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Mario Vegetti

Il potere della verità

Saggi platonici

Carocci editore

Frecce


i

Indice

Introduzione 9

Parte prima

Controversie

i. Cronache platoniche zi

i. «Solo Platone non c’era» 41

3. Come, e perché, la Repubblica è diventata impolitica? 6i

i edizione, maggio zoi8

© copyright zoi8 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

Parte seconda

Teorie

4. Megiston mathema. L’idea del “buono” e le sue funzioni $5

Finito di stampare nel maggio zoi8

TO agathon: buono a che cosa? Il conflitto

da Eurolit, Roma delle interpretazioni sull’idea del buono nella Repubblica 113

.

ISBN 978-88-430-9145-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge

(art. 171 della legge ai aprile 1941, n. 6)

Siamo su:

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www.twitter.com/caroccieditore

Parte terza

L’utopia

6. Beltista eiper dynata. Lo statuto dell’utopia nella Repubblica

.

il tempo, la storia, l’utopia 171


una

non

8 IL POTERE DELLA VERITÀ

8. Antropologie dellapteonexia.

Callicle, Trasimaco e Glaucone in Platone 195

Intro uzione

Parte quarta

La verità

Nell’ombra di Theuth. Dinamiche della scrittura in Platone

iii

io. Glaucone e i misteri della dialettica 2.37

I

ii. Sfida sofistica e progetti di verità in Platone 151 Un regime di brezze moderate e costanti sembra dominare negli ultimi

anni le acque degli studi platonici. Le rotte sono ben tracciate, la naviga

Immortalità personale senza anima immortale:

zione sicura anche se forse non troppo emozionante (posso chiamare a

Diotima e Aristotele 3 testimoni in questo senso i Simposi platonici internazionali di Pisa, 2013,

e Brasilia, zoi6).

Ma le cose non sono sempre andate così. Nell’arco dei circa vent’anni

in cui intervengono i saggi raccolti in questo volume, quelle acque sono

state agitate da tempeste violente, foriere di naufragi, di arenamenti, di

derive senza meta.

La prima tempesta, iniziata negli anni Sessanta e rafforzatasi nei due

decenni successivi soprattutto in Germania (Thbin_gen) e in Italia (Mi

lano, Università Cattolica), è andata sotto il nome di “nuovo paradigma

ermeneutico” (oralistico-esoterico). Per essere estremamente concisi, si

trattava della miscela esplosiva risulta da una rivisitazione delle criti

che platoniche alla capacità della scrittura di esprimere e comunicare «le

cose più importanti della filosofia» (fedro, Lettera vii), e dalla concomi

tante rivalutazione delle testimonianze di Aristotele circa l’esistenza di

cosiddette “dottrine non scritte” dovute a Platone. Il contenuto di que

ste dottrine consisteva principalmente nella teoria della generazione dei

diversi livelli della realtà a opera di due principi, quello di unità e quello

di rnolteplicità. La conseguenza era devastante per le consuete letture di

Platone. La sua vera filosofia — “metafisica dei principi” — era mai

stata scritta, bensì solo trasmessa per via orale ai discepoli dell’Accademia;

il solo accesso di cui disponiamo a queste dottrine sono le scarne testi

monianze aristoteliche e poche altre. Viceversa, l’immensa ricchezza di

discorsi, ricerche, problemi presente nei dialoghi è ridotta, se non proprio


e

Io

r

IL POTERE DELLA VERITÀ

INTRODUZIONE

I’

allo stato di chiacchiera filosofica, almeno a quello della propedeutica a

una filosofia che non può esporre né comunicare le sue più vere dottrine

in forma scritta. Detto molto in breve, dunque, il rischio che la tempesta

ermeneutica ci ha costretto ad affrontare è stato quello di trovarci con un

Platone arricchito di “metafisica ma amputato dei dialoghi.

Fortunatamente nel corso degli anni Novanta la tempesta andò final

mente placandosi, con il contributo, va detto, di studiosi di entrambe le

tendenze: gli oralisti vennero ammettendo che i dialoghi costituivano

nonostante tutto una parte integrante e imprescindibile della filosofia

di Platone, e i loro avversari si convinsero che in essa anche gli esperi

menti esoterici di filosofia dei principi attestati da Aristotele dovevano

aver giocato un certo ruolo. Si esauriva così la carica eversiva cui mirava

il nuovo paradigma ermeneutico e si tornava alla normalità dei progetti

di ricerca.

z

Quasi si trattasse di un moto opposto, suscitato dallo scampato pericolo,

a partire dagli anni Novanta si formò, soprattutto in ambito angloso

ne, una grande ondata di studi che andavano nella direzione di una for

te rivalutazione dell’efficacia della forma letteraria dialogica ai fini della

configurazione della filosofia di Platone. Più che un dottrinario, Platone

appariva ora soprattutto uno scrittore filosofico: la costruzione dei singoli

dialoghi, il contesto, I personaggi, il gioco delle metafore, delle allusioni

ironiche, degli sforzi persuasivi diventavano il centro dell’attenzione er

meneutica, rimodellando gli stessi sviluppi teorici. Tutto ciò aveva senza

dubbio effetti positivi, come l’invito a dedicare maggiore attenzione alla

dimensione letteraria dei dialoghi — vista come indispensabile anche alla

comprensione dei loro contenuti dottrinali —, i forti dubbi suscitati in

torno alla possibilità di concepire Platone come pensatore sistematico, e i

dialoghi come veicoli di questo sistema filosofico.

L’ondata dialogica rischiava però (e forse ancora rischia) di far arenare

le ricerche platoniche su secche non meno pericolose degli scogli “orali

sti” perché meno visibili. Sottolineare 11 carattere letterario della scrittura

dialogica a scapito del tessuto dottrinale ha portato qualcuno a ritenere

che in realtà nei dialoghi non sia riconoscibile alcuna formazione teorica,

alcuna enunciazione di tesi filosofiche, alcuna pretesa di verità: saremmo

insomma di fronte a una grandiosa “conversazione” intellettuale alla ma

niera di Rorty. Mi preme mettere in luce un corollario importante di que

sto atteggiamento: la negazione di qualsiasi carattere politico a testi come

la Repubblica, in cui tutto il discorrere apparentemente politico avrebbe

nient’altro che una funzione metaforica rispetto ai problemi di moralità

personale, che costituirebbero il vero centro del dialogo; nessun progetto,

dunque, nessuna utopia, nessuna critica sociale, ma, ancora una volta, me

tafore e dispositivi retorici di persuasione.

Dopo un Platone metafisico ma senza dialoghi, avremmo invece ora

un Platone ricco di scrittura dialogica ma privo di filosofia e di progetti

di verità.

Poiché la tendenza dialogica, nonostante questi esiti estremi, mantiene

a mio avviso acquisizioni metodiche importanti, credo sia il caso di venire

in chiaro su qualche suo aspetto che mi pare centrale. Io condivido le tesi

dell’autonomia dei singoli dialoghi, e dell’autcnomia dei loro personaggi.

Occorre però fare subito qualche precisazione. Autonomia dei dialoghi

non significa che ognuno di essi sia un’isola senza rapporti con le altre,

quasi non fossero opere di uno stesso autore. E autonomia dei personaggi

non significa che essi parlino in proprio, come quelli delle opere di storia. I

dialoghi mantengono forti interrelazioni teoriche tra loro, talvolta esplici

te, più spesso implicite; i personaggi interpretano il copione d’autore — ma

questo copione è per lo più costruito attribuendo ai personaggi convinzio

ni coerenti, scelte di vita consapevoli, argomenti efficaci.

Autonomia dei dialoghi significherà allora che essi non possono in

nessun caso venir concepiti come capitoli di un trattato filosofico, i cui

risultati si depositano nel testo in modo cumulativo; di conseguenza, in

linea di principio nessun dialogo dovrebbe venire interpretato a partire

dalle acquisizioni di un altro dialogo, o interpolandovi le conclusioni di

questo. Un esempio basterà a chiarire il senso di questa autonomia. La Re

pubblica e il Simposio non fanno alcun cenno alla reminiscenza come via

di accesso alla conoscenza delle idee; essa è invece centrale negli argomenti

del fedone e del ìvlenone. Ora, sostenere su questa base che la reminiscenza

deve essere implicitamente ammessa anche nei primi due dialoghi, visto

che è argomentata nei secondi, sembra del tutto inaccettabile. La diver

genza platonica andrà semmai interpretata, ma non brutalmente annullata

attribuendo una supremazia immotivata di un dialogo su un altro, o sup

ponendo una inesistente cumulatività dottrinale.

Dal canto suo, autonomia dei personaggi significa valutare atten


sempre

I’ IL POTERE DELLA VERITÀ INTRODUZIONE ‘3

tamente le ragioni che Platone attribuisce loro, in qualche caso forse

ispirate dalle loro posizioni storiche, in altri puro frutto della creatività

filosofica dell’autore. Un esempio sarà sufficiente anche a questo pro

posito. Gli interpreti che si affrettano a esultare per la confutazione di

Trasimaco condotta nel libro i della Repubblica (peraltro fallita), ben

difficilmente riusciranno a comprendere la profondìtà e la forza della tesi

del sofista, che indica nel potere la fonte primaria della legittimazione e

quindi della stessa giustizia; tesi che certamente non appartiene al Trasi

maco storico ma che Platone ha creduto di attribuirgli — facendone così

un personaggio che gioca un ruolo cruciale in tutto lo sviluppo teorico

del dialogo.

Quando si tratta di Platone, però, nessun criterio di metodo può es

sere considerato definitivo ed esclusivo. Cercando di comprendere il

ruolo della scrittura nella filosofia platonica, mi è parso necessario uscire

dall’angustia del dilemma sì o no, ed evadere dall’effetto “gabbia di crice

to” prodotto dal consueto andirivieni tra Fedro e Lettera vii. Un esame

trasversale di tutti i passi in cui Platone discute della scrittura ha permes

so di delinearne un quadro più ricco e complesso, dal ruolo di modello

di un sapere degli clementi fino alla decisiva funzione vicariante che essa

svolge nell’assenza della voce del maestro, nella filosofia, e del re, nella

politica. In questo caso, dunque, una violazione del principio dell’auto

nomia di dialoghi e personaggi si è provata proficua, e nulla esclude che

i due approcci possano interagire fruttuosamente anche per altri proble

mi — però alla condizione di esser consapevoli di stare praticando

un’anomalia metodologica.

3

Concludere che tutto ciò si sedimenta, alla fine, nell’esigenza di una stre

nua e puntigliosa fedeltà ai testi può sembrare un esito alquanto asfittico.

Questa impressione dovrebbe risultare attenuata se si considera la plura

lità di livelli ai quali si dovrebbe esplicare la fedeltà ai testi. C’è in primo

luogo l’indagine semantica, troppo spesso trascurata negli ultimi decenni.

È fin troppo noto il caso di to agathon, che vale originariamente, e socrati

camente, “ben fatto”, “utile”, “buono a.. .‘ È immediatamente visibile come

la traduzione corrente con “il bene” abbia spianato la via a ogni sorta di

speculazione metafisica (il Bene è l’Uno, l’Essere, e così via). Non c’è dub

bio che il libro VI della Repubblica, con le sue vertiginose elaborazioni

teoriche di to agathon, possa venir chiamato a giustificare queste specu

lazioni; ma è altrettanto certo che esso vada a sua volta interpretato senza

dimenticare il valore semantico originario del termine, che contribuisce a

qualificare la supremazia ontologica ed epistemologica del “buono” come

legittimazione e fondamento del potere giusto e come garanzia di felicità

collettiva.

Ma ci sono casi meno evidenti e perciò forse ancora più significativi.

Che la prima parola della Repubblica sia il verbo katabainein non può non

alludere, dietro la discesa di Socrate al Pireo, a un’altra discesa ben presen

te nella cultura arcaica dei Greci, appunto la katabasis nel mondo degli

inferi, in cui il futuro sapiente riceve le sue rivelazioni veritative; il nuovo

sapiente, nel nuovo mondo del porto, maturerà allora un’iniziazione che

rispetto a quelle arcaiche conserva una discendenza almeno allusiva, ma

i cui contenuti saranno radicalmente nuovi

— quelli della politica e della

giustizia nel mondo dellapolis.

Un altro esempio mi sta particolarmente a cuore. Nel libro ix della

Repubblica Platone scrive che “in cielo” è posto un paradigma della città

giusta, quello tracciato nei discorsi filosofici; chi voglia vederlo, sulla sua

base può heauton katoikizein. La traduzione standard, che risale all’auto

revole Adam, suona “rifondare sé stesso”, “fondare una città in sé stesso’

Ecco dunque sancito l’abbandono dell’esteriorità politica e il passaggio

alla morale personale, rispetto alla quale tutto il discorso politico ha al più

un valore metaforico o protrettico.

Si dà il caso, però, che in greco, e in Platone, katoikizein + accusativo

non ha mai questo valore. Il sintagma significa piuttosto, come credo di

avere ampiamente dimostrato, “insediare qualcuno in un luogo”, “trasfe

rirlo da un luogo a un altro” (detto tipicamente dell’ insediamento di colo

nie). Non si tratta quindi di passaggio dall’esteriorità politica all’interio

rità dell’anima, ma di dislocazione delle finalità dell’azione politica (ove

essa sia possibile): dalla città storica, per la quale il filosofo non agirà affat

to, all’orizzonte della città utopica, alla cui creazione egli dedicherà le sue

energie. Tutto questo va naturalmente compreso nel quadro del problema

della natura dell’utopia platonica; in ogni caso, l’indagine semantica qui è

indispensabile a rimuovere un ostacolo tradizionale alla soluzione di quel

problema.

La fedeltà ai testi ha naturalmente altri aspetti, al di là di quelli lingui

stici. Mi preme soprattutto sottolineare l’esigenza di non integrare i testi,


in

‘4 IL POTERE DELLA VERITÀ

INTRODUZIONE

‘5

supplendo a quello che non dicono, e di non correggere o ignorare quello

che invece dicono esplicitamente; si tratterà piuttosto, nel primo caso, di

interpretare le ragioni di silenzi e omissioni (ne farò presto un esempio),

nel secondo di interpretare tesi magari inaccettabili per il lettore (non è

detto che lo studioso di Platone debba condividere tutto quello che Plato

ne dice: questa identificazione patologica è il principio e la ragione di tan

te forzature dei testi che mirano a far loro dire ciò che vorremmo dicessero

per poter essere d’accordo. Amicus Plato...).

Senza intenzioni polemiche, vorrei fare l’esempio di un tipo di ragio

namento, alquanto diffuso, che combina integrazioni e selezioni ai testi;

un ragionamento che ha conseguenze importanti sull’interpretazione

complessiva del pensiero di Platone. Esso si articola più o meno così, i. La

città giusta (kattipotis) è possibile solo grazie al governo di una élite che

conosce le idee e il buono, cioè il sistema di norme universali che devono

reggere la vita individuale e collettiva (Repubblica v-vi). a. Ma una siffatta

élite non può esistere, perché nessun uomo durante la sua vita terrena può

raggiungere la conoscenza delle idee, giacché ne è impedito dalla corpo

reità. Questa conoscenza è possibile solo nella vita oltreterrena dell’anima

(fedone). Perciò, in altri termini, non esistono sapienti, ma solo filosofi,

che amano la sapienza senza possederla. 3. Dunque, la realizzazione della

kattipolis è impossibile nel mondo storico, che non potrà non limitarsi a

una certa tensione verso di essa. Se la premessa a. deriva dall’interpretazio

ne standard del fedone, oggi piuttosto discussa, della conclusione 3. non

c’è alcuna traccia nella Repubblica, e sia il Politico sia le Leggi adducono

ragioni del tutto diverse per l’impossibilità della politeia perfetta. L’argo

mento sembra dunque aggiungere ai testi platonici una protesi che è loro

estranea, e che sembra inaccettabile.

Secondo i lineamenti dell’indagine sviluppata nei saggi contenuti in

questo volume, la questione dell’utopia sembra invece porsi — secondo i

testi — questi termini. i. Un disegno utopico che non indichi le proprie

condizioni di possibilità è degno del ridicolo, come i sogni del paese di

Cuccagna. Al tempo stesso, qualsiasi realizzazione del progetto sarà me

vitabilmente imperfetta e solo approssimata al modello ideale. 2. La con

dizione di possibilità consiste in un mutamento al vertice del potere che

veda l’unificazione di potere politico e filosofia; in altri termini, l’accesso

diretto al governo da parte dei filosofi, o la conversione alla filosofia di un

detentore del potere (dynastes). Filosofia significa la conoscenza (perfetta

mente conseguibile in vita) dell’orizzonte normativo delle idee, potere po

litico la disponibilità dei mezzi per trasformare la vita pubblica secondo la

sua prospettiva. 3. Questa condizione è difficile, per la carenza di autentici

filosofi e di potenti disponibili alla filosofia; ma non impossibile. Che gli

uni o gli altri siano reperibili, e sommino le loro energie, dipende da una

“sorte divina’ una congiuntura eccezionalmente fortunata di cui non sono

prevedibili luoghi e tempi. 4. Comunque, se il filosofo agirà politicamente

nella città storica, lo farà solo in vista della realizzazione di quella ideale, e

anche perché questa azione sia possibile occorrono circostanze straordina

riamente favorevoli.

Fin qui, ma non oltre, ci portano in modo esplicito i testi della Repub

blica. Questo dialogo non dice altro, come non dice — dopo la sequenza

degenerativa che vede il susseguirsi di timocrazia, oligarchia, democrazia

e tirannide — che cosa venga dopo l’esecrabile potere tirannico. Da que

sti testi si può solo trarre la conclusione che l’avvento della kallipolis non

JiTipossibile, ma non appartiene al corso “normale” della storia, e resta

comunque un punto di riferimento per qualsiasi eventuale riforma eticopolitica.

Tuttavia, l’insistenza sul dynastes, o su un suo figlio, disponibili a

convertirsi alla filosofia (o a seguire l’insegnamento dei filosofi), già ben

presente nella Repubblica, suggerisce la possibilità di integrare i suoi silenzi

con altri testi. Si tratta del libro IV delle Leggi e della Lettera vii, che sono

liberi di rendere esplicito ciò che nella “ateniese”, dunque tirannofobica

Repubblica non poteva venir detto.

La figura storicamente indefinita del dynastes viene ora trasformata

.

in quella ben più identificabile del tiranno. Il tiranno è dotato del potere

assoluto, quindi del massimo di rapidità decisionale ed efficacia politica;

nessunogio di un buon tiranno disposto a seguire leindicaziom

tel 1gislatore-filosofo, può garantire la trasformazione della vita sociale.

Certo, perché un tale tiranno compaia sulla scena storica occorre ancora

una volta una “sorte divina”; proprio quella buona sorte che secondo la

Lettera vii avrebbe segnato la comparsa (deludente) di Dionisio il gio

vane sulla scena della tirannide di Siracusa. Da questa speranza Plato

ne sarebbe stato indotto a tentare i suoi interventi diretti nella politica

siracusana.

Quest’ultimo passo, dalla teoria all’azione politica, appartiene più alle

urgenze psicologiche di Platone che alla teoria (anche se il nesso non è

certamente casuale). Ma la proiezione della realizzabilità del disegno uto

pico verso le figure di un filosofo-tiranno, o di un tiranno-filosofo, o della

collaborazione tra filosofo e tiranno, è giustificata sul piano della teoria


la

i6 IL POTERE DELLA VERITÀ INTRODUZIONE ‘7

dell’estraneità del modello utopico al corso ordinario della storia, al suo

carattere in senso forte “rivoluzionario”

4

Si potrà essere più brevi intorno alle altre due grandi questioni trattate

dai saggi raccolti in questo volume, quella dell’idea del buono e q!Iella

della verità. i. 11 problema dell’idea del buono si pone nel libro VI del

la Repubblica perché essa non è considerata solo causa dell’esser buone

(cioè vantaggiose e utili per una buona vita) di idee e di cose, ma anche

di conoscenza e verità (questo può ancora venir spiegato perché l’idea del

buono, rendendo buona, cioè desiderabile, la verità, attiva l’intenzionalità

conoscitiva), e soprattutto di “essere ed essenza” (einai/ousia) per le idee.

L’idea del buono trasmette così proprietà che non fanno parte della sua

essenza. z. Inoltre, l’idea del buono non è essenza maèsuperiore all’essere

eaWousraper efficacia opptenza (4ynamis). Questo significa che l’idea

del buono non è conoscibile come le altre idee (definizione di essenza), ma

può essere compresa a partire dai suoi efftti (non che cos’è, ma che cosa

fa). 3. Tutto questo pone difficili problemi di ordine tanto ontologico (la

collocazione dell’idea del buono come esterna o interna all’essere), quanto

epistemologico (la sua conoscibilità, che costituisce il traguardo estremo

d4poeto della dialettica). .. Occorre tener presente che questa estrema

eccedenza dell’idea del buono viene teorizzata solo nella Repubblica. Essa

andrà dunque in primo luogo interpretata in vista delle esigenze primariamente

etico-politiche del dialogo. . Questo può spiegare intanto il fatto

che l’idea del buono sia la causa dell’essere e dell’essenza delle altre idee. Se

si considera che le idee esistono in guanto norme, la dipendenza dal buono

fonderà appunto il ruolo normativo delle idee in relazione al buon ordine

della vita pubblica e privata, come il libro VI ribadisce a più riprese. La

conoscenza delle idee garantirà inoltre il diritto/dovere dei filosofi a go

vernare, perché sulla loro base normativa essi soltanto possono riformare

la costituzione della polis. 6. L’eccedenza dell’idea del bijono sia rispetto

alla verità sia rispetto all’essere (di cui è causa) comporta insomma — come

é1hiesto ne[ contesto del dialogo sulla politeia — preminenza del ver

tice etico su quelli epistemologico e ontologico del triangolo costitutivo

della filosofia platonica (in altri contesti, il primato sarà invece detenuto

dal vertice ontologico, come nel Sofista, o da quello epistemologico, come

nel Teeteto). 7. Dopo la Repubblica, Platone ha adottato strategie diverse

nei riguardi dell’idea del buono (abbandonata anche in dialoghi politici

come il Politico e le Leggi, profondamente ridimensionata nel filebo), ma

certamente la discussione sui problemi sollevati nella Repubblica è conti

nuata in ambito accademico, soprattutto con l’identificazione buono-uno

come principio d’ordine del mondo.

La questione della verità, e della possibilità di accedervi, va considerata

sullo sfondo dell’insieme dei dialoghi. I tratti emergenti possono venire

così schematizzati. i. La verità —

cioè essenzialmente la conoscenza del

le idee e delle relazioni fra loro e con il mondo empirico —è in linea di

principio attingibile durante la vita terrena (nonostante alcune afferma

zioni contrarie del Fedone, che perciò andranno interpretate). All’inizio

del libro VI della Repubblica Platone definisce simili ai ciechi coloro che

«sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, che non hanno nell’ani

ma nessun chiaro modello e non possono [...] rivolgere lo sguardo verso

ciò che vi è di più vero»; a questi viene contrapposta la conoscenza di

coloro (i filosofi) che sono in grado di vedere il modello ideale «in modo

da istituire anche quaggiù le norme intorno alle cose belle e giuste e buo

ne»: a loro andrà dunque affidata la guida della polis. E anche possibile,

benché più difficile, acquisire la conoscenza eccezionale delle idee somme

come il buono (Repubblica) e il bello (Simposio); a questo proposito, è dif

ficile dire se si tratti di una conoscenza discorsivo-proposizionale oppure

intuitiva ed extrahnguisnca z Non e pero p ilcuisire un sistema

chiusoecompleto della verità, alla maniera dei neoplatonici (perciò i filo

sofi restano tali, cioè amanti del sapere ma non sapienti che lo possiedano

compiutamente). Non lo è in linea di principio, prché alla verità si può

pervenire solo nell’interazione dialogico-dialettica, che procede per ipo

tesi, confutazioni, nuove ipotesi, fino a pervenire a tesi che possano con

siderarsi inconfutabili e condivise. Queste “verità” sono inevitabilmente

priiali, legate ai problemi, ai personaggi, ai punti di vista di volta in volta

adottati nell’interazione dialogica. Segmenti di verità, dunque, anche del

la massima importanza, ma sempre dipendenti dal contesto dialogico in

cui prendono forma (si pensi alla diversa configurazione dell’idea del bene

nella Repubblica e del Filebo). 3. Proprio per questo, Platone sembra inte

ressato a costruire, più che compagini teorematiche concluse, procedure

di avvicinamento alla verità, dispositivi per la produzione di enunciati veri.

Si pensi ad esempio allaj ira astrattivo-idealizzante della dialetti-


appunto

epistemologicamente

i8

IL POTERE DELLA VERITÀ

Ca nella Repubblica, con la sua forte interazione con i saperi matematici,

al metodo diaiitico del fedro, al grande disegno dicotomico del Sga.

Parte orima

Si possono

.

insomma costruire progetti e regimi di verità, in gtai Controversie

dare risposte oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e deIlara

xis etico-politica, il modo in cui queste ripostevengpno generate produce

segrniprzialidiverità —

ed eticamente decisivi —

che hanno un orizzonte intenzionale di integrazione conoscitiya. Questo

orizzonte non sembra saturabile — in modo da pervenire a un sistema di

verità chiuso e definitivo — in ragione della natura locale e parzia

le dei progetti di verità via via perseguiti, che non si configurano come un

procedimento derivativo e teorematico.

Avvertenza Quando non diversamente specificato, le traduzioni dei testi in lingua origi

nale sono da intendersi dell’autore.


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IL POTERE DELLA VERITÀ

CRONACHE

PLATONICHE

13

tere dialqgi diversi, ma per far questo occorre per così dire sterilizzare il

senso sistematico di quella struttura secondo Szlezk, che la fa culminare

nell’insegnamento orale dei principi assoluti). D’altraparte, i problemi in

dagati dagli interpti non s1stmici appaiono agli altri privi dimteresse

pichéssisbrano kr già risolti in modo tanto soddisfacente da non

risultare neppure problemi (è qesto il caso, per fare un esempio illustre,

dell’idea del bene nella Repubblica, sul quale ritornerò più avanti).

SmptpiDrri sono anche i tentativi di mediazione qqi tentati

tempo addietro da Enrico Berti e più recentementefael_Ferber (che

riconosce l’esistenza di dottrine non scritte di Platone, ma nega loro il carat

tere più essenziale, quello della chiusura sistematica)!. Scarso è persino il con

fronto polemico (dopo alcuni memorabili scontri, come quello tra Wolfgang

Wieland e HansJ. Kriimer)3 : fa qui eccezione la strenua confutazione critica

della interpretazione sistematica condotta da Margherita Isnardi Parente.

