemente, lo scrittore trova terreno più fertile per portare avanti la

sua poetica quando descrive ambientazioni più indefinite; “dato che i luoghi

delle sue opere sono quasi sempre immaginari, Calvino non aveva bisogno

delle città reali” (Fabio Gambaro, Lo scoiattolo sulla Senna, Feltrinelli 2023, p.

85). E, aggiungiamo, non aveva bisogno neppure di un tempo reale. Nell’opera

infatti passato e presente si contaminano a vicenda: “La città visibile

racconta, a volte solo per sparse sopravvivenze, la storia della città invisibile:

come un palinsesto, rivela nelle vie e nelle case dell’oggi l’ordine sociale,

le tensioni e i conflitti dei tanti nostri ieri” (Salvatore Settis, Se Venezia

muore, Einaudi 2014, p. 16).

Le città invisibili, come viene definito dallo stesso autore nell’introduzione

all’opera, è “un ultimo poema d’amore alle città” tutto incentrato su “cosa è

oggi la città, per noi”, in cui l’indagine su questa domanda viene traslata dal

piano sociopolitico a quello ontologico. Di una scrittura bellissima e preziosa,

raffinata e leggera, sostenuto da un’impalcatura minuziosamente complicata

come volevano le regole dell’Oulipo, innerva la riflessione di moltissimi

altri temi, come l’antinomia utopia/distopia, il rapporto con la memoria

e il divenire, il senso del viaggio, fino al tema metaletterario sul potere

della narrazione che conoscerà poi ulteriore sviluppo con il successivo Se

una notte d’inverno un viaggiatore (1979).

Ma andiamo per ordine.

“L’OPERA NON È CHE UN ESEMPIO DELLE

POTENZIALITÀ RAGGIUNGIBILI SOLO ATTRAVERSO

LA PORTA STRETTA DI QUELLE REGOLE.”

Italo Calvino

Come abbiamo detto, la struttura del libro è complessa: il volume appartiene

alla stagione in cui Calvino, stabilitosi in Francia, a Parigi aderisce

all’Opificio di letteratura potenziale, un prestigioso club letterario fondato nel

1960 per il quale la letteratura era concepita come gioco basato su strutture-vincoli

di tipo matematico oppure semantico, e per questo motivo

chiamata “combinatoria”: l’opera era cioè il risultato di una combinazione

102/PAGINE


razionale di schemi e regole prestabilite e la struttura ne era l’elemento

dominante.

Le Città invisibili è anzitutto sorretto da una cornice, in cui il mercante veneziano

Marco Polo dialoga con Kublai Kan, imperatore dei Tartari, intrattenendolo

con le descrizioni di 55 città che egli sostiene di aver visitato

all’interno del suo sterminato impero, ma che da subito scopriamo essere

più frutto della sua invenzione che realtà, più appartenenti al regno del

possibile che dell’esistente.

All’interno di questa cornice che Calvino ebbe solo in un secondo momento

l’idea di aggiungere, e che è spezzettata in 18 corsivi, vi sono i racconti,

brevi e autoconclusi, che descrivono ciascuno una città in relazione a un

particolare tema. Riscontriamo così un indice di 11 rubriche (ovvero le associazioni

tematiche in questione), che hanno, un po’ come tutto il libro, una

genesi tortuosa, frutto di varie stesure, ripensamenti e varianti rispetto al

risultato finale. Queste sono, nell’ordine di apparizione, le 11 rubriche:

LE CITTÀ E LA MEMORIA

LE CITTÀ E IL DESIDERIO

LE CITTÀ E I SEGNI

LE CITTÀ SOTTILI

LE CITTÀ E GLI SCAMBI

LE CITTÀ E GLI OCCHI

LE CITTÀ E IL NOME

LE CITTÀ E I MORTI

LE CITTÀ E IL CIELO

LE CITTÀ CONTINUE

LE CITTÀ NASCOSTE

In quest’opera che presenta così tante chiavi di lettura si distinguono due

“direttrici” principali: una nei racconti, in cui Calvino cerca di ricomporre il

significato che la città ha per l’uomo, e un’altra nella cornice, luogo dell’autoreferenzialità

in cui lo scrittore medita sul suo stesso lavoro ovvero, per

riassumerlo con le parole dello stesso Calvino nella Presentazione all’opera,

attraverso i dialoghi tra i due personaggi il libro stesso “si discute e si interroga

mentre si fa”.

Fedora, Raissa, Ipazia e le altre: le rubriche

Nel primo paragrafo del suo Se Venezia muore, lo storico dell’arte Salvatore

Settis parla di come le città possano cadere in rovina non per una causa

esterna, ma nel momento in cui perdono la memoria di sé, si dimenticano

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di quello che sono state. Venezia, unica al mondo e subliminale punto di

riferimento anche per il Marco Polo di Calvino, è eletta a esempio paradigmatico

di città a rischio, esattamente come l’Atene della classicità. La prima

è fagocitata dal turismo che sta prevalendo sulla popolazione locale, mentre

la seconda già nel Medioevo non sapeva più riconoscere l’eredità dei

suoi templi e dei suoi uomini illustri. In ciascuna di loro, come in ogni altra

città, convivono infatti una parte fisica fatta di mura, di monumenti, di edifici,

di strade, e un’altra, un’anima potremmo dire, fatta delle persone che la

abitano e dei loro progetti politici e sociali: fatta da desideri, scambi, segni,

sogni, persino legami con chi non è più, come si evince dai titoli delle 11

rubriche. Quest’anima è ciò che si deve conservare nel tempo perché la

città resti in buona salute, viva e pulsante, e la memoria di quanto essa è

stata impatta sul suo divenire tanto quanto le possibili forme che essa non

ha avuto. Una delle prime città che incontriamo, Fedora, ne è un esempio:

un palazzo del suo centro custodisce le sfere di cristallo che contengono i

modelli di tutte le Fedore possibili, e la città conserva ognuna di esse, da

quella “accettata come necessaria mentre non lo è ancora a quella immaginata

come possibile e che un minuto dopo non lo è più”.

“La città e il suo popolo sono una cosa sola, un solo nodo lega l’esperienza

dei viventi e la memoria delle cose” (Se Venezia muore, p. 9). E quindi ecco,

Calvino dedica una rubrica proprio alle città e alla memoria, e descrive

Zaira, città che “di quest’onda che rifluisce dai ricordi […] si imbeve come

una spugna e si dilata”, oppure Isidora, nella quale non si fa in tempo a vedere

esaudito un desiderio che ormai è già ricordo, o ancora Maurilia, la

metropoli che uno iato incolmabile separa dalla sua vecchia riproduzione

su cartolina. La storia di Zora invece sottintende che non si dà memoria

senza trasformazione, perché una città immutabile è destinata all’oblio, e

ci permette anche di affrontare un altro argomento: la descrizione di questa

città, insieme ad altre, rivela infatti la critica di Calvino al tradizionale

concetto di utopia. Nella cornice si fa esplicito riferimento, oltre ad altri luoghi

letterari, a Utopia di Thomas More e alla Città del Sole di Campanella, due

testi classici che nel Cinquecento e nel Seicento hanno coniato per primi il

termine riferendolo a un paese ideale. Ma se le due opere rinascimentali

avevano immaginato il ritratto di una società con caratteri di perfezione,

modello per una condizione di felicità collettiva che scavalcava l’individuo,

nelle città di Calvino ogni tentativo di creare una forma di città assoluta,

immobile, cristallizzata conduce al suo contrario, con risultati distopici che

decretano il fallimento dell’azione demiurgica dell’uomo.

I luoghi urbani descritti da Marco Polo rivelano in sé per la maggior parte

delle volte un carattere di doppiezza e di ambiguità.

In alcuni di loro, come Anastasia, “i desideri si risvegliano tutti insieme e ti

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circondano” finché alla fine l’uomo si rende conto di essere prigioniero di

un luogo brutto, come Zobeide, dove pure si è giunti seguendo un sogno. E

se il sogno spesso ha più i tratti dell’incubo, anche il linguaggio rivela il suo

lato ingannevole. Nelle città di Aglaura e Tamara la lingua è insufficiente a

cogliere la loro essenza e il visitatore non sarà in grado di decifrare l’intrico

di segni che le nasconde. A Ipazia, dove il sapiente va cercato tra i giochi

d’infanzia mentre la buona musica si ascolta nel cimitero, gli stessi segni

non dicono ciò che ci si aspetterebbe; oppure a Olivia, la cui descrizione è

tra le più destabilizzanti, “la menzogna non è nel linguaggio ma nelle cose”.

Lo spaesamento del lettore è ancora maggiore quando altre città si presentano

all’apparenza con i tratti del meraviglioso e ci incantano per la loro

iniziale raffinata perfezione, per poi rivelare nel finale un’altra faccia della

medaglia.

Basti citare Clarice, città gloriosa, che nella sua storia alterna periodi di

magnificenza e felicità ad altri di declino. Calvino la paragona a una “farfalla

sontuosa” dal cui bozzolo esce una Clarice “crisalide pezzente”, che è

ricostruita con i rifiuti inservibili della prima.

Bersabea, città doppia, con un volto celeste e uno sotterraneo, è fatta con

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gli scarti della città di sopra: ma se l’opinione comune vuole che quella alta

sia la sua faccia virtuosa, ben presto appare chiaro al lettore che nonostante

l’aspetto ripugnante “tutto il bene della città sia racchiuso nel tesoro

delle cose buttate via” destinate a costituire la gemella sottostante.

Non dissimile è la storia di Eusapia di cui non si sa più quale sia l’originale

e quale la copia: il suo doppio è la città dei morti, ma è questa ad essere

stata creata come “continuazione” di quella dei vivi, oppure è nientemeno

che la città vivente ad essere una copia di quella morti?

E che dire di Perinzia? Creata seguendo in ogni crisma le indicazioni degli

astrologi perché rispecchiasse in terra la perfezione delle congiunzioni

astrali, si ritrova a diventare, con un contrappasso quasi dantesco, la città

dei mostri.

Altre descrizioni si basano poi su presupposti di derivazione strutturalista;

è frequente la presenza nel testo, sia della cornice che delle rubriche, di

elementi che evocano un’architettura, una griglia, una trama di base che

arriva a condizionare il destino delle città invisibili. È il caso del singolare

tappeto custodito a Eudossia, nel cui ordito si può leggerne l’intera pianta;

è il punto infinitesimale che Olinda contiene al suo interno e da cui germina

ogni volta una nuova Olinda che si espande così per cerchi concentrici;

Eutropia invece la si abita, la si disfa e la si rifà daccapo come “spostandosi

in su e in giù sulla sua scacchiera vuota”.

Come non ritrovare in queste metafore visive di espansione, moltiplicazione,

policentrismo, i movimenti e la crescita sovradimensionata, isterica e

ubiqua delle città di oggi? E infatti di alcune di loro troviamo echi in romanzi

di fantascienza distopica; Pentesilea è il paradosso della megalopoli che

è giunta “a spandersi per miglia intorno in una zuppa di città diluita nella

pianura” a tal punto da diventare ovunque “periferia di se stessa”. Nel suo

ciclo di fantascienza Isaac Asimov sembra sviluppare ulteriormente questa

idea con l’ecumenopoli di Trantor, capitale del suo Impero Galattico che

giunge a occupare un intero pianeta e quindi a identificarsi con esso.

La città invisibile Leonia produce invece spazzatura in maniera esponenziale

rispetto alla sua necessità di rinnovamento, mentre altre città intorno

fanno lo stesso: i perimetri che le delimitano sono quindi delle immense

discariche. Il degrado ambientale è l’entropia metafisica che fa da sfondo

anche al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick,

e si incarna nella “palta” fatta di oggetti inservibili che si diffonde ovunque

e contro cui ormai non c’è più rimedio: “Quando non c’è più nessuno a controllarla,

la palta si riproduce. Per esempio, se quando si va a letto si lascia

un po’ di palta in giro per l’appartamento, quando ci si alza il mattino dopo

se ne ritrova il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai”.

Parcellizzazione, espansione incontrollata, rovesciamento di prospettiva

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fanno parte integrante del nostro mondo iperurbanizzato, che dalla metà

del secolo scorso è cresciuto – come Calvino ha fatto in tempo a constatare

– a ritmi esponenziali e sempre più difficilmente gestibili. Prodotto “squisitamente”

umano, la città con tutti i suoi annessi e connessi tecnologici si

sta trasformando in un organismo fagocitante che progressivamente erode

anche i nostri baricentri.

È quindi questo il destino che Calvino, pure scrittore e cantore di città più

che di campagna, vede nel nostro futuro? Questo potrebbe essere, riassumendo,

l’interrogativo generato dall’analisi socio antropologica di Settis in

Se Venezia muore, che molto deve a Calvino e alle sue Città invisibili. La parabola

che parte dall’Atene di Socrate, Platone e Aristotele, del Partenone

e dei marmi di Fidia e Prassitele, passando per un millennio e mezzo d’anni

dopo attraverso la rivoluzione industriale e capitalistica che ha messo il

turbo all’inurbamento e al “progetto di massimo sfruttamento del singolo

in funzione della produttività dell’insieme”, ha come traguardo nei peggiori

dei casi le bidonville o il modello Chongquing, ovvero città di 30 e passa

milioni di abitanti? Ovvero una macchina che avanza “invadendo la terra e

distruggendo ogni altra forma urbana”? Una città non più a misura d’uomo?

Bisogna ricordare che alla visione cupa di città come Argia, completamente

interrata, e a quelle “che pesano sulla terra e sugli uomini”, Calvino contrappone

la leggerezza delle città sottili, come Zenobia che sorge su palafitte,

Ottavia la città ragnatela, o l’acquatica Smeraldina, o ancora Lalage

baciata dalla Luna. E ci dice espressamente che la felicità, come un intermittente

raggio di luce, appare spesso nel cuore delle città infelici come

Raissa, così che “ogni secondo la città infelice contiene una città felice che

nemmeno sa d’esistere”. Quasi una postilla a quella che tanti critici hanno

voluto vedere forse come la citazione “chiave” di tutto il libro, posta significativamente

nel finale, e cioè che, sì, esiste una forma di resilienza:

“CERCARE E SAPER RICONOSCERE CHI E CHE COSA,

IN MEZZO ALL’INFERNO, NON È INFERNO, E FARLO

DURARE, E DARGLI SPAZIO”.

Ma Calvino stesso, nella prefazione, ha invitato a non considerare questa

frase, pur centrale, pur importante, come unica via di interpretazione dell’opera.

Perché nella cornice ci viene detto dell’altro.

Il dialogo tra Marco Polo e Kublai Kan

La cornice è il luogo letterario in cui Calvino prosegue le sue considerazioni

sul destino delle città ma anche e soprattutto ragiona sulla sua attività

di scrittore, sul significato della narrazione e il ruolo del lettore.

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È qui che i suoi visionari ritratti urbani si legano al tema della scrittura.

Ce lo dice proprio Calvino stesso: in La città scritta: epigrafi e graffiti (1980),

afferma che

“È LA PRESENZA STESSA DELLA SCRITTURA,

LE POTENZIALITÀ DEL SUO USO VARIO

E CONTINUO CHE LA CITTÀ STESSA DEVE

TRASMETTERE […]: LA CITTÀ IDEALE È QUELLA

SU CUI ALEGGIA UN PULVISCOLO DI SCRITTURA

CHE NON SI SEDIMENTA NÉ CALCIFICA”.

Il viaggio di Marco Polo attraverso luoghi possibili alla ricerca non di meraviglie

ma di risposte a una domanda sono il viaggio dello scrittore che

cerca un significato, un ordine nel caos del mondo, che combatte con le

parole l’oblio del tempo, che scruta dentro di sé per scoprire ciò che non è

stato, e lontano da sé perché “la forma delle cose si distingue meglio in

lontananza”. Nell’ultimo capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore l’atto

del leggere, riflesso dello scrivere, è semanticamente tutto un susseguirsi

di termini legati al viaggio: un vagare con gli occhi, un itinerario di ragionamenti

e fantasia, un percorrere, un rimbalzare di pensiero in pensiero, in poche

pagine che racchiudono interi universi.

L’imperatore che ascolta il mercante veneziano non crede a tutto ciò che

Marco Polo dice, è consapevole che le sue digressioni sono finzione, le sue

parole menzognere. Ma in questo autoinganno che è il suo racconto, le

parole, i simboli, i segni, insomma, il linguaggio utilizzato dal mercante è

l’unico modo, anche se insufficiente e inaffidabile, con cui egli restituisce al

suo impero sterminato e in sfacelo una parvenza di senso, gli lascia intravedere

un labile disegno sottostante.

Di nuovo ci vengono in soccorso, nel finale del dialogo tra i due personaggi,

le griglie della Scacchiera e la figura dell’Atlante. Nel primo caso a Kublai

Kan che si chiede disilluso cosa valga una vittoria se sotto al piede del re

sconfitto resta un tassello vuoto, Marco mostra quante storie può raccontare

ancora quello stesso tassello, se lo si “legge” con attenzione: di che

legno è fatto, come fu intagliato, persino la storia dell’albero da cui fu ricavato.

Nel secondo caso l’Atlante di Kublai racchiude al suo interno un catalogo

di innumerevoli forme, tutte le forme – quelle delle città, ma anche

delle loro storie – possibili, presenti, passate, future, come un Aleph di borgesiana

memoria.

In questo imperfetto esercizio di verosimiglianza, potenzialmente senza

fine, si arriva al coup de théâtre di Calvino nel dialogo botta e risposta tra i

due personaggi che ragionano sul proprio duplice ruolo: contemporaneamente

soggetto narrante e oggetto narrato della storia, filosofeggiano sul

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processo tutto mentale dell’invenzione letteraria. Dell’invenzione letteraria

che loro stessi sono. Come in Se una notte d’inverno un viaggiatore, siamo già

in presenza di un testo che ragiona di se stesso.

E quindi, Le città invisibili sono un’opera unica nel suo genere, di cui troviamo

a volte qualche pallido – perché Calvino è inimitabile – riflesso nei lavori di

altri autori.

Opera iconica, che non smette di fornire spunti per mostre, dibattiti di architettura,

laboratori creativi nelle scuole.

Ma soprattutto opera visionaria e densa, di una densità che suscita a ogni

lettura, da ogni angolo, sempre nuove riflessioni e sfugge a una interpretazione

univoca. Perché, come ammette spontaneamente Calvino nella sua

prefazione, dopo aver elencato questi e quei pareri critici sul senso del libro,

quest’ultimo, “come ho spiegato, si è fatto un po’ da sé, ed è solo il testo

com’è che può autorizzare o escludere questa o quella lettura”.

Potere al testo sia, dunque.

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La città è

un racconto

CIFONE ( artista-fumettista)

"Cifone è scampato a quella

strage degli innocenti chiamata

adolescenza.

Un bimbo sfuggito a quell’Erode

altresì detto Società.

Cifone è un dio-bambino.

Demiurgo di un mondo fatto

di cartone e pennarelli a spirito.

Adoratelo”

(Descrizione per la mostra

ratatafestival.com/cifone/)

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SOLIDEA RUGGIERO

15 aprile ore 11:13

“CIAO SOLE, BUONGIORNO! IL PROSSIMO NUMERO È A TEMA

CITTÀ, SCADENZA A GIUGNO!”

È Marta, sono in call, apro la notifica, e ho subito in testa Le città invisibili,

sorrido, chiudo e riprendo a seguire. Dieci minuti dopo mi oscuro in video

dalla riunione e vado in camera, sul comodino, sotto Petrolio (PPP), Il Minotauro

di Tammuz, e Muori Romantica di Grilli, c’è Calvino che mi avevi regalato

tu (non Marta s’intende, tu, tu passato!) insieme a Tammuz, l’edizione

Mondadori. Pensa che beffa per Italo. E mentre guardo gli appunti a margine

e tutte le pagine che ho sottolineato, penso che sono passati 18 anni,

per il libro, per me, per noi. Torno subito in riunione. Stiamo organizzando

il prossimo evento a Roma, a luglio, la morte, già mi vedo affondare nel

cemento che si scioglie ad ogni passo sudato. Mi viene in mente il poeta

finalista al Poetry Slam che una settimana fa fece un pezzo utilizzando la

prima lettera di ogni parola uguale per tutte, un genio:

“Roma un racconto che restituisce radicali raccomandazioni,

rateizzate raramente e rigettate su ricordi ruvidi ma raggianti.”

Non credo voglia dire qualcosa questa frase che ho scritto, ma è lui il genio,

io mi sono rivista in quel reel nel momento in cui presentavo l’evento, e a

un certo punto mi parte il mio solito flusso improvvisato e logorroico:

“Il luogo della cultura siamo noi, il posto della poesia è dove

vogliamo incontrarla, seduti sulla carta, per strada sotto un tetto

dietro un ponte sopra un palco tra la gente nel silenzio ovunque

la vogliamo portare. Io credo in una comunità della cultura,

in un rinnovato umanesimo, di ogni lingua immaginata e condivisa,

che sia la nostra disobbedienza a questo tempo disone-

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sto, immorale, lontano dalla giustizia sociale, capovolto verso

direzioni che non mettono al centro l’umanità stessa e la sua

più alta forma di esistenza. E se non si trova lo spazio necessario,

lo si crea. ‘La rivoluzione, non è che un sentimento.’ (PPP)”.

Ecco qua, imbarazzante, penso, inaspettatamente partono le votazioni sulle

lavagnette dal pubblico, con voti sopravvalutati ed eccessivi, ma lo capisco

solo andandomene dal palco che sono rivolti a me e, doppiamente

imbarazzata, dico: “Non era una performance, stavo andando a braccio,

volevo solo accogliervi!”. Le mie solite figure fuori luogo. Sono le 13 e 30, c’è

pausa ma poco o nulla in frigo, a parte la speranza. Apro una busta d’insalata,

cerco su Google la parola città, affetto una mela, un paio di pomodorini

gialli nichel tested, ci butto una manciata di semi vari, olive verdi sale e

olio. Mangio e leggo:

“Una città è un insediamento umano, esteso e stabile, che si

differenzia da un paese o un villaggio per dimensione, densità

di popolazione, importanza o status legale, frutto di un processo

più o meno lungo di urbanizzazione. Sinteticamente essa è

definibile come una concentrazione di popolazione e funzioni,

dotata di un proprio territorio e di strutture stabili. Il termine italiano

città deriva dall’analogo accusativo latino civitatem, a sua

volta da civis, cittadino, poi troncato in cittade da cui deriva anche

civiltà. In senso amministrativo il titolo di città spetta ai comuni

ai quali sia stato formalmente concesso in virtù della propria

importanza, e varia secondo gli ordinamenti giuridici dei

vari Stati.”

https://it.wikipedia.org/wiki/Citt%C3%A0

“Un insediamento umano” credo sia già emblematico, va bene, Wikipedia

sempre il primo della fila. Non vedo Marta dal 2017, non scrivo un racconto

così sfacciatamente reale da molto, molto più tempo. Marta è una di

quelle persone che hanno sempre calamitato la mia attenzione, così attenta,

puntuale, in equilibrio con il suo tono calmo, dritto, e trainante. Una

di quelle persone che semplicemente con la propria natura gentile, domano

il mio carattere senza fatica (spero). Potrebbe sembrare algida, a tratti

distaccata nei modi, apparentemente centrata, eppure è come la sua

scrittura, posseduta da un amore dedito alla ricerca, alla minuzia, un elastico

di sensibilità che si espande in un’empatia generale, che accoglie con

diversi sguardi prima del suo, che è un mare in inverno, un vento che segue

la nostalgia.

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ROMA, se penso a Roma mi sento male. La riunione riprende, so già che

come sempre ci sfuggiranno particolari, non sarà tutto pronto, chilometri

e chilometri da una parte all’altra della città, sono più di 30 anni che scappo

da Roma, e invece lei mi frega sempre, per amore, per lavoro, per amicizia,

vince lei, mi riprende tirandomi per i capelli. Tutte le volte che mi hai tradito

Roma, se penso alla parola città sei la prima che mi fa strizzare gli occhi

come quando ti si apre una ferita che non vuole rimarginarsi.

23 maggio ore 11:14

“CIAO SOLE, COME VA? SO CHE SEI IMPEGNATA QUINDI NON

MI PERDO IN CONVENEVOLI: COME PROCEDE CON IL TUO

RACCONTO? VOLEVO AVVISARTI CHE SUL LIBRO DI CALVINO

CI STA LAVORANDO UN’ALTRA PERSONA.”

Eh Marta, per fortuna perché ero partita da lì, ma poi ho pensato di aver

scritto davvero tante volte di Calvino, anche per Stanze, non era la via giusta.

Negli appunti del 28 aprile, sono andata diretta da Treccani:

“Centro abitato di dimensioni demografiche non correttamente

definibili a priori, comunque non troppo modeste, sede di

attività economiche in assoluta prevalenza extra-agricole e

soprattutto terziarie, e pertanto in grado di fornire servizi alla

propria popolazione e a quella di un ambito più o meno vasto

che ne costituisce il bacino d’utenza (o area d’influenza). La c.

è uno degli elementi umani dello spazio geografico: in particolare

un elemento insediativo e un elemento economico; è, o può

essere, anche un elemento politico (perché sempre vi si concentrano

almeno alcune attività di governo, da quelle locali a

quelle nazionali o internazionali), e, ancora, un elemento culturale,

sia in quanto luogo elettivo della produzione di cultura sia

in quanto sede di beni culturali accumulatisi nel tempo. Da tale

molteplicità di funzioni si evince l’importanza della c. e si comprende

come essa risulti uno degli elementi-guida dell’organizzazione

dello spazio.”

https://www.treccani.it/enciclopedia/citta

Già la definizione prende immediatamente un tono letterario, quasi prosastico,

narrativo:

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“La c. è uno degli elementi umani dello spazio geografico”.