Questa situazione di relativa jncornunjcabijitàsi riflette anche nei

manuah scolastici nelle loro edizioni piu recenti a un esposizione piu o

meno tradizionale del pensiero platonico fa seguito, di solito con un cer

to impaccio, ul rafo dedicato alle cosiddette “dottrine non scritte”

(lpenaaccettazionejponebbe mv tiiìpmpLetariscrittura del

capitolo platonico, come accade inveropr i testi di Giovanni Reale). Si

tratta di un imbarazzo non solo italiano, come attesta ad esempio l’ampio

e rite r anuale in lingua francese di Lambros Couloubaritsis.

In questa situazione può essere di qualche utilità e di qualche interes

se, soprattutto per gli studiosi che, pur non essendo specialisti di vicende

platoniche, non intendono ignorare del tutto quanto avviene in questi

territori della ricerca, il tentativo di tracciare una mappa sommaria

— cri

tica ma non polemica

— delle posizioni sulle quali si è attestata la scuola

di Thbingen-Milano. E il modo forse più agevole e perspicuo per farlo è

quello di considerare queste posizioni come un sistema teorico compiuto,

o — seguendo del resto le indicazioni più volte ribadite da Reale — come

un paradigma ermeneutico inteso nel senso dell ‘epistemologia kuhniana.

Si tratterà allora di ividuare brevemente la storia ha ndoito

alla formazione del paradigrna, i problemi che essoè chiamato a risolvere,

la sua struttura teorica, la “metafisica influente”? Altrimenti andrebbero

forniti che vi agisce, la sua dimensione pragmatica, e infine i paradossi che

si trova ad affrontare. Da ultimo, tutq1 otrà venir messo aflaprova

di una case histoy piuttosto sigpificativa, quella, come si è già accenna

to, dell’idea del bene nella Repubblica.

i

La storia, dunque. Gli studiosi della scuola di Thbingen indicano di soli

to, come loro più diretto antecedente, il libro di Julius Stenzel Zaht und

Gestatt bei Plato und Aristoteles (1914), jn cui si affrontava sistematica

mente per la prima volta la questioJJ testimonianze aristoteliche a

prppptlladpttrina acdemica delle iderneiLedLuoLpresup

posti platonici (a quello di Stenzel gli studiosi francesi e italiani amano

accostare i libri consimili di Léon Robin, del 190$, e di Marino Gentile,

del 1930). E in effetti i problemi dell’ontologia matematica costituiscono

il nucleo dell’opera fondamentale di Konrad Gaiser, Ptatons ungeschrie

bene Lehre, pubblicata nel 1963. Ma per quanto riguarda l’interpretazjQ

ne rnetaso sten1 ca sviluppata in particolare da Kràmcr, che qui

soprattutto ci interessa anche perché è quella che ha ricevuto in Italia la

maggiore attenzione da parte del ghippo di Milai:io ipuo probabilmente

indicare un altro antecedente stenzeliano, che del resto precedeva l’opera

sulle idee-numero; si tratta degli Studien zurEntwick1ungpishii.

Dialektik von Sokrates zu Aristoteles del 1917. In quest’opera, in cui com

piva un cauto distacco dal_neokantismo di Natorp, Stenzel individuava

k1.e ttutturapiranidale, 4a geìe

supremo deU’esserefino allsingo1eeindiisibili idee: un avvio, 4ii.nque,

verso l’interpretazione siemaj:ia di Platone fondata su una tpriaonto

logica dei principi. È qui il caso di rilevare che Stenzel appoggiava que

sta s idea su quella che spuò tranquillamente considerare una lettura

impropna del Sofista Egli scriveva infatti che Platone usava la <anesis

pgptirii catena ininterrotta che condu 4al generalissimo Essere

fino alla “idea atomica”»6. Ma in Platone non esiste, né può esistere, una

dicotomia che parta all’essere toeneremassimo,_questo non è

suscetjhile di divisione come lo sono le idee complesse (ad esempio “ani

male ) allo stesso modo in cui non sono suscettib;h di divisione gh altri

giìn

i1 diverso i identico la qiiete la stasi (divisioni che par

tono dall’essere furono in effetti proposte nell’ambito del neoplatonismo,

che traduceva l’essere categoriale di Platone nel contenitore ontologico

della totalità degli enti).

Comunque sia, Stenzel sta all’origine della storia remota,e dichiarata,

ikll’interpretazionetùbingia. Ma c’è forse un altro filone, più vicino e

meno ovvio, che ha stimolato la sua formazione. Mi riferisco agli sforzi

...di interpretaziq rnetafisico-sisternicl esierodiAristotele, con-


24 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 25

dotti in modi diversi daJoseph Owens il ii e da Philippe Merlan nel

1953 (poi seguiti da altri autori, come Reale, nel 1961, e Klaus Oehler nel

I967). L’essenziale di questa interpretazione consisteva nell’attribuire ad

Aristotele una ontologjderivativa1 cioè uno sviluppo continuo dell’essere

a partire dal principio teologico fino-agli enti naturali: in questo modo

Aristotele poteva venire convenientemente inserito in una linea che, per

citare il titolo dell’importante libro di Merlan, andava «dal platonismo al

neoplatonismo » 8. testi aristotelici opponevano certo. unaforte resisten

za a questa riduzione

tuttavia essi erano per così

dire prdiposLg, im’interpretazione sistematica ad opera di una secolare

tradizione scolastica, sempre molto autorevole soprattutto in ambiente

cattolico. Piuttosto, il programma di Merlan presentava una vistosa debo

lezza proprio al principio della catena metafisica proposta. Se la si poteva

far risalire dal neoplatonismo fino ad Aristotele, prima di lui sembrava che

ci si dovesse limitare a una incerta “metafisica accademica” ascritta a Se

nocrate e Speusippo; ma i testi platonici, e le loro letture dominanti fino

agli anni Sessanta, sembravano irriducibili a una collocazione metafisicosistematica

che li ponesse, come doveva essere, all’inizio di quella catena,

e nel luogo del suo fondamento. Non mi sembra azzardato ipotizzare che

l’opera inaugurale della scuola di Thbingen, la krameriana Areté bei Ptaton

unti Aristotetes. Zum Wesen unti zum Geschichte tier platonischen Ontolo

gie, del 1959, mirasse proprio a colmare questa lacuna; una volta riletto Pia

tone alla luce delle nuoyejstaflze m fik-si&tematjche, Kriimerpoteva

pojnidporiprcorrere in tu si urezza il cammino che da Platone

conduceva a Plotino, transitando per l’AccademiaIeeIofacva

nel grande libro Der Ursprung der Geistmetaphysik. Untersuchungen zur

Geschichte ties Platonismus zuischen ?taton unti Plotin del 1964 (avendo

nel frattempo trovato il sostegno offertogli da Gaisr nel suo Ptatons unge

schriebene Lehre, un’opera destinata del resto a rimanere piuttosto isolata

negli sviluppi dell’interpretazione tùbingiana, per i suoi interessi più ma

tematici che metafisico-ontologici).

Si aprivano così, agli inizi degli anni Sessanta, due controveisiparai

lele,ma scarsamente interagenti: quella sull’interpretazione di Aristote

osti gli studiosi non-sistematici, come Wieiand,

Dunng Owen aIye sistematici neoscolastici e ai nuovi sistematici

neopLaonjzzanti; e quella platonica, doveperò non era tanto in questione

la lettura di testi noti, bensì l’accettazione o il rifiuto di un Platone nuovo

di zecca, quello delle dottrine non scr,tt.

3

Se questa è sommariamente la storia dell’interpretazione del paradigma

tùbingiano, si tratta ora di capire quali problemi tradizionali la nuova teo

ria si proponeva di risolvere in un modo più soddisfacente di quelli fino ad

allora sperimentati. Ci sono naturalmente, in primo luogo, alcuni celebri

testi platonici. Nel fedro (274b-178c) Platone nega che la scrittura possa

sostituire, nella trasmissione della verità filosofica, il «discorso vivente ed

animato», quello che coinvolge direttamente le anime; il discorso scritto

non è in grado di «aiutare» (cioè di fondare e giustificare) sé stesso, e chi

conduce seriamente la ricerca filosofica non accetterà mai di affidare a esso

anziché alla comunicazione diretta tra le anime, «le cose più importanti»

(timiotera) che ha elaborato. Queste cose vanno indirizzate a chi è in grado

di comprenderle, per natura ed educazione, mentre la scrittura è struttu

ralmente incapace di selezionare i suoi destinatari.

A questo testo va accostato un passo della Lettera vii (della quale natural

mente gli interpreti esoterico-sistematici accettano l’autenticità, già sostenu

ta da Stenzel). Qui Platone, disconoscendo un compendio delle sue dottrine

scritto dal tiranno siracusano Dionisio, afferma che sui contenuti seri dei

suo pensiero non esiste né mai esisterà un suo scritto (syngramma): si tratta

di conoscenze che non sono in alcun modo «esprimibili» (rheton) come

le altre, ma possono venir comunicate, a quei pochi che ne sono degni, solo

nel contesto di una vita e di una ricerca in comune, di uno « sfregamento

fra anime» in cui si accende all’improvviso la luce della verità (34ob-34le).

Intorno a questi due testi se ne possono addensare alcuni altri, che sem

brano parimenti rinviare a una dimensione non scritta e tuttavia fondante

del pensiero e dell’insegnamento di Platone. Qui basterà tuttavia richiamare

l’attenzione su un paio di rompicapi, dalla cui soluzione dipende la possibi

lità di un’ interpretazione oralistica ed esoterica delle testimonianze del fetiro

e della Lettera VII. Si tratta dei controversi termini syngramma e rheton.

Se al primo si assegna il valore di “trattato” (Isnardi Parente), allora la

critica di Platone alla scrittura non coinvolge i dialoghi, che sono mimesi

scritta dell’incontro fra anime e non esposizioni monologiche di dottrine.

Se invece syngramma viene inteso come testo scritto in generale (Szlezalc),

allora la critica investe anche i dialoghi, la cui rilevanza filosofica viene quin

di ridotta a vantaggio di una comunicazione non scritta della teoria platoni

ca. Quanto a rheton, il problema nasce dalla sua collocazione nel contesto.

Platone afferma che la teoria filosofica non è esprimibile al modo in cui lo


che

risulta

z6 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 27

sono gli altri mathemata: ciò significa, secondo l’interpretazione oralistico

esoterica, che, a differenza degli altri saperi, quello filosofico può venire co

municato, ai suoi livelli più alti, solo dalla viva voce del maestro. Ma si può

osservare che Platone nel fedro sostiene ampiamente che neppure la retori

ca e la medicina possono venire apprese soltanto dai libri (z66d-z68c), e che

è comunque necessaria un’esperienza personale, diretta, “viva” della pratica

di queste discipline. La differenza tra la filosofia e gli altri saperi non consi

sterà allora nel fatto che il carattere intuitivo dei fondamenti della filosofia

ne esclude l’esprimibilità linguistica in generale, tanto scritta quanto orale ?

A parte questi dubbi, resta comunque vero che la critica platonica

alla scrittura pone il problema dello statuto dei dialoghi in rapporto alla

comunicazione delle supreme verità filosofiche: un problema che il pa

radigma tùbingiano ritiene di poter risolvere in modo più soddisfacen

te attribuendo a Platone un’attività di insegnamento orale, esoterico nel

senso che esso viene indirizzato a pochi allievi selezionati in base alle loro

qualità intellettuali e morali. Una qualche forma di insegnamento orale di

Platone è attestata dalla tradizione, come la sua celebre lezione sui bene:

ma qui non c’è nulla di sorprendente, perché qualsiasi professore affianca

lezioni orali alla scrittura dei suoi testi, e perché si trattava comunque di

una conferenza pubblica. L’esoterismo significa invece una partizione di

campi: i dialoghi avrebbero svolto una funzione protrettica alla filosofia,

in particolare nel campo etico-politico (così può venir spiegata ad esempio

l’esplicita esortazione di Platone a trascrivere i buoni dialoghi sulle leggi

in Leggi VII 8iie); i principi maggiori e fondanti del sapere filosofico sa

rebbero invece stati affidati a una trasmissione soltanto orale, che avrebbe

accompagnato l’intero corso del pensiero platonico e non soltanto la sua

ultima fase, come invece sosteneva Robin seguito da molti altri interpreti.

Un secondo gruppo di problemi

— hanno a che fare piuttosto con i

contenuti teorici che con la forma dell’insegnamento platonico — è posto

da alcune testimonianze aristoteliche, le quali sembrano potersi porre in

rapporto con certi oscuri passaggi di Platone stesso. Si è visto che egli allude

talvolta a un ordine fondazionale (la boetheia), presumibilmente costitui

to da quelle nozioni di maggior dignità (timiotera) che il filosofo si rifiuta

saggiamente di mettere per iscritto. La natura di queste nozioni viene forse

accennata in un passo del Timeo: «del principio, o dei principi che con

cernono tutte le cose, o comunque si pensi intorno ad essi, non si deve ora

parlare [rheteon], per nessun’altra ragione se non perché è difficile chiarire

quel che ne pensiamo secondo il presente metodo di trattazione» (4$c: vedremo

più avanti un’espressione analoga a proposito del bene nella Repub

blica). Poiché secondo gli interpreti oralisti non si tratta qui di una ritrosia

teorica da parte di Platone, bensì di una riserva esoterica, abbiamo una spia

del contenuto appunto dell’insegnamento esoterico: esso doveva trattare in

particolare di uno o più “principi” (archai) universali. Ecco trovato allora

l’anello di congiunzione con le celebri ma enigmatiche testimonianze ari

stoteliche. In fisica 4.2 Aristotele menziona alcuni problemi metafisici che

Platone aveva trattato nelle cosiddette “dottrine non scritte” In Metafisica

i.6, 9$7b, i8 ss., Aristotele scrive: «Poiché ie idee sono cause delle altre cose,

Platone riteneva che gli elementi [stoichela] delle idee fossero gli elementi

di tutti gli enti. Dal punto di vista materiale pensava che il grande e il pic

colo fossero principi, da quello essenziale l’uno: dal grande e dal piccolo,

per partecipazione all’uno, si costituiscono le idee [e i numeri]» (il testo

è molto controverso: cfr. 11 commento di Viano ad loc.). L’ Uno e la coppia

grande/piccolo (posteriormente attestata anche come “Diade indefinita”)

sarebbero dunque i principi/elementi da cui derivano fe idee e, mediante

esse, i numeri e gli enti. Come trattare queste testimonianze aristoteliche,

ed altre contenute soprattutto nei libri 13 e 14 della Metafisica, poi riprese

dai commentatori di Aristotele già a partire da Teofrasto (Met. cb, ii ss.)?

La celebre tesi di Harold Cherniss (14., 1945)

— che impura ad Ari

stotele e forse ai suoi compagni accademici un radicale fraintendimento

del pensiero platonico, esposto integralmente nei dialoghi — troppo

debole secondo gli interpreti esoterici. Avremmo qui invece una precisa

testimonianza di un sistema metafisico derivativo-generativo, contenuto

nell’insegnamento non scritto di Platone, e quindi ben noto a un grande

allievo come Aristotele, che non c’è più motivo di contestare una volta

ammessa la dimensione esoterica della filosofia platonica.

Il paradigma tùbingiano si mostra così in grado di risolvere in un colpo

solo due tradizionali rompicapi dell’interpretazione di Platone: la critica

alla scrittura da un lato, le testimonianze aristoteliche dall’altro. forma e

contenuto dell’insegnamento di Platone si trovano a venire simultanea

mente chiariti.

4

A questo punto, tutti i materiali necessari alla costruzione della teoria ese

getica sono disponibili. Esoterismo e metafisica sistematica dei principi si


l’arcinemico

dalle

z8 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE ‘9

implicano strettamente. Non esiste alcuno sviluppo del pensiero di Plato

ne: egli ha sempre avuto in mente l’insieme del suo sistema, come provano

i rinvii “fondazionali” reperibili fino nei primi dialoghi, ma non l’ha vo

luto affidare alla pubblicazione dei dialoghi scritti. Occorre notare che si

dà in questo modo per scontato che i dialoghi fossero “pubblicati’ mentre

di fatto non sappiamo nulla sul tipo di circolazione dei dialoghi né sul

loro pubblico. Perché Platone, in ogni caso, avrebbe rifiutato questa pub

blicazione? Gli ermeneuti tùbingiani e milanesi non intendono attribuire

a Platone un esoterismo di tipo pitagorico o gnostico (anche se è chiaro

che queste suggestioni restano implicitamente efficaci), ma le loro risposte

in proposito non sono univoche. La prima, e più debole, è che Platone

avrebbe temuto il ridicolo inerente a dottrine così complesse, come attesta

la derisione degli ascoltatori i quali avrebbero abbandonato in massa la

sala udendolo dire, nella famosa lezione sul bene, che questo non consiste

nella ricchezza o nella felicità ma nell’ Uno. E tuttavia Platone è perfetta

mente consapevole del ridicolo cui egli si espone quando preconizza, nella

Repubblica, il potere dei filosofi, la parità delle donne e la loro nudità nelle

palestre; ma la certezza della pubblica derisione non gli impedisce di soste

nere queste tesi assai più sconcertanti per l’ateniese medio della metafisica

dei principi. La seconda risposta è che gli ascoltatori/lettori non sono in

genere preparati, intellettualmente e moralmente, a recepire le supreme

verità filosofiche: ma perché allora il vecchio Platone avrebbe tenuto una

lezione pubblica sull’identificazione del bene con l’Uno? La terza e più

efficace risposta è che la scrittura è incapace di esprimere, nelle sue formule

statiche, ciò che assume il suo senso solo nell’esercizio dialettico. Questa

risposta è solidamente fondata sul fedro: si può solo osservare che a questo

dialogo viene così concesso lo stesso privilegio che gli aveva riconosciuto

Schleiermacher

— del nuovo paradigma ermeneutico.

Comunque sia, all’insegnamento orale-esoterico di Platone sarebbe

stata affidata la sua metafisica sistematica. Al vertice di essa stanno due

principi (archai): l’Uno e la Diade indefinita.

Il sistema derivativo che se ne genera consiste in una dinamica di suc

cessive pluralizzazioni indotte dall’azione del secondo sul primo principio

(secondo un modello che è inequivocabilmente neoplatonico, a parte la

duplicità dei principi, estranea al neoplatonismo). La prima generazione

è quella delle idee-numeri, la seconda quella delle idee, la terza quella de

gli enti matematici; sotto a essi sta la pluralità degli oggetti fisici dispersi

nella distesa spazio-temporale. Il processo della conoscenza consiste natu

talmente in un movimento riduttivo, dal molteplice ai principi, che riper

corre in senso inverso quello derivativo. Come si era anticipato, il pensiero

platonico si trova così convenientemente collocato al principio della linea

che appunto da Platone, tramite Aristotele, conduce infine senza scosse al

neoplatonismo.

Ci sono, a mio avviso, difficoltà teoriche di comprensione di questo

sistema, al di là del problema della sua verosimiglianza storiografica: e si

tratta di difficoltà che derivano tanto dall’ambiguità delle testimonianze

aristoteliche su cui esso si basa, quanto — come vedremo —

“metafisi

che influenti” che hanno operato nella costruzione del paradigma.

Ne indicherò qui sommariamente qualcuna. Come devono essere

concepiti i “principi” e in particolare la loro funzione generativa? Si può

pensarli come enti dotati di una capacità generativa ontologica, che come

tali restano separati e trascendenti rispetto al generato. Ma in questo caso

è difficile non concepirli rispettivamente come una divinità e una anti

divinità, attribuendo così a Platone una teologia di tipo neoplatonico o

piuttosto gnostico. In questo caso si stabilirebbe una distanza incolma

bile fra i principi e ogni genere di enti. Al contrario, si può insistere sulla

loro presenza negli enti in quanto “elementi” della loro struttura (come

sembrerebbe indicare Aristotele identificando principi e stoicheia). Ma

certamente essi non sono “elementi” nel senso in cui lo sono aria, acqua,

terra e fuoco, di cui le cose sono composte. Si tratterebbe allora di dimen

sioni essenziali di ogni singolo ente, alla maniera in cui lo sono piuttosto

le “cause” aristoteliche (forma, materia e così via). Ma allora l’unificabilità

dei “principi” sarebbe soltanto di tipo analogico (com’è appunto quella

delle cause), oppure categoriale (ogni ente può venir compreso in quanto

insieme uno e molteplice). fra queste due concezioni c’è uno scarto teo

ricamente ingovernabile, né esso sembra colmato da una terza concezione

dei principi come “enti generalissimi” alla maniera dell’essere scolastico.

Essi sarebbero in tal caso inclusivi degli altri enti, ma includere non è ge

nerare, e si può includere alla maniera dell’estensione di un concetto o di

una categoria, oppure in quella di un riferimento paronimico sul modello

dell’essere aristotelico (molte difficoltà dell’interpretazione di quest’ulti

mo si rifletterebbero allora sui principi platonici), o ancora alla maniera di

un contenitore ontologico. Confesso che non sono riuscito a comprende

re con chiarezza verso quale di queste soluzioni — ognuna delle quali, come

è facile vedere, è gravida di conseguenze teoriche anche contrastanti fra

loro — propendano gli interpreti sistematici; non è neppure da escludere


30 IL POTERE DELLA VERITÀ

r

CRONACHE PLATONICHE

31

che vi siano state fra loro anche divergenze e oscillazioni, mai però rese

esplicite.

Altri problemi riguardano lo statuto della Diade. Ma di questi si dirà

meglio discutendo la questione del bene.

5

Nell’opera inaugurale del nuovo paradigma, l’Areté del 1959, Kràmer non

aveva dubbi nell’indicare il referente filosofico della sua reinterpretazione

di Platone: si trattava dell’ontologia heideggeriana. L’approccio del secon

do Heidegger ai modi della comunicazione filosofica aveva probabilmente

creato un alone di simpatia anche nei confronti dell’esoterismo e della sua

trasposizione a Platone; ma il riferimento più diretto è senza dubbio da

vedersi nella Dottrina platonica delta verita e nella funzione che vi veniva

riconosciuta al bene, grazie al quale «il Seiende è mantenuto e “salvato”

nell’essere»’°. Così per Kramer «ogni ente, nella misura in cui è, è sempre

al tempo stesso già buono e conoscibile. Ogni ente d’altra parte è nella

misura in cui si avvicina al modo d’essere dell’Uno, del fondamento»; la

UeberseiendheitdesEinen appariva così a Kràmer come «l’antico anatogon

della “differenza ontologica” » di Heidegger”.

Il riferimento a Heidegger verso la fine degli anni Cinquanta aveva

certo il pregio di inserire la nuova interpretazione esoterico-metafisica di

Platone all’interno di un forte quadro filosofico, e anche, perché no, di

indicarne la collocazione politico-culturale. Esso suscitava però anche im

plicitamente serie difficoltà teoriche, di cui abbiamo già discusso qualche

riflesso a proposito delle aporie della dottrina dei principi. Intanto, non è

chiaro come l’ontologia heideggeriana potesse conciliarsi con la duplici

tà dei principi supremi attribuiti alla metafisica platonica. Ma soprattut

to l’aura heideggeriana comportava una netta tendenza a ridurre l’Uno

all’essere, poco compatibile sia con le testimonianze aristoteliche sia con la

rilettura neoplatonizzante di Platone, e più vicina semmai alla metafisica

aristotelico-scolastica (anche se, come è ben noto, il neoplatonismo era

uno dei protagonisti occulti della filosofia heideggeriana).

Che fosse per questi imbarazzi teorici, o in virtù di quello che egli un

po’ pomposamente chiama «il mutato spirito dell’epoca»”, nell’opera

del 1981 su Platone e ifondamenti detta metafisica Kràmer dichiarava ob

soleto il riferimento heideggeriano e annunciava un nuovo interesse per

il neohegelismo e la filosofia analitica. Questo secondo campo risulta in

effetti abbastanza estraneo allo spirito esoterico-metafisico del nuovo pa

radigma; ma quanto al primo è indubbio che l’influenza di Gadamer, con

tutta la sua autorevolezza nel panorama culturale tedesco, sia divenuta

sempre più avvertibile.

L’esplicito progetto di Gadamer, a livello storiografico, è quello di

ricostruire la grande tradizione della filosofia occidentale attorno all’as

se Aristotele-Hegel; ciò comporta una accentuata aristotelicizzazione di

Platone, che richiede in primo luogo una decisa riduzione del carattere

trascendente del bene-Uno quale esso compare nella Repubblica e viene

confermato dal neoplatonismo. In questo quadro il Filebo (dove «l’esse

re, quello del bene come quello di ogni essenza [...] si rivela direttamente

nell’ente») è chiamato ad assolvere un ruolo centrale. Gadamer è cauto

nei confronti dell’esoterismo delle dottrine non scritte (anche perché non

facilmente maneggiabile all’interno di un’ermeneutica storiografica della

parola scritta), ma è disposto a riconoscere l’identità del bene con l’U

no in quanto limite, misura, ordine dell’ente: garanzia insieme ontologi

ca, estetica e di valore dell’ordine del mondo’. L’influenza gadameriana

pare dunque giocare in favore della concezione elementare-categoriale dei

principi, a scapito di quella generativo-derivativa, e quindi alimentare la

tensione teorica cui sopra si accennava. Più in generale, appare chiaro che

le recenti simpatie neohegeliane di Kràmer sembrano alludere a una collo

cazione del nuovo paradigma nell’ambito della “filosofia dello spirito” più

che in quello metafisico-ontologico del neoplatonismo, o comunque pre

mere verso una reinterpretazione spiritualistica di quest’ultimo, in modo

non distante del resto dalle posizioni di Beierwaltes’.

Queste oscillazioni, fra una concezione trascendente dei principi da un

lato e una legittimazione ontologica degli enti dall’altro, avranno — come

vedremo — qualche conseguenza nella dimensione pragmatica del nuovo

paradigma tùbingiano-milanese. Ma la natura stessa della dottrina dei

principi, come viene ricavata dalle testimonianze indirette, e la sua aura

neoplatonico-gnostica continuano a restarvi prevalenti.