È ovvio che la città sia una questione umana: un fatto che da un lato ha

mirato al contenimento di un caos diffuso, dall’altro è l’ennesimo abuso da

colonizzatori verso la natura stessa. Se pensiamo a cosa sono le città oggi,

le nostre città Italiane, seguendo questa definizione. Fino a un certo punto

della mia vita, non avendo questo grande senso di appartenenza al territorio

o esigenze di mettere radici, ho vissuto con una fame incredibile

dell’andare, di vivere le città come nuclei familiari che lasciavo ogni volta,

con la consapevolezza che sarebbero restati li ad aspettarmi. Sarà perché

sono nata in Belgio, a GENK, città protagonista delle scorse migrazioni italiane,

compresa quella della mia famiglia. Da adulta quando ci sono tornata

è stato difficile riunire i flash di ricordi che avevo, ma quell’odore costante

di umidità, di erba, di brina mi era familiare.

Anni fa mi capitò una proposta assurda, fui scelta per un’antologia, “Genova

d’autore”, per scrivere un racconto sulla città credendo io fossi genovese

(pensai perché spesso citavo il mare, mah!), non che non fossi mai stata

a GENOVA, ma non avevo abbastanza conoscenza, fatto è che chiesi a tre

miei amici genovesi, un pittore, un illustratore e un attore, di raccontarmi

un loro aneddoto personale legato alla città, e da lì imbastii un racconto,

intrecciando le storie dei tre e passando mesi a visionare vie, palazzi, piazze,

etc etc su Google Maps.

La città che non mi aspettavo e di cui mi sono follemente innamorata è

stata TORINO. Sì, sono scappata dalla Fiera del libro il secondo giorno della

presentazione del mio libro, lasciando un biglietto al mio editore, ma

quello ha a che fare con le mie fobie, non sopporto i grandi spazi, dai supermercati

ai centri commerciali, non sono mai entrata dentro un’Ikea, ma

ci sono tornata parecchie volte a Torino, ne sono ancora oggi enormemente

attratta, e ho solo conosciuto persone e artisti e contesti bellissimi.

Mi piace pensare che LA CITTÀ È COME UN RACCONTO: al centro

c’è l’uomo, la sua ricerca e la sua crescita, il suo espandersi, che è come il

mio flusso schizzato di connessioni in cortocircuito – perché sono alla terza

stesura di quello che voi leggete e c’erano 15 cartelle sopra, mettendo

da parte Calvino e anche l’ipotesi di Cifone (il nostro artista locale che dipinge

meraviglie con materiali di scarto e assembla mondi e sogni o piccole

città con pezzi di cartone) – e mi sono persa tra lampi di ricordi che

hanno nomi di città: il quartiere della Malasaña a MADRID, dove entrammo

con una “parola d’ordine” in un palazzo che in seguito si rivelò un club con

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della musica pazzesca, o BOLOGNA, l’unica in cui riesco a camminare libera

utilizzando al minimo le app, tanto i piedi vanno da soli, conoscono le

strade; Venezia e Palazzo Zenobio durante la 54a Biennale, la mia voce

nella videoinstallazione di Agostinelli, tutte le volte che mi sono persa, quel

carnevale in piazza San Marco; ma anche il profilo di PALERMO che ci ha

fatto il fotogiornalista Gentile, mentre lo intervistavo e dietro di noi scorrevano

quelle immagini ormai iconiche di Falcone e Borsellino, immaginavo

il teatro di Palermo con queste lenzuola di foto appese alle balconate con

l’installazione sonora fatta delle voci, delle grida, delle sirene del tragico

periodo della strage di Capaci, piazza in cui era cresciuto e aveva giocato

Falcone. I brividi.

10 giugno ore 11:14

“BUONGIORNO SOLIDEA, COME VA IL RACCONTO?”

Eccomi Marta, ho passato il tempo a cancellare, a tagliare e cucire. Il fatto

che mi chiami con il mio nome esteso mi fa lo stesso effetto di quando lo

fanno in famiglia: la situazione si fa seria. Mi sono persa per le strade di una

città che è il mio racconto, quello che leggete ora è solo il risultato di direzioni

diverse, di zone in luce e architetture che emergono. La città è un

racconto, fatto di scelte che sono funzionali allo spazio che è l’immaginazione,

e trovano una collocazione precisa, in segnali d’identità e caratterizzazione.

D’UNA CITTÀ NON GODI LE SETTE

O LE SETTANTASETTE MERAVIGLIE,

MA LA RISPOSTA

CHE DÀ A UNA TUA DOMANDA.

Italo Calvino

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1. LE TERRE IMMAGINATE, A CURA DI HUW LEWIS-JONES

2. JORGE LUIS BORGES, L’ALEPH

3. ITALO CALVINO, SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE

4. ITALO CALVINO, LE CITTÀ INVISIBILI

5. SALVATORE SETTIS, SE VENEZIA MUORE

6. AA.VV., LA VISIONE DELL’INVISIBILE

7. JAN BROKKEN, L’ANIMA DELLE CITTÀ

© Chiara Riva


COLLAGE#1

©Chiara Riva



COLLAGE#2

1. TOP 10 ISTANBUL, GEO MONDADORI

2. TOM WAITS, BONE MACHINE

3. PARIS MAP, CRUMPLED CITY JUNIOR

4. MAPPA DI VENEZIA, F.M.B.

5. BERLIN, PANORAMA POPS, WALKER BOOKS

6 LONDRA, CONDÉ NAST TRAVELLER

7. GARTH RISK HALLBERG, CITTÀ IN FIAMME

8. HARUKI MURAKAMI, TOKYO BLUES NORWEGIAN WOOD

9. JACK KEROUAC, I SOTTERRANEI

10. JAMES JOYCE, A SELECTION OF STORIES FROM DUBLINERS

11. PRAGA, WALLPAPER CITY GUIDE, PHAIDON

12. AMSTERDAM, LONELY PLANET

119/PAGINE


COLLAGE#3

1. JACK KEROUAC, LA CITTÀ E LA METROPOLI

2. LAURA PEZZINO, A NEW YORK CON PATTI SMITH

3. GREGORY DAVID ROBERTS, SHANTARAM

4. OLGA CAMPOFREDA, A SAN FRANCISCO CON LAWRENCE FERLINGHETTI

5. NEO-HEAD, #1, TO BERLIN

6. NEO-HEAD, #2, TO AMSTERDAM

120/PAGINE


121/PAGINE


Novara. Cattedrale di Santa Maria Assunta

Foto di Marcello Francone


IL TEATRO E LA CITTÀ.

UN RAPPORTO PROBLEMATICO

ANDREA ANCONETANI

“QUANDO SONO ARRIVATO A ROMA, A VENTISEI ANNI,

SONO PRECIPITATO ABBASTANZA PRESTO, QUASI

SENZA RENDERMENE CONTO, IN QUELLO CHE POTREBBE

ESSERE DEFINITO IL VORTICE DELLA MONDANITÀ.”

Jep Gambardella

Tra le molte usanze ritualistiche e scaramantiche che costellano il mondo

del teatro ce n’è una - cui pare non ci si possa comunque sottrarre - che

mi fa sempre un po’ d’orrore. È il famigerato “merda” da urlare a squarciagola

prima dello spettacolo quale augurio di buona fortuna (con corredo

di pacchettine al culo). Non v’è forse altra consuetudine che riassuma meglio

quel che Strehler aveva a scrivere in una famosa lettera immaginaria

al suo maestro Jouvet, ovvero che il teatro ha in sé qualcosa: «d’infame e

d’indegno, di vano e d’inutile». Ed è davvero così. Il teatro, più di ogni altra

arte, è un contraddittorio conglomerato di altezza e bassezza, di luce e

d’ombra, di brillantezza adamantina e merda. L’infamia del teatro però, a

ben vedere, non sta tanto nell’evocazione delle deiezioni quanto nel significato

originario di tale evocazione. È noto infatti (insomma, pare) che la

questione derivi dal fatto che - ai tempi in cui le compagnie erano composte

da guitti viaggianti - se le strade cittadine che si dirigevano verso il

teatro risultavano particolarmente lorde di escrementi di cavallo quello

fosse segno certo della presenza di una consistente moltitudine borghese

(che si spostava per l‘appunto in carrozza o a cavallo) e quindi di platea

piena. Oggi un misero parallelo potrebbe essere dato dal parcheggio introvabile

nei pressi della sala. Molto misero e per altro poco indicativo.

Insomma, per tornare a noi, “merda” vuol dire augurio di parecchio pubblico;

di successo. E segna pure un certo tipo di rapporto tra il Teatro e la

123/PALCHI


Città, il primo in una relazione da sempre necessaria quanto contraddittoria

con la seconda. Il teatro, in prima istanza, ha bisogno della città in

quanto è lì che può trovare la concentrazione di pubblico necessaria alla

sua esistenza. La città è spazio mondano per eccellenza. Subbuglio umano

e luogo di scambi, mercantili, simbolici e culturali, l’arte del teatro non

può sussistere nella privazione del pubblico ed è per questo che v’è una

tensione continua tra il Teatro e la Città. Una tensione a suo modo infame

che, pur essendo banalmente necessaria, nasconde continue insidie e pericoli

e, tra questi, alcune singolari, recenti criticità. Per parlarne userò un

esempio. Io abito in una piccola città. Per quanto piccola e provinciale

essa è pur sempre un centro. Al centro del centro sorge - come tradizione

vuole - il teatro, monolite architettonico che in questo caso specifico conserva

soltanto nella facciata il suo aspetto originario, mentre all’interno lo

spazio destinato al pubblico di platea e gallerie è stato recentemente ripensato

come un’imponente struttura in cemento armato che sta a simulare

una piazza urbana. Una specie di curiosa matrioska. Il teatro al centro

della piazza cittadina che al suo interno simula una piazza urbana

dentro la quale c’è un teatro e così via. Attraverso tale ridondanza strutturale

dell’edificio si sarebbe voluto indicare forse che il Teatro è Agorà,

luogo di riconoscimento e di confronto di una comunità. Ma a ben vedere

proprio tale eccedere monumentale sottolinea anche il timore che questa

nozione sia talmente sconosciuta ormai da doverne rimarcare la sostanza

in maniera enorme e pesante. Insomma, nelle arcate a portico in cemento

armato all’interno di questa sala si intravede anche il timor panico

che quella centralità del teatro inteso come spazio di confronto umano

non sia più riconoscibile in maniera così naturale. Ed è un timore assolutamente

fondato. Sono ormai lontani i tempi in cui, in strada, le montagne

di merda di cavallo indicavano la consistente presenza di pubblico pagante.

Nelle sale teatrali, nonostante le imponenti allegorie e i monumentali

rimandi alla loro antica funzione sociale, gli abbonamenti latitano e le sedie,

ad ogni funerale che colpisca qualcuna delle pellicciose, ottuagenarie

signore ancora abbonate, restano drammaticamente più vuote. È un fatto

abbastanza nuovo nella storia del teatro questo allentarsi del filo da sempre

teso tra attori e pubblico, tra Teatro e Città. Un fatto che porta conseguenze

davvero non trascurabili. Da una parte la città, e specialmente la

grande città, costituisce ancora un potente magnete per tutti gli artisti in

virtù della passata funzione di aggregatore delle intelligenze e di catalizzatore

del pubblico (quindi in funzione soprattutto quantitativa), dall’altra

essa si mostra all’atto pratico come una grande illusione che non può che

tradire le aspettative lasciando soltanto sopravvivere l’aspetto mondano

quale fantasma di ciò che fu. Il rischio è, per l’artista e nella fattispecie

124/PALCHI


Una specie di curiosa

matrioska. Il teatro

al centro della piazza

cittadina che al suo

interno simula una

piazza urbana dentro

la quale c’è un teatro

e così via.

soprattutto per il teatrante, la precipitazione nel sorrentiniano “vortice

della mondanità”, ovvero dell’inconcludenza festaiola che si sostanzia nella

ricerca affannosa del giusto sentiero che dovrebbe condurre da qualche

parte in quell’economia delle relazioni, molto nostrana e speranzosa,

in prospettive spesso fantasmagoriche che restano poi regolarmente

inappagate. Dall’altra parte però indica pure, in prospettiva, un affrancamento,

un allontanamento possibile del Teatro dalla Città. Se infatti esso

ha avuto bisogno della città soprattutto per

mere ragioni numeriche, quantitative, non ne

ha in fondo avuto mai troppo per quel che riguarda

l’ambito creativo. Anzi. Chi crea, chi immagina,

ha sempre anelato ad una condizione

di isolamento che consentisse l’assunzione di

uno sguardo distante e desiderante sulle cose.

Non è infrequente quindi vedere maestri di teatro

che creano i loro ambiti artistici più intimi

e personali in luoghi remoti, quasi inaccessibili.