6

Molte delle difficoltà teoriche e storiografiche sono state per così dire mes

se in sordina dall’enorme sforzo compiuto, specie in Italia, per la diffu


31 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 33

sione e l’egemonia del nuovo paradigma: una vera e propria «strategia di

appropriazione»’5 dell’interpretazione platonica che non ha risparmiato

né energie di ricerca né investimenti editoriali né lavoro di propaganda, e

alla cui testa ha agito come un motore instancabile Giovanni Reale. Reale

sembra aver tradotto la dottrina dei principi attribuita a Platone nella di

mensione pragmatica di una ideologia “henologica’ cui pare venir destina

toil senso dello sforzo di cui si diceva. È il caso di citare alcune sue parole in

proposito: «L’uomo di oggi tende a dividere tutto [...]. Non solo a livello

politico (classi, partiti, correnti ecc.), ma proprio a livello etico: divisione

della famiglia con il divorzio, lotte fra i sessi (maschio e femmina), divisio

ne fra genitori e figli, e così via»’6. L’insistenza platonica sulla necessaria

unità della polis viene così interpretata come la conseguenza etica della

metafisica dell’Uno, e a sua volta riproiettata nella concezione organicisti

ca e integralistica di una comunità sociale liberata da pluralismi, diversità

e conflitti. In esergo al suo opus maius su Platone, Reale ha in effetti cita

to il motto di Leibniz: «se qualcuno riducesse Platone a sistema, costui

renderebbe un grande servizio al genere umano». Non sono abbastanza

esperto delle posizioni di Comunione e Liberazione o dell’Opus Dei per

sapere se questo “servizio” possa consistere nel trovare in Platone una loro

conferma. È chiaro per contro che l’accentuazione “henologica” compiuta

da Reale nell’ambito della dottrina dei principi attribuita a Platone va nel

senso di sostituire, nell’ambito del complesso arcipelago della “filosofia

cristiana’ una concezione appunto platonica-neoplatonica alla tradizio

nale metafisica aristotelico-tomista che aveva dominato nelle università

cattoliche da Lovanio a Milano. 11 tollerante pluralismo della dialettica

aristotelica viene così rimpiazzato con l’esoterismo sistematico, l’analo

gia entis con il riferimento univoco al principio dell’Uno-bene. E, quel

che più conta, l’accentuazione della positività etico-ontologica dell’Uno

impone per contro una comprensione del principio opposto, la Dualità

plurale, come male e non essere. Della minacciosa comparsa di questo

dualismo gnosticheggiante diremo più oltre, discutendo dei problemi re

lativi all’idea del bene; ma è certo che l’identificazione della pluralità con

il male può comportare conseguenze pragmatiche di un qualche rilievo.

Su questo terreno, del resto, non sembra che né Gadamer (che si richiama

alla «moderna coscienza cristiana e liberale») né il recente Kràmer se

guano le posizioni di Reale, preferendo piuttosto attestarsi sulla rivaluta

zione dell’etica aristotelica perseguita dalla “filosofia pratica” di ambiente

tedescot7.

7

Prima di giungere all’esempio conclusivo, vorrei brevemente soffermarmi

su alcuni paradossi prodotti dal nuovo paradigma, con la sua doppia as

sunzione secondo cui Platone ha posseduto una dottrina sistematica dei

principi l’Uno e la Diade, e non l’ha voluta esporre nei dialoghi scritti.

Questi paradossi consistono nella scrittura platonica del non-scritto (e

“non scrivibile”). Esistono in altri termini, nei dialoghi platonici, espe

rimenti teorici assai simili alla dottrina dei principi; esperimenti che, se

condo molti autori a partire da Cherniss, contengono in effetti tutto ciò

che Platone ha potuto pensare intorno a questa dottrina, che risulterebbe

di conseguenza né esoterica né sistematica. Se ne può indicare un catalo

go sommario. Il Filebo (su cui insiste, come si è visto, Gadamer) enuncia

due principi/elementi strutturali degli enti, il limite (peras), dotato di va

lore anche etico, e l’illimitato (apeiron), che non sono molto lontani da

una delle possibili interpretazioni dell’Uno e della Diade indeterminata

(si parla anzi esplicitamente di una derivazione degli enti dall’Uno e dal

molteplice, i6c). 11 Sofista discute una teoria dei cinque generi supremi,

il primo dei quali è l’essere, e ne deriva una complessa concezione tanto

logico-categoriale quanto ontologica del mondo noetico e degli enunciati

che vi si riferiscono (da qui, come si è detto, prendeva le mosse Stenzel). Il

Farmenide discute, in tutti i possibili aspetti logici e ontologici, il rapporto

fra Uno e molteplice, arrivando a livelli davvero vertiginosi di rarefazione

teorica, quali sembrerebbe difficile attendersi da uno scritto protrettico e

divulgativo. La Repubblica, infine, attribuisce all’idea del bene un ruolo

generativo e valorizzante rispetto alle altre idee assai simile a quello che le

dottrine non scritte riferirebbero esotericamente all’Uno.

Molti ritengono, a buon diritto, che questo insieme teorico rappresenti

uno dei vertici non soio del pensiero di Platone, ma della tradizione fi

losofica in generale, e che certamente esso forzi i limiti che il Fedro e la

Lettera vii assegnerebbero alla scrittura. Ed è difficile resistere all’impres

sione che il lavoro concettuale che vi viene prodotto sia immensamente

più ricco, anche perché più problematico, delle scarne formule in cui può

ridursi la formulazione delle dottrine non scritte. Ma, agli occhi del nuovo

paradigma, questi ed altri esperimenti intellettuali di Platone soffrono di

un doppio e imperdonabile difetto. Sono affidati alla scrittura, quindi alla

circolazione e alla discussione pubblica; e non sono sistematici: pongono

insomma problemi e domande là dove è assai più confortante disporre di


34 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 35

soluzioni e risposte, per di più non controvertibili. La scuola di Reale si è

recentemente impegnata su questo difficile terreno, nel doppio tentativo

di “salvare i dialoghi” per il loro valore filosofico, e insieme di mostrarne

il carattere solo problematico-preliminare rispetto alle risposte sistema

tiche offerte dalle dottrine non scritte. Così Maurizio Migliori definisce

ad esempio l’esito, nell’ambito di questo programma, della sua lettura del

Parmenide: si tratta di

una grandiosa riflessione filosofica, che, in senso tecnico, non dimostra nulla, ma

che risulta tutt’altro che criptica o inutile, perché offre molte e decisive afferma

zioni in negativo, varie importanti indicazioni storiografiche, alcune tracce filoso

fiche meritevoli di ulteriori sviluppi, squarci di discorsi che lanciano una serie di

ponti verso la Protologia, anche se la loro fondazione risulta sempre insufficiente

e incompleta, come deve essere nello scritto8.

È difficile non riconoscere in un’affermazione di questo genere la tenden

za ad applicare il “paradigma” più che a verificarlo (l’importanza del Far

menide venendo fatta dipendere solo dal suo rapporto con la dottrina dei

principi che gli è presupposta), a riconoscere più che a comprendere. Va

dato atto, comunque, dell’ammirevole tenacia intellettuale con la quale la

scuola di Reale persegue il suo programma di confronto con questi difficili

testi platonici.

8

Veniamo da ultimo al nostro esempio, certamente illustre: la questione

dell’idea del bene nella Repubb1ica’. È noto che nell’introdurre la discus

sione, di vitale importanza perché si tratta del meghiston rnathema per i

futuri governanti della potis filosofica, Platone formula una riserva enig

matica: «che cosa sia il bene in se stesso lasciamo per ora stare; mi sem

bra superiore al nostro attuale impulso il giungere all’opinione che ora ne

ho»; in luogo di una definizione esplicita, Socrate si impegna a fornirne

una descrizione metaforica, centrata sui sole (5o6d-e). Gli interpreti tra

dizionali hanno visto in questa esitazione il segno di una impasse teorica,

sperabilmente provvisoria, oppure l’indicazione ironica dell’impossibilità

di principio di definire il bene alla maniera delle altre idee. Gli ermeneuti

righe Platone a) sapeva benissimo in che cosa consistesse la definizione del

bene, cioè nella sua identificazione con l’Uno, b) ma non la volesse dire

esoterico-sistematici, invece, non hanno dubbi che mentre scriveva queste

per la nota inadeguatezza della scrittura a rivelare la dottrina dei principi.

Si tratta senza dubbio di una risposta forte, e a prima vista più convincen

te di quelle tradizionali. Tuttavia questa risposta comporta una riduzione

in qualche modo “violenta” delle successive difficoltà teoriche che il testo

presenta e che ne fanno un luogo di straordinario interesse filosofico. La

prima consiste nel nesso fra posizione epistemica e statuto ontologico del

bene. Platone insiste su una caratteristica comune a questi due aspetti: il

bene è causa di conoscenza e verità, ma è diverso da entrambe e superiore

a esse per valore; il bene è origine dell’essere e della ousia, cioè di esistenza

e determinazione essenziale, ma è collocato oltre (epekeina) l’ousia ed è

superiore a essa per dignità e potenza (dynamis) (5o8e-5o9a).

Il bene non appartiene dunque alla popolazione del campo epistemico

(le idee); poiché non è ousia, non è suscettibile per principio di una defi

nizione d’essenza, appunto il togos tes ousias. Tutto questo sembra inequi

vocabilmente indicare la non-oggettualità del bene, una sua collocazione

metaontologica che è anche immediatamente metaepistemica. Ne deriva

una difficoltà della conoscenza del bene che non ha niente a che fare con i

limiti della scrittura, ma che riguarda il suo peculiare statuto epistemico

ontologico che lo differenzia dalle altre idee e implica probabilmente una

forma diversa di conoscibilitàbo, forse intuitiva ed extralinguistica. Su que

sto non è qui il caso di insistere: ma è chiaro che la traduzione secca del

bene nell’Uno fa giustizia sommaria “gordiana” di questo nodo proble

e

matico, rendendo il principio definibile sistematicamente maneggiabile.

e

Una decisione in proposito comporta conseguenze di rilievo. Se si accetta

la non-oggettualità del bene, diventa teoricamente illegittima la domanda

sul “che cosa è’ e si deve invece prendere sul serio la “potenza” che Pla

tone gli attribuisce chiedendosi piuttosto “che cosa fa’ quali sono i suoi

effetti, la sua Wirkung. La traduzione del bene nell’Uno comporta invece

il declassamento del linguaggio della Repubblica a uno statuto mitico-me

taforico, preconcettuale, proprio della natura protrettica di questo dialogo

che andrebbe allora reinterpretato alla luce della più sobria concettualiz

zazione del Filebo, come vuole Gadamer, o delle dottrine non scritte come

preferiscono Kràmer e Reale. La seconda conseguenza riguarda il modo

di intendere la generazione delle idee dal bene (un paradosso teorico in

sé stesso, visto che le idee sono per definizione enti ingenerati, al quale

Plotino avrebbe dedicato uno dei suoi maggiori impegni concettuali). In


36 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 37

questo caso si ha un curioso effetto di chiasma: qui gli interpreti esoteri

co-sistematici sono disposti a prendere Platone alla lettera, concependo il

bene (s’intende in quanto Uno)’ come un generatore ontologico posto al

vertice di un sistema derivazionale dell’essere (Seinsabteitung). Viceversa

un loro avversario ante Iitteram come Ernst Cassirer scriveva nel 1915 che,

se si concepisce il rapporto fra bene e mondo come «un rapporto cau

sale, pensando il derivato come scaturiente dall’origine, così certamente

non parliamo più il linguaggio della conoscenza pura ma il linguaggio del

mito». Cassirer, e con lui tutti gli interpreti legati più o meno diretta

mente alla tradizione neokantiana, preferiscono pensare il piano delle idee

come quello delle norme, del senso, del tetos etico-politico; dunque la loro

derivazione dal bene significa la dipendenza non ontologica da una condi

zione ultima di possibilità delle norme, del senso, del tétos, quale è appunto

un principio di valore come il bene.

questo nodo come un nucleo

gio —

È difficile qui decidere dove sta il mito e dove la teoria; forse è più sag

e anche più platonico considerare —

problematico impregiudicato in entrambi i sensi, e dunque bon à penser,

come in effetti lo è stato per tutta la tradizione filosofica occidentale —

finché, s’intende, non è sopraggiunto chi è convinto di possedere le ri

sposte definitive. Da ultimo, l’aspetto etico: che non è e non può essere

considerato irrilevante dal momento che Platone ha deciso di dare nella

Repubblica al suo “principio” il nome e la finzione di un valore, quale è

appunto il bene.

Qui le conseguenze delle diverse opzioni interpretative sembrano po

ter venire delineate con precisione. Il bene può venire inteso a) secondo la

lettera del testo platonico, come un principio di valore privo di oggettua

lità, cioè metaontologico e di conseguenza metaepistemico. Si segnala così

una “assenza del bene” dal campo dell’esistente che lo colloca nel ruolo di

un orientamento trascendentale dellapraxis, in tutta una gamma di signi

ficati che possono andare dal kantismo alla fenomenologia. Nella prospet

tiva esoterica di riduzione del bene all’Uno, si aprono altre due possibilità:

bi) l’accentuazione neoplatonica della trascendenza dell’ Uno, nella figura

evidentemente con il male ontologico ed esistenziale: quel dovere si con

quindi di una divinità generatrice ma estranea rispetto all’essere; b2) l’e

quivalenza tra Uno ed essere, che porta quindi a una equiestensione di

valore ed esistenza.

Nel caso bi), l’etica viene ridotta drasticamente a una teologia, su cui

si fonda il dovere del ritorno all’unità originaria, con l’ulteriore compli

figura a questo punto come una mistica dell’unità e una fuga dal mondo

irreparabilmente contaminato dalla pluralità. Nel caso b2), l’etica viene

sull’ontologia, secondo principio kràmeriano secondo

schiacciata il il

quale ogni ente è buono misura Questo atteggiamento nella in cui è. è

cazione dell’esistenza di un secondo principio plurale, da identificare ora

visibilmente più aristotelico che platonico, visto che la filosofia di Plato

ne è intesa in modo strenuo legittimità etico-politica per

a negare la e

sino ontologica meno da considerarsi

dell’esistente; a che l’esistenza sia

inversamente proporzionale al livello di pluralità da cui è strutturata, ma

in questo caso da un ottimismo ontologico si regredirebbe al pessimismo

neoplatonicognostico di tu), con una oscillazione teorica invero allar

mante. Premuta fra teologia e ontologia, l’etica non sembra comunque

trovare molto spazio autonomo proprio a partire da quella supremazia del

bene sulla quale Platone intendeva fondarla. A questa impasse si deve forse

il ritorno di interesse per Aristotele e la sua filosofia pratica di qualche in

terprete esoterico. In ogni sembra campo queste letture

caso, mi che nel di

platoniche manchi ancora un confronto con conseguenze cam

serio le in

po etico della riduzione del bene della Repubblica all’ Uno delle dottrine

non scritte.

9

Vorrei, in conclusione, fugare un possibile equivoco. Queste sommarie

considerazioni non esauriscono neppure lontanamente la ricchezza di

analisi e anche di acquisizioni storiografiche studiosi

che il lavoro degli

legati al nuovo paradigma ha qui prodotto non

sin (come del resto

riscono le critiche che sono state loro rivolte). Un dissenso anche radicale

non può quindi esimere dall’impegno di prendere sul serio questo lavoro,

e di studiarlo a fondo. Esso ha certamente merito mettere avuto il di in

luce una serie di esperimenti teorici Platone ha condotto margine

che in

o come supplemento scrittura questi esperimenti de

della sua filosofica, e

vono venire considerati come parte integrante della nostra attuale com

parte a

le discutibili “applicazioni teoria campo etico-politico

intese” della in è

a proposito della pretesa attribuire Platone un’intenzione esoterica

di a

prensione di Platone. Là dove il dissenso diventa più profondo —

totale, di tipo postpitagorico o pregnostico, e il possesso incrollabile di un

sistema dottrinale di verità sottratto per principio alla discussione pub


38 IL POTERE DELLA VERITÀ

buca, e consistente in una metafisica derivazionale dei principi. Sul piano

storiografico questi due presupposti sembrano aprire, come si è visto, più

problemi di quanti ne risolvano. Sul piano filosofico, è davvero dubbio

se questo sistema dottrinale rappresenti uno stadio più avanzato rispetto

alla problematica che Platone instancabilmente affronta nei dialoghi. E,

infine, un’osservazione che penso valga tanto per il lettore non specialista

di Platone, cui è dedicata questa nota, quanto per i suoi studiosi: è davve

ro possibile comprendere Platone ritenendo solo preliminari e marginali

il suo «filosofare diatektikòs»’, lo spirito socratico dell’elenchos fatto di

congetture e confutazioni, l’ironia che significa disponibilità a riprendere

sempre di nuovo, nel dialogo, il confronto aperto degli argomenti?

Note

i. Per non appesantire questa nota con eccessivi riferimenti bibliografici, rinvio

sull’insieme dei problemi alle ampie bibliografie contenute in J. Wippern (Hrsg.),

Das Probtem der ungeschriebenen Lehre Platons, Darmstadt 1972; H. J. Kràmer, Plato

ne e ifondamenti detta metafisica, Milano 1982 (con una raccolta delle testimonianze

dirette e indirette); G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 1984

(io ed., Milano ii). Cfr. inoltre l’importante saggio di F. Franco Repellini, Gli

agrapha dogmata di Platone: la toro recente ricostruzione e i suoi presupposti storicofilosofici,

in “Acme”, XXVI, 1973, pp. 51-84.

a. Per la posizione di E. Berti, che tende a collocare le dottrine non scritte nel perio

do tardo del pensiero platonico, e non vede traccia di una teoria dualistica nella Re

pubblica, rinvio al suo Strategie di interpretazione deifitosofi antichi. Platone eAristote

te, in “Elenchos”, X, 1989, pp. 289-315. DiR. Ferber cfr., dopo l’importante Platos Idee

des Guten, Sankt Augustin 1984 (a’ ed. 1989), Die Unwissenheit des Philosopben, oder,

J’Varum hatPtato die “ungeschriebeneLehre”nichtgeschrieben?, Sankt Augustin

3. Le critiche di W. Wieland sono nell’introduzione a Platon und die formen des

Wissens, Gòttingen 1982; l’acre risposta di Krmer si trova in Platone, cit., pp. 323 Ss.

Fra

.

i vari interventi di M. Isnardi Parente mi limito a rinviare a Ilproblema detta

«dottrina non scritta» di Platone, in “La parola del passato’ cCxxvi, 1986, pp. 5-30, e

a Platone e il discorso scritto, in “Rivista di storia della filosofia’ XLVI, 1991, pp. 437-61.

.

L. Couloubaritsis, Aux origines de la philosopbie européenne, Bruxelles 1992 (alle

dottrine orali sono dedicate le pp. 190-a, a Platone le pp. 177-334).

6. Cfr. le pp. 135-6 della traduzione ingleseJ. Stenzel, Ptato’s Method ofDiatectic, ed.

D.J. Mlan, New York 1964.

CRONACHE PLATONICHE 39

.

Ho discusso queste interpretazioni in Tre tesi sull’unità detta «Ivietafisica» aristo

telica, in “Rivista di filosofia’ LXI, 1970, pp. 345-83. Su Merlan cfr. in particolare G.

Cambiano, Merlan:fltotogia efilosofla, in “Rivista di filosofia”, LXIX, 197$, pp. $9- 9$.

8. In questo modo si riproduce sempre di nuovo quell’emarginazione dei sistemi cilenistici

dalla linea portante della tradizione greco-occidentale, che è propria di molta

parte delta filosofia tedesca, come ha mostrato benissimo G. Cambiano, Il ritorno

degli antichi, Roma-Bari 198$.

Ho discusso alcuni di questi problemi in Dans t’ombre de Thoth. Dynamiques de

.

t’écriture chez ?taton, in M. Detienne (dir.), Les savoirs de t’écriture en Grece ancienne,

Lille 1988, pp. 387-419. La posizione di T. A. Szlezk sembra essere variata dal saggio

The Acquiring ofPhitosophicatKnowtedgeAccording to Ptato’s Seventh Letter, in G. W.

Bowersock, W. Burkert, M. C. J. Putnam (eds.), Arktouros. Hellenic Studies Presented

iv B. M. Knox, Bertin 1979, pp. 354-63 (dove egti ammetteva il carattere extralinguisti

co della conoscenza filosofica suprema), alle posizioni intransigentemente oralistiche,

comunque molto interessanti, di Platon und die Schrfltichkeit der Fhilosopbie, Berlin

1985, trad. ir. di G. Reale con il titolo Platone e la scrittura dettafitosofla, Milano 198$.

io. Cito da M. Heidegger, Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Milano 1987, p. 184.

ii. Le citazioni sono da H. J. Krmer, Areté bei Platon und Aristotetes, Heidelberg

1959,p. 555, nota 4; Id.,DieptatonischeAkademie unddasProbtem einersystematischer

Interpretation derPhilosophiePtatons, in “Kantstudien’ LV, 1964, pp. 86-7; Id.,Epekei

na tes ousias. Zu Ptaton Potiteia 5093, in “Archiv fiir Geschichte der Philosophie”, LI,

1969, p. 19. Di Kràmer cfr. anche Uber den Zusammenhang von Prinzipientebre und

Diatektik bei Ptaton. ZurDefinition des Dialektikers (Potiteia 534B-c) , in “Philologus”,

cx, 1966, pp. 3 5-70. Questo saggio, importante come quello precedente per l’inter

pretazione dell’idea del bene nella Repubblica, è stato tradotto e introdotto da G.

Reale con il titolo Dialettica e definizione del Bene in Platone, Milano 1989.

iz. Krmer, Platone, cit., p. 320.

13. H. G. Gadamer, Die Idee des Guten zwischen Ptato und Aristotetes, Heidelberg

1978, trad. it. di G. Moretto con il titolo Studi ptatomci 2, Casale Monferrato 1984,

pp. ii-z6i (la citazione è alle pp. 229-30; cfr. p. z6i).

14. Di W. Beierwaites cfr. il classico Ptatonismus und Ideatismus, Frankfurt a.M. 1972,

trad. it. di E. Marmiroli con il titolo Platonismo e idealismo, Bologna 1987; e Den

ken des finen. Studien zur neuptatonische Phitosophie und ibrer Virkungsgescbichte,

Frankfurt a.M. 1985, trad. it. di M. L. Gatti con il titolo Pensare t’Uno, Milano

15. L’espressione è di Berti, Strategie di interpretazione, cit., p. 289.

i6. G. Reale, L’benotogia netta Repubblica di Platone: suoipresupposti e sue conseguen

ze, in V. Meichiorre (a cura di), L’uno e i molti, Milano 1990, pp. 113-53 (la citazione

è ap.

17. H. G. Gadamer, L’anima atte soglie delpensiero nellafilosofia greca, Napoli 1988,

p. 64; per Krmer cfr. In quale misura la concezione aristotelica dell’etica è ancor oggi

attuate?, in “Museum Patavinum”, IV, 1987, pp. 23 5-49.

i8. Cfr. M. Migliori, Dialettica e Verità, Milano j99o,p.

19. Ho trattato più ampiamente del problema in L’idea del bene nella Repubblica di

Platone, in “Discipline filosofiche”, I, 1993, pp. 207-30.

zo. Sul problema della conoscibilità dei bene è interessante segnalare un piccolo ma

significativo ritocco al testo apportato da R. Radice nella sua traduzione della Re-


costituisca

40 IL POTERE DELLA VERITÀ

pubblica compresa nel volume Platone. Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Milano

1991. A 5o$e Radice traduce: «ed essendo essa [l’idea del bene] causa di conoscenza e

verità, ritienila conoscibile», il che presume un accusativo ho’sgigno’skomenèn. li testo

di Burnet, che viene seguito nella traduzione, reca invece il genitivo Jsgznòskomene’s,

che va riferito ad aletheias («causa di conoscenza e di verità in quanto conosciuta»:

cfr. la traduzione di Shorey «oftruth in so far as known»). La correzione dei testo

non è segnalata da Radice e non pare giustificata dalle varianti in apparato, quanto

piuttosto dalla preoccupazione di far dire a Platone che l’idea del bene è positiva

mente conoscibile.

ai. A proposito dell’identificazione del bene con l’Uno la testimonianza aristoteli

ca viene invece sottovalutata. In Etica Nicomachea 1.4 Aristotele discute, e respinge,

la concezione del bene come essa è proposta nella Repubblica, attribuendo invece il

rapporto bene-Uno ai pitagorici e a Speusippo (Io96A 5-7). L’identificazione bene-

Uno è attribuita nell’Eudemia a una tesi (accademica) attuale (nun) (i.8 iai$a 17 ss.),

mentre in precedenza Aristotele ha confutato le posizioni platoniche del bene-idea

sostenute nellaRepubblica. Nonostante i saggi diJ. Brunschwige dii. Berti in P. Mo

raux, D. Harffinger (Hrsg.), Untersuchungen zur Eudemischen Ethik, Berlin 1971, il

problema attende ancora forse un compiuto chiarimento.

za. Cito da E. Cassirer, Die Philosophie der Griechen von den Anfrngen bis Ptaton, in

M. Dessoir (Hrsg.), Die Geschichte derPhitosophie, voi. i, Berlin ‘9z, trad. it. di G. A.

De Toni con il titolo Da Thlete a Platone, Roma-Bari 1984, p..

23. Sul tema (e in particolare sui filebo) cfr. G. Casertano, Filosofare dialektikòs in

Platone: ilfilebo, in “Elenchos”, X, 1989, pp. 6j-,oz. Ringrazio Franco Ferrari per le

sue utili osservazioni a proposito di questo articolo, una cui prima stesura ho avuto

modo di discutere in un seminario tenuto presso l’Università di Torino nel maggio

1993, su invito di Carlo A. Viano. Quando questa nota era già in bozze, sono venuto

a conoscenza della fedele ricostruzione del pensiero di Reale, destinata all’ Università

cattolica di Lovanio, di L. Rizzerio, Ptaton, t’écote de Thbingen et Giovanni Reale, in

“Revue philosophique de Louvain”, XCI, 1993, pp. 90-110, e della relazione, di note

vole spessore critico, presentata da L. Brisson (Gli orientamenti recenti della ricerca su

Platone) al convegno su Platone dell’ARIFS, tenuto a Firenze nel novembre 1993, poi

pubblicata in “Elenchos”, XV, 1994, pp. 255-85. È comparso nel frattempo il commento

al filebo di M. Migliori, con il titolo L’uomofra piacere, inteizenza e bene, Milano

1993. Un ponte fra fa nuova interpretazione di Platone e le sue precedenti ricerche

aristoteliche, verso le quali si riattiva ora l’interesse, è stato gettato da G. Reale nelle

sue recentissime riedizioni del Concetto difilosofia prima e l’unita della A’fetafisica di

Aristotele, Milano 1993 (“ ed.), e della cosiddetta “edizione maggiore” del commento

alla Ivletafisica, 3 volI., Milano 1993.

«Solo Platone non c’era» *

Racconta Luciano di Samosata, nella Storia vera, di un suo fantastico viag

gio nelle «Isole dei Beati», dove aveva incontrato ie anime di tutti i filo

sofi, salvo uno: «Solo Platone non c’era: secondo voci che circolavano,

abitava nella città che si era inventata, dove viveva secondo la costituzione

e le leggi che aveva scritto» (ii 17). Ma l’assenza di Platone da questa sorta

di “paradiso” filosofico non è l’unica, né la più clamorosa. Nei suoi dialo

ghi, egli menziona solo una volta il proprio nome (a parte l’Apologia, dove

Socrate lo cita fra coloro che sono disposti a pagare una sua eventuale pena

pecuniaria): e lo fa nel fedone, per segnalare appunto la propria assenza,

per un’indisposizione, dalla cella dove Socrate tenne la sua ultima conver

sazione e bevve alla fine la cicuta (59b).

Si può dire che l’assenza di Platone dai dialoghi — cioè l’anonimato

d’autore, come accade nei testi teatrali — da un fato un’ovvietà,

dall’altro un paradosso storiografico: l’autore del primo grande corpus di

scritti filosofici dell’antichità che ci sia pervenuto per intero non si attri

buisce nessuna delle teorie che vi vengono argomentate. L’aver preso sul

serio questo paradosso, almeno alla stregua di un rompicapo ermeneutico,

costituisce, si può dire, la novità più rilevante della storiografia platonica

negli ultimi decenni del secolo scorso. Platone, è vero, parla in prima per

sona nelle Lettere che vanno sotto il suo nome. Esse sono però tutte senza

dubbio falsificazioni tardive, con la sola possibile eccezione della Lette

ra vii. Se autentica (ciò che non è affatto sicuro), essa contiene interessanti

informazioni sull’autobiografia politica di Platone, tesi etico-politiche che

rispecchiano da vicino quelle contenute nel dialogo sulla Repubblica, e un

Questo capitolo è già stato pubblicato in “?aradigmi. Rivista di critica filosofica”, XXI,

Ci, 0.5., 2003, pp. 161-77.


— com’è

noi

dalla

di

la

42. IL POTERE DELLA VERITÀ «SOLO PLATONE NON C’ERA» 43

excursus propriamente filosofico che tuttavia non corrisponde a nulla di

quanto è scritto nei dialoghi; il che costringe l’interprete all’alternativa

di considerare questi ultimi come estranei al pensiero di Platone, oppure

più verosimile — considerare almeno l’excursus come un’inter

polazione tardiva (probabilmente medio-platonica).

i

2.I

Poiché l’anonimia d’autore nei dialoghi platonici costituisce, come si è

detto, oltre che un paradosso anche un’ovvietà, la tradizione ha proposto

una gamma di soluzioni, che solo di recente sono state rimesse radical

mente in discussione. La prima e più intuitiva di esse consisteva nel fare

del Socrate dialogico il “portavoce” autentico di Platone. Alla naturale

obiezione che Socrate non compare affatto in un dialogo (le Leggi), e

ha una posizione del tutto secondaria in altri (come il Politico, il Sofista,

e anche il Timeo e il Parmenide) la risposta tradizionale — formulata ad

esempio da Diogene Laerzio (iii 52) — era che il “portavoce” di Platone

fosse comunque da ravvisare nel protagonista del dialogo (di volta in volta

lo “straniero di Elea’ Timeo, lo stesso Parmenide). Già Galeno, tuttavia,

aveva formulato dei dubbi in proposito, ipotizzando che Platone avesse

attribuito al solo Socrate le sue dottrine più autentiche, riservando ad altri

come Timeo quelle non «scientifiche» ma piuttosto «retoriche» (De

ptacitis IX 7). Alla sensibilità stilistica di Galeno non sfuggiva del resto che

Platone attribuisce ai suoi protagonisti linguaggi appropriati e ben diffe

renziati: e — potremmo aggiungere — lingua del Tirneo o delle Leggi

ha ben poco a che fare con quella del Simposio o della Repubblica.

Ma c’è molto di più. Il personaggio Socrate, e a maggior ragione gli al

tri protagonisti dialogici, non rappresentano nei diversi dialoghi posizioni

filosofiche che possano in alcun modo venire considerate omogenee e cu

mulative, come potrebbero esserlo i capitoli di un trattato ad esempio di

stile aristotelico. Ci sono clamorose alterazioni tanto nello stilefilosofico del

personaggio — celebre professione di “non sapere” propria dei dialoghi

detti “aporetici” all’esposizione dottrinale assertiva della Repubblica o del

filebo —‘ quanto nei teoremi filosofici sostenuti (basti pensare alla dottrina

pitagorizzante dell’anima nel fedone per contrasto a quella tripartita della

Repubblica o alla psico-fisiologia del Timeo). Ci sono ripetizioni dottrinali

non rese esplicite (ad esempio la dottrina del coraggio nel Lachete, ripresa

senza autocitazioni nella Repubblica), oppure autocitazioni insufficienti e

anche deliberatamente deformanti (è il caso del “sommario” della Repub

blica offerto nel prologo del Timeo), o ancora dottrine che in certi testi

paiono genuinamente socratiche e che in altri invece vengono attribuite a

personaggi diversi e confutate dallo stesso Socrate (è il caso delle definizio

ni di sophrosyne proposte da Crizia nel Carmide). In qualche caso, in un

dialogo Socrate si dichiara incapace di trattare un argomento complesso

che invece affronta con sicurezza in altri (è il caso del “buono” e della dialet

tica nella Repubblica, discussi in modo molto più positivo rispettivamente

nel filebo e nel Fedro, oltre che dallo “straniero di Elea” nel Sofista). Infine, è

fuori di dubbio che l’autore manifesti a volte, attraverso altri personaggi, il

suo distacco ironico e critico da quello di Socrate (basti pensare al ruolo di

Glaucone nella Repubblica e a quello di Parmenide nel dialogo omonimo).

2.2

La risposta tradizionale a questi problemi consiste nello spiegare discrepanze

dottrinali e differenze nello stile filosofico dei dialoghi ricorrendo all’ipotesi

di una evoluzione nel pensiero di Platone. Secondo la sua versione standard,

esso avrebbe attraversato tre fasi: quella giovanile, “socratica” (corrisponden

te all’incirca ai dialoghi “aporetici’), quella della maturità (al cui centro sta

la Repubblica), e quetia di revisione critica nella vecchiezza. Occorre subito

dire che c’è molto di ragionevole in questa ipotesi: per ogni filosofo di cui

ci sia esattamente nota la cronologia delle opere è possibile ravvisare mu

tamenti di prospettive teoriche, differenze di temi e di approcci. Nel caso

di Platone, tuttavia, l’ipotesi evolutiva non appare dotata di sicure capaci

tà euristiche. In primo luogo, la cronologia dei dialoghi è inevitabilmente

incerta. Le indagini stilometriche (che prendono a testo-campione quello

che è sicuramente l’ultimo dialogo di Platone, le Leggi, e situano cronolo

gicamente gli altri secondo una scala crescente di differenze stilistiche) non

sembrano poter andare oltre tre grandi raggruppamenti: i. tutti i dialoghi

salvo z. fedro, Repubblica, Pannenide, Teeteto, e 3. Sofista, Politico, filebo,

Timeo/Crizia, Leggi. Anche questi raggruppamenti non appaiono del

sto incontrovertibili, per almeno due ragioni di principio. La prima è che il

ap

re


unito

come

— quindi

tra

di

dunque

intorno

tra

44 IL POTERE DELLA VERITÀ «SOLO PLATONE NON C’ERA» 45

dialogo-campione, le Leggi, è stato lasciato incompiuto da Platone e redatto

nella forma che noi leggiamo da Filippo di Opunte, il che lascia qualche

dubbio sui suo carattere “platonico’ almeno dal punto di vista stilistico; la

seconda, più importante, è che per i dialoghi — come e più che per ogni altra

opera non stampata — non esiste una vera e propria “data di pubblicazione’

e che ne sono circolate senza dubbio diverse versioni (sappiamo ad esem

pio che Platone nell’ultimo giorno della sua vita era intento a rielaborare

l’inizio della Repubblica), il che rende incerta qualsiasi collocazione crono

logica. Ma, quel che più conta, discrepanze teoriche sono presenti anche in

dialoghi appartenenti allo stesso gruppo: la teoria dell’anima del fedone è

molto diversa, per non dire contraddittoria, rispetto a quella esposta nella

quasi coeva Repubblica, e quest’ultima è invece più vicina al tardivo Timeo;

la teoria delle idee sostenuta nella Repubblica è seriamente criticata nel quasi

contemporaneo Parmenide. Gli esempi di questo tipo si potrebbero molti

plicare, tanto che l’efficacia esplicativa dell’ipotesi evolutiva ne risulta seria

mente indebolita, anche se non — si diceva — del tutto invalidata.

Ancor meno percorribile è la via dell’ordinamento dei dialoghi se

condo la data “drammatica cioè quella in cui viene ambientata la scena

dialogica. Per moltissimi dialoghi, esistono difficoltà insuperabili per una

datazione di questo tipo; del resto, il primo dialogo nell’ordine della da

tazione drammatica sarebbe il Parmenide, dove compare un Socrate “gio

vanissimo” che critica una teoria delle idee formulata nel fedone, l’ultimo

in quest’ordine.

3

3.1

Questo insieme di problemi — a una crescente attenzione per la for

ma letteraria dei testi filosofici — ha condotto negli ultimi decenni a un

radicale ripensamento di alcuni dati di fatto tanto evidenti quanto spesso

trascurati dalla tradizione esegetica: l’anonimia d’autore, l’assetto dialogi

co dei testi platonici, e infine un secondo paradosso ermeneutico. Il primo

grande corpus di testi filosofici della tradizione occidentale include, nel

fedro, una critica radicale alla possibilità che la scrittura esprima le più

elevate verità teoriche, che dovrebbero invece venire affidate alla comu

nicazione viva e diretta — orale — le anime di chi persegue il

sapere. La rinnovata consapevolezza di questo orizzonte problematico, e

degli enigmi che esso propone, ha tuttavia dato luogo a esiti interpretativi

profondamente differenziati, a seconda delle diverse tradizioni filosofiche

e dei diversi ambienti culturali in cui essa è venuta proponendosi.

Una tendenza che ha svolto negli ultimi decenni un ruolo di rilievo,

soprattutto in Germania e in Italia (molto meno in ambiente anglosasso

ne) è quella oralistico-esoterica rappresentata dalla “scuola di Tùbingen’

e, da noi, dall’ Università Cattolica di Milano. Questa tendenza, motivata

dall’intenzione di ristabilire l’unità della “metafisica classica” da Platone

al neoplatonismo attraverso Aristotele, e non esente almeno all’inizio da

influenze heideggeriane, prendeva le mosse da tre elementi problematici

interagenti. 11 primo è il carattere palesemente incompiuto, dal punto di

vista di una filosofia sistematica, degli sviluppi teorici presentati dai dia

loghi, e inoltre la presenza in essi — a nodi cruciali come il bene,

la dialettica, l’uno — reticenze, omissioni, rinvii non saturati a ulteriori

discussioni. Il secondo è la critica del Fedro alla capacità della scrittura in

generale (compresi, quindi, gli stessi dialoghi platonici) di esprimere le

maggiori “verità” filosofiche: questa inadeguatezza di principio del testo

scritto spiegherebbe dunque la deliberata insufficienza dei dialoghi in ter

mini di filosofia sistematica. Il terzo elemento consiste nella presenza in

Aristotele (soprattutto nella Aìletafisica e nella Fisica), di alcune testimo

nianze relative a “dottrine non scritte” (agrapha dogmata) professate da

Platone e/o dagli Accademici: queste dottrine sarebbero imperniate su di

una “teoria dei principi” — l’Uno e la Diade indefinita, principio dunque

di unità il primo, identificato con il bene, di molteplicità il secondo — dai

quali deriverebbe metafisicamente l’intera realtà, disposta secondo diversi

livelli di pluralizzazione, dai principi stessi alle idee e ai numeri fino alle

cose empiriche.

Dall’interazione di questi tre elementi ha preso forma quello che è sta

to definito il nuovo paradigma nell’interpretazione di Platone. I dialoghi

scritti avrebbero il ruolo di esercizi preparatori e propedeutici all’autenti

ca riflessione filosofica, che non può avvenire se non nel rapporto diretto

orale — maestro e discepoli: un rapporto in un certo senso

“esoterico’ perché consente, a differenza della scrittura, una selezione di

interlocutori intellettualmente e moralmente adeguati, i membri della

“scuola”. I risultati di questa riflessione filosofica sarebbero quelli attestati

nelle testimonianze aristoteliche, e cioè un sistema metafisico dei principi


46 «SOLO PLATONE NON C’ERA» 47

i

IL POTERE DELLA VERITÀ

e della derivazione dei gradi dell’essere che in qualche misura anticipa i

posteriori esiti del neoplatonismo.

Al nuovo paradigma oralistico-esoterico sono state opposte numero

se obiezioni, di diverso peso teorico e portata storiografica. Si è insistito,

in primo luogo, sulla vaghezza delle testimonianze aristoteliche, che non

consentono di spingersi così in là nella delineazione di un sistema metafi

sico compiuto, e che sembrano comunque riferirsi più agli Accademici che

allo stesso Platone. Si è inoltre, in modi diversi, messo in dubbio che la cri

tica alla scrittura del fedro debba venir riferita agli stessi dialoghi platonici

invece che al suo bersaglio esplicito, la trattatistica retorica e anche (stando

alla Lettera vri) filosofica. D’altro lato, si è mostrato come elementi di una

“dottrina dei principi” sono presenti anche nei dialoghi, dalla Repubblica

(priorità ontologica del bene) al fitebo (teoria del limite e dell’illimitato),

al Farmenide (problematica logico-ontologica dell’uno): ciò dimostrereb

be dunque che è possibile scriverne, attenuando così la distanza fra scrit

tura e oralità. Si riapre dunque la domanda sul perché Platone non abbia

scritto le “dottrine non scritte”: a essa si potrebbe rispondere che ciò non è

dovuto tanto all’inadeguatezza della scrittura quanto al carattere ipoteti

co e “sperimentale” di quelle dottrine, non ancora sufficientemente elabo

rate e condivise per poter venire trasferite nella scrittura dialogica. Altre

obiezioni hanno un carattere più marcatamente teorico. Si è osservato che,

a voler prendere sul serio l’excursus filosofico della Lettera vii (oltre che

numerose asserzioni nei dialoghi sulla dialettica), secondo Platone è im

possibile per principio costruire un sistema chiuso e uhimativo della verità

filosofica, sempre aperta per contro all’indagine dialettica e al confronto

dialogico: in questo sarebbe da ravvisare la perdurante fedeltà di Platone

allo spirito del magistero socratico. Da questo punto di vista, si è anche

messa in rilievo fa “povertà” teorica del sistema metafisico dei principi ri

spetto all’immensa ricchezza di analisi filosofiche presenti nei dialoghi.

Più specificamente, si è rilevato che l’identificazione dell’uno con il bene

complementare identificazione

una logica polare —

secondo

comporta —

della Diade con il male, il che farebbe del mondo il teatro di una lotta fra

la

due principi assiologicamente opposti, secondo una dinamica che appare

assai più vicina allo gnosticismo che allo stesso neoplatonismo.

acceso in alcuni momenti di

Va detto che questo confronto —

aver dato luogo negli ultimi anni a

tematizzata nella testualità scritta dei dialoghi, e il loro riferimento alle

assai

sembra

contrapposizione radicale —

qualche forma di riavvicinamento fra le due tendenze. Alcuni studiosi di

“dottrine non scritte” tende a diventare sempre più mediato, in termini di

integrazione e non Dall’altra parte,

di alternativa a quella filosofia. si va af

fermando la tendenza a non rifiutare in toto le testimonianze aristoteliche,

e ad accettare l’idea che Platone abbia effettivamente tentato esperimenti

di pensiero in direzione di una dottrina dei principi, che si affianchereb

bero però alle teorie dei dialoghi senza sostituirle o renderle per principio

inadeguate.

Tutto questo riapre però il problema che il paradigma oralistico

esoterico sembrava aver drasticamente risolto. Alla domanda “Dov’è, nei

dialoghi la filosofia di Platone?” esso aveva risposto che questa filosofia

non era affatto reperibile nei dialoghi ma fuori di essi. L’indebolimento

una parte e dall’altra —

questa risposta troppo perentoria ripropone

— da

di

la domanda, sia pure integrata dalla necessità di non sottovalutare anche le

testimonianze indirette.

3.2.

Per garantire la coesistenza fra la problematicità aperta dei dialoghi e un

non

nucleo teorico direttamente ascrivibile alla filosofia di Platone

orientamento oralistico-esoterico hanno riaperto l’indagine sulla filosofia

più

state recentemente ten

sono

cercata però all’esterno dci dialoghi stessi

tate altre due vie.

La prima è consistita nell’accettare la dipendenza dei singoli sviluppi

dialogici dagli interlocutori coinvolti e dai temi trattati, cioè dal contesto

dialettico (secondo il principio del dialectical requirement o della Kon

textbezogenheit) e tuttavia nel supporre che questi sviluppi presumano

comunque il riferimento a un nucleo dottrinale stabile, sia esso da reperire

in un particolare insieme teorico (ad esempio quello etico-psicologico)

oppure in un determinato testo (ad esempio la Repubblica). I dialoghi

rappresenterebbero allora, nel primo caso, una strategia retorica di per

suasione dei diversi interlocutori, adattata ai loro livelli di credenza e di

preparazione filosofica; nel secondo, un procedimento “prolettico” di pro

gressiva preparazione del pubblico all’apprendimento e all’accettazione di

dottrine preesistenti alla messa in scena dialogica.

A queste proposte è stata obiettata la scarsa verosimiglianza storio

grafica, oltre che l’arbitrio ermeneutico consistente nel decidere in modo

aprioristico rispetto alle situazioni testuali quale sia il nucleo dottrinale


48 IL POTERE DELLA VERITÀ I «SOLO PLATONE NON C’ERA» 49

4

che Platone intendeva davvero insegnare e rendere persuasivo. Riesce in

effetti difficile credere che il filosofo abbia concepito interamente il nucleo

essenziale del suo pensiero prima ancora di iniziare a esporlo per iscritto,

e l’abbia tenuto deliberatamente nascosto (se non per approssimazioni

si trattasse di un prolunga

quasi

successive) per lunghi anni preparatori —

tissimo corso universitario alla fine del quale soltanto quel pensiero fosse

esposto in modo compiuto. Questo avrebbe comportato l’irrilevanza dei

singoli contesti problematici affrontati, degli apporti ricevuti dall’ interno

e dall’esterno della scuola, del mutare delle situazioni storiche e culturali

complessive. Del resto, perché adottare un così faticoso percorso protret

pubblico cui

è del tutto ragionevole pensare —

come

il

tico-prolettico se —

erano destinati i dialoghi è sempre stato quello ristretto e selezionato dei

“compagni” di ricerca filosofica di Platone raccolti nell’Accademia?

A obiezioni analoghe si presta la seconda delle vie ora menzionate,

quella dell’interpretazione “ironica” dei dialoghi che fa capo a Leo Strauss.

In questa prospettiva, Platone non avrebbe mai scritto quello che pensava

davvero, o anzi in certi casi (come ad esempio in quello dell’utopia politica

ciò

della Repubblica) avrebbe scritto il contrario di quello che pensava —

che poteva essere dovuto al timore di persecuzioni, o al desiderio di se

lezionare, mediante la strategia di una lettura “tra le righe”, un pubblico

adeguato, o ancora al desiderio di mostrare, grazie al distacco ironico, l’in

congruità delle tesi apertamente professate. Questa linea interpretativa,

giustificata in ambienti culturali a impronta teocratico-repressiva, come

quello islamico, ebraico o controriformista, difficilmente si può riferire

al mondo greco, tanto più se si pensa che le idee esposte da Platone nei

dialoghi scritti sono spesso audacemente anticonformiste (basti pensare

al “comunismo” e alla parità fra uomini e donne della Repubblica), e che,

come si è detto, il pubblico dei dialoghi non doveva andare oltre l’ambien

te accademico.

Il lavoro condotto secondo queste prospettive ermeneutiche ha senza

dubbio prodotto risultati preziosi, richiamando l’attenzione sulle forme

espressive dei dialoghi, i loro dispositivi retorici, il ruolo dei personaggi

coinvolti, la contestualità problematica. Ma i suoi risultati si possono con

siderare nell’insieme non convincenti, per la comune assunzione che sia

possibile reperire una filosofia di Platone al difuori dei testi dialogici, a

Di fronte a questo insieme di aporie, si è fatta strada, soprattutto in am

monte, a fianco o dietro di essi, oppure ancora che sia possibile individuare

un singolo dialogo, o gruppo di dialoghi, come l’espressione vera e ultima

biente anglosassone la decisione ermeneutica di assumere 1”approccio

dialogico” in tutta la sua necessaria radicalità, che consiste nel non trascen

di quella filosofia.

dere in alcun modo l’effettiva testualità platonica e nell’accettarne senza

intenti riduttivi la complessità la problematicità le tensioni teoriche.

Da questo punto di vista, ciò che accade nei dialoghi non è la formu

lazione di una filosofia ma il gesto fondatore del pensarefilosoficamente, la

messa in scena drammatica della filosofia nel suo farsi. Platone avrebbe in

altri termini rappresentato lo spazio problematico della nuova forma di in

dagine e di conoscenza, le tesi rivali che vi si affrontano, i metodi e le proce

dure argomentative propri del suo stile intellettuale, infine anche le pretese

rivendicate da questo sapere di fronte alle scienze e alla vita etico-politica

degli uomini. Lo sviluppo teorico dei dialoghi dipende dal loro specifico

contesto problematico dagli interlocutori che vi si confrontano, presen

tandovi le loro tesi e persino le loro forme di vita. Per principio, dunque, i

dialoghi non possono condurre a conclusione dogmatiche valide univer

salmente al di là di quanto vi viene dibattuto: essi restano sempre “aperti”

(open ended), come altrettante provocazioni intellettuali lanciate allettore

cui viene affidato il compito di proseguire nella riflessione. In questo

sarebbe sottratto

perciò allo spirito “socratico”

fedele

si

modo Platone

all’accusa di dogmatismo che egli stesso rivolgeva alla tradizione sapienzia

le nel cui alveo si era costituita la nuova forma, filosofica, di conoscenza.

Al tempo stesso, avrebbe evitato lo scetticismo radicale, il “nichiIismo’ che

egli imputava ai sofisti, perché la dialettica dialogica aveva comunque come

proprio orizzonte la ricerca della verità e del valore, stretti nel flesso inscin

dibile che connetteva il valore della verittì alla veritii del valore.

Credo che, sviluppando criticamente questa linea interpretativa, si pos

sano trarre alcune prime conclusioni di rilevante importanza metodologi

ca, che tenterò qui di riassumere schematicamente.

4.’

Dal punto di vista della forma letteraria, i dialoghi sono senza dubbio

la classificazione proposta nel libro III della Repubblica

— secondo

ope

re di carattere mimetico (come il teatro) e, in misura minore, mimetico


50

4.3

Teeteto.

IL POTERE DELLA VERITÀ «SOLO PLATONE NON C’ERA» 5’

diegetico (come la poesia epica). Il loro effetto sul fruitore/lettore sarà

allora appunto quello la cui pericolosità etica e psicologica (se prodotto

in modo moralmente irresponsabile) era stata denunciata in quella sede.

La mimesi (che nasconde l’autore dietro i suoi personaggi) provoca di

namiche di identificazione nei personaggi stessi da parte di chi si trova

a condividerne ragioni, passioni, credenze, ideologie. Questa identifi

cazione è necessaria e preziosa nel teatro filosofico perché tramite essa è

possibile coinvolgere il fruitore/lettore nella critica alle opinioni che egli

aveva prima passivamente e acriticamente condivise, in modo da renderlo

disponibile a una riapertura della riflessione critica, e tramite essa anche a

una riconfigurazione etica delle sue scelte di vita. La rappresentazione dei

personaggi proposti per l’identificazione “proiettiva’ e per la successiva

confutazione critica, comprende un’ampia gamma di figure intellettuali,

che traspongono nella “società dialogica” tutta la realtà politico-culturale

ateniese del tempo: quelle filosoficamente “ingenue” che rappresentano la

politica e la cultura dellapotis (governanti e militari come Nicia e Lachete,

rapsodi come lone, sacerdoti come Eutifrone); quelle dei rivali filosofici,

sofisti e retori come Gorgia, Trasimaco, Protagora; in qualche caso anche

quelle di accademici attardati su posizioni dogmatiche, come gli “amici

delle idee” del Sofista o il “giovane” Socrate del Parmenide; spesso, infine,

quelle di giovani intellettuali in formazione, come Glaucone, Adimanto,

Dal riconoscimento dell’autonomia dei dialoghi discende l’ulteriore prin

cipio metodico dell’autonomia dei rispettivi personaggi, che troppo spes

so sono stati considerati come meri pretesti per la confutazione socratica.

In realtà, essi rappresentano in molti casi una condensazioneforte operata

da Platone di posizioni intellettuali, filosofiche, morali storicamente esi

stenti (probabilmente superiore allo stesso livello di consapevolezza pos

seduto dai loro referenti “storici”, quando ne esistono, anche se legata atie

loro effettive posizioni almeno dal vincolo della riconoscibilità da parte

del lettore). È questo il caso non soltanto di grandi sofisti come Gorgia e

Protagora, ma anche di figure minori come il Callicle del Gorgia, il Tra

simaco della Repubblica, di Simia e Cebete nel fedone, per non dire dei

fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, che giocano un ruolo di grande

rilievo come interlocutori-destinatari della stessa Repubblica. La costru

zione di personaggi di grande spessore intellettuale è del resto necessaria

per il successo del processo di identificazione-confutazione-ripensamento

critico: il lettore deve venire indotto a riconoscere nelle loro ragioni quel

le opinioni che aveva prima condiviso soltanto inconsapevolmente, senza

comprenderne né i presupposti né le conseguenze, per poter essere in se

guito dialetticamente orientato a un superiore livello di consapevolezza

tanto teorica quanto etica.

4.2 4.4

Da questa forma letteraria (che è al tempo stesso anche uno stile intellet

tuale e morale) consegue la necessità metodologica di una comprensione

dei singoli dialoghi nella ioto autonomia, in rapporto sia agli altri dialoghi

sia a una supposta unità sistematica. Si tratta ovviamente di una autono

Il principio metodico dell’autonomia dei personaggi non può che veni

re esteso anche al “personaggio” Socrate (oltre che, naturalmente, agli

altri protagonisti dei dialoghi, come Timeo, lo “straniero” del Politico e

del Sofista, l’Ateniese delle Leggi). È impensabile che l’autore abbia fat

mia relativa, visto che sono pur sempre in questione opere dello stesso au

tore; ma ciò rende in linea di principio scorretta l’interpretazione di un

dialogo che faccia immediatamente reagire su di esso sviluppi teorici deli

neati in altri testi (a meno che questa integrazione non sia esplicitamente

indicata dal dialogo stesso, come in qualche caso accade), e richiede una

lettura che almeno primafacie si limiti alla comprensione del singolo dia

logo nella sua peculiare situazione dialettica e nel suo specifico contesto

to di Socrate il proprio esclusivo portavoce (e tanto meno, naturalmente,

che si sia limitato a riportarne fedelmente le conversazioni). Sono a più

riprese chiaramente rilevabili tanto un’ironia d’autore nei confronti del

personaggio, quanto un marcato distacco critico che ne segnala i ripetu

ti fallimenti teorici; Socrate è spesso esposto alla confutazione altrui non

problematico.

meno di quanto a sua volta confuti i propri interlocutori, anche se questo è

facilmente sfuggito a interpreti frettolosi e prevenuti. In un dialogo come

la Repubblica, Platone traccia addirittura una sorta di Bitdungsroman del

personaggio Socrate, dall’iniziale limitazione a una morale individuale a


53

51 IL POTERE DELLA VERITÀ «solO PLATONE NON C’ERA»

base religiosa fino all’apertura alfa grande politica che gli viene imposta da

5.’