Le zone più impervie dell’Umbria, per esempio,

per Dario Fo o Luca Ronconi o più recentemente

Peter Stein. Chi crea ha bisogno che vi

sia una siepe a oscurare lo sguardo sull’ultimo

orizzonte piuttosto che una continua immersione nel vociare confuso e

disordinato delle masse umane. Eppure, anche in questo caso v’è un rischio

mortale. Ed è il rischio dell’inconsistenza, dell’elitismo intellettualistico,

dell’abiura verso ciò che è sentimentalmente umano, della rinuncia

programmatica al parlare al cuore dell’uomo. Un disastro catastrofico che

getterebbe il teatro nell’ambito della più completa inutilità. In fondo quel

che si perde nel progressivo allentarsi di questo rapporto tra Teatro e

Città è proprio il senso ultimo del teatro. Un’arte che non può, per sua natura,

essere pura e adamantina. Che anzi deve, se vuole sopravvivere alla

storia, mantenere il suo rapporto perverso e problematico con il pubblico

e con le città da esso abitate. «Domani sarà il “pubblico”, vero, l’unico eterno,

uguale pubblico di sempre. Il vostro, il mio e quello di coloro che verranno

dopo di me come è stato quello di coloro che sono venuti prima di

noi» continuava il regista di Barcola nella sua struggente lettera al suo

antico maestro. Il senso del teatro è nell’umano. E l’essere umano non è

puro. È altezza estrema ed estrema bassezza insieme, e così il teatro deve

essere alto e nel contempo contenere in sé l’infame e l’indegno. Come la

vita dell’uomo. Un teatro senza la sua merda sarebbe un diamante, brillante

e perfetto, ma senza vita. Perché per dirla con De André, dai diamanti

non nasce niente, è dal letame che nascono i fiori.

125/PALCHI


Lucca. Piazza Anfiteatro

Foto di Marcello Francone


LA CITTÀ E I SUOI SEGNI

ALESSANDRO PERTOSA


Di soglie che aprano,

che spalanchino sguardi.

Di spazi che si sappiano

abitare. Perché è

questo il punto: si smette

di abitare e si finisce

per risiedere.

E a forza di risiedere,

hai dimenticato che

abitare è un gesto

comunitario.

Le città sono luoghi densi di significati, di parole, di segni che si sedimentano

nei secoli e ne costituiscono l’essenza, l’identità. Ogni corso, ogni piazza,

ogni angolo racconta una storia, evoca immagini gloriose e suscita emozioni.

Il viandante, il pellegrino, oggi sempre più turista, si immerge in un

groviglio di strade, incrocia grumi di gente: occhi su occhi sfuggenti, masse

perennemente in ritardo, di corsa, o spazientite ai semafori: rossi, sempre

più rossi e lenti. Uomini e donne stufi, spesso

angosciati e coi nervi a pezzi. Ma è lì – si

dice – è lì che accadono le cose. È lì che

passa la storia, quella che lascia un segno.

Quella che ti rende immortale. Mentre l’odore

di benzina addosso e le polveri sottili

ti asfaltano i polmoni. E tu finisci per dimenticare

i sapori del giorno, i colori del cielo, il

dolce brillio delle stelle. Però fa niente – ti

ripetono – perché se vuoi farcela, se vuoi

scalare il vertice della piramide sociale,

devi stare lì. Tra catrame e cemento. Lì, nel

tuo appartamento, appartato, separato dagli

altri. Lì dove tutto accade e tu hai pur

sempre un futuro, dicono.

Però, se scavi e vai a vedere tra le pieghe,

in questo panorama urbano così ricco di

opportunità, si cela una contraddizione intrinseca:

la città, pur essendo il cuore pulsante

della vita contemporanea, rappresenta spesso un freno alla novità

creativa. Perché lì in città, lì dove tutto accade, le mode, le tendenze e le

dinamiche sociali dettano legge: l’apparenza e l’omologazione diventano

valori predominanti, e l’innovazione rischia di essere soffocata da un bisogno

costante di uniformità. E poi, per creare c’è sì bisogno di solitudine, ma

128/PALCHI


di una solitudine produttiva. Una solitudine fatta di dialogo con la natura, di

sguardi benevoli: non di separazione e di muri, ma di soglie abbiamo bisogno

per evolvere culturalmente. Di soglie che aprano, che spalanchino

sguardi. Di spazi che si sappiano abitare. Perché è questo il punto: si smette

di abitare e si finisce per risiedere.

E a forza di risiedere, hai dimenticato che abitare è un gesto comunitario.

Rimanda a un linguaggio disperso. E non sembri farci nemmeno caso all’assedio

che ti inchioda fra le mura del tuo appartamento. Anzi, felice d’una

felicità meschina, corri a popolare sempre più le metropoli squadrate, fino

a disperderti nel folto di casermoni ostili, senza accorgerti di aver suicidato

la tua umanità nel pozzo cavo di quei sogni precipitati, ormai densi,

schiantati sul bitume liscio e lurido delle strade infuocate. E ha ragione

Caproni quando scrive:

- C’È PIÙ LIBERTÀ IN CARCERE O IN CITTÀ?

- NON CE N’È LIBERTÀ. È CARCERE L’INTERA CITTÀ…

Ora, si badi bene, è anche importante scindere, precisare, senza voler esprimere

affermazioni definitive. La creatività non è monopolio esclusivo delle

piccole comunità, né si intende qui fare un’apologia del mondo rurale. Ogni

contesto ha le sue peculiarità e le sue possibilità d’esistenza. La città offre

un’ampia gamma di stimoli, certo: incontri e risorse che possono dare origine

a fenomeni culturali di grande impatto. Ma resta il punto: i cambiamenti,

le novità nascono spesso lontano dai riflettori delle metropoli. La provincia,

con i suoi ritmi più lenti e la sua dimensione a misura d’uomo, diventa

il luogo ideale per coltivare talenti e dare spazio a nuove prospettive. Qui,

lontano dalla frenesia e dalle pressioni conformiste dei grandi centri, l’individuo

trova spesso maggiore libertà di sperimentazione e innovazione. E

allora, nel nostro tempo, abitiamo il paradosso di una civiltà urbana, che

trae linfa e vita dalla periferia più lontana.

129/PALCHI


#album

GIANFRANCO GARAVELLI

130/VISIONI/album


MILANO IN MOVIMENTO:

ISTANTANEE

Nel cuore pulsante di Milano, città

che ha visto nascere l'avanguardia

futurista, ho voluto catturare

l'essenza stessa della frenesia

e del dinamismo urbano.

Come un moderno interprete del

futurismo, ho trasformato il caos

della metropoli in foto che celebrano

il movimento, la velocità e l'energia

inarrestabile della vita cittadina,

riprendendo tutti i capisaldi

dell’arte futurista, auto, aerei,

treni, qualunque cosa esprimesse

l'animazione, il traffico, il viavai.

Camminando per le strade trafficate

di Milano, ci si immerge in un mondo

di azione costante. Le fotografie

hanno catturato istanti fugaci di

gente che cammina veloce, tram

che sfrecciano attraverso le vie della

città, e aerei che solcano il cielo

sopra la testa degli abitanti. Ogni

scatto è un tributo alla frenetica

coreografia della vita urbana, un'ode

alla bellezza effimera dei momenti

che sfuggono troppo in fretta.

La Stazione Centrale di Milano

diventa un palcoscenico per le

composizioni, dove le persone si

muovono come attori in una pièce

teatrale urbana. L'incessante flusso

di viaggiatori, l'odore del caffè

appena macinato e il suono delle

voci che echeggiano tra i binari

si fondono insieme, creando un

ritratto vivo e vibrante della stazione

ferroviaria più famosa d'Italia.

Anche le fermate della

metropolitana diventano un luogo

di ispirazione, con l'energia pulsante

dei passeggeri che scendono

e salgono le scale, immersi nei

loro pensieri e nelle loro vite

affaccendate. Ogni immagine

è una finestra aperta sulla

complessità della vita urbana, un

riflesso delle molteplici sfaccettature

di una città in costante evoluzione.

Attraverso queste foto istantanee,

invito a riflettere sulla natura stessa

della modernità.

Milano, con la sua vitalità, diventa

un perfetto palcoscenico di temi

futuristi, che ho provato a

catturare come l'essenza stessa

di questa metropoli in continua

trasformazione.

In conclusione, queste foto sono

molto più di semplici immagini;

sono testimonianze visive

dell'energia di Milano, città che

continua a ispirare e affascinare

generazioni di artisti e pensatori.

Attraverso questo lavoro, vorrei

portare il pensiero che anche

nel delirio cittadino c'è bellezza

da trovare e apprezzare, se solo

abbiamo occhi per vederla.

131/VISIONI/album


132/VISIONI/album


133/VISIONI/album


134/VISIONI/album


135/VISIONI/album


136/VISIONI/album


Gianfranco Garavelli è da decenni

un'eccellenza nel mondo

dell'informatica (è consulente

certificato Apple, e docente ACMT),

ma è il suo lato più analogico e

poetico a definirlo.

Nasce infatti come disegnatore,

e la passione per la fotografia e per

l'arte tutta modellano il suo percorso,

che approda agli scatti istantanei

in contrapposizione al bulimico

mondo digitale in cui ci troviamo.

L'ultima collettiva alla quale ha

partecipato è stata Auto-ritratto #3,

Firenze, Onart Gallery, nel maggio

2023. www.instax240.com

137/VISIONI/album


LA VOLUMETRIA

IMPOSSIBILE

Architetture impossibili,

disegno, 2014 © Paola Ricci.

La città si sviluppa e sottende

alla possibilità di realizzare un

agglomerato autonomo ma

anche imprevedibile, dalle forme

e le volumetrie che rimandano a

stilemi antichi non avulsi.

138/VISIONI


PAOLA RICCI

L’espansione a cipolla: bellezza e fluidità tra le costruzioni storiche

e quelle contemporanee

La città è un contenitore, che racchiude ciò che è svelato ma anche nascosto.

Quest’opposizione è data da una conformazione intrinseca della città

che può apparire come i diversi strati di una cipolla: ogni livello fa aumentare

il volume, il centro è il punto da cui rivivono la foglia e la pianta.

Ciò che sorge dal centro della città sono le forme dell’architettura in cui

niente è effimero o di volatile apparenza. Sono le costruzioni primigenie e

tutto sembra di una serena essenzialità, gli edifici sono inizialmente costruiti

in una geometria che può svelarsi asettica ma poi il tempo rivelerà, attraverso

una documentazione quasi da antropologo, che il mutamento è

avvenuto anche nel paesaggio circostante.

Renzo Piano, quando parla dell’architettura, la definisce un’arte che ha il

compito di costruire edifici, quindi di assolvere ad una funzione concreta.

Potrebbe allora esistere un’architettura impossibile in città? Immaginare

cioè edifici che sembrano inattuabili, che sembrano poter essere solo pensati

e disegnati e inserirli nel tessuto cittadino?

Ideare costruzioni impossibili, attraverso disegni avveniristici, e poi cercare

le soluzioni di calcolo e statica necessari alla costruzione può apparire

come un discorso effimero di concetti contrastanti, invece sarà la nuova

frontiera dell’architettura.

Rendere belle le varie parti della città è importante: ricevere stimoli positivi dal

luogo trasformato migliora il viverci. Questa idea dovrebbe essere alla base di

ogni progetto, per ricordare come l’incanto ci nutra e ci serva per stare meglio.

La città dovrebbe essere liberata dalla sola funzione di contenere case

concepite come spazio protettivo. Trattare il centro storico soltanto come

un contenitore di necessità sociali può provocare un distacco dalla storia

e far dimenticare l’importanza di una bellezza cittadina: intervenire sull’urbanistica

dei centri storici è un’azione delicata che ha bisogno di conoscere

perfettamente l’evoluzione che la città ha subito nel tempo; occorre

sfogliare i diversi strati della cipolla senza che ogni livello sia eccessivamente

distanziato dal precedente e dal successivo. La cipolla va aperta e tenuta

compatta nello stesso tempo e quindi, forse, le architetture impossibili

139/VISIONI


Architetture impossibili,

disegno 2014 © Paola Ricci

sono quel che serve per creare costruzioni che segnino i passaggi tra una

forma e l’altra e tra i volumi, che rilascino un pensiero emotivo. Allora lo

spazio manifesterebbe il senso dell’evoluzione e non risponderebbe ad un

sistema convenzionale; l’intervento dell’architetto e dell’urbanista può così

diventare l’avvio di una rivoluzione mentale costruttiva che non ha tempo.

“LA MIA ARCHITETTURA NON È CONCEPITA PER PIANI,

MA NELLO SPAZIO. DI UN EDIFICIO NON PROGETTO I PIANI,

LE FACCIATE, LE SEZIONI. PROGETTO GLI SPAZI. PER

QUANTO MI RIGUARDA, NON ESISTE ALCUN PIANO TERRA,

PRIMO PIANO, ECC. … PER ME, ESISTONO SOLTANTO SPAZI

CONTIGUI, SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ, STANZE,

ANTICAMERE, TERRAZZE, ECC. I PIANI SI FONDONO E GLI

SPAZI SI RELAZIONANO GLI UNI CON GLI ALTRI.”

Adolf Loos

Lo spazio è il riassunto del tempo e un’architettura per la città non dovrebbe

concentrarsi solamente sull’efficienza, ma esplorare come il luogo di un

edificio dialoghi anche con lo spazio di quello attiguo come fosse un suono

che si amplifica e poi si assottiglia.

140/VISIONI


Impossible Drawing -

Impossible Architecture

©Paola Ricci

Quando la linea sviluppa

volumetrie che appaiono

impossibili.

“L’ESPERIENZA SPAZIALE PROPRIA DELL’ARCHITETTURA

SI PROLUNGA NELLA CITTÀ, NELLE STRADE E NELLE

PIAZZE, NEI VICOLI E NEI PARCHI, NEGLI STADI E NEI

GIARDINI, OVUNQUE L’OPERA DELL’UOMO HA LIMITATO

DEI VUOTI, HA CIOÈ CREATO DEGLI SPAZI RACCHIUSI”

Bruno Zevi

Insistere con queste configurazioni abitative chiuse, dove il vuoto non è

trattato come elemento importante nella progettazione, conduce solamente

alla creazione di scatolette poste su un ripiano in modo ordinato. Nello

spazio vuoto c’è l’aria, il vento, l’acqua e tutto ciò non ha limiti, è l’architettura

che gioca con questi elementi e costruisce il vuoto.

Studiare le realtà rurali permette di comprendere come le mutazioni che la

città ha subito nel tempo sono a loro volta instabili. Il vuoto si è reso disponibile

a essere modellato, le strade sterrate sono state trasformate nei secoli

in super vie di collegamento, con metropolitane sotterranee e continue sovrastrutture

che, se non trovano spazio, si sovrappongono fino ad innalzarsi.

Ci sono film che ci ricordano l’urbanistica del passato, ad esempio Sergio

Leone per C’era una volta in America ha cercato a lungo la giusta location in

luoghi che avessero mantenuto un’integrità architettonica storica, in Ameri-

141/VISIONI


Tiksi. Idea di progetto Caverna

Capovolta, disegno e foto

©Paola Ricci

Tiksi. Idea di progetto Caverna

Capovolta, disegno ©Paola

Ricci

Tiksi. Idea di progetto Caverna

Capovolta, foto ©Paola Ricci

Tiksi. Idea di progetto Caverna

Capovolta, disegno ©Paola

Ricci

Vedendo questa città a me

sconosciuta, ho pensato ad un

progetto ispirato ai disegni di

scultura abitativa intitolato La

caverna capovolta,

presentato all’Omi

International Arts Center

di Hudson Valley (New York,

USA) nel 2009. Il ritrovamento

di una dimensione interiore ed

emotiva lascia immaginare

architetture innovative e

futuribili: proiezioni

multicolore sulle case in

demolizione, pareti dipinte su

quelle in costruzione; soluzioni

per “famiglie allargate” e per

l’isolamento, con navicelle

situate sopra e sotto la

superficie del terreno.

ca ma anche in Florida, fino agli studi di Cinecittà in Italia. E ci sono film come

Blade Runner, che al contrario, hanno un’ambientazione proiettata al futuro

(che nel 1982 era il 2019). La storia si svolge in una Los Angeles avveniristica

e Ridley Scott sceglie di usare set di architettura industriale antica come il

Bradbury Building del 1896, la Union Station in South Alameda Street, aperta

nel 1939, ed Ennis-Brown House, ideata da Frank Lloyd Wright nel 1924.

Colpisce come il futuro architettonico possa essere immaginato attingendo

dall’architettura del passato e lo stesso trascorso rimanga preservato

nel contemporaneo della città. La doppia valenza di profili architettonici del

passato è data da come sono stati realizzati gli edifici: se coerenti col tempo

oppure se integrati in un pensiero non convenzionale.

La riflessione avveniristica è allora vicina al concetto dell’impossibile?

Le forme impossibili nascono in realtà dalla possibilità dello sguardo umano

di immaginare una particolare configurazione in un ambito cittadino del

presente, uno schema rivolto a un modello dove la struttura costruita sembra

stravagante, cioè che divaga, esce dai limiti, dalla consuetudine.

“GUARDARE ALLA SEZIONE DI UN QUALSIASI PIANO

DI UNA GRANDE CITTÀ È COME GUARDARE QUALCOSA

DI SIMILE ALLA SEZIONE DI UN TUMORE FIBROSO.”

Frank Lloyd Wright

Questa frase espone un punto di vista certamente inconsueto.

La terra di scambio: uno spazio vuoto tra le città

e un’architettura di relazione

I greci chiamavano gli uomini oi brotoi (oι βροτόι), i mortali e gli animali ta

zoa (τα ζῶα), i viventi, perché ritenevano che soltanto gli uomini avessero

coscienza del morire, e avvertissero la fugacità della loro permanenza sulla

terra. Questa fugacità è sicuramente una delle spinte che portano a

progettare e realizzare opere impossibili, come se la sfida possa prolunga-

142/VISIONI


re la nostra permanenza sulla terra dopo la morte. Lo sviluppo di un pensiero

per una città visionaria accede a quella profondità emotiva di perdere

il controllo delle azioni, il segno dello schizzo di case e sviluppi

urbanistici sembra fluttuare sulla carta senza nessun ancoraggio ben preciso

ma non toccare il fondale del mare aperto è forse l’unica condizione

per avere un autentico pensiero alternativo.

Abbiamo visto come uno sviluppo costruttivo e di urbanizzazione di una

città comporti molto spesso un allargarsi da un fulcro centrale a raggiera,

senza riuscire a definire un confine preciso tra urbanizzazione e distese

abbandonate. Esiste, come dire, uno spazio di mezzo tra la città e il successivo

nucleo cittadino. Nel passato sicuramente vi era una demarcazione

del terreno di proprietà abbandonata alla natura che divideva le diverse

città attraverso boschi, laghi, fiumi, distese di campagne, deserti. Ora quello

spazio vasto è stato prosciugato e le città sono attaccate senza un’interruzione,

senza una pausa e l’occhio non si riposa non vede differenze, si

adatta a una continuità a dir poco noiosa. Potremmo chiamarla mancanza

di terra di scambio.

Per ritrovare questi spazi di confine occorre viaggiare verso luoghi dimenticati

o sconosciuti, immaginarsi una terra estesa, dove non vi siano indicazioni

dell’inizio di una città e poi di un’altra. La natura grandiosa può essere

un diverso contraltare. Non lasciare uno spazio di mezzo libero tra città e

città significa non stabilire un posto per elaborare un’architettura impossibile,

qualcosa d’inaspettato che ha bisogno di aria e al contempo funga da

raccordo.

L’essere viaggiatore è stato sempre fonte di ricchezza per l’uomo visionario

che crea parallelismi formali e configurazioni architettoniche attinte dai

vari luoghi visitati. Così l’Egitto lo ritroviamo nella Roma antica, ora incastonata

nella metropoli moderna. La forma dell’obelisco, simboleggiante il Dio

del Sole Ra, si trova nel centro di Roma con la sua linea protesa verso il

cielo. L’Obelisco della Minerva, ritrovato casualmente nel 1665, non si sa

come e quando, fu trasportato dall’Egitto a Roma, posizionato alle spalle del

143/VISIONI


Chanel Mobile Art Pavilion,

Zaha Hadid, Parigi.

Foto ©Paola Ricci

Pantheon e in seguito dotato del basamento a forma di elefante forse ispirato

ai lavori del Bernini. Dalla piazza della Minerva è affascinante porsi

davanti all’obelisco e vedere in fondo il Pantheon, la struttura architettonica

cilindrica è inserita tra gli altri edifici, da questo punto di osservazione

la cupola racchiude la cattura della spinta verticale dell’obelisco verso il

sole e la parte esterna retrostante del Pantheon mostra la circolarità che

si ritrova all’interno.

Ecco che essere viaggiatori nel passato ha determinato la realizzazione di

architetture in cui gli stilemi si sono mescolati, comportando una trasformazione

per la città, rendendola particolare; mescolare e tenere a stretto

contatto forme architettoniche completamente diverse sono il risultato di

un’urbanizzazione impossibile, imprevedibile, visionaria.

L’uomo allora ha di fronte la presenza simultanea di due diverse possibilità

emotive: sentirsi parte in una città multiforme e punteggiata di “vuoti”,

oppure volersi circoscrivere in un luogo chiuso. Un piccolo agglomerato di

poche case, una metropoli o un’unica abitazione possono essere il luogo di

uno spazio elastico che si allunga e si restringe in base al reale rispetto che

144/VISIONI


l’uomo mantiene verso la natura. Dopo aver costruito la città l’uomo deve

anche permettere alla comunità di trovarvi un senso di accoglienza, allora

lo spazio sarà pensato in modo che le dimensioni cementificate comprendano

anche lo spazio “vuoto” e lo spazio di relazione. Le zone di frontiera

sono ad esempio luoghi dove si confrontano popoli diversi; sono territori

affascinanti dove possono avvenire incontri e nascere comunità, altre volte

purtroppo sono luoghi di scontro e di guerre come avviene nelle periferie

o nelle favelas.

Kenneth Frampton, famoso architetto, si chiede se le costruzioni delle periferie

delle città e delle zone della favela dove vive la gente povera, sono

anche queste da considerarsi architettura.

I luoghi periferici diventano spazi che vanno osservati come specchio di

problemi sociali, demografici, politici ed economici. L’architettura qui è limitata

ed impotente, incapace di agire davanti a questi aspetti. Occorre

richiedere agli architetti di avere presente quest’accadimento, occorre “uno

spazio pubblico di aspetto”, come diceva la filosofa Hannah Arendt.

Yvonne Farrell e Shelley McNamara, curatrici della Biennale di Architettura

del 2018, hanno espresso la motivazione illuminante che ha decretato il

Leone d’oro alla carriera a Frampton: “Attraverso il suo lavoro Kenneth

Frampton occupa una posizione di straordinaria intuizione e intelligenza,

combinata con un senso d’integrità unico. Si distingue come la voce della

verità nella promozione dei valori chiave dell’architettura e del suo ruolo

nella società. La sua filosofia umanistica, in relazione all’architettura, è radicata

nella sua scrittura e ha costantemente argomentato questa componente

umanistica attraverso tutti i vari ‘movimenti’ e tendenze dell’architettura,

spesso fuorvianti, nel XX e XXI secolo”. Quest’aspetto di umanità

Padiglione Australia/

Grasslands Repair. Biennale

Architettura 2018. FREESPACE.

Foto ©Paola Ricci

145/VISIONI


applicato al pensiero architettonico è di difficile trascrizione nella realizzazione

di volumi costruttivi, però è un elemento importate da tenere presente

anche nel discorso di realizzare un‘architettura impossibile, perché

non deve essere solo la sovrabbondanza o l’eliminazione degli elementi

costruttivi che determina l’essere visionari, il senso umanitario deve bilanciare

e sottendere all’essere imprevedibili.

Nelle trasformazioni architettoniche di luoghi apparentemente abbandonati,

posti in zone remote, occorre tutelare la connessione emotiva tra natura

e sviluppo abitativo. Portiamo l’esempio della città di Tiksi, collocata in

zona portuale, che si trova sul punto più a nord della Russia. La città è

stata fondata nel 1933. In epoca sovietica era considerata come il luogo più

promettente. Nel corso del tempo la gente si dirigeva lì per la vita romantica

e con stipendi piuttosto buoni. I tempi sono cambiati, il mondo è mutato,

e Tiksi si è modificata, non conserva più i resti della gloria sovietica,

basta dare uno sguardo agli edifici: le case, rimaste senza i proprietari, sono

andate deteriorandosi sotto la pressione del tempo e del clima freddo artico.

La speranza è che Tiksi sia diversamente ricostruita nel prossimo futuro

perché si prevede che quel territorio assuma sempre più importanza

per via di un nuovo sviluppo delle rotte verso il nord, unitamente ad una

trasformazione dovuta al riscaldamento globale. Si è considerato, in un

progetto chiamato La caverna capovolta, di proiettare immagini sulle pareti

delle case, in fase di demolizione, disegni colorati che cangiano durante il

giorno e la notte, quasi a moltiplicare paesaggi e riflettere le luci di aurore

boreali continue. Si è ipotizzato di costruire abitazioni simili a palafitte sospese

che avranno spazio tanto per isolarsi ad ascoltare la propria anima,

quanto per la coabitazione: le case saranno progettate come abitazioni di

“famiglie allargate”, riconoscendo che nell’esilio planetario della globalizzazione,

tutti gli stranieri sono residenti.

La progettazione di opere architettoniche prevede la consapevolezza che

lo spazio occupato dagli edifici sia un campo fluido dove l’uomo possa percepire

le diverse altezze, quelle storiche con quelle moderne. Amalgamare

146/VISIONI


DNA Design and Architecture.

Repubblica Popolare Cinese.

Biennale Architettura 2018.

FREESPACE. Foto ©Paola Ricci

Gumuchdjian Architects. Gran

Bretagna. Biennale

Architettura 2018. FREESPACE.