Trasimaco, Glaucone e Adimanto; nel fedone, Socrate è chiamato a trac

ciare una sorta di autobiografia intellettuale che ne disegna l’evoluzione

dai primitivi interessi naturalistici (del tipo di quelli attribuiti al Socrate

“storico” dalla satira aristofanea delle Nuvole) fino alla formulazione di

una complessa teoria logico-ontologica a base eidetica.

Occorre dunque pensare che i dialoghi non presentino un singolo “por

tavoce” privilegiato di Platone: secondo una suggestiva formulazione, alla

In primo luogo si può forse ascrivere direttamente a Platone uno specifico

stile di pensierO articolato in due aspetti fondamentali. Da un lato, ne fa

domanda «Who speaks for Plato?» occorre rispondere «Everyone!».

Platone è in altri termini l’autore di tutti i personaggi che porta sulla scena

parte l’introduzione di una serie di opposizioni polari a due livelli sia on

del suo teatro filosofico, esattamente come Sofocle lo è di Edipo e di Tire

sia, di Antigone e di Creonte. Ognuno di essi rappresenta una parte della

positivo o in negativo —

sua formazione intellettuale, un momento —

in

del

suo pensiero, dei suoi dubbi, della sua instancabile ricerca filosofica. Plato

ne è certamente in Callicle e Trasimaco come lo è in Socrate e Parmenide;

ma più precisamente, Platone è nel gioco dialettico in cui essi si confronta

no e si scontrano, rilevando a vicenda gli errori, i limiti, le incertezze delle

rispettive posizioni.

tologici sia assiologici: uno/molteplice, invariabile/divenire, immortale!

mortale, verità/Opifli0ne, noetico/empirico. è Tipicamente platonica l’in

chiara matrice parmenidea e pi

un terzo elemento di mediazione (metaxu): l’anima, il limite!

troduzione, fra queste scissioni polari

di

di

tagorica

numero, l’opinione vera, il filosofo/politico la dialettica stessa. Dall’altro

lato, appartiene a questo stile una struttura triangOlare ai cui vertici sono

poste l’ontologia (questione dell’essere), l’epistemologia (questione della

verità), l’etica e la politica (questione del bene): a seconda delle situazioni

dialogiche la preminenza può venife accordata all’uno o all’altro di questi

vertici, ma all’orizzonte sembra restare imprescindibile la reciproca con

nessione, quindi la pervietà teorica di tutti i lati del triangolo.

5.1

In secondo luogo, è probabilmente possibile ricostruire segmenti teorici

transdialogicÌ, reti locali di teoremi filosofici relativamente permanenti at

5

traverso una pluralità di contesti. La loro consistenza deve venire saggiata

Credo che questi assunti di metodo ermeneutico si possano ormai dare

per acquisiti. Ciò vuol dire, allora, che occorre rinunciare a qualsiasi tenta

tivo di individuare una filosofia di Platone al di là delle singole, specifiche

situazioni dialogiche? Forse non è così; forse è possibile seguire, come è

mediante l’individuazione di segnali testuali precisi. Nei casi più chiari, si

tratta della ripresa esplicita di un dialogo in altri contesti (è ad esempio il

caso dei riassunti parziali dell’utopia della Repubblica proposti sia nel libro

VIII dello stesso dialogo sia nel Timeo e nelle Leggi anche se con significa

tive differenze che vanno interpretate). Ma ci sono inoltre riprese implici

te, segnalate dalla menzione di un “consenso” dialettico (bomologia) dato

stato detto recentemente, una “terza via” fra l’immagine sistematicodogmatica

di Platone, che appare ormai inaccettabile, e quella scettico

confutatoria, che lo avvicina troppo ai sofisti e risulta quindi inadeguata

a spiegare la rivalità che l’ha opposto a essi durante il suo intero percorso

filosofico.

I passi da compiere nel corso di questa esplorazione devono però essere

metodicamente molto cauti. Non ci sono scorciatoie: il lavoro ricostrutti

vo non può dare nulla per scontato e deve comunque ripartire da un’ana

lisi accurata dei singoli dialoghi, investendone procedure argomentative,

situazione drammatica, contesto culturale. In via del tutto preliminare, si

per già consolidato in altre occasioni (così accade, nella Repubbtica per la

può indicare qualche risultato che è legittimo attendersi, secondo le linee

teoria delle idee discussa nel Fedone), o rinvii a ulteriori discussioni su di

uno stesso tema (come ad esempio nel caso della dialettica, a proposito

emerse dalle ricerche recenti.

della quale nel libro VII della Repubblica sembra riconoscibile un rimando

al Fedro e/o al Sofista).

Questi nuclei teorici persistenti attraverso i dialoghi sembrano consi

stere in un numero ristretto di teoremi, che perciò giocherebbero un ruolo

strategico nella ricostruzione dellafitosofia di Platone. Una ricognizione

preliminare può proporne il seguente regesto (l’ordine è naturalmente

arbitrario): a) una teoria dell’anima e della sua immortalità (fedone, Re-


r

55

54

le fonti a no

comportando

di

date

6

me

come

ed

tutte

piuttosto

di

il

noscibjljtà, e tutte d’altro canto arbitrarie, proprio perché su basate di

una violenta selezione dei testi e delle tematiche filosofiche assunte come

legittime, perché fondate su interpretazioni

dei testi del maestro, anche se talvolta forzate fino al limite della irrico

Tra queste diverse possibilità, la tradizione esegetica non ha cessato di

in una sua relativa indipendenza. C’è una storia dello spiritualismo del

fedone che resta ben distinta dall’eredità cosmologica del Timeo (parti

colarmente attiva in ambiente medioplatonico) così come dall’interpre

tazione neoplatonica del Parmenide in termini di metafisica dell’uno.

ze cinico-stoiche fino a Cicerone e addirittura ad Agostino, che procede

della provocazione utopistica della Repubblica, da Aristotele alle tenden

Ma ancora più importante è rilevare che esistono tradizioni differen

ziate, e in qualche caso divaricate, che fanno capo non al “platonismo”

nel suo insieme ma a singoli dialoghi o gruppi di dialoghi. C’è una storia

metafisico-sistematici, del resto pesantemente condizionati da influenze

esterne al platonismo stesso (la sistematica stoica da un lato, i mutamenti

La fase scettica dell’Accademia merita di esser presa almeno nella stessa

quella concessa ai suoi posteriori periodi

testimonianza di una possibilità filosofica implici

che costituirne il presupposto storico.

degna di venire esplorata, è confermato del resto dalla stessa tradizione

del platonismo. Ogni tentativo di rappresentare un “platonismo” unifica

tico interamente celato dietro la problematica aperta dei dialoghi, con la

cauta ricostruzione che essa comporta di teorie locali, di nuclei filosofici

relativamente costanti ascrivibili direttamente al suo pensiero, sia almeno

Che una “terza via” fra il Platone dogmatico-sistematico e il Platone scet

quello che è stato chiamato a ragione «l’enigma

testi cruciali come Politico e Sofista, oppure di Timeo e degli altri enig

matici interlocutori dello stesso Timeo). Ma si tratterà, inevitabilmente,

degli interlocutori dialogici (si pensi al ruolo dello “straniero di Elea” in

to è infatti condizionato da uno degli esiti di questa tradizione —

di ipotesi altamente congetturali, vista l’insolubilità —

dello spirito religioso dall’altro).

«SOLO PLATONE NON C’ERA»

ta nel pensiero del fondatore —

dell’Accademia antica».

dio e neoplatonismo —

operare le sue scelte —

stra disposizione —

considerazione —

IL POTERE DELLA VERITÀ

pubblica, fedro, Simposio, Timeo, Leggi); b) una critica della politica e una

proposta di riforma a fondamento etico-filosofico dei sistemi di potere

(Gorgia, Repubblica, Politico, Leggi, Lettera vri); c) una teoria onto-episte

mologica delle forme noetico-ideali, delle loro relazioni e

lità della loro causa

(fedone, Repubblica, Teeteto, Sofista, Parmenide, Timeo); d) una teoria

della dialettica come procedura elettiva della ricerca filosofica (Repubbtica,

fedro, Parmenide, Sofista). Naturalmente i dialoghi indicati sono soltanto

i luoghi centrali di tematizzazione di questi teoremi: anticipazioni, echi

o riflessi ne sono reperibili in numerosi altri testi, appartenenti a ognuna

delle tre grandi scansioni cronologiche.

Neppure questi nuclei o segmenti persistenti attraverso dialoghi di

versi sono tuttavia esenti da tensioni teoriche, slittamenti di prospettiva,

problematjzzazjoni ulteriori. Il tentativo di nasconderli o di sanarli, ol

tre che metodicamente scorretto, risulta improduttivo dal punto di vista

ermeneutico

il costo di rendere ftÌosoficamente meno

interessante il pensiero platonico. Si tratta piuttosto di riconoscerli e se

possibile di interpretarli, non però secondo il parametro rassicurante del

l”evoluzione’ quanto piuttosto in relazione a diversi ordini di fattori

specificamente storico-filosofici. Da un lato, si possono individuare le

questioni teoriche rimaste aperte o risolte in modo insoddisfacente, che

impongono un’ulteriore problematizzazione (è il caso, ad esempio, del

le diverse “prove” dell’immortalità dell’anima, della teoria delle idee tra

fedone e Parmenide, della configurazione della dialettica tra Repubblica

e Sofista). Dall’altro lato, è indispensabile rinviare al mutamento delle

situazioni storico-politiche esterne (ad esempio tra Repubblica e Leggi)

e al variare delle influenze culturali, in particolare in relazione alle vi

cende del pitagorismo (è impensabile che gli eventi storico-culturali del

mondo greco non abbiano lasciato tracce su di un lavoro filosofico esteso

è probabilmente l’aspetto più im

nell’arco di mezzo secolo). Infine

portante ma anche quello di più difficile interpretazione storiografica —

occorrerebbe comprendere l’andamento dei dibattiti interni all’Accade

mia che accompagnavano i due precedenti ordini di fattori: in essi sono

senza dubbio intervenuti personaggi di grande rilievo come Eudosso, il

pitagorico filippo di Opunte, Socrate il giovane,

non

lo stesso

citarne

Aristotele,

che alcuni.

per

Anche se certi dialoghi lasciano trasparire tracce

di questi dibattiti (ad esempio il filebo intorno al problema del piace

re, o le Leggi sulle questioni politiche) c’è ancora molto lavoro da fare

in questa direzione, interpretando tra l’altro il senso riposto del variare


56

IL POTERE DELLA VERITÀ

«SOLO PLATONE NON C’ERA» 57

centrali. Ma questa plurivocità esegetica sperimentata dalla tradizione è,

e probabilmente resterà, insuperabile, proprio perché si radica nell’in

tenzionale polisemia del pensiero di Platone, nel carattere aperto della

sua riflessione filosofica, pur nella costanza di uno stile facilmente rico

noscibile e distinguibile, ad esempio, da quello aristotelico e da quello

stoico.

L’arbitrio interpretativo più grave risulta allora proprio quello consi

stente nella pretesa di rimuovere questa originaria e insuperabile apertura.

Esserne consapevoli non comporta tuttavia, come si è cercato di mostrare,

la rinuncia al tentativo di comprendere i tratti essenziali di ciò che nei dia

loghi può venire riconosciuto come propriamente ptatonico, e di porre su

questa base limiti metodicamente precisi al ventaglio delle opzioni esege

tiche legittimamente compossibili.

Riferimenti bibliografici

I

Per la questione dell’autenticità della Lettera vii cfr. le discussioni (entrambe forse

troppo decisamente positive) di M. Isnardi Parente, filosofia e politica nette lette

re di Platone, Napoli 1970, pp. 101-la; L. Brisson (éd.), Platon. Lettres, Paris 1987,

pp. 133-66. Per l’inautentjcità dell’excursus filosofico cfr. H. Tarrant, ÌVliddle Platoni

sm and the Seventh Epistle, in “Phronesjs’ a8, 1983, pp. 75-103.

2.I

Sul rapporto fra Timeo e Repubblica cfr. M. Vegetti, L lutocritjca di Platone: il ‘Timeo”

e le “Leggi”, in M. Vegetti, M. Abbate (a cura di), La “Repicbblica”di Platone nella tra

dizioneantica, Napoli ‘999,pp. 13-27.

2.2

La versione più autorevole di questa ipotesi è quella formulata da G. Vlastos, Socratic

Studies, Cambridge ‘994; Id., Platonic Studies, Princeton 1973. Una recente ripro

posizione della cronologia stilometrica è quella di I. Brandwood, The Chronology of

Ptato’s Dzalogues, Cambridge 1990. Per la discussione dei tentativi di ordinamento

cronologico e delle tesi evolutive cfr. H. Thesleff, Studies in Ptatonic Chronology, Hel

sinki 1981; D. Nails, Agora, Academy, and the Conduct ofPhilosophy, Dordrecht 1995.

Per un tentativo di ricostruzione dell’ordine “drammatico” dei dialoghi cfr. V. Tejera,

Ptato’s Dialogues One by One, Lanham 5999.

3.1

Per la scuola di Thbingen e l’unificazione della “metafisica classica” cfr. le opere di

H. J. Kràmer, Areté bei Platon und Aristoteles, Heidelberg ‘959; Id., Der Ursprung

der Geistmetaphysik, Amsterdam 1964, I967. Sui presupposti culturali della scuola

cfr. f. Repellini, Gli agrapha doginata di Platone: la loro recente ricostruzione e i suoi

presupposti storico-filosofici, in “Acme’ z6, 1973, pp. 51-84. Sulla teoria dei principi e i

suoi rapporti con i dialoghi cfr. H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti della metafisica,

Milano 1981; T. A. Szlezàk, Platon unddie Schrftlichkeit derPhilosophie, Berlin-New

York 1985, trad. it. Milano 1988; G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone,

Milano 1984 (nuova ed. Milano

Dei numerosi interventi critici di M. Isnardi Parente sulla questione degli agrapha

dogmata basta qui citare Ilprobtema della “dottrina non scritta” di Platone, in “La pa

rola del passato”, zz6, 1986, pp. 5-30, e Platone e il discorso scritto, in “Rivista di storia

della filosofia’ 46, 1991, pp. 437-CI; sulle testimonianze aristoteliche cfr. Id., Testi

monia platonica i, Roma 1997. Per bilanci critici sul problema cfr. anche L. Brisson,

Gli orientamenti recenti della ricerca su Platone, in “Elenchos’ ‘, 1994, pp. 255-85,

e M. Vegetti, Cronache platoniche, in “Rivista di filosofia”, LXXXV, 1994, pp. 109-19

(CAP. i in questo volume). Cfr. anche E. Berti, Strategie di interpretazione deifilosofi

antichi, in “Elenchos’ 10, 1989, pp. 289-3,5.

Sul fedro e la questione della scrittura cfr. F. Trabattoni, Scrivere nell’anima,

firenze Id., Oralial e scrittura in Platone, Milano 1999; W. Kuhn, Lafin dt

Phèdre de Platon. Critique de la rhétorique et de l’écriture, firenze zoca. Più in gene

rale cfr. M. Vegetti, Dans l’ombre de Theuth. Dynamiques de l’écriture chez Platon, in

M. Detienne (éd.), Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne, Lille 1988, pp. 387-419,

trad. it. Roma-Bari 1989 (cAP. 9 in questo volume).

Sul carattere “aperto” delle dottrine non scritte cfr. R. Ferber, Die Unwissenheit

des Philosophen, oder, Warum hat Plato die “ungeschriebene Lehre” nichtgeschrieben?,

Sankt Augustin 1991. Per l’insistenza sul “socratismo” platonico nell’ interpretazione

di Gadamer cfr. f. Renaud, Die ResokratisierungPlatons. Dieplatonische Hermeneutik

Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999.

Per la crescente attenzione degli interpreti oralistico-esoterici verso la forma dia

logica, cft. K. Gaiser, Platone come scrittorefilosofico, Napoli 1984; M. Migliori, Arte


58

IL POTERE DELLA VERITÀ

r

«SOLO PLATONE NON C’ERA»

59

politica e metretica assiologica. Commentario storico-filosofico al “Politico” di Platone,

Milano 1996. Per un confronto tra studiosi di diverse tendenze sui problema dell’idea

del bene, cfr. ora G. Reale, 5. Scolnicov (a cura di), New Images ofPlato: Diatogues on

the Idea ofthe Good, Sankt Augustin zooz.

3.2

Per il principio del dialectical requirement cfr., in forme diverse, G. Fine, Knowledge

and Belief in Republic v-vii, in 5. Everson (ed.), Companions to Ancient Thought,

voI. I: Epistemology, Cambridge 1990, pp. 85-115; T. Ebert, Meinung und Wissen in

der Philosophic Platons, Berlin 1974. Il principio della Kontextbezogenheit è stato for

mulato da N. Blòssner, Kontextbezogenheit und argumentative funktion: methodische

Anmerkungen zur Platondeutung, in “Hermes”, iz6, 199$, pp. 1o9-zol (e da lui ap

plicato in Dialogform undArgument. Studien zu Platons “Politeia”, Stuttgart 1997).

Per la tesi “prolettica” cfr. Ch. Kahn, Plato and the Socratic Dialogue, Cambridge

1996 (sul quale cfr. C. L. Griswold, E Pluribus Unum? On the Ptatonic “Corpus”, in

“Ancient Philosophy”, XIX, 1999, pp. 361-97). Sul “pubblico” dei dialoghi cfr. H. The

sleff, Plato and His Public, in B. Amden et al. (eds.), Noctes Atticae, Copenhagen

zooz, pp. 289-301.

Per l’interpretazione “ironica”, oltre a L. Strauss, The City and Man, Chicago

(IL) 1964 (sul quale cfr. M. Burnyeat, Sphinx without a Secret, in “The New York

Review ofBooks”, May 30, 1985, pp. 30-6; G. Giorgini, Leo Strauss e la ‘Repubblica”

di Platone, in “Filosofia Politica”, 5, 1991, pp. 153-60; G. R. E Ferrari, Strauss’Plato, in

“Arion”, 5, 1997, pp. 36-55), cfr. ad es. A. Bloom, TheRepublic ofPlato, New York ,99i;

D. A. Hyland, Thking the Longer Road: The Irony ofPlato’s ‘Republic”, in “Revue de

métaphysique et de morale”, 93, 1988, pp. 317-55; per qualche aspetto ancheJ. Annas,

Politics and Ethics in Plato’s Republic, in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Politeia, Berlin

1997, 141-60.

4

Per la tematizzazione dell”approccio dialogico” cfr. i saggi compresi nelle raccolte

curate da C. L. Griswold, Platonic Writings, Platonic Readings, New York 1988; J. C.

Klagge, N. D. Smith, Methods oflnterpreting Plato and His Dialogues, in “Oxford

Studies in Ancient Philosophy”, suppl. voI. 1992; G. A. Press, Plato’s Dialogues: New

Studies and Interpretations, Lanham i99; C. Gili, M. M. McCabe, form andArgu

ment in Late Plato, Oxford 1996; G. Casertano, La struttura del dialogo platonico,

Napoli zooo; E Cossutta, M. Narcy, Laforme dialogue chez Platon, Grenoble 2001.

Per il carattere open-ended dei dialoghi cfr. D. Nails,Agora, Academy, andthe Con

ductofPhilosophy, Dordrecht 1995.

4.’

Per lo statuto letterario dei dialoghi cfr. G. Certi, Platone sociologo della comunicazione,

Milano ii; E Nightingale, Genres in Dialogue: Plato and the Construct ofPhiloso

phy, Cambridge 1995. Sul concetto di “società dialogica” cfr. P. Vidal-Naquer, La so

ciétéplatonicienne des dialogues, in Id., La démocratiegrecque vue d’,illeurs, Paris 1990,

pp. 95-119; M. Vegetti, Societi dialogica e strategie argomentative nella ‘Repubblica”

(e contro la ‘Repubblica”), in Casertano, La struttura del dialogoplatonico, cit., pp. 74-85.

4.’

Per un tentativo di analisi a tutto campo di un dialogo cfr. ad es. M. Vegetti (a cura

di), Platone, La Repubblica, trad. e commento, 7 volumi, Napoli 199 8-2007. Cfr. in

proposito G. R. E Ferrari, Vegetti’s Callipolis, in “Oxford Studies in Ancient Philo

sophy”, 23, 2002, pp. 225-45.

Esempi di analisi del ruolo dei personaggi dialogici: L. H. Craig, The War Lo

ver: A Study ofPlato’s Republic, Toronto M. Vegetti, Trasimaco; Glaucone, in

Platone, La Repubblica, cit., voi. i,pp. 233-56; voi. il, pp. 151-72 (per la Repubblica);

T. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis im Platons Phaidon, Stuttgart

1994 (per il fedone); S. Gastaldi, La giustizia e laforza. Le tesi di Callicle nel “Gorgia”

di Platone, in “Quaderni di storia”, 52, 2000, pp. 8-io (per il Gorgia).

4.3

Sul personaggio di Socrate cfr. C. L. Griswold, Irony andAesthetic Language in Plato’s

Dialogues, in D. Bolling (ed.) ,Philosophy andLiterature, New York 1987, trad. it. in “Phi

lologica”, 3, 1994, pp. 67-104; J. Beversluis, Cross-Examining Socrates: A Defense oflnter

locutors in Plato’s Early Dialogues, Cambridge 2000 (su cui cfr. C. Gill, Speaking upfor

Ptato’s Interlocutors, in “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, 20, 200,, pp. 297-32,).

4.4

Si è citato il titolo del saggio di E. Ostenfeld, in G. A. Press (ed.), Who Speaksfor

Plato?Studies in PlatonicAnonimity, Lanham zooo, pp. 211-9.


Co

IL POTERE DELLA VERITÀ

5

Sulla “terza via” cfr. F. G. Gonzales (ed.), The Third Wzy: New Directions in Platonic

Studies, Lanham 1995 (si ispira a questo orientamento, ma con esiti diversi da quelli

qui delineati, E Trabattoni, Platone, Roma 1998).

3

Come, e perché, la Repubblica

è diventata impolitica?

5.’

Sullo stile polare in Platone cfr. H. TheslefE Studies in Plato’s Tuo-Level Model, in

“Commentationes Humanarum Litterarum”, Helsinki 19.

Un’esplorazione della possibilità di ricostruire gli elementi di una filosofia “platoni

ca” è tentata in M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino zooi. Per il requisito

dialettico della homotogia cfr. in particolare G. Giannantoni, Il dialogare socratico e la

genesi della dialettica platonica, in P. Di Giovanni (a cura di), Platone e la dialettica,

Roma-Bari 1995, pp. 3-17.

Sul problema dell’Accademia cfr. H. Cherniss, The Riddle ofthe Early Academy,

New York trad. it. Firenze ‘974; M. Isnardi Parente, L’erediti di Platone nell%lc

cademia antica, Milano 1989; anche M. Vegetti, Ifilosofia scuola e la scuola deifilosofi,

in Platone, La Repubblica, cit., voi. v, pp. 603-14.

Sul ruolo di Aristotele come interlocutore di Platone cfr. ad es. R. Bodéùs,

Pourquoi Platon a-t-il composéles Lois, in “Etudes Classiques”, 53, 1985, pp. 367-72, e i

saggi raccolti in M. Migliori (a cura di), Gigantomachia. Convergenze e divergenze tra

Platone e Aristotele, viorcelliana LOOZ.

6

Sulla storia delle interpretazioni antiche di Platone, cfr. fra gli altri, E. N. Tiger

stedt, Interpreting Plato, Stockholm 1977; H. Tarrant, Plato ‘s first Interpreters, Lon

don zooo. Per la tradizione dei singoli dialoghi, cfr. A. Neschke-Hentschke (éd.),

Le “Timée” de Platon. Contributions ti l’histoire de sa reception, Louvain-Paris 2000;

Vegetti, Abbate, La Repubblica di Platone nella tradizione antica, cit.; M. Barbanti,

F. Romano (a cura di), Il “Parmenide”di Platone e la sua tradizione, Catania zooi.

I

Nel corso della sua lunga storia, la Repubblica ha conosciuto qualche ami

co e molti avversari. L’ostilità non sempre ha costituito un ostacolo alla

sua comprensione. È certo che un avversario come Aristotele permette di

capire la Repubblica, nelle sue buone ragioni e nelle sue criticità, meglio di

un sostenitore come Proclo; pervenire al Novecento, non ho dubbi che un

critico violento come Popper abbia scritto sul dialogo pagine più interes

santi delle tante dedicate alla sua esaltazione ad opera di interpreti filonazi

sti come Hildebrandt, Bannes e Guenther, o fascisti come Marino Gentile.

Né avversari né amici hanno comunque quasi mai messo in dubbio,

almeno fino alla metà del Novecento, che la Repubblica fosse un dialogo

a carattere politico, pur nell’estrema complessità dei suoi sviluppi teorici,

e che dunque il titolo Potiteia fosse appropriato a descriverne il tema e la

destinazione principale, lo skopos come dicevano i commentatori antichi.

Un severo custode della pertinenza disciplinare come Aristotele aveva

certamente sottoposto il dialogo alle sue consuete operazioni di chirurgia

epistemologica. La discussione sulla giustizia e sull’idea del bene era sta

ta assegnata all’ambito dell’etica, e quella sull’anima all’ambito della psi

cologia. Molte altre cose, come i discorsi sull’educazione dei governanti,

sono semplicemente considerate “estranee” (exothen, Fot ii 6 ia64b39).

Ma i temi trattati nei libri III-V e viii sono considerati senza alcun dubbio

da Aristotele come di pertinenza politica, e in quanto tali discussi nel luo

go opportuno che è il trattato sui Potitikti.

Questo appare perfettamente naturale se si considerano gli argomenti

principali della riflessione politica secondo Aristotele e in generale nel pen

Questo capitolo è già stato pubblicato in “Giornale critico della filosofia italiana”,

LXXXIX, 1010, pp. 431-52.


i

6z IL POTERE DELLA VERITÀ

COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 63

siero greco. Le “cose politiche” includevano tre questioni centrali. In primo

luogo, a chi spettava il diritto di accedere alla cittadinanza (senso ristretto di

potiteia), e come doveva venire organizzato il corpo civico (questi erano stati

i problemi decisivi della politica greca da Solone a Clistene, e continuavano

a essere attuali per utopisti come Ippodamo e teorici come Aristotele). In

secondo luogo, la questione del potere: a chi spettava il diritto al comando,

come e a chi dovevano essere assegnate le archai nella comunità (si tratta del

la questione discussa a partire dal celebre lagos tripotitikos di Erodoto). In ter

zo luogo, qual è la forma politica, lapotiteia, più adatta a garantire una buona

vita per i singoli e la comunità (pensiamo all’elogio della democrazia ateniese

nell’orazione funebre di Pericle nel ii libro di Tucidide). Questi tre argomen

ti venivano ampiamente trattati nella Repubblica, e ciò era più che sufficiente

ad assegnare il dialogo al campo disciplinare della filosofia politica.