Foto ©Paola Ricci

Kazuyo Sejima + Ryue

Nishizawa/ Sanaa Giappone.

Biennale Architettura 2018.

FREESPACE. Foto ©Paola Ricci

la città antica con quella contemporanea è il compito degli architetti e degli

urbanisti di oggi. Zaha Hadid ha dichiarato a proposito del suo progetto del

Mobile Art Pavilion a Parigi: “Penso che attraverso la nostra architettura,

siamo in grado di dare alle persone l’assaggio di un altro mondo, e coinvolgerle

rendendole entusiaste delle nuove idee. La nostra architettura è intuitiva,

radicale, internazionale e dinamica. Siamo attenti alla costruzione

di edifici che evocano esperienze originali, una sorta di stranezza e novità

che è paragonabile all’esperienza di andare in un nuovo paese. Il Mobile Art

Pavilion segue questi principi d’ispirazione”. Quello che traspare in questo

lavoro della Hadid posto di fronte all’Istituto del mondo arabo a Parigi progettato

dall’architetto Jean Nouvel, è l’imprevedibile effetto visivo del contenitore

e del suo contenuto. La sensualità della forma è data dal corpo che

rasenta la scultura. È il risultato di studi di modellazione digitale che danno

maggiore logica all’aspetto fluido della progettazione architettonica che

confluisce nel mondo biologico, come quando si osservano organismi al

microscopio, che disconosce la serialità che la contraddistingue nell’elaborare

l’architettura industriale del XX secolo.

Funzionalità, natura e benessere

Ritornando al discorso iniziale del senso di protezione che una città dovrebbe

emanare rispetto al vivere in un luogo isolato, è essenziale capire quale sia il

ruolo dell’architettura. Le città si espandono continuamente e questo non è

sempre un elemento deplorevole, quello che conta è cosa regoli questa

espansione. Non può esserci un proliferare selvaggio di costruzioni, il pensiero

architettonico deve lavorare nella direzione del benessere coesistente

dello spazio pubblico e privato. Se pensiamo alle periferie delle nostre città

dove si sono costruiti solo ampi volumi abitativi e non si è pensato ad uno

spazio pubblico di raccordo, si comprende come sia necessario che architetti

ed urbanisti riflettano su una progettazione più visionaria e legata alla funzionalità,

alla bellezza e all’appagamento, più che sulla mera fenomenologia

dello sfruttamento dello spazio che l’istituzionale spesso spinge a realizzare.

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Dorte Mandrup. Biennale

Architettura 2018. FREESPACE.

Foto ©Paola Ricci

Le già citate Yvonne Farrell e Shelley McNamara sono state le vincitrici

del Premio Pritzker per l’architettura nel 2020 e del RIBA Stirling nel 2021

per il progetto della Town House, il nuovo edificio polifunzionale per la formazione

superiore della Kingston University di Londra. Secondo la dichiarazione

della giuria, la Town House “favorisce sapientemente lo spirito di

apprendimento e il valore di coesione della comunità”. A nome della giuria,

il presidente Lord Norman Foster descrive questo edificio come “un teatro

per la vita ... [in quanto] riunisce in una soluzione di continuità spaziale le

comunità degli studenti e la cittadinanza, creando un modello innovativo

per l’istruzione superiore”.

Questo duo di architetti ha posto molta attenzione allo spazio, alla natura

e al desiderio di svolgere un’azione pedagogica con le nuove generazioni,

comprendendo che se non si trasmettono i principi e le metodologie ai

giovani, si perde la storicità di ogni passaggio epocale, di ogni cambio di

visione estetica che avviene.

Il tema della Biennale di Venezia del 2018 è stato FREESPACE e l’idea del

titolo si basava su alcuni concetti chiave:

-LA QUALITÀ DELLO SPAZIO.

-L’ARCHITETTURA CHE SI PONE DI DONARE SPAZI LIBERI,

ANCHE IN QUELLO PRIVATO.

-ENFATIZZARE I DONI GRATUITI DELLA NATURA.

-LA LUCE DEL SOLE.

-L’ARIA E LA FORZA DI GRAVITÀ, L’ACQUA.

-LE RISORSE NATURALI E QUELLE ARTIFICIALI.

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Questo perché costruire architetture che attingono a un’idea di Impossible

Drawing può essere una nuova frontiera di pensiero sinestetico e questi

concetti chiave sono importanti per sviluppare idee laterali e non convenzionali,

per costruire nuovi profili architettonici che realizzino un’urbanizzazione

innovativa in cui la pariteticità tra natura e uomo sia preponderante,

in cui contemplazione e rispetto della natura siano requisiti

fondamentali.

Quando Yvonne Farrell e Shelley McNamara dicono: “CONSIDERIAMO

LA TERRA IL NOSTRO CLIENTE”, riescono in pieno a racchiudere la

semplicità e nello stesso tempo la complessità del problema sollevato, perché

si tratta di un processo di difficile attuazione e che non accetta sviluppi

improvvisi.

La natura è la manifestazione comprovata che ha ispirato molti architetti e

urbanisti per costruire città ed abitazioni; molti studi hanno evidenziato come

la semplice nervatura di una foglia, la disposizione dei rami sugli alberi o la

formazione di vortici nell’acqua, la struttura interna delle conchiglie e altro sia

stato ripreso dagli architetti per realizzare opere costruttive. Una perfezione

matematica interna che, se imitata, elimina la necessità di forme sovraccariche

e strutture ridondanti che partono dai principi metafisici dell’uomo.

I piani ondulati o curvilinei, il senso del “tra”, delle situazioni intermedie,

delle progressioni lente, del movimento, sono tutti elementi della nuova

architettura che richiamano il ritmo e le azioni della natura.

L’effetto della curvatura è ottenuto anche realizzando la modulazione di

un unico elemento che si trasforma come, per esempio, nel progetto dello

studio di Dorte Mandrup dell’Icefiord Centre a Ilulissat. La struttura è in

legno ed è progettata come una capriata che collega il paesaggio aspro

“tra” due punti distanti, fluttua leggermente sopra di esso, curvando oltre il

bordo della valle di Sermermiut, offrendo una vista spettacolare e indisturbata

sulla valle e sul ghiaccio. La struttura è coperta da una passerella di

legno curvata leggermente e inclinata.

La forma curva è la forma organica per eccellenza, il museo Guggenheim di

Bilbao, progettato dall’architetto statunitense Frank O. Gehry, ne è un esempio

emblematico: non esiste una sola superficie piana in tutta la struttura.

Quello di Gehry è stato un modello di difficile assimilazione, era una stravaganza

d’inusuale posizione nel tessuto cittadino, un’architettura tondeggiate,

più costosa di quella lineare risultava superfluo, ma questo è il senso

della visione, queste sono le architetture impossibili che i geni dell’architettura

rendono possibili.

Il Guggenheim di Bilbao ha la peculiarità di apparire diverso a seconda del

punto di vista: dal fiume richiama una nave, i pannelli brillanti sembrano le

squame di un pesce, mentre visto dall’alto assomiglia ad un fiore. La possibilità

di utilizzare sistemi di simulazioni computerizzate ha dato modo di

149/VISIONI


Croazia-Cloud Pergola/The

Architecture of Hospitality.

Biennale Architettura 2018.

FREESPACE.

Foto ©Paola Ricci

Padiglione Italia. Mario

Cucinella Architects. Biennale

Architettura 2018. FREESPACE.

Foto ©Paola Ricci

realizzarlo come lo vediamo, è il prodigio della tecnologia e del progresso

che permettono di realizzare anche l’irrealizzabile, come appunto le architetture

impossibili.

Lo scarto tra tempo storico e futuro tecnologico apre nuovi orizzonti e

permette di progettare qualcosa d’innovativo, ma allora ciò che è ritenuto

impossibile nel passato ha in seno la possibilità di essere realizzato in un

futuro prossimo, e la volontà umana parallela allo sviluppo tecnico consente

di realizzare l’impensabile, discutendo anche l’eventualità di un’economia

architettonica impegnativa.

Frank Gehry, ritenuto un architetto del decostruttivismo moderno, è fra chi

è riuscito a realizzare edifici del presente che ci proiettano direttamente nel

futuro, avvicinandoci concretamente all’idea delle architetture impossibili.

Egli mostra come le forme non debbano essere per forza geometriche per

essere realizzate, la materia è mobile e le proporzioni possono essere ricalcolate,

questo abbraccia contemporaneamente l’audacia e il funzionamento.

E l’audacia per essere compresa deve andare a toccare l’emotività

visiva. Gehry definisce i suoi lavori delle sculture abitabili, modellando materiali

non convenzionali come il titanio, il vetro ed il legno curvato, mantenendo

costante il dialogo con lo spazio circostante: è molto importante che

questi edifici mantengano un dialogo con le costruzioni circostanti e diventino

luoghi di unione sociale e non spazi avulsi dalla comunità della città.

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Conclusioni

Dall’espansione estrema delle città che aumentano di volume come una

cipolla, ragionando sulla necessità di recuperare terre di mezzo e dialogo

con la natura, vedendo come sia fonte di benessere l’uso di un’architettura

di raccordo tra un passato storico e le possibilità tecniche e tecnologiche

del futuro, vediamo come la realizzazione di architetture impossibili dipenda

dalla capacità visionaria di mettere insieme tutti questi elementi da

parte di alcuni architetti.

È la “non-architettura” del decostruttivismo che apre un orizzonte interessante

nel panorama della città. Senza geometria sembra che l’architettura

non possa esistere e si sfaldi, invece evidenzia la plasticità dei volumi e una

nuova visione dello spazio architettonico. Le opere sembrano instabili con

frammenti che si sovrappongono, volumi deformati e tagli nella materia,

asimmetria e apparente perdita di canoni estetici. Decostruire quello che

è costruito è il pensiero filosofico, è il risultato, è un’architettura, dove l’ordine

sta col disordine.

Sarà il tempo a determinare cosa è l’architettura nelle città attuali se ha

creato dei salti futuribili o ha realizzato qualcosa per cui è tornata a stilemi

antichi, quello che è certo è che avere un pensiero laterale che porti a pensare

e disegnare delle architetture impossibili determina quel balzo in avanti

tra tecnologia e visione emotiva delle città che abiteremo.

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Queste immagini sono il risultato di

una ricerca condotta da Paola Ricci

durante una residenza artistica

presso il Vermont Studio Center

nell’anno 2016.

Trasferita al centro su invito da

parte del comitato scientifico del

Vermont Studio Center per una

residenza di un mese, Paola realizza

diversi progetti nello spazio a sua

disposizione: una stanza ampia dove

il silenzio e la vista su un paesaggio

autunnale permette di trovare forme

espressive di cui rimangono

passaggi di ricerca che stanno tra lo

sguardo rivolto al passato, a

realizzazioni degli anni 2000, e

quello invece rivolto al futuribile.

I muri bianchi ispirano disegni a

grafite di grosse dimensioni, transitori

perché poi rimossi ridipingendo di

bianca pittura per il nuovo artista che

andrà ad occupare lo studio.

La ricerca verte sulle città

immaginate in dialogo con la

realizzazione di edifici inattesi e

sorprendenti. Il disegno elabora sul

piano bidimensionale e poi prende

volumetria con la carta consolida.

Allora perché parliamo di volumetrie

impossibili, dato che si può passare

dal disegno a una realizzazione

tridimensionale?

Il concetto di impossibile è legato in

realtà al pensiero che tale creazione

non possa trovare spazio in una città

o trovi difficoltà di costruzione.

Diventa una sorta di dubbio

iperbolico della materia

architettonica, qui plasmata da

semplici dita che muovono la carta

bianca e la inanellano unendola in

punti diversi, anch’essi mobili.

Il disegno sul muro è una possibile

narrazione, una visione, poi la

mano modella la carta per definire

i pieni ed i vuoti, ed è in questo che

le volumetrie si manifestano, nella

consapevolezza che potrebbero

essere realizzate come nuovi

spazi abitativi e di associazione,

in una città che chiede sempre

nuove espressioni edificabili che la

raccontino.


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Hundertwasserhaus

e la città felice

MARTA SILENZI

Friedensreich Hundertwasser è

un artista, cioè una persona che

esprime i propri pensieri e le

proprie ideologie in forma d’arte.

Friedensreich Hundertwasser è

un artista, un ecologista ed un

“medico-architetto”, le tre sfere

sono saldamente legate e ogni sua

produzione è pittura, propaganda

e progetto.

Rientra tra le schiere di personaggi

“allergici all’uniformità del mondo”

(pensiamo a Marcel Duchamp,

John Cage, Joseph Beuys), che si

sono opposti ai grandi movimenti

conformisti per proporre visioni

intuitive, libere e geniali.

Sin dagli esordi la sua condotta

prevede happening, letture

manifesto, performance, affiancati

da produzione pittorica o grafica

(oli, acquarelli, locandine,

francobolli), tutto per muovere

le coscienze e stimolare le visioni,

ampliare gli orizzonti di quanti

si erano fermati al razionalismo

e non concepivano più il diritto

alla bellezza individuale, difforme.