Del resto, lo stesso Proclo respingeva la tesi di quegli interpreti, come

Albino, che facevano della giustizia il tema centrale della Repubblica, e la

assegnavano quindi all’ambito dell’etica: dikaiosyne epotiteia, egli osserva

va giudiziosamente, sono connesse da un vincolo di implicazione reciproca,

e non possono venire considerate separatamente (Diss. I, 11.5 ss.). Per altri

aspetti, tuttavia, come vedremo, Proclo può venire riconosciuto come il

fondatore remoto e occulto della tradizione esegetica che condurrà al tenta

tivo di depoliticizzare la Repubblica. Nell’ultimo decennio, questa tenden

za è stata rappresentata, in modi diversi, daJulia Annas, Norbert Blòssner,

Giovanni ferrari e Dorothea Frede. Ma un antecedente vicino può essere

trovato nella discussione fra Wayne Leys e francis Sparshott comparsa su

“Ethics” alla metà degli anni Sessanta’. Qui Platone veniva presentato come

non-political o anti-potitical thinker, benché con motivazioni diverse fra i

due studiosi. Essi condividono una concezione della politica come tecnica

di gestione e mediazione dei conflitti fra gruppi sociali che hanno aspira

zioni e opinioni discordanti sui fini da perseguire nella vita comunitaria.

Ma nella Repubblica non c’è alcun interesse verso una politica intesa in

questo senso. Anzi, benché questo aspetto antipolitico sottragga Platone

alla critica popperiana di totalitarismo, nondimeno egli resta secondo Leys

«the saint of those who see only evil in their opponents and in the istitu

tions that require concession to opponents». Anche secondo Sparshott,

la «fundamentally non political nature ofPlato’s thinldng» è dimostrata

dal suo disinteresse per le «dynamics ofpoliticldng», cioè su come gli or

gani di governo possano negoziare accordi o prendere decisioni. Ci sono

in effetti proposte politiche in Platone, ma egli nutre un « quite unrealistic

pessimism about the workability of ordinary politica1 devices»; perciò le

sue soluzioni preferite ai problemi politici «are directed toward changing

the social context itself», e in questo senso il suo pensiero è certamente

antipolitico (anche se l’elaborazione con cui viene sviluppato costituisce

un contributo, sia pure negativo, alla filosofia politica).

Non è difficile osservare che Platone risulta antipolitico, in questa di

scussione, solo in virtù di una concezione decisamente ristretta della po

litica, intesa come amministrazione del funzionamento di un sistema so

ciale liberal-democratico già istituito e concepito come non modificabile.

Non è chiaro perché l’intenzione di un mutamento complessivo del siste

ma sociale sia da considerare meno politica della sua amministrazione. Del

resto, come ha scritto giudiziosamente Christopher Rowe, « sembra che in

linea di principio non ci siano buone ragioni per cui la costruzione di uto

pie non debba essere legittimamente vista come una parte della teoria po

litica; cioè se si intende che ci sia qualche via per approssimarsi a ciò che è

descritto nel modo dell’utopia», come è appunto il caso della Repubblica,

almeno secondo la classica interpretazione proposta da Immanuel Kant3.

Maggiormente complesso è il discorso relativo agli sviluppi più recenti

della tendenza a depoliticizzare Platone, e in primo luogo la Repubblica.

Come si era detto, il suo remoto antecedente deve venire ravvisato in Pro

do. Pur ammettendo l’impossibilità di separare nel dialogo il discorso eti

co da quello politico, Proclo aveva sostenuto la priorità ontologica dei vizi

e delle virtù dell’anima, che «preesistono come modelli [paradeigmata]»

a quelli delle costituzioni politiche. Dunque le forme di governo (politeiai)

esteriori sono «imitazioni di quelle interiori e attività secondarie rispetto

a quelle primarie, e l’autentica arte politica riguarda le forme di governo

interiori», e quella esteriore ne è solo un’immagine (eikon) (Diss. VII,

110.15-30). Il vero oggetto della Repubblica sono dunque la politeia e la

politica della virtù dell’anima, rispetto alle quali quelle che appartengono

allapolis non sono che copie e riflessi.

È il caso ora di delineare un quadro sommario dei principali argomenti

sostenuti dalla tendenza contemporanea a depoliticizzare Platone.

a) Nel 1997 Julia Annas4 ha sostenuto che non esiste nessuna prova di

interessi politici diretti da parte di Platone e dell’Accademia: la Lettera

vii è un falso privo di qualsiasi valore documentario. Quanto alle “onda

te” del libro V della Repubblica (abolizione della famiglia e della proprietà

privata per il ceto di governo, parità femminile, potere filosofico), Annas

scrive: « Questa parte più scopertamente politica della Repubblica sembra


sostiene

sulla

64

IL POTERE DELLA VERITÀ

r

COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA?

trascurare le realtà politiche così deliberatamente che c’è sempre stato un

dubbio sulla serietà degli intenti di Platone, e più in generale su1 ruolo de

gli argomenti politici nella Repubblica in rapporto all’argomento morale

principale»; e ancora: «le proposte politiche, se prese alla lettera, sono

assurde; esse sembrano sia arbitrarie sia deliberatamente non realistiche».

Per concludere: le idee politiche del dialogo sono presentate in «sudi

sketchy, incomplete and extreme ways » da farle considerare estranee alla

seria tradizione della filosofia politica alla maniera di Locke e Hobbes6.

b) Che cos’è allora la Repubblica se non verte sulla migliorepoliteia? Secon

do Annas, che fa risalire questa interpretazione al medioplatonico Alcinoo

(Albino), si tratta di un testo di etica che intende argomentare l’autosuff

cienza della virtù in vista della felicità. E ovvio che se questa tesi, di impronta

socratico-stoica, è al centro del dialogo, la questione dello stato ideale e della

sua realizzabilità diventa del tutto irrilevante, perché esso non è necessario al

raggiungimento della virtù personale e della conseguente felicità. La delinea

zione della kallrpolis ha perciò la sola «funzione di permettere all’individuo

di formarsi un’idea di virtù che può interiorizzare e seguire nella vita»; serve

a «illuminare l’anima » grazie alla metafora della gerarchia delle parti, che

costituisce un modello per l’ordine morale individuale. Si tratta insomma,

attraverso la metafora politica, di « rendere l’individuo capace di conseguire

un’idea di moralità che può internalizzare» nella vita personale.

c) Una parte importante in questa discussione è naturalmente giocata

dall’interpretazione della storia parallela delle forme costituzionali e dei

tipi d’anima degenerati nel libro viii del dialogo. Dorothea Frede è stata

la prima a negare che si tratti di una vera e propria analisi storica delle

strutture politiche, per la mancanza di attenzione agli aspetti istituziona

li e funzionali delle diverse politeiai, che del resto non corrispondono ad

alcuna realtà storica. E davvero difficile a questo proposito non ricordare,

ad esempio, la stretta prossimità delle tesi di Platone sulla democrazia con

l’analisi di Tucidide delle guerre civili (III 8o-Sz), o evitare l’impressione

che l’analisi della genesi della timocrazia e dell’oligarchia a partire dalla

kaltzpotis si ispiri alla tesi dello stesso Tucidide secondo il quale la deca

denza dell’Atene postpericlea fu dovuta a idiai philotimiai e idia kerde,

all’ambizione e all’avidità privata (ii 65.7). In ogni caso, Frede — base

di una concezione della politica ristretta, come quella di Leys, agli aspetti

istituzionali e procedurali

— che lo scopo del libro VIII è piuttosto

quello di delineare una Entuicktungsgeschichte derlvloralitàt, e, per contra

sto, una psicopatologia dei cittadini8.

Questa è anche la posizione iniziale di Blòssner. La successione del

le politeiai del libro VIII non presenta «historical statements or political

analysis»: «what in a politica1 or historical analysis would be the hub of

things is mostly peripheral in the Republic». Il senso del libro consiste

nella denuncia dei falsi valori dell’ingiustizia individuale, in una «critique

ofways oflife and of the mistaken conceptions ofhappiness».

Su questa base, Blossner raggiunge per altra via le tesi di Annas. L’aspet

to politico del dialogo «is in the service and subordinate to the ethical goal

ofconsideration ofthe individual » io. La dimensione politica va considerata

come un potente strumento metaforico per convincere interlocutori come

Glaucone e Adimanto: ad esempio l’evidenza dei conflitti politici può illu

strare metaforicamente i conflitti interiori dell’anima. Dunque l’insieme

della Repubblica, e in particolare il libro VIII, costituiscono un dispositivo

destinato ad argomentare la tesi della connessione fra ordine morale dell’a

nima e felicità, a convincere degli esiti eudemonistici della giustizia”.

Giovanni Ferrari si muove nella stessa linea interpretativa, sia pure con

maggiore cautela. La sua analisi parte dall’evidente difficoltà di far coinci

dere in un perfetto isomorfismo parti dell’anima e parti della città, e dalla

problematica corrispondenza fra tipi di costituzione e tipi umani nel

bro VIII (non è vero, sostiene Ferrari, che i regimi timocratici e oligarchici

siano necessariamente governati da uomini psicologicamente omologhi).

Non c’è, in effetti, un rapporto di dipendenza causale fra città e anima, la

prima non determina la struttura della seconda, e i tipi psicologici non

determinano i regimi politici. La corrispondenza è solo analogica: la

gione sta all’anima come il governo sta alla città. In questo modo l’anima

risulta radicalmente «disengaged» rispetto alla città. L’analogia politica

permette di far comprendere la struttura degli elementi posti in relazione

(ad esempio l’anarchia della città democratica illustra il disordine dell’a

nima dell’uomo democratico), ma senza causazione reciproca: il regime

politico è irrilevante in rapporto alla «costituzione interiore» dell’anima.

La conseguenza di tutto questo, secondo Ferrari, è che la Repubblica «è

focalizzata sull’anima piuttosto che sulla città, ed esalta l’individuo al di

sopra della comunità»1z. La ragione ultima di questo privilegio dell’ indi

viduo sta nel fatto che questi, al contrario della città, è capace di filosofia,

e «la filosofia, non il regno, è il più alto achievement umano». La Repub

blica propone dunque, secondo Ferrari, la rivendicazione della superiorità

della vita filosofica su quella politica, della dimensione “divina”, propria

della prima, su quella “umana” che costituisce il limite della seconda’.

li

fa


66 IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 67

Si tratta, come è facile vedere, di un insieme di tesi importanti, che

ritengo siano destinate ad acquisire autorità fra gli studiosi e i lettori di

Platone. Non è possibile perciò limitarsi a liquidarle come uno dei tanti

tentativi, magari paradossali, di dire qualcosa di nuovo nella lunga storia

delle interpretazioni platoniche; non basta neppure contrapporre a esse

una serie di evidenze testuali che sembrano in grado di confutarle, come

pure farò brevemente alla fine di questa discussione. Credo piuttosto che

le posizioni che ho sommariamente esposto meritino di essere considerate

sullo sfondo di una importante vicenda della storia intellettuale del No

vecento, che va anche oltre i limiti delle interpretazioni di Platone, e della

quale esse rappresentano in qualche modo un tardivo riflesso.

i

Per questo, spero che mi sia consentito di percorrere un giro più lungo, una

makrotera periodas. La mia storia comincia, se vogliamo indicare una data

simbolica, nel 1938, e riguarda tre personaggi, tre eminenti filosofi di lin

gua tedesca in fuga dall’espansione nazista. Due di loro, Leo Strauss e Karl

Popper, erano ebrei, il terzo, Erich Voegelin, era invece cristiano ma perse

guitato perché autore di scritti critici sul concetto di razza. Due, Popper e

Voegelin, provenivano dall’Austria, Strauss invece dalla Germania. Strauss

si era rifugiato in America nel 1937, Voegelin vi era giunto nel 1938; Popper

invece era approdato nel 1937 nella lontana Nuova Zelanda. Qui nel marzo

del 1938 Popper ricevette la notizia dell’invasione nazista dell’Austria, e sul

la spinta emotiva di questo evento iniziò a scrivere la sua grande opera, The

Open Society and its Enemies, dedicata a ricostruire la genealogia culturale

dei totalitarismi moderni e della crisi europea. Come tutti sanno, il primo

volume dell’opera, pubblicata nel 1944, era dedicato a The SpettofFiato.

Ma lasciamo per ora Popper intento alla scrittura del suo libro, e tra

sferiamoci nell’America di Strauss e Voegelin. Le differenze fra i due sono

a prima vista profonde. Strauss era di tendenze sioniste, Voegelin invece si

ispirava a un cristianesimo radicale. Per il primo, la Legge trascendente di

origine divina segna il limite superiore della filosofia, ma non la sopprime,

proprio come la filosofia segna il limite superiore che la politica non può

superare14. Per Voegelin, al contrario, la filosofia è superata dalla Rivelazio

ne: Dio parla prima mediatamente, attraverso Socrate e Platone, poi diret

tamente nella parola rivelata’. Per quanto grandi fossero queste differenze,

però Strauss era convinto che « so Iong as we have to combat the presently

reigning idiocy, that shared objective is of greater significance than the

differences»’6. E aveva buone ragioni per pensare così: per i due filosofi

ultratradizionalisti lapresent idiocy si estendeva infatti all’intera moder

nità. Strauss si richiamava a Platone e ad Aristotele come i fondamenti

sicuri contro le degenerazioni atee e nichiliste della modernità, da Hobbes

e Machiavelli all’ Illuminismo e Hegel’; l’abbandono moderno del riferi

mento alla Legge e all’ordine della trascendenza accomunava le “società

aperte” dell’Occidente liberale e la “società chiusa” costruita in Germania

dal nichilismo nazistat8. Si trattava di un processo ininterrotto di « autodi

struzione della ragione», dovuto all’abbandono del razionalismo classico,

cioè platonico-aristotelico ed ebraico-medieval&.

Quanto a Voegelin, in un libro pubblicato proprio nel 1938, Diepotiti

sche Rettionen, egli faceva risalire i guasti della modernità, prima ancora

che a Hobbes, Machiavelli e all’aborrito Lockebo, allo “gnosticismo” ori

ginato dall’eresia medievale di Gioacchino da Fiore. Questi aveva inteso

«l’ideale dell’esistenza cristiana come qualcosa di realizzabile in questo

mondo», profetizzando un “terzo regno’ dopo quello di Cristo, cioè uno

stato finale di compimento della storia. Di qui, secondo Voegelin, sareb

bero derivati il Rinascimento, il Leviatano di Hobbes, l’Illuminismo, la

filosofia della storia di Marx ed Engels, il Terzo Reich, la Terza Roma fasci

sta, il Terzo regno comunista; le nuove forme di organizzazione del regno

nella storia sarebbero ora rappresentate dalle «leghe ed élites comuniste,

fasciste e nazionalsocialiste »

Il tratto comune a queste variegate versioni dello “gnosticismo” è la ten

denza a vedere nella «politica1, prophane history » la possibilità di attuare

un mondo di ordine e di valori che invece è trascendente: questo è secon

do Voegelin il punto di massima distanza fra la modernità e la filosofia

classica di Platone e di Aristotele. È da notare che sia Voegelin sia Strauss

considerano questa filosofia come un insieme unitario e indifferenziato,

senza mai prendere in considerazione, ad esempio, l’aspra critica di Ari

stotele alla Repubblica nel libro Il della Politica. Del resto, per entrambi è

Platone l’autentico portavoce di questa “filosofia classica”.

Strauss rispondeva con pieno consenso: anche per lui, la storia è «in

finitely unimportant» per la filosofia classica’. Del resto, recensendo

nel 1946 in modo violentemente critico un libro di Wild che tentava di

presentare Platone come un democratico liberaI, Strauss aveva sostenuto

che i suoi scritti «cannot be used for any purpose other than for philoso


68 IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 69

phizing. In particular, no social order and no party which ever existed or

which will ever exist can rightfully claim Plato as its patron »

Platone, dunque, senza storia e senza politica; collocato piuttosto,

come filosofo classico par excettence, in quello spazio intermedio proprio

della filosofia che sta sopra la storia e la politica e sotto la Legge trascen

dente, l’ordine della Rivelazione.

3

Torniamo ora a Popper e al suo libro comparso nel I944’. Anch’egli vo

leva risalire alle origini della tragedia europea, comprendere le radici cul

turali del nemico presente, il totalitarismo nazista e fascista, e di quello

futuro, lo stalinismo sovietico. Ma per Popper quelle origini non stavano

nel liberalismo moderno, come per Strauss, bensì nel suo rifiuto da parte

delle grandi filosofie della storia di Hegel e di Marx: qui stava il fondamen

to teorico dei totalitarismi di destra e di sinistra. Ma alle loro spalle c’era

un altro “genio del male’ Platone, in grado di offrire ragioni a entrambe le

versioni del totalitarismo. A quello di destra, per il carattere violentemente

autoritario del governo previsto nella Repubblica, nel Politico e nelle Leggi;

a quello di sinistra, per il collettivismo radicale richiesto dal libro V della

Repubblica.

Popper poteva facilmente trovare negli anni Trenta giustificazioni e

precedenti di questa sua interpretazione: da un lato, i critici di Platone

in Inghilterra, da Russeli a Toynbee a Crossman, che l’avevano avvicinato

tanto al bolscevismo quanto al fascismo, dall’altro i suoi ammiratori filonazisti

in Germania. Ma certo l’ampiezza di analisi e la forza teorica dei

suoi argomenti, così come l’energia confutatoria, non avevano paralleli e

facevano del suo libro, comunque lo si voglia valutare, uno snodo decisivo

nella storia delle interpretazioni moderne del Platone politico.

Alcune delle critiche popperiane a Platone possono in effetti apparire

eccessive, ingiustificate e fuori bersaglio: così la caratterizzazione della co

munità della Repubblica come “olismo tribale’ o l’attribuzione a Platone

di uno “storicismo regressivo”. Ma su una questione centrale — quella che

Popper chiama “ingegneria sociale utopica” (utopian social engineering) —

la pertinenza dei suoi argomenti non può essere negata.

La struttura dell’ingegneria sociale utopica viene chiaramente indivi

duata da Popper. C’è in primo luogo l’ordine dei fini: la teoria delle idee

è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il modello

dello stato perfetto, per definizione immutabile e invariante.

Ciò posto, il problema dell’ingegnere sociale utopico è quello di pro

gettare i mezzi adeguati al conseguimento della finalità così stabilita. Si

tratta di una deduzione di tipo condizionale (se... allora), che non ha alcun

bisogno di consenso e anzi non può ammettere il dissenso. Ogni obiezione

appare irragionevole e reazionaria. Ciò che occorre è un sistema di potere

centralizzato che garantisca la realizzazione sequenziale della catena dei

mezzi in vista del fine, insomma la dittatura di chi conosce il modello da

realizzare ed è in grado di derivarne la pianificazione razionale dell’intera

società.

C’è in tutto questo, nota acutamente Popper, una significativa compo

nente di estetismo: la perfezione del mondo assunto come modello rende

l’ingegnere sociale utopico insofferente di fronte alla strategia riformistica

consistente nel tentativo di “rappezzare” l’esistente. La politica diventa,

in questo quadro, un’arte, il cui capolavoro consiste appunto nella società

nuova che l’ingegnere sociale viene costruendo. La bellezza perseguita lo

rende del tutto indifferente rispetto alla violenza eventualmente necessa

ria in corso d’opera (Popper cita il detto di Lenin secondo il quale “non si

può fare la frittata senza rompere le uova”). Così, Platone parla di un pitto

re di costituzioni che deve ripulire la tela prima di cominciare a tracciare il

suo quadro (Resp. VI 5oIa): poco importa se questa ripulitura comporterà

ad esempio di bandire dalla città tutti gli abitanti superiori ai dieci anni

(VII 541a), oppure, come dice il Politico, di “purgarla” uccidendo o esilian

do parte dei suoi cittadini (i9 3d-e).

Quali sono, secondo Popper, gli errori insiti in questo pur affascinante

modo di pensare? C’è, innanzitutto, l’inevitabile dogmatismo sui fini. Il

fine ultimo non può che essere l’oggetto di una intuizione che è impossibile

argomentare razionalmente, sicché occorre ricorrere alla forza per dirime

re i dissensi. E, soprattutto, il modello risulta non modificabile nonostante

l’indefinita lunghezza dei tempi necessari per realizzarlo e l’incertezza del

processo: ogni mutamento del modello in corso d’opera renderebbe inuti

li e vani i mezzi fino a quel momento usati per la sua attuazione. Insomma,

conclude Popper: per l’arbitrarietà dei fini, l’impossibilità di controllare

razionalmente la sequenza dei mezzi, e la conseguente, inevitabile, trasfor

mazione dei mezzi in fini, è molto probabile che l’ingegneria sociale uto

pica porti sulla terra, invece che il cielo, l’inferno.

Fin qui Popper. In Inghilterra, egli trovò l’immediato consenso di perso-


pur

70 IL POTERE DELLA VERITÀ

naggi illustri come Bertrand Russeil, Ernst Gombrich e Gilbert Ryl&, e, in

seguito, la puntigliosa opposizione filologica degli specialisti dell’antichità.

4

Per Voegelin e Strauss, l’immagine di Platone costruita da Popper equiva

leva a una mina in grado di distruggere la “filosofia classica” come fonda

mento della loro lotta contro le degenerazioni della modernità. Platone ne

risultava al contrario configurato come uno “gnostico”, che credeva nella

possibilità di realizzare nella storia, e mediante la politica, la perfezione

del genere umano. Dunque un “nichilista’ che rifiutava la trascendenza

della Legge, e non accettava la subordinazione della politica alla filosofia,

che anzi trovava in essa il suo compimento. Invece di contrapporsi ai mo

derni, Platone rischiava di diventare il loro vero precursore. Come ha scrit

to Myles Burnyeat a proposito di Strauss, se Platone è un «radical Utopian

[...] there is no such thing as the unanimous conservatism of the “classics”,

no such disaster as the bss ofthe ancient wisdom through Machiavelli and

Hobbes, no such person as “the philosopher” to teIl “the gendeman” to

observe “the limits of the politics”»z7.

Fino all’aprile del 1950, Strauss non aveva probabilmente letto il libro

di Popper. Ne aveva però ascoltato una conferenza a Chicago: una prova,

secondo Strauss, di «lifeless positivism [...] linked to a complete inability

to think “rationally”». Pur immaginando che un simile personaggio non

potesse aver scritto nulla che fosse degno di esser letto, Strauss chiedeva

l’opinione dell’amico Voegelin sulle sue operezl. La risposta non si fece

attendere. Voegelin ammette di esser stato costretto a leggere The Open So

ciety dal dovere professionale e dalla pressione degli ammiratori di Popper.

L’indignazione è tale da farlo cadere nel turpiloquio: «this book is impu

dent, dilettantish crap. Every single sentence is a scandal». La conclusione

è perentoria: il libro di Popper «in its intellectual attitude is the typical

expression of a failed intellectual; spiritually one would have to use expres

sions like rascallv, impertinent, loutish; in terms of technical competence,

it is dilettantish, and as a result is worthless».

Nell’immediato, Strauss scrive a Voegelin di aver intenzione di usare la

sua lettera per ostacolare un’eventuale chiamata di Popper a Chicago. Ma,

naturalmente, la vera risposta dei due amici al filosofo viennese — senza

mai citarlo — sarà formulata nei ioro scritti su Platone: il terzo volume di

COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 71

Order and Histo7y, del 1957, per Voegelin, e The City andMan, del 1964,

per Strauss.

Può sembrare sorprendente che nel volume platonico di Order and

History3c Voegelin citi con approvazione e segua da vicino, almeno nella

parte iniziale, il libro platonico di un autore dichiaratamente filonazista

come Kurt Hildebrandt.

È proprio seguendo Hildebrand che Voegelin legge nel Gorgia il segno

di una crisi nella vita di Platone, cioè la sua rottura con la politica ateniese.

Questa rottura comporta uno spostamento epocale. «L’ordine che com

porta l’autorità è trasferito dal popolo di Atene e dai suoi leader al soio

Platone {...] L’ordine rappresentato da Platone è sopravvissuto ad Atene

ed è ancora uno dei componenti più importanti nell’ordine dell’anima di

quegli uomini che non hanno rinunciato alle tradizioni della civiltà occi

dentale»; «the order of soul as revealed through Socrates has become the

new order of relations between God and man: and the authority of this

new order is unescapable»’.

Sulla base di queste premesse, Voegelin può cominciare la sua confuta

zione di Popper, naturalmente senza menzionarlo: «se l’evocazione plato

nica di un paradigma di un giusto ordine viene interpretata come se fosse

l’opinione politica di un filosofo il risultato sarà un completo nonsenso,

non meritevole di essere nemmeno discusso».

Tuttavia, Voegelin riconosce la presenza in Platone di un “mistero”, e

di un pericolo. Il filosofo sembra a tratti aver pensato che l’ordine della

psiche potesse penetrare interamente nell’ordine politico, ed essersi dun

que posto il problema non necessario della sua realizzazione, finendo così

in un’impasse ontologica. Aggiunge Voegelin: «che Platone pensasse la

sua autorità spirituale come autorità politica dev’essere accettato come un

imperscrutabile mistero del modo in cui la sua personalità rispose alla si

tuazione » Il rischio derivante da questo “mistero”, che sembra emergere

soprattutto nel Politico, è quello di una deriva gnostica del pensiero plato

nico. Il «royal restorer oforder» evocato in questo dialogo richiama da

vicino il personale incubo di Voegelin, il dux profetizzato da Gioacchino

da Fiore. Da qui il passo è breve verso «i rappresentanti dell’orgoglio della

civiltà e della perfezione immanente della civiltà: dai progressisti del di

ciottesimo secolo, attraverso Marx, Comte e Mill, fino a Lenin e Hitler» 3

Non è però in questo “mistero” e in questo rischio la parola finale di

Platone, che Voegelin legge invece nella celebre pagina della Repubblica

(IX 592) sul «paradigma in cielo». Qui, finalmente e con chiarezza,


COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 73

di “comunismo assoluto’ governato da filosofi che garantiscono che ogni

energia psichica sia devoluta all’interesse della comunità, e assicurano con

la persuasione e la coercizione questa dedizione anche da parte dei ceti

subalterni. Qualcosa dunque, scrive Strauss riprendendo Marx ma senza

citarlo, che somiglia alla “società castale egiziana”°. Questo progetto, se

condo Strauss, fa in primo luogo astrazione dal corpo. La dedizione to

tale alla comunità può riguardare solo la mente: la corporeità, con i suoi

desideri, e in primo luogo con l’eros che essa origina, è irriducibilmente

privata quindi preme in direzione opposta a quella comunitaria. La stessa

uguaglianza di funzioni politiche fra uomini e donne, essenziale nel dise

gno platonico, ignora la differenza corporea, e, facendo della riproduzione

un compito esclusivamente politico, «is based on a deliberate abstraction

from eros». Perciò la comunità platonica è innaturale4l.

Da questo deriva immediatamente l’impossibiliti della città platonica.

Scrive Strauss ripetendo per questo aspetto la critica di Aristotele: «the

just city is against nature because the equality ofsexes and absolute com

munism are against nature»4; dunque, la “città giusta” (in cui Strauss

riconosce la più profonda espressione dell’idealismo politico) è costituti

vamente impossibile (va notato fin d’ora che Strauss non attribuisce mai

esplicitamente a Platone la consapevolezza di questa impossibilità, ma le

sue conclusioni, come vedremo, non lasciano dubbi in proposito).

Una seconda ragione di impossibilità consiste in una contraddizione

radicale: i filosofi sono necessari alla realizzazione del progetto platonico;

ma, come mostra il libro VII, i filosofi non intendono governare, perché

sono dediti alla più alta attività concessa all’uomo, e disprezzano le vicen

de umane che si svolgono nel mondo della “caverna”. I filosofi possono

venire costretti a governare solo dalla coercizione della città, ma qui si apre

un circolo vizioso: i filosofi dovrebbero convincere la città a costringerli a

governare contro la loro volontà. La divaricazione tra filosofia e città con

ferma dunque la strutturale impossibilit della kallzpolis platonica. Essa

risulta inoltre indesiderabile sia per i più, che a essa dovrebbero sacrificare

corporeità ed eros, sia per gli stessi filosofi, che vi si vedrebbero obbligati a

rinunciare alla loro dedizione teorica.

Strauss è pronto a questo punto a trarre le sue conclusioni sia dalle pre

messe metodiche sulla natura ironico-dissimulativa del dialogo, sia dall’a

nalisi delle contraddizioni strutturali che esso presenta: «Socrate chiarisce

nella Repubblica quale carattere la città dovrebbe avere per soddisfare i più

alti bisogni dell’uomo. facendoci vedere che la città costruita in accordo

72 IL POTERE DELLA VERITÀ

the inquiry into the paradigm of a good polis is revealed as an inquiry into man’s

existence in a community that lies, not only beyond the polis, but beyond any

political order in history. The leap in being, toward the transcendent source of

order, is rea! in Plato; and later ages have right!y recognized in the passage a prefi

guration ofSaint Augustine’s conception of the Civitas Dei.

Ma allora (e questa conclusione di Voegelin va attentamente considerata

alla luce degli sviluppi che ci interessano) ne consegue che

il politico che è nel filosofo è scomparso. Passando dalla metafora alla realtà,

la partecipazione politica significa ora partecipazione alla potiteia transpolitica

che si trova in cielo e che verrà realizzata nell’anima di chi la osserva. L’anima è la

“polis di un uomo” [one-manpolis] e l’uomo è il “politico” che custodisce la sua

costituzione.

Dunque, aggiunge Voegelin, tutto il processo di decadenza politica de

scritto nel libro VIII della Repubblica avviene in realtà nell’anima, e descri

ve la corruzione dell’ordine psichico37.

Troviamo dunque formulate con grande nettezza nel libro di Voegelin

le tesi principali dell’interpretazione impolitica della Repubblica. Ciò che

vi è davvero in questione sono l’ordine interiore dell’anima, la morale in

dividuale, il rapporto fra l’uomo e la trascendenza divina. La dimensione

politica del dialogo non ha che una funzione metaforica per descrivere

l’ordine dell’anima e le sue deviazioni. Se c’è stata una tentazione politica

nel filosofo, essa viene superata verso una sfera superiore alla politica.

Quanto a Strauss, nel suo The City and Man8 Platone viene configu

rato, più che come impolitico, come antipolitico. Non è il caso qui di di

scutere l’approccio generale di Strauss ai dialoghi platonici e in particolare

alla Repubblica; come è noto, egli vede in questi testi una forma di scrittura

reticente, esoterica, ricca di dissimulazione ironica.

Ogni dialogo, rileva Strauss, è inevitabilmente parziale, nel senso di af

frontare il suo argomento facendo astrazione da altri aspetti rilevanti per

l’argomento stesso. Questa parzialità rende impossibile la soluzione del

problema, e l’impossibile presentato come possibile è ciò che costituisce

l’aspetto comico dei dialoghi, nel senso della commedia di Aristofane.

il problema diventa ora quello di identificare ciò da cui la soluzione

politica del problema della giustizia nella Repubblica fa astrazione, e che

dunque la rende impossibile. Richiamiamo in primo luogo i caratteri

fondamentali di questa soluzione secondo Strauss: si tratta di un regime


74 IL POTERE DELLA VERITÀ

con questa esigenza non è possibile, ci permette di vedere i limiti essenziali,

la natura, della città»; Platone è dunque consapevole di questa impossi

bilità; il senso del dialogo è di confutare gli aspetti “prometeici” dell’inge

gneria utopica (per dirla con Popper), di chiarire, mediante un esperimento

intellettuale che porta al limite le sue ambizioni, come la politica non possa

contendere lo spazio che spetta alla filosofia, e al di là di essa alla teologia.

Il limite invalicabile delle possibilità della politica porta così Platone,

nelle Leggi, a delineare il migliore ordinamento politico compatibile con

la natura dell’uomo, e perciò possibile e desiderabile. Dunque, conclude

Strauss, «le Leggi sono l’unica opera propriamente politica di Platone »4S:

una tesi volentieri condivisa anche dagli interpreti “impolitici” della Re

pubblica alla maniera di Annas.

In questo modo, Strauss aveva portato a termine la sua confutazione

di Popper, peraltro mai menzionato. La sua critica aveva mancato il ber

saglio perché aveva preso la Repubblica alla lettera, leggendovi il progetto

di una grande politica filosofica, mentre in realtà il dialogo intendeva mo

strare l’impossibilità, e la pericolosità, di una tale politica. Attribuendo a

Platone la tesi dei limiti insuperabili della politica, della superiorità della

filosofia e quindi dell’estraneità del filosofo rispetto alla politica, Strauss

d’altra parte completava la futura panoplia degli argomenti intesi a rende

re impolitici, o contropolitici, Platone e la Repubblica.

5

Sembra dunque che le tesi recenti sul carattere impolitico della Repubbli

ca ripetano per l’essenziale, in modo più o meno consapevole, i temi di

un vecchio dossier che risale alla metà del secolo scorso. C’è naturalmente

qualche nuova analisi testuale e qualche supplemento metodologico, ma

gli argomenti principali e le interpretazioni generali seguono la via della

confutazione di Popper tracciata, come si è visto, da Voegelin e da Strauss.

Ci si può interrogare sulle ragioni di questo movimento ciclico della

vicenda interpretativa. A mio avviso, esso può essere spiegato sulla base

del sostanziale fallimento di un’altra linea di difesa di Platone da Popper:

quella che tentava di dimostrare che la polemica di Popper mancava il

bersaglio perché in effetti Platone non era il progenitore di una cattiva

politica totalitaria, ma nutriva simpatie di tipo liberale e addirittura demo

cratico. Questo wishful thinking caritatevole avrebbe risolto il problema,

COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 75

ma purtroppo non era in alcun modo difendibile sulla base dei testi6. La

questione dell’aspetto politico della Repubblica resta così evidentemente

un nervo scoperto, che deve venire periodicamente devitalizzato se non

si vuole ricorrere alla sua asportazione chirurgica alla maniera di Popper.

Questa strategia va naturalmente discussa in modo analitico sulla base

degli argomenti testuali che vengono addotti dai suoi fautori. Ma essa

comporta un pericolo più generale, che è prioritario anche rispetto alla

eventuale validità dei loro argomenti: cioè il pericolo di un impoverimen

to del livello teorico del dibattito interpretativo su Platone e la Repubblica.

Questo dibattito dovrebbe misurarsi all’altezza delle sfide poste da Plato

ne al pensiero filosofico e politico, e anche all’altezza delle domande poste

a Platone dai suoi critici veri, da Aristotele a George Grote a Karl Popper.

Vorrei indicare in modo sommario alcuni dei problemi che si impongono

a questo livello della riflessione.

a) Un pensiero dell’utopia politica è in qualche misura utile e produttivo,

e come è eventualmente possibile controllare i rischi che esso presenta?8

Quali sono i limiti della desiderabilità e della praticabilità del progetto

utopico? Quale può o deve essere il ruolo della filosofia nella politica, e

specialmente nella politica dell’utopia?

b) Quale tipo di antropologia è implicata dal progetto di perfettibilità

utopica, o compatibile con esso? Le resistenze opposte a questo progetto

dalla “natura umana” sono da considerare insuperabili, secondo una linea

di pensiero che inizia con Aristotele (ma forse anche con il libro VIII della

Repubblica e con le Leggi)?

c) Quanto ai contenuti dell’utopia della Repubblica: la strana combina

zione di elitismo illuministico e di comunitarismo (o comunismo repub

blicano) che sta al centro del suo programma è in qualche misura sensata

e riconoscibile come una opzione possibile nell’ambito del pensiero poli

tico? Se non è così, per quali ragioni essa risulta insensata o inaccettabile?

Credo sia in ogni caso molto meglio seguire la via della confutazione, mo

strando, come Aristotele, che si tratta di “cattiva politica”, piuttosto che

negare che si tratti tout court di politica, perché in questo caso la sola “vera”

politica è implicitamente quella ritenuta tale dall’interprete, che si sottrae

sia all’impegno di dichiarare le proprie opzioni sia all’onere della critica.

a’) Insieme con questo tipo di riflessione, resta naturalmente il problema di

ricontestualizzare Platone nel suo ambiente storico, politico e culturale. Ad

esempio: i rapporti con Aristofane, Tucidide, la letteratura oligarchica dei

sofisti e dei socratici; il senso della critica alla democrazia e all’oligarchia,


r

normativo, di tutta la Repubblica:

L’influenza della città sull’anima può avere un ruolo negativo o positi

nature potenzialmente filosofiche ad opera di un ambiente sociale ostile

non causale. Anche qui, non c’è dubbio che l’assenta omologia fra anima

Questo apre senza dubbio un problema nell’interpretazione del rapporto

di una tendenza unilaterale che va corretta con la persuasione o la costri

cuni degli argomenti principali addotti dagli interpreti del dialogo come

tate in modo sensato solo se si riconosce il carattere politico della Repubblica.

l’atteggiamento ambivalente, di rifiuto e attrazione, verso le tirannidi del Iv

IL POTERE DELLA VERITÀ

secolo; il rapporto fra Repubblica, Politico, Leggi e la critica di Aristotele. È

chiaro che queste complesse questioni storiografiche possono venire affron

Per finire, possiamo discutere molto brevemente, sulla base del testo, al

I filosofi della kattipotis possono in effetti mostrare riluttanza a governare,

ma questo non è il punto di vista del legislatore Platone; se mai, si tratta

Basterà qui richiamare uno dei passi più celebri, e dal tono più fortemente

A meno che i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora sono detti re e

potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a

riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia, e ancora quei molti, la cui natura

tende a uno di questi poli con esclusione dell’altro, non vengano obbligatoriamente

impediti, non vi sarà sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del

genere umano (473d, corsivi miei).

In primo luogo, il tema straussiano par excettence dell’incompatibilità

zione. D’altra parte, si può certamente dire che nel fedone e nel Teeteto

fra questi dialoghi e la Repubblica. Ma non vedo come sia possibile soste

nere che nella Repubblica stessa Platone sostenga l’incompatibilità fra le

due forme di vita e di conoscenza, quando al contrario la loro separazione

è considerata come una delle cause della patologia che affiigge l’umanità.

C’è poi la questione del rapporto fra anima e città: un rapporto che si

e città presenti diverse difficoltà, sia nel libro iv sia nel libro VIII. È però

vo. Per quanto riguarda quello negativo, basti pensare alla corruzione delle

COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA?

ben difficile negare che fra psicologia e vi sia

individuale ambiente politico

un nesso di condizionamento reciproco.

ampiamente analizzata nel libro vi. Qui la pressione della città democrati

ca, il suo condizionamento hanno un potente effetto conformistico anche

sui migliori dei suoi giovani:

Quale privata educazione potrebbe resistere in un giovane senza venir travolta da un

tale flutto di biasimi e di lodi, e non si lascerà trasportare dove lo porta la corrente?

non dirà forse che sono belle o brutte le stesse cose che pensa la folla, e non si darà allo

stesso modo di vita, alle stesse loro occupazioni, diventando uno dei loro? (492b-c)

In una cattivapoliteia, dunque, l’anima filosofica salvarsi a non può meno

che sia protetta, dice Platone, da una theia moira, insieme di un circostan

ze eccezionali.

In senso positivo, non c’è dubbio che il svolto

programma educativo

ducazione vera e propria, o anche inconsapevoli, quando l’ambiente so

suoi cittadini: questa è in un certo senso l’idea centrale dell’intera Repub

blica. Il condizionamento può avvenire in consapevoli, come forme nell’e

dallapotis giusta sia in grado di plasmare a propria immagine l’anima dei

benefici, e fin da bambini, inconsapevolmente, li conduce all’identifica

vivono: le costituzioni non nascono “da una quercia o da una roccia” ma

ciale positivo agisce «come un’aura che reca salute provenendo da luoghi

zione, all’amicizia, all’armonico accordo la bella con ragione» (4oIc-d).

Ma è certamente vero anche, al che contrario, le disposizioni psicolo

giche dominanti fra i cittadini condizionano il di in cui essi

tipo politeia

resto, come i pesi che fanno pendere una bilancia» (544d-e).

In questi e in molti altri simili passi, fra gli assetti individuali dell’anima

e quelli politici della città è dunque descritto legame solo un non metafo

of their souls and their goals in life, and it cither creates the conditions

moralità individuale? La giustizia individuale non richiede, come propria

«dai caratteri [ethe] di chi vive nelle città, che si trascinano dietro tutto il

fico, ma di reciproca causazione51. Lo stesso Blòssner del resto ha scritto

recentemente che la città influisce sui cittadini costruendo «the structure

for reaching these goals or impedes their development». se Ma questo

è vero, come si possono separare in Platone, e nella Repubblica, e politica

tende a interpretare, come abbiamo visto, come puramente metaforico e

Platone sostiene una visione diversa del rapporto tra filosofia e politica.

tra filosofia e politica, e della superiorità della prima rispetto alla seconda.

Del resto, potis e filosofia si salvano o periscono insieme (497d8-9).

testo impolitico o antipolitic&0.

76

6

77


risponde

è

78 IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 79

condizione di possibilità, un ambiente sociale giusto, e d’altra parte non è

la condizione perché questo ambiente si possa formare? Intorno a questa

problematica circolarità si costruisce l’intera Repubblica, e il senso del dia

logo rischia di andare perduto se essa viene rescissa.

Veniamo, da ultimo, al passo del libro IX che costituisce il riferimento

testuale più forte per le interpretazioni impolitiche della Repubblica. È il

caso quindi di discuterlo con qualche attenzione.

Dopo una lunga analisi, che ha descritto la condotta morale dell’uomo

giusto in una società diversa dalla katlipotis, Socrate conclude che quanto

all’attività politica egli «ne farà, e anche molta, nella città che gli è pro

pria, non però forse nella sua patria, a meno che non sopravvenga qualche

sorte divina». Glaucone commenta: «Capisco: intendi nella città la cui

fondazione siamo venuti discutendo, quella che sta nei discorsi, perché

non penso che essa esista da nessuna parte della terra».

«Ma forse — Socrate — posta in cielo come un modello

[parade4gma], offerto a chi voglia vederlo, e avendolo di mira heauton ka

toikizein. Ma non fa alcuna differenza se essa esiste da qualche parte o se

esisterà in futuro: egli potrebbe agire solo in vista della politica di questa

città, e di nessun’altra» (591a-b).

Il problema cruciale sta nell’interpretazione delle due parole che si

sono lasciate in greco. All’inizio del Novecento, l’autorevolissimo com

mentatore inglese James Adam rendeva come «found a city in himself»,

legittimando così un tenace pregiudizio esegetico. Il testo sembrava allora

dire chiaramente: i. la realizzazione nel tempo storico del progetto della

kallzpotis è impossibile; i. comunque è irrilevante, perché la sua funzio

ne consiste nel fornire un modello da interiorizzare per costruire la virtù

individuale, per “rifondare sé stessi” secondo il paradigma della giustizia;

3. poiché l’uomo giusto agirebbe politicamente solo nella città giusta, che

non può esistere, ne risulta la sua radicale estraneità alla politica. Il senso

della Repubblica consisterebbe dunque in ultima istanza nella separazione

della morale individuale (dove è possibile praticare la virtù) dalla dimen

sione politica (in cui è impossibile fondare la città giusta).

Credo tuttavia di aver dimostrat& che la traduzione di Adam, così pro

pizia a confermare l’esegesi impolitica della Repubblica, non è sostenibile

dal punto di vista linguistico. Katoikizein con accusativo vale di norma, in

greco e in Platone, “insediare”, “trasferire’ “far abitare” qualcuno in qualche

luogo; spesso designa il “fondare una colonia’ insediando la popolazione in

una nuova località. Nel nostro passo, dunque, il soggetto che abbia deciso di

abbandonare la politica della propria patria storica « insedierà sé stesso» nel

“cielo” del paradigma, cioè nella prospettiva teorica della città giusta (così

suona del resto la traduzione di Grube-Reeve: «There is a model ofit in he

aven, for anyone who wants to look at it and to make himselfits citizen on the

strength ofwhat he sees»)54. Per questo, sono necessarie due decisioni. La

prima, di ordine intellettuale, consiste nel voler comprendere il paradigma

teorico (si confronti 47zd: « abbiamo prodotto nel discorso il paradigma

della città buona»); la seconda, di ordine morale, comporta di voler cam

biare il proprio habitat politico, continuando ad avere di mira quel paradig

ma. Alla luce di queste premesse, si comprende meglio il seguito, che vale

letteralmente: « farà le cose di questa città soltanto, e di nessun’altra» («he

would take part in the practical affairs ofthat city and no other»). In questa

frase si gioca molto del senso politico della Repubblica. Essa racchiude due

significati che non possono venire disgiunti. Il primo è che ovviamente l’uo

mo giusto (il filosofo) dispiegherà la pienezza della sua attività politica nella

nuova città, in vista della sua conservazione. 11 secondo è che egli, se agirà

nella patria storica, lo farà solo in vista e in funzione dell’avvento dell’altra

città: questo non è escluso, ma può accadere solo con il favore di quelle cir

costanze eccezionali che Platone indica come una “sorte divina theia tyche.

Correttamente tradotto e interpretato, il nostro passo non costitui

sce affatto una prova del carattere sostanzialmente non politico, e rivol

to all’interiorità morale dell’individuo, della Repubblica. Esso riprende

da vicino il luogo importante del libro VI, dove si afferma che invece di

limitarsi a «plasmare soltanto se stesso» il filosofo può trovarsi indotto

dalle circostanze a trasformare la città secondo «l’ordine che vede lassù»

(5ood), cioè nel “cielo” della teoria normativa. Non si tratta dunque, in

entrambi i casi, di limitarsi all’interiorizzazione della norma morale ma di

intraprendere un’azione politica trasformatrice della città storica, anche se

essa è possibile solo in condizioni eccezionalmente favorevoli.

La Repubblica è dunque un dialogo politico, un dialogo in cui Platone

espone le sue «most strildng ideas in political philosophy». Si possono

condividere o rifiutare queste idee, e soprattutto si deve tentare di compren

derle. Ma negarne l’esistenza e la forza, per tentare di proteggere Platone da

sé stesso prima ancora che dai suoi critici, non è una buona strategia storio

grafica e risulta, come già avvertiva Bambrough, unprofitable sul piano della

riflessione critica6. Meglio fare a meno della Repubblica, se la si considera

inaccettabile, che offrirne un’immagine edificante, depotenziata, insomma

“normalizzata” dal punto di vista del senso comune dei nostri tempi.


IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 8i

Note

i. W. A. R. Leys, Was Plato Non-politicat?, in “Ethics”, LXXV, 1965, pp. 2.71-6; f. E.

Sparshott, Ptato as Anti-Political Thinker, in “Ethics”, LXXVII, 1967, pp. 2.14-9 (en

trambi riprodotti in G. Vlastos, ed., Ptato: A Cottection of CriticalEssays, New York

1971, pp. i66-86. Le citazioni sono da questo volume: p. 172 per Leys, pp. 181, 183 per

Sparshott).

z. C. Rowe, The Piace ofthe ‘Republic”in Ptato’s Politica1 Thought, in G. R. f. ferrari

(ed.), The Cambridge Companion iv Ptato’s “Repubtic”, Cambridge 2007, pp. 27-54,

cit. p. z8.

3. I. Kant, Critica detta ragion pura (1787), pp. B 370-5, 595-9. Sull’interpretazione

kantiana rinvio a M. Vegetti, «Un paradtma in cielo». Platone politico da Aristotele

al Novecento, Roma 2009, pp. 41-4.

4. J. Annas, Potitics and Ethics in Ptato’s “Republic”, in O. Hòffe (Hrsg.), Ptaton.

Potiteia, Berlin 1997, pp. 141-60.

Ivi, p. (non era tuttavia questa l’opinione di Annas nel suo importante libroAn

Introduction to Ptato’s “Republic”, Oxford 1981, pp. -6).

6. Ivi, pJ. 144-5, 152-3; cfr. anche J. Annas, The Inner City: Ethics without Potitics

in the ‘Repubtic”, in Id., Platonic Ethics: Old and New, Ithaca (NY)-London 1999,

p2. 72-95, cit. 2. 8z.

.

7. Id., Potitics and Ethics, cit., pp. 145 Ss.; Id., The Inner City, cit., pp. 8 o-i, 84 Ss., 8$ Ss.

8. D. Frede, Die ungerechten Verfassungen und die ihnen entsprechenden Menschen

(Buch viii 543a-Ix 576b9), in Ptaton. Politeia, cit., pp. 251-70, cit. p. 259; cfr. anche

Id., Ptaton, Popper und der Historizismus, in E. Rudolph (Hrsg.), Potis und Kosmos.

Naturphitosophie undpotitischePhilosophic bei Platon, Darmstadt 1996, pp. 74-107.

N. Blòssner, The City-Sout Anatogy, in The Cambridge Companion iv Ptato’s

“Republic”, cit., pp. 345-85: cit. pp. 367, 370. Va detto che Blòssner segue una sua pecu

liare versione metodologica del diatogical approach, secondo la quale nessuna dottrina

contenuta nei dialoghi, e quindi, per la Repubblica, né la “psicologia” né la “politica’

possono essere attribuite in quanto tali all’autore Platone. Si tratta sempre di strategie

argomentative miranti a convincere gli interlocutori ad accettare la tesi di Socrate (in

questo caso, che “la giustizia paga pp. 357-8).

Io. Ivi,p. 346.

.

li. Id., Diatogform und Argument: Studien zur Platons “Potiteia”, Stuttgart 1997,

pp.

i6, 169, 190 55.

iz. G. R. F. Ferrari, City and Sout in Plato’s ‘Republic”, Sankt Augustin 2003,

pp. o, 89.

13. Ivi, pp. 90, 103.

14. Strauss aveva esposto queste tesi già nel suo libro su Maimonide, Philosophie und

Gesetz, Berlin 1935.

Lettera a Strauss del 22 aprile 1951, in faith and Potitical Philosophy: The

Correspondence between Leo Strauss andErich Voegelin, 1934-1964, ed. by P. Emberley,

i.

3. Cooper, University Park (PA) 1993, p. 87; cfr. anche il commento di Strauss nella

lettera del 4maggio 1951 (p. 90).

i6. Lettera del 7 marzo 1949, ivi, p. 59.

17. Lettera del 9 aprile 1943, ivi, pp. 17-8.

i$. I. Strauss, Il nichilismo tedesco, conferenza tenuta nel 1941 presso la New School

for Social Research di New York, trad. inJ.-L. Nancy, L. Strauss,J. Taubes, Nichitismo

epolitica a cura di R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello, Roma-Bari zooo.

19. L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, Milano 1973, p. 321.

20. Definito «one of the most repugnant, dirty, morally corrupt appearances in the

history ofhumanity {...] one of the flrst very great cases ofspiritual pathology», let

tera del aprile ‘953’ in Faith and PoliticatPhitosophy, cit., pp. 96-7.

E. Voegelin, Diepolitische Religionen, ‘Wien, 193$, trad. it. in Id., La politica: dat

simboli alle esperienze, a cura di 5. Chignola, Milano I993, pp. 51-3.

2.2.. faith and Politica1 Phitosophy, cit., lettera del 4 dicembre ‘9o, p. 3.

i

23. Ivi, lettera del io dicembre 1950.

24. L. Strauss, On a New Interpretation ofPlato’s Politica1 Philosophy, in “Social

Research” XIII, 1946, pp. 326-64, cit. p. 351, a proposito diJ. Wild, Plato’s Theory of

Man: An Introduction to the Realistic Philosophy ofCulture, Cambridge (MA) 1946.

25. K. Popper, The Open Society and 115 Enemies, vo1. I: The Speil ofPlato, London

1944 (,966s), trad. it.La societti aperta eisuoi nemici, Roma ‘973.

z6. La recensione di quest’ultimo su “Mmd” (1952) è raccolta nel volume R.

Bamhrough (ed.), Plato, Popper and Politics, Cambridge 1967.

27. M. Burnyeat, Sphinx Withouta Secret, in “The New York Review of3ooks”, May

30, 1985, pp. 30-6: Cit. p. 35.

28. faith and Politica1 Philosophy, cit., lettera del io aprile 1950, pp. 66-7.

29. Ivi, lettera del i8 aprile pp. 67-9.

30. E. Voegelin, Orderand History, voi. 3, Baton Rouge (LA) 1957 (1966’), trad. it. (da

cui si cita) Ordine e storia. Lafilosofia politica di Platone, Bologna 1986.

31. Cfr. ad es. ivi, p. 104. Il titolo del libro su Platone di Hildebrandt, del 933, è

già significativo: Platon. Der Kampfdes Geistes um die Macht. Voegelin dichiara an

che la propria ammirazione per un intellettuale caro ai nazisti come Stefan George,

ottenendo l’approvazione, anch’essa sorprendente, di Strauss: «you are quite right:

George understood more ofPlato than did Wilamowitz,Jaeger and the whole gang»

(in faith and Politica1 Phitosophy, cir., lettera del 4maggio 1951, p. 90).

32. Voegelin, Ordine e storia, cit., pp. 91, 96 (cfr. Order and History, voi. Ptato and

Aristotte, ed. by D. Germino, Columbia, MO, 2000, pp. 92, 97).

Ivi, p. 127. Si ricorderà che Strauss si era espresso nello stesso modo recensendo

Wild.

lvi, pp. 145-8.

lvi, pp. 223-4.

36. Ivi, pp. ‘5°-I.

3. Ivi, p. i88.

:


8z

IL POTERE DELLA VERITÀ

38. LStrauss, The CityandMan, Chicago (IL) 1964.

39. Ivi,p.6z.

40. Ivi,p. 113.

Teorie

41. Ivi, pp. 109, 117. Va ricordato, a questo proposito, che nella Repubblica viene po

sta sotto controllo solo la sessualità riproduttiva, non i comportamenti erotici non

riprodutrivi, sia eterosessuali sia omosessuali, cui si fa ampio spazio nel libro v. Del

resto, Platone riconosce che «le necessità erotiche» sono anche più forti di quelle

geometriche (v 458d).