Stiamo parlando dell’Austria dagli

anni settanta in poi e di una vera

opposizione alla linea retta, che

Hundertwasser ingaggia con l’aiuto

di un impresario altrettanto geniale

come Joram Horel ed esporta a

tutto il mondo.

Per comprendere quanto l’artista

si propone, basta leggere i titoli

dei progressivi manifesti alla base

delle sue azioni: Sull’ammuffimento

contro il razionalismo in architettura;

Il diritto alla finestra – il dovere

dell’albero; Via da Loos (con

riferimento ad Adolf Loos che

ai primi del novecento si era

rivoltato contro l’eccessivo

decorativismo Jugendstil con

“L’ornamento è un crimine” ed aveva

dato il via ad un dilagante

razionalismo architettonico);

Inquilino albero, La toilette a humus;

I sacri escrementi. L’ideologia

di Hundertwasser è a completo

sostegno dell’individualismo

e del diritto alla decorazione uniti

al dovere ecologico, l’obiettivo

è stabilire un’armonia tra arte,

architettura e ambiente,

intraprendendo al contempo

una necessaria guerra ad ogni

forma di inquinamento.

I primi passi sono le piantumazioni

di alberi sulle facciate dei palazzi

per la Triennale di Milano del ‘73,

evento replicato poi in Austria,

in Germania e a Washington nel 1980

per la Judiciary Square, contro

il nucleare. Il punto di arrivo sono

i progetti architettonici, che rendono

fisica e concreta l’ideologia a lungo

professata.

Hundertwasserhaus è una città nella

città di Vienna, è un azzardo ed un

atto di fiducia che Vienna muove

nei confronti di questo innovativo

artista, attraverso una commissione

totalmente a carico

dell’amministrazione pubblica di

realizzare un’utopia architettonica,

antirazionalista e di aperta sfida

alla linea retta.

All’angolo della Löwengasse

l’architetto fa erigere una sorta

di villaggio verticale in cui ogni

appartamento ha un colore ed un

particolare trattamento esteriore

delle finestre; pur essendo diverso

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155/ZONE


qualcosa richiama subito alla mente

il Gaudì di Casa Mila o di Parc Güell,

per via delle linee ondulate e delle

ceramiche colorate; l’ingresso

è accogliente con una fontana

monumentale dal rivestimento in

ceramica ed un porticato colonnato;

in generale tutto appare mosso

ed irregolare, soffitti, pavimenti

e pareti, con largo uso di ceramiche

lucide e mosaici specchianti. Il pezzo

forte è la facciata, decorata da una

serie di terrazze-giardino e balconi

di “alberi-inquilini”, serre, giardini

d’inverno e tetti alberati.

Gli alberi, secondo il monito

professato da Hundertwasser, sono

i migliori inquilini, perché pagano

il loro affitto e il diritto alla loro

presenza nei palazzi con la valuta

dell’ossigeno, della rigenerazione,

della dispensazione di benessere.

Il verde del fogliame si mescola

ai colori degli inserti a piastrelle

e alle cupole a cipolla (una ramata

l’altra argentata) che creano

un legame con la città antica,

con le chiese barocche austriache.

L’edificio viene inaugurato nel 1985

e presenta 50 appartamenti divisi

in 5 gruppi: 8 da 40 mq, 14 da 60mq,

25 da 80mq, due da 117 mq e il più

grande da 150 mq circa. Più 37 posti

auto. Al tutto si aggiunge nel 1991

la trasformazione del vicino garage

Kalke in uno shopping village,

con caffè, librerie e una galleria

di negozi.

Hundertwasserhaus diventa il

simbolo della Vienna postmoderna,

dove le imprese di muratori e

piastrellisti prendono iniziative

creative in fase di costruzione,

dove la domanda degli appartamenti

(sei volte superiore all’offerta)

è limitata dai regolamenti in vigore

in materia di edilizia pubblica,

cioè senza privilegiare i ricchi,

dove si può vivere una vita

qualitativamente migliore.

Ecco che l’architetto diventa

un medico che cura gli edifici

e dispensa felicità.

Dopo Hundertwasserhaus, l’artista

si dedica ad almeno altri 50 progetti

che vanno dalla ristrutturazione

di facciate in base al principio

del diritto delle finestre e del dovere

degli alberi, trasformandolo in

un “designer di esterni” (fabbrica

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Rosenthal di Selb, Museo

Rupertinum di Salisburgo, impianto

tessile Rueff di Muntlix nel

Vorarlberg, inceneritore di rifiuti

domestici e cetrale di

teleriscaldamento di Vienna

a Spittelau ecc.) a gigantesche

stazioni termali (La collina ondulata

di Blumau in Stiria) a complessi

residenziali (Nei campi a Bad Soden)

e fiabeschi asili nido (Hedderheim,

Francoforte); fino alla sua terza

presenza a Vienna, dopo la sua casa

e lo shopping village, con la

KunstHausWien, un museo di

4000 mq per esposizioni

temporanee e per la permanente

che consiste nell’antologia dell’intera

opera dell’artista.

Tutte queste costruzioni presentano

i tratti salienti dello stile estetico

e della poetica di Hundertwasser:

la simbiosi con la natura, il colore,

l’apertura alla simbologia e alla

spiritualità priva di ogni

discriminazione, il gusto per la

decorazione sfrenata e spettacolare,

gli elementi moderni mescolati

alle forme del passato, la bellezza

come fonte infinita di felicità.

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Nari Ward

Ground Break

28 Marzo - 28 Luglio 2024

Pirelli HangarBicocca, navate

Milano

Harlem wandering.

Cortocircuito geografico

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

158/ZONE/note


COME ARTISTA SONO IL RISULTATO DI CIÒ CHE

AVVENIVA AD HARLEM NEGLI ANNI NOVANTA:

C’ERANO L’AIDS, I BIANCHI CHE FUGGIVANO DAI

CENTRI URBANI, MOLTA POVERTÀ E IL CRACK,

CHE HA LETTERALMENTE SPAZZATO VIA QUESTI

QUARTIERI. POI SONO ARRIVATI I GOVERNI CHE

HANNO INIZIATO A ELARGIRE SOVVENZIONI ALLE

IMPRESE PER RICOSTRUIRE I QUARTIERI. MENTRE

ACCADEVA TUTTO QUESTO, IO ANDAVO NEL MIO

STUDIO E, POICHÉ STAVO FREQUENTANDO UN CORSO

DI LAUREA IN DISEGNO, CERCAVO DI TRACCIARE

SEGNI SULLA CARTA. MA MI SENTIVO FRUSTRATO

E ALLORA HO PENSATO CHE DOVEVO PROVARE

A RACCONTARE CIÒ CHE STAVA ACCADENDO

DAVVERO IN QUEL MOMENTO NEL MIO QUARTIERE.

Nari Ward

“Ground Break”, veduta della mostra,

Pirelli HangarBicocca, Milano, 2024.

Foto Courtesy l’artista e

Pirelli HangarBicocca, Milano

Foto Agostino Osio

159/ZONE/note


IO CERCO DI METTERE

IN CONNESSIONE LE

PERSONE E DI FARLO

IN PARTICOLARE

ATTRAVERSO

UNO SPAZIO DI

VULNERABILITÀ.

IL CAMBIAMENTO CHE

IO VEDO REALIZZABILE

NEL MONDO E CHE

CERCO DI METTERE IN

ATTO È QUELLO CHE SI

PUÒ INIZIARE CON UNA

PERSONA ALLA VOLTA,

E SPERARE CHE DA

QUELLA SINGOLA

PERSONA, MANO A

MANO, SI PROPAGHI

UNA TRASFORMAZIONE.

ATTRAVERSO UNA

FORMA DI EMPATIA A

CATENA, E TORNIAMO A

QUELLO DA CUI SIAMO

PARTITI. PER OPPORSI

ALLA PAURA, CHE È

L’ALTRA FORZA CHE TU

VEDI COME DOMINANTE.

LA PAURA È L’ELEMENTO

PEGGIORE E PIÙ

PERICOLOSO. E CREDO

CHE SOLO L’EMPATIA

POSSA BILANCIARE LA

PAURA. LA NOSTRA

SOPRAVVIVENZA

DIPENDE DALLA

NOSTRA CAPACITÀ DI

EMPATIA, DI PRENDERCI

CURA DEGLI ALTRI,

COME FACCIAMO IN

MODO NATURALE CON

I BAMBINI, COME LA

NATURA FA FARE CON I

CUCCIOLI.

UN ISTINTO CHE CI

POSSA RIMETTERE IN

RELAZIONE CON

L’ALTRO DA NOI.

SÌ, PER RECUPERARE

UNA CAPACITÀ DI

CURA E PROTEZIONE

DEGLI ALTRI.

Ground come terreno, fondamenta,

break come pausa, ma anche e

soprattutto rottura.

La poetica di Nari Ward indaga da

sempre lo spazio e il tempo e da

questi concetti estrae poesia.

La mostra ripercorre trent’anni di

lavoro e lo fa in ordine non

cronologico, mischiando vecchi

progetti a nuove produzioni,

grandissimi formati che trovano

il giusto respiro nelle Navate

dell’Hangar milanese, mischiati

a opere più contenute ma di

altrettanto impatto emotivo.

Tessuti, metallo, luci.

Sembra di finire dentro a un grosso

contenitore di riferimenti

cinematografici a pellicole che

abbiamo molto amato, ad esempio

She’s gonna have it, o Tetsuo,

il tutto però intessuto in un vortice

di colori morbidi, travolgenti, ma

anche di forti odori giamaicani,

e c’è molto nero di cui sentiamo

il bisogno per far risaltare la luce,

e c’è una persistente nostalgia che

per noi milanesi non è facilmente

collocabile, se non si arriva già

super preparati alla biografia

dell’artista, ma che ben conosciamo

perché Milano è legata a doppio

filo con il sentimento della

nostalgia, pur nel suo modo

Nari Ward

Happy Smilers: Duty Free

Shopping, 1996 (particolare)

Veduta dell’installazione

“Ground Break”, veduta

della mostra

Apollo/Poll, 2017

Veduta dell’installazione

Carpet Angel, 1992

Veduta dell’installazione

The Museum of

Contemporary Art, Los

Angeles Dono di Jennifer

McSweeney in onore di Joan

"Penny" McCall

Pirelli HangarBicocca, 2024

Foto Courtesy l’artista e Pirelli

HangarBicocca, Milano

Foto: Agostino Osio

tutto discreto e intellettuale.

Questo incontro tra il raffinato

capoluogo lombardo e la Giamaica

satura e odorosa, ma anche la

stretta connessione con la New York

più politica, crea in Hangar un

bellissimo corto circuito nel quale

è possibile e plausibile perdersi per

ore. Una visita che necessariamente

richiede il suo lungo tempo, e che

lascia addosso molto, per giorni.

Nari Ward è nato in Giamaica nel

1963, ma ha vissuto e lavorato a

New York fin dai primi anni novanta,

spostandosi negli Stati Uniti all’età di

dodici anni. Noto a livello

internazionale per realizzare

installazioni con materiali di uso

quotidiano, si definisce per questo

motivo “un artista di oggetti trovati”,

frutto del girovagare per Harlem, il

suo quartiere, dove ha fissato la sua

base in una ex caserma dei pompieri

che funge da casa, laboratorio

e inizialmente galleria, e al quale

è profondamente legato nonostante

sia da molti anni abituato ad esporre

ovunque nel mondo.

4000 mattoni rivestiti di lastre di

rame, perline trasparenti, tessuto

argentato, corde che avvolgono

elettrodomestici in disuso come

confortanti bozzoli di insetto, un

160/ZONE/note


pupazzo a forma di pappagallo che

fa da voce narrante, sedie a rotelle,

candele, tende da sole, bottiglie

di soda, manichette antincendio,

una scala antincendio, sale, elementi

domestici, altoparlanti, una pianta

di aloe, PVC isolante, barattoli di

latta, lumini, lacci e punte di scarpe,

vinile, cabine telefoniche,

gommapiuma, pezzi di tappeti,

moquette, viti, sacchetti di plastica,

metallo, carrelli della spesa, bitume,

lampadari, contenitori di plastica,

acciaio, legno, vinile, luci LED, patina

oscurante, stoffe, recinzioni

metalliche, terra, una ruota,

uno specchio, una sedia, orologi,

passeggini, un deambulatore,

pagine di libri, platani e baccalà.

Simbolismo, guarigione,

memorie d’infanzia, culture

meravigliosamente intrecciate.

I suoi sono oggetti che portano

addosso stratificazioni di riferimenti

sociali, storici, affettivi, racchiudono

storie private che si fanno universali.

Il tema del recupero si porta dietro

per Nari un forte aspetto politico,

ed è finalizzato ad affrontare

assieme a noi le tematiche che più

gli sono care: l’identità, le questioni

razziali, la giustizia, il consumismo.

Questa mostra milanese è toccante.

Curata da Roberta Tenconi e Lucia

Aspesi, è stata definita “uno spazio

devozionale e spirituale di scambio

non connotato da simbologia

religiosa e reso tale dalle memorie

collettive”.

L’idea di tempo è scandagliata

attraverso ben 30 opere: sculture

performative, installazioni di grande

formato, queste ultime legate alla

collaborazione con Ralph Lemon tra

il 1996 e il 2000 per la coreografia

Geography Trilogy, per la prima

volta da allora esposte nel contesto

di una mostra d’arte; ma anche video

ed esperienze sonore, che si vanno

ad incastrare alla perfezione con le

altre sculture più piccole, e con l’atto

stesso di esplorare, perdersi ed

emozionarsi dei visitatori.

Nelle navate dell’Hangar sono stati

poi programmati spettacoli animati

da performers e musicisti, come

completamento alle installazioni.

All’esterno dell’edificio è stato

allestita un’insegna luminosa

di cinema, Apollo, per ricordare

l’Apollo Theatre di Harlem, che ad

intermittenza muta nella parola Poll,

sondaggio, collegamento ironico alla

politica attuale intesa come

spettacolo.

161/ZONE/note


MARTA SILENZI

La Barcellona

di Zafòn


“RICORDO ANCORA

IL MATTINO IN CUI

MIO PADRE MI FECE

CONOSCERE IL

CIMITERO DEI LIBRI

DIMENTICATI.

ERANO I PRIMI

GIORNI DELL’ESTATE

DEL 1945 E NOI

PASSEGGIAVAMO

PER LE STRADE DI

UNA BARCELLONA

INTRAPPOLATA

SOTTO CIELI DI

CENERE E UN SOLE

VAPOROSO CHE SI

SPANDEVA SULLA

RAMBLA DE SANTA

MONICA IN UNA

GHIRLANDA DI

RAME LIQUIDO.”

“BARCELLONA

TI ENTRA

NEL SANGUE

E TI RUBA

L’ANIMA ”

Carlos Ruiz Zafòn ha scritto pagine

meravigliose su una Barcellona

gotica, misteriosa e romantica,

sulla quale tempo e intrighi

sembrano aver steso una patina

color seppia che continua a scorrerci

nella mente come una pellicola

storica anche anni dopo la lettura

dei suoi romanzi.

Volendo fare un rapido viaggio

punteggiato dai luoghi salienti

teatro delle sue storie, potremmo

iniziare dal Monumento a Cristoforo

Colombo, dove Daniel Sempere

incontra per la prima volta

l’enigmatico Lain Coubert, che

vorrebbe acquistare la sua copia

de L’Ombra del Vento.

In Carrer de l’Arc del Teatre, piccola

e oscura calle del quartiere Raval,

dovrebbe trovarsi il fantomatico

Cimitero dei Libri Dimenticati, la

sfida è cercare il batacchio a forma

di piccolo diavolo.

Tra Raval e Barrio Gotico i vari

personaggi dei romanzi si

incontrano e muovo sulla famosa

Rambla e a Plaça Reial, nel cuore

del Barrio Gotico abita Clara, la bella

e cieca nipote di Don Gustavo

Barcelò, di cui Daniel è innamorato,

e sempre qui il ragazzo incontra

Fermín Romero de Torres che

diventerà aiutante nella libreria

Sempere e fidato amico.

In Carrer di Santa Ana 27 dovrebbe

trovarsi la Libreria Sempere ispirata

forse ad altre librerie e negozi dei

dintorni che sembrano ricordarla.

Els Quatre Gats nei libri di Zafón

è il posto in cui Daniel incontra il

librario e antiquario Gustavo Barcelò

per chiedergli qualche indicazione

e delucidazione su L’Ombra del Vento

e sul suo misterioso autore Julián

Carax; è un locale storico di fine

ottocento dove s’incontravano

esponenti del modernismo tra cui

Gaudì e Picasso.

El Rei de la Màgia, in Carrer de la

Princesa 11, è un negozio per maghi

molto antico dove entra David

Martín, aspirante scrittore, ne Il gioco

dell’Angelo.

“Le vetrate della porta lasciavano

intravedere a stento i contorni di un

interno cupo e rivestito da tendaggi

di velluto nero che avvolgevano

vetrine con maschere e aggeggi di

gusto vittoriano, mazzi di carte

truccati e daghe con contrappesi,

libri di magia e boccette di vetro

molato che contenevano un

arcobaleno di liquidi con le etichette

in latino e probabilmente imbottigliati

ad Albacete. Il campanello all’entrata

annunciò la mia presenza.”

El Xampanyet è invece un locale

storico dove mangiare tapas e bere

Cava, e dove Fermìn suggerisce

a Daniel di andare per riaversi dopo

un momento scoraggiante del primo

romanzo.

La Chiesa di Santa Maria del Mar,

nominata in diversi libri di Zafòn,

ne Il gioco dell’angelo ha un ruolo

fondamentale per la risoluzione di

uno degli enigmi dell’oscuro volume

Lux Aeterna arrivato tra le mani del

protagonista David Martín.

Plaça de Sant Felip Neri è una

piazzetta che Daniel descrive come

“Una boccata d’aria fresca nel

labirinto delle stradine che

caratterizzano il gotico, nascosta

tra le antiche muraglie romane”.

A Montjuïc si trovano il Cimitero

Modernista dove riposa la madre

di Daniel ed il carcere (all’interno

del Castello) dove vengono rinchiusi

sia Fermín Romero de Torres sia

David Martin.

Nel Tibidabo, la collina più alta di

Barcellona, Zafòn colloca molti degli

incontri tra Oscar e Marina Blau

descritti in Marina. All’incrocio tra

Calle Panamà e Calle Abadesa Olzet

si trova Villa Helius che, nei libri,

è l’abitazione del Conte Pedro Vidal,

mentore di David Martin.

Chi conosce le storie di Zafòn saprà

orientarsi in questo rapido giro

di mappa, chi conosce Barcellona

saprà ritrovarla e guardarla con

gli occhi dello scrittore e dei suoi

personaggi, il primo purtroppo

ormai perduto, gli ultimi per

sempre nostri.

163/ZONE/note


Siena, Il Duomo

Foto di Marcello Francone


FROM VENICE TO SHANGHAI

La galleria d’arte cinese Capsule Shanghai ha aperto

quest’anno a Venezia una nuova sede, Capsule Venice,

alla Fondazione Giorgio e Armanda Marchesani

a Dorsoduro, in occasione della Biennale d’Arte 2024.

Nascosto tra canali e giardini veneziani, questo spazio

crea un affascinante gemellaggio tra le due città

e tra esse e il resto del mondo.

Fondata nel 2016 dall’italiano Enrico Polato, Capsule

sta scoprendo una nuova freschissima generazione di

artisti emergenti cinesi che abbiamo avuto modo

di conoscere attraverso numerose mostre (e altrettante

fiere d’arte) di impeccabile raffinatezza: Manuela Lietti

ne è la curatrice e si muove sapientemente tra loro

con l’intento di valorizzarli, creando nello stesso tempo

sinergie, conversazioni, fil rouge, in un dialogo di respiro

internazionale.

Il sito capsuleshanghai.com ci propone un assaggio di

queste atmosfere, ma sarà interessante osservare dal vivo

come le luci e i riflessi della città veneta, unica al mondo,

sapranno dare risalto alle delicatezze orientali, come

del resto Venezia ha sempre saputo fare nei secoli.

Nel corso dell’estate la galleria inaugurerà Love Dart,

personale di Wang Haiyang, e la personale di Liao Wen.

PRP

165/ZONE/ripostigli


“Nella città c’è un altro palazzo reale. Ci

passo davanti due o tre volte al giorno a bordo

del 19, quando incontro gli studenti nelle loro

pause pranzo accanto agli uffici di Regent Street.

L’altro palazzo è più austero, fatica a stagliarsi

contro il grigio del cielo ma pare a tratti che lo

faccia apposta, che voglia essere discreto. Passeggiando

per Londra quasi puoi dimenticare

che esista: ogni quartiere è un piccolo mondo

centrato su se stesso, riconoscibile dai colori delle

facciate degli edifici, dai vestiti delle persone,

dal cibo esposto nelle vetrine. L’arancio ruggine

di certe traverse di Sloane Square, diventa il

bianco e nero di Belgravia; altrove i mattoncini in

tufo di Canonbury piano piano sfumano sotto gli

acrilici di Shoredicht. Nella city, tra London Bridge

e Southbank, se guardi in alto il centro si sposta

all’altezza delle nuvole. Gli enormi grattacieli

vetrati sorgono tutti vicini, stretti l’uno contro

l’altro come un branco di animali oltremisura che

però hanno paura a stare soli. Qualche anno fa,

per evitare che elicotteri continuassero a sbatterci

contro nel buio, li hanno contornati di luci

rosse, col risultato che se guardi in alto in quella

direzione adesso sembra sempre Natale.

Questo palazzo reale – quest’altro – non è

un palazzo geloso. I suoi parchi sono aperti, si

regalano alla città insieme all’illusione di essere

altrove anche quando non ci si può permettere

di partire. La vista di un autobus rosso tra gli alberi

fitti dei giardini di Kensington è la rivelazione

di un mondo che sembra anni luce lontano, a cui

hai dimenticato di appartenere e al quale con

rammarico dovrai tornare, ma il più tardi possibile.

Chi sei? Come sei arrivato lì? Perché non ti

buttano fuori? Passeggi nei giardini reali, sei un

ospite inatteso e non annunciato.

Soho è soltanto a poche centinaia di metri

da Buckingham Palace. Di giorno il quartiere è

un insieme di strade che collegano Piccadilly a

Carnaby Street, mentre di notte centinaia di insegne

al neon dai colori acidi ti invitano a entrare

dentro i sexy shop e i club sadomaso allineati

l’uno accanto all’altro, come fossero vetrine di

una High Street.

Al numero 28 di Dean Street c’è una placca

blu cobalto che dice che lì, nel palazzo dove

ora c’è un cocktail bar dall’arredo minimal, un

tempo ci aveva abitato Karl Marx con la sua famiglia.

Occupavano due stanze al secondo piano,

dormivano tutti in una sola camera, mentre

nell’altra venivano ricevuti rifugiati politici e rivoluzionari

europei. Da qualche parte in quella

casa, su una piccola scrivania ricavata tra i mobilio

accatastato, il filosofo aveva scritto il primo

capitolo di Das Kapital. Da qualche parte in quella

casa, tra la miseria e il lerciume, erano morti

due dei suoi bambini.

Una leggenda metropolitana racconta di

una serie di attacchi ai danni di quella placca commemorativa.

Il proprietario del locale sottostante

non la voleva tra i piedi: la sua clientela, a suo dire,

era costituita da gente di un certo tipo, e il nome

di Marx li avrebbe fatti sentire meno accolti.

Passeggiare per Soho è anche attraversare

un discorso di classe che si allontana dalla

lotta per avvicinarsi alla farsa e al travestimento.

L’eccitazione dei ricchi si accende nel prendere

possesso di luoghi che non gli appartengono, posti

che un tempo erano scenario della working

class e che oggi sono il loro parcogiochi della

trasgressione. Dall’altra parte della strada, invece,

alla fermata del bus davanti all’ingresso di

Chinatown, un esercito di persone ordinarie

scende dagli autobus a getto continuo, come i

fedeli in piazza San Pietro. Arrivano alla periferia

con i loro vestiti migliori, faranno la fila per il

cocktail più costoso nel club dove una volta è stata

vista Madonna. Non riusciranno a sedersi e le

scarpe faranno male, ma potranno bere dallo

stesso bicchiere di un uomo che ha appena comprato

un appartamento a Myfair. Sarà importante

poter dire di esserci stati, così maledettamente

importante.

Nella grande città l’altro palazzo reale se

ne sta in silenzio. Certe volte lo scorgo oltre il finestrino,

provo un po’ di affetto per quell’edificio

che nei secoli ha accolto a così pochi metri da sé

centinaia di vite sbilenche in fuga da un continente

che aveva chiuso loro le porte.

Altre volte, quando il cielo è particolarmente

scuro, mi chiedo invece se ne sappiano

niente quelle mura dei mondi che gli stanno accanto,

se quel tollerare non sia piuttosto un completo

ignorare ciò che non ha neppure la dignità

di essere riconosciuto.”

OLGA CAMPOFREDA, RAGAZZE PERBENE


OLGA CAMPOFREDA, RAGAZZE PERBENE

“Il disegno intricato delle linee della metropolitana

di Londra ha la forma di una bottiglia

di vino distesa. È una bottiglia che qualcuno

ha lasciato cadere ancora piena, col vino

rosso che però non si è riversato del tutto. È

l’immagine perfetta per raccontare una città

capace di portarti in alto verso stati di ebbrezza

assoluti, ma che poi ti affossa come un vecchio

ubriaco all’angolo di una strada, senza che

nessuno si fermi neppure a guardare. A seconda

della giornata quella bottiglia può essere

mezza piena o mezza vuota.”


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