42. Ivi, p. “7.

43. Ivi, pp. 124 Ss.

44. Ivi,p.i3$.

45. Cfr. L. Strauss, J. Cropsey, History ofPotiticat Phitosophy, Chicago (IL) 1963,

trad. it. Storia dettafilosofia politica, Genova 1993, p. i6i.

46. Per recenti bilanci critici di questa tendenza interpretativa cfr. J. L. Pradeau,

Platon, les démocrates et la democratie, Napoli ;oo; L. Bertelli, Platone contro la

democrazia (e l’oltg-archia), in Platone, La Repubblica, trad. e commento a cura di

M. Vegetti, voi. vi, Napoli ;oos, pp. 295-396.

47. Cfr. G. Grote, Plato, and the Other Companions ofSokrates (i86), voi. iv,

London i$$$.

48. A mio avviso, le riflessioni più significative in questo senso sono quelle di

M. Burnyeat, Utopia and fantasy: The Practicability ofPtato’s Ideatly Just City, in

J. Hopkins, A. Savile (eds.), Pyichoanalysis, Mmd andArt, Oxford 199;, pp. 157-87;

M. Schofield, Plato: PoliticatPhitosophy, Oxford ;oo6 (cap. s).

49. Interessanti considerazioni su questo argomento sono proposte da uno studioso

di ispirazione in parte straussiana come 5. Rosen, Plato’s ‘Repubtic”: A Study, New

Haven-London 2005, pp. 6 ss.

50. Ho discusso più ampiamente questi problemi in «Un paradzgina in cielo», cit.,

capp. 7-9.

Se così non fosse, non avrebbe del resto senso la tesi della non responsabilità sog

gettiva delle condotte malvagie che viene ribadita nel Timeo: «se a individui così mal

costituiti [nel corpo] si aggiungono cattive politeiai delle città e si tengono, in privato

e in pubblico, discorsi conformi ad esse, allora tutti i malvagi fra noi lo diventano per

due ragioni, senza volerlo: di ciò bisogna sempre considerare responsabili i genitori

più dei figli, chi educa più di chi è educato» (s7b).

5;. Blòssner, The City-SoulAnalogy, cit., pp. 374-5.

53. Cfr. M. Vegetti, Il tempo, la storia, t’utopia, in Platone, La Repubblica, vo1. vi, cit.,

pp. i6-6; (CAP. 7 in questo volume).

54. In Plato: Complete Works, ed. J. Cooper, Indianapolis (IN) 1997.

Schofield, Plato,

. cit., p. 9.

6. R. Bambrough, Platos Modem friends and Enemies, in Id., Ptato, Popper and

Politics, cit., pp. 3-19.

Parte seconda


r

tema

Megiston mathema. .

L idea del buono e le sue funzioni

. *

4

La metafisica è una metaforica presa alla lettera

H. Blumenberg

Analitica del “buono” e teorema delle idee

La discussione sull’idea del “buono” — che la tradizione interpretativa

antica e moderna avrebbe considerato come uno dei vertici e insieme degli

enigmi più inquietanti della Repubblica e dell’intero pensiero platonico —

viene introdotta, nell’ultima parte del libro vi, senza alcuna enfasi e persino

con un certo tono di irritazione da parte di Socrate. Egli ha sostenuto che la

questione della formazione dei futuri archontes deve venire ripresa dal prin

cipio (oze) rispetto ai lineamenti offertine nei libri ii e iii, che già in quella

sede erano stati considerati “privi di rigore” (iii 414a). Questa ripresa è tan

to più inevitabile, in quanto ora non si tratta soltanto di formare un ceto

politico-militare in grado di gestire la nuovapotis, ma di costruire, nel suo

ambito, un gruppo di governanti-filosofi capaci di comprendere e preserva

re il senso originario e il fondamento di giustizia della sua costituzione, il

logos tespoliteias (497c8 s.). Essi dovranno dedicare agli studi un impegno

molto maggiore di quello che era stato allora previsto, per raggiungere con

il massimo rigore (akribei) possibile quella conoscenza (mathema) che è per

loro la più importante (megiston) e la più adeguata (prosekon) alla funzione

che devono svolgere (5o4d-e). Alla sorpresa di Adimanto, che chiede che

cosa ci possa essere di più importante della giustizia e dell’ambito della vir

tù politica (5o4d4-5), Socrate risponde, appunto, con una certa irritazione:

«non raramente ne hai sentito parlare, e ora non ci pensi oppure pensi di

mettermi in difficoltà con le tue obiezioni. Ritengo però che questo sia il

caso: perché certo hai sentito dire spesso che l’idea del buono è la massima

conoscenza» (5o5a1: ‘ro &ycI.8o téc ytoTav

Questo capitolo è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e com

mento a cura di M. Vegetti, voI. v, 11. vi-vii, Bibliopolis, Napoli aoo3.


è

86 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGIST0NMATHE

87

Le ragioni per le quali la conoscenza del “buono” nella sua forma es

senziale debba svolgere un ruolo decisivo nella formazione degli archontes

filosofici sono ribadite a più riprese nei libri vi e vii. Il “buono” costituisce

innanzitutto la motivazione a perseguire la giustizia e le virtù dell’ambito

politico (5o5a). Esso rappresenta il fine (skopos), il traguardo verso il qua

le occorre orientare la condotta sia privata sia pubblica (519c), dunque un

«orizzonte di orientamento» e un «centro di integrazione» della vita e

a maggior ragione del suo governo. Per chi ne ha il compito, la conoscen

za del “buono’ che è di livello ontologico ed epistemologico superiore al

mondo della mutevolezza storica e delle relative opinioni, costituisce tut

tavia il fondamento per le corrette e vere opinioni in questo stesso mondo

(;oc). Essa rappresenta infatti il modello di riferimento, il paradeigma,

riferendosi al quale chi ha 11 compito del potere deve riordinare (kosmein)

lapotis, i suoi cittadini e sé stesso (VII 54oa8-Io). Del resto, già all’inizio

del libro VI si era detto che i nuovi governanti avrebbero stabilito le nor

me di giustizia (nomima) nel mondo storico (enthade) avendo come punto

di riferimento la visione di “ciò che vi è di più vero” (to alethestaton), una

espressione nella quale, come meglio si vedrà più avanti, è probabile vada

ravvisata un’anticipazione implicita dell’idea del “buono” nella sua funzio

ne diparadezgma (484c8-d3). Di tutto questo, sostiene Socrate, Adimanto

è perfettamente al corrente (oistha: 5o4a4, 7, 5o5b5), perché ne ha già senti

to parlare più volte (5o4e9: O3c à)i7&Kt iccoa; 5o5a3: ro»&ct &dpcoa).

Ma che cosa esattamente Adimanto dovrebbe sapere, visto che dell’i

dea del “buono” non è stata fatta fin qui alcuna esplicita menzione nel

dialogo? E perché, comunque, la conoscenza del “buono” dovrebbe svol

gere quel ruolo centrale e determinante che in questo passo le viene asse

gnata? La risposta alla seconda domanda rende agevole rispondere anche

alla prima, senza dover ricorrere all’ipotesi che qui venga fatta allusione a

un insegnamento orale-esoterico che Adimanto avrebbe ricevuto in altre

occasioni e che non sarebbe ripetibile nel dialogo scritto3.

La supremazia del “buono” rispetto a ogni condotta pubblica e pri

vata il suo ruolo motivazionale nei riguardi della giustizia sono in effetti

derivabili dalla semantica specificamente “socratica” (ma più in generale

dall’uso linguistico) del termine agathon. Esso vale “efficace, ben fatto,

utile, vantaggioso” (in opposizione al senso di “difettività” che è espresso

in kakon). Una cosa buona è una cosa utile alla realizzazione di una vita

buona, cioè compiuta, prospera, felice; ciò che rende vantaggiose e desi

derabili le singole cose buone è questa ioro strumentalità rispetto al fine

ultimo, a ciò che è buono in sé stesso, la felicità privata e pubblica. Tutto

questo è ribadito con molta chiarezza nel passo della Repubblica che stia

mo discutendo. Il “buono” è ciò che rende utili e vantaggiose le cose giuste

(5o5a3-4): nessuno sarebbe motivato a comportarsi secondo giustizia se

ciò non fosse “buono’ cioè utile alla felicità; non c’è alcun vantaggio, e

nulla di desiderabile, nel possesso o nella conoscenza di una qualsiasi cosa

che non sia anche buona (5o5a7-$). In realtà, il “buono” è il fine e lo scopo

delle condotte di ognuno, ma ciò che le rende incerte e oscillanti è l’inca

pacità di identificarlo pienamente: tanto più necessaria risulta, per contro,

una sua solida comprensione da parte di chi è destinato a guidare la vita di

tutti (5o5d11-5o6a2).

La conoscenza di ciò che è davvero buono, cioè della forma e del senso

di una vita perfettamente felice per la polis e per gli individui

— una co

noscenza che comporta anche, come vedremo, la capacità di confutare le

descrizioni fallaci del “buono” — dunque necessaria per i futuri arcbontes,

ed è, naturalmente, auspicabile per ogni singolo uomo.

Non c’è allora da sorprendersi che Adimanto, frequentatore di Socrate,

debba sapere bene tutto questo per averlo sentito ripetere spesso, e non

solo nella Repubblica. Si era sostenuto nel Gorgia che tutti fanno quello

che fanno in vista del “buono” (to agathon), e questo desiderano, che siano

o meno in grado di identificano correttamente (468b-c). Nel Carmide la

« scienza di ciò che è buono e cattivo » era considerata come la sola in gra

do di recarci vantaggio, ophelein (i74d). E naturalmente nel Protagora era

stata argomentata la celebre tesi “socratica” che nessuno sceglie volontaria

mente (cioè consapevolmente) ciò che è male (quindi inutile e svantaggioso)

in luogo di ciò che è buono, dunque efficace ai fui di una vita felice:

l’errore deriva sempre dall’incapacità di esercitare la «scienza del buono e

del cattivo» (358c s.).

È però vero che in tutti questi passi si parla genericamente del “buono’

to agathon, e non di quella idea del “buono” che secondo la Repubblica deve

costituire la massima conoscenza dei governanti. Anche di essa Adimanto ha

sentito spesso parlare? La risposta a questa domanda solleva una delicata que

stione di metodo interpretativo: essa comporta infatti il necessario ricorso a

un dialogo diverso, un ricorso che non dovrebbe mai venir dato per scon

tato6 e di cui occorre in ogni caso provare la legittimità. Si tratta in questo

caso del fedone, dove viene formulato quel “teorema delle idee” senza la cui

conoscenza Adimanto non sarebbe in grado di comprendere il discorso di

Socrate, e che del resto viene esplicitamente richiamato più avanti (5o7a-b).


non

8$ IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONMATHEMA $9

Molto schematicamente, secondo questo teorema il fatto che molti og

getti diversi possiedano una proprietà comune che può venirne predicata

(x è F, y è f, z è f), comporta l’isolamento (che Aristotele avrebbe definito

ekthesis) di questa proprietà e la postulazione (hypothesis) dell’esistenza di

un ente noetico CD del quale F sia predicabile in modo univoco, stabile e invariante,

che cioè sia perfettamente F e nient’altro che F. La causa del fatto

che x, y, z presentano (sia pure in modo imperfetto, relativo e instabile)

la proprietà F consiste nella loro “partecipazione” (methexis) a CD, o nella

“presenza” (parousia) in essi di CD (che comunque non risulta frammentata

o parcellizzata da questa partecipazione o presenza, costituendo pur sem

pre un’unità noetica di significato rispetto alla molteplicità di x, y, z: cfr.,

ad esempio, Fhaed. ;oob-c).

Non è qui naturalmente il luogo per discutere il senso teorico, del re

sto altamente controverso, di questa “partecipazione” o “presenza”. Su

due aspetti del “teorema” è però necessario insistere brevemente. In pri

mo luogo: la descrizione (o definizione) di CD in quanto perfetta unità di

significato, costituisce il criterio o lo standard per valutare la correttezza

dell’attribuzione della proprietà F alle sue singole, molteplici e parziali

istanziazioni. La conoscenza di che cos’è il giusto in sé (la descrizione o

definizione dell’idea di giusto) è il parametro di riferimento per l’attri

buzione a stati di cose e azioni della proprietà della giustizia o per la sua

negazione; esso serve cioè a “spiegare” perché alcuni oggetti siano giusti

e altri ingiusti. Si tratta, naturalmente, di un criterio e di un parametro

assoluti, perché derivano dalla descrizione di un ente noetico immutabile;

il significato di giustizia non dipende cioè dall’arbitrio di individui o mag

gioranze politiche, come sosteneva secondo Platone il relativismo prota

goreo, ma resta permanentemente e universalmente identico. In secondo

luogo: nonostante alcuni aspetti del linguaggio platonico relativo alle idee

e alloro modo di esistenza e di conoscibilità possano indurre equivoci e

anche tensioni teoriche, le idee stesse

— almeno nell’ambito di fedone e

Repubblica — devono venir concepite come super-oggetti che esistono

a fianco degli oggetti in cui sono istanziate, al modo cioè in cui gli dei esi

stono accanto agli uomini o una mela perfetta nel cesto con le altre mele;

le idee non sono, in altri termini, «i migliori esemplari della loro specie»7.

Un chilogrammo non è un oggetto ma un’unità di misura che consente di

stabilire il peso di mele, pere e così via; allo stesso modo, l’idea di cerchio

non è un cerchio ma ciò per cui tutti gli oggetti che ne condividono le

proprietà sono detti cerchi (Vlastos), e l’idea di giustizia non è un com

portamento giusto o giustissimo (come sostengono Cefalo e Polemarco

all’inizio del libro i), ma ciò che costituisce il criterio per giudicare giusti

o ingiusti i singoli comportamenti.

Sulla base di questo “teorema’ è dunque possibile concludere che l’idea

del “buono” deriva per ekthesis dalla proprietà della bontà istanziata dai

singoli casi di cose buone, e che reciprocamente è per partecipazione a

essa che le cose diventano (cioè possono venir giudicate) buone, cioè utili

e giovevoli, come è chiaramente indicato in 5o5a3-4 ( ccì cctc icaì

icaì cDq.tc yiyvt’rat).

Socrate è perfettamente sicuro che basti “ricordare” ai suoi interlocu

tori (che qui rappresentano probabilmente il primo gruppo accademico)

i lineamenti di questo sviluppo teorico, rinviando in modo implicito al

fedone, per ottenerne il “consenso’ quella homologia che è necessaria al

procedimento dialettico8: «Occorre che mi metta d’accordo con voi, [...]

ricordandovi ciò che si è detto in precedenza e già in molte occasioni»

r&pop&itpit

(507a7-9: too)o vo&[.Lrvo [...] ccd & aw oct JFL& T& r’iv tot pooO

OéÌTa icctì &))om 7r0» ct Eipèvc).

Ecco di che si tratta: «Affermiamo [...] che molte sono le cose belle,

molte le buone, e così per ogni gruppo, definendole nel discorso [...] E

affermiamo che vi è il bello in sé e il buono in sé, e così per tutte le cose che

allora ponevamo come molteplici ora al contrario riportiamo ciascuna di

esse a una singola idea che consideriamo unitaria, e denominiamo “essen

za” [ho estin]» (5o7bz-7).

Che si tratti di un nucleo teorico che permane costante attraverso i dia

loghi è confermato dal fatto che esso viene considerato come un caposaldo

dottrinale, ribadito da Socrate nel libro x e a più riprese attribuito ai pla

tonici da altri interlocutori, come lo Straniero eleate nel Sofista (z46b7-$,

24$all-Iz) e Parmenide nel dialogo omonimo (131a1-3)9.

Applicando il teorema al caso in discussione, si ottiene dunque che

la pluralità delle cose cui viene attribuita la proprietà della bontà rinvia

a un’unica idea, quella del “buono’ che possiede tale proprietà in modo

perfetto e invariante, e che costituisce quindi la “causa”, ovvero il criterio e

la norma di quella attribuzione’°.

E dunque perfettamente giustificata e comprensibile la richiesta di

Glaucone e di Adimanto che Socrate proceda nella discussione sul “buo

no” nello stesso modo in cui aveva trattato, nel libro IV, la giustizia e la

moderazione. Come la prima era stata descritta nei termini della oikeio

pragia, con i corollari etico-politici che ne derivavano, così si dovrebbe fare

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t

90 IL POTERE DELLA VERITÀ

MEGISTONMATHEMA

9’

in linea di principio con l’idea di buono, che potrebbe ad esempio venir

definita in termini di felicità, di euprattein (il sintagma con cui si conclude

il dialogo), o altri simili. Ci sarebbe, è vero, un problema teorico ulterio

re, determinato dal fatto che la bontà non si attribuisce soltanto a stati di

cose o a condotte, ma anche, in primo luogo, alle altre idee, il che situa

l’idea di buono in una posizione gerarchica comunque sovraordinata alle

altre (ogni idea sarebbe “prima” per la sua specifica essenza, ma “seconda”

e subalterna in quanto godrebbe in aggiunta a essa della proprietà comune

della bontà).

Non è tuttavia questo il problema teorico che Socrate affronterà in

modo diretto, né è questo il percorso che egli deciderà di seguire nella sua

discussione sul “buono”

L’eccesso di Socrate: il

c1

Duoflo oltre le idee

Che non sia possibile procedere in questa direzione è mostrato dalla ra

pida confutazione cui vengono sottoposte due ipotesi definitorie evocate

dallo stesso Socrate: quella della maggioranza, che riconosce il “buono”

nel piacere (bedone), e quella dei più raffinati (kompsoteroi), che lo identi

fica nella intelligenza (phronesis, ob- 6); questa seconda posizione, rifor

mulata in seguito da Adimanto che sostituisce “scienza” (episteme) aphro

nesis (5o6bz-3), non poteva non apparire molto vicina a quella sostenuta

a più riprese da Socrate in altri dialoghi, e probabilmente dal suo gruppo

“storico”hI.

La prima tesi è respinta sulla base della constatazione che i suoi stes

si assertori devono ammettere che esistono anche piaceri cattivi (kakas,

oc8), come era stato forzato a riconoscere Callide nel Gorgia (499b-c).

La posizione dei “raffinati” è spinta al “ridicolo”, perché essi sostengono,

in modo circolare, che l’intelligenza (o la scienza) di cui parlano sono il

“buono” perché vertono sul “buono” stesso, lasciandolo quindi indefinito

(5o5b-c).

Il senso di questi due etenchoi, troppo succinti per essere convincenti (si

pensi ad esempio alla ben più elaborata discussione sul piacere nel filebo),

dev’essere quello di mostrare, in negativo, che la via di accesso alla com

prensione del “buono” non può essere quella consueta della discussione su

“Che cosa è X?”.

Socrate si rifiuta dunque di trattare del “buono” come ha fatto per la

giustizia e la moderazione, e propone di abbandonare la questione: «La

sciamo dunque andare per ora la questione di che cosa sia mai il buono in

sé; mi sembra troppo, rispetto al fondamento di cui adesso disponiamo,

giungere fino all’opinione che ora me ne sono fatta» (o6d8-e3: cOTÒ 2àV

t( TrOT’ orì t&’cOò octr rà vfn tt’ica — tot ccktrct icccr& -rp

7rcpo?Jowv 6p.d1v i4tKo-8at rot 7E &KOOVtO 4toì r& ,ih,).

Questa celebre formula di reticenza socratica’ deve venire attentamen

te analizzata. Da essa risulta, in primo luogo, che Socrate, almeno per il

momento, dispone intorno al “buono” soltanto di una doxa e non di una

conoscenza epistemica’3 (Socrate ribadisce a più riprese di possedere solo

“pareri”,phainomena, intorno al “buono”, 57b7-8, nonché intorno alla na

tura della dialettica, 533a3-4, ignorando se essi corrispondano al “vero”).

Egli propone comunque di accantonare la discussione perché il compito

di esporre la sua doxa gli sembra per il momento eccessivo, vista la attua

le horme. Il significato di questa doppia restrizione temporale (ta nun,

parousan) è stato molto discusso.

Gli interpreti oralistico-esoterici sostengono che essa si riferisce alla si

tuazione della scrittura, che è in sé stessa inadatta — la sua natura e per

l’impreparazione dei suoi fruitori — esporre i vertici più elevati (timiote

ra) del pensiero filosofico’ (perché, tuttavia, la stessa restrizione, ta nun,

viene riferita alla doxa di Socrate indipendentemente dal fatto che essa

venga esposta o meno?).

Da un punto di vista opposto, si è sostenuto che la restrizione ha un

valore essenzialmente ironico, perché (come meglio vedremo più avanti)

la natura stessa dell’idea del “buono” ne renderebbe impossibile una defi

nizione o addirittura una discussione a livello proposizionale’.

Una possibilità intermedia consiste nel prendere Socrate alla lettera:

si tratterebbe di una provvisoria impasse del pensiero platonico, magari

destinata a venire superata dai suoi successivi sviluppi, come secondo al

cuni interpreti accade nel filebo’6. Resta però da spiegare perché Platone

avrebbe, proprio in questo testo, posto il problema del “buono” solo per

dichiararlo provvisoriamente insoluto.

Una via di uscita da questa seria aporia interpretativa può essere sugge

rita da una riconsiderazione della reticenza socratica nel contesto che le è

proprio, quello dialogico-dialettico. In diverse occasioni, infatti, Socrate

si dichiara perfettamente disposto (hekon) a sviluppare la discussione fin

dove la situazione presente (toparon) lo consente (5o9clo; con gli stessi


91 IL POTERE DELLA VERITÀ j MEGISTONTHE 93

termini Socrate si accinge ad affrontare la questione dei rapporti fra potis

Glaucone

e filosofia in 497e3-4)’7. La reticenza non riguarda perciò tanto la forma

scritta dell’esposizione, né la natura del suo oggetto; nel nostro caso, essa

va addebitata senza dubbio alla inadeguatezza della borme disponibile. In

contesti epistemologici, questo termine non ha il significato psicologico

di “slancio” o “impulso”, bensì quello di “base di partenza” (cfr. 5iib6-7:

TE bCÌ 6pt&; cfr. anche Phaed. ioid4), cioè di fondamento che a

sua volta è costituito, nel contesto dialettico, dalla homotogia, dal consenso

dei dialoganti (cfr. 5iodz-3, 354b4-5, Leg. VII 799dz-3)’8.

Per questa ragione, Socrate teme di esporsi al ridicolo (5o6d8: yDc-rct

àc)uco) con la proposta di un esperimento teorico senza precedenti e de

stinato quindi a suscitare incredulità e dissenso: lo stesso “ridicolo” che

nel libro V, e con gli stessi termini, Socrate prevedeva avrebbe incontrato

con le sue inaudite e controverse proposte sulla condizione femminile e

sul regno dei filosofi (451a1: ‘yÀcrrct àc)tN; cfr. 451a7, 473c7). La man

canza di una base di consenso sulla quale fondare una costruzione di tipo

teorematico, simile a quella che nel libro iv aveva condotto, con la soddi

sfazione dei suoi interlocutori, alla definizione della giustizia, obbliga alla

fine Socrate a ricorrere, per esporre la sua concezione del “buono”, a una

strategia metaforica, come gli è consueto non solo a proposito dei grandi

temi filosofici (i timiotera degli interpreti oralistico-esoterici), ma più in

generale degli argomenti più esposti alla controversia dialettica: è il caso,

nello stesso libro VI, dell’impiego della metafora “nautica” della polis in

teso a giustificare la proposta del governo dei filosofi (questa abitudine

socratica del ricorso alla metafora per ottenere il consenso è ironicamente

sottolineata da Adimanto in 4$7e7).

Alla fine, comunque, e sia pure solo attraverso la metafora solare, la

pressione dei suoi interlocutori costringe Socrate a superare la reticenza

e a esporre la sua doxa intorno al “buono” (5o9c3-4: & rfyK&jiflì T& 4toì

ocofvta lripì ro)yerv).

Come temeva, Socrate si è però esposto in questo modo al ridicolo.

Glaucone, il cui ruolo in tutto il dialogo è quello di rimarcare impieto

samente oscurità o debolezze argomentative, ricorrendo spesso proprio

all’arma del ridicolo, interviene in modo derisorio (509cl:

Che Socrate si senta aggredito dalla risata di Glaucone è confermato dalla

sua immediata reazione, che addossa proprio all’insistenza di Glaucone la

responsabilità della sconcertante proposta teorica sulla natura del “buo

no” (5o9c3: o6 [...] rto; la stessa formula con cui Socrate aveva accusato

di averlo obbligato a formulare la “ridicola” proposta del potere

filosofico in 474a5).

Ma che cosa Glaucone trova intollerabilmente controvertibile, e per

ciò ridicolo, nel discorso socratico sul “buono”? Si tratta della atokt

che gli viene attribuita (5o9c1-z). Questa espressione non può in

alcun modo significare «divina trascendenza» come hanno inteso mol

ti interpreti, ma piuttosto — nonostante una certa ambiguità che, come

vedremo, va considerata intenzionale — «straordinaria esagerazione»10.

Hyperbote vale di norma “eccesso” ed è legato polarmente ai termini che

indicano “difetto’ come endeia ed etleipsishl; l’aggettivo daimonios è usato

dallo stesso Glaucone in relazione al progetto di una teoria dei numeri

armonici (VII 531e5), certo straordinario e inaudito ma per nulla divino,

se Socrate può commentare che esso risulta utile solo se finalizzato alla

ricerca del “buono”, altrimenti resterebbe achreston. Perciò, se è vero, come

sostiene Szlezàk, che hyperbole riecheggia quello hyperecbein, quella su

periorità dell’idea del bene sulla ousia (5o9blo), in cui consiste il ctimax

teorico del discorso socratico, è proprio a essi che si riferisce la pungente

incredulità di Glaucone.

In modo più serio, questa incredulità è riformulata in relazione a due

importanti sviluppi del discorso socratico. A proposito dell’implicito

riferimento al “buono” come principio anipotetico del tutto, cui deve

pervenire la dialettica, Glaucone dichiara di “non comprendere adegua

tamente” (hikanos: forse un riferimento allo hikanon ipotetico di Fhaed.

ioiei) la difficile impresa di cui parla Socrate (51;c3-4). Più esplicitamente,

a proposito dell’intero programma dialettico, Glaucone così ribadisce la

sua perpiessità:

Io accetto tutto questo. Tuttavia mi paiono cose estremamente difficili ad ammet

tersi [apodechesthai] e viceversa, da un altro punto di vista, difficili a non ammet

tersi. Comunque, perché non se ne deve sentir parlare soltanto in questa occasio

ne, ma occorrerà tornarvi sopra più volte, poniamo [thentes] che le cose stiano

come si è detto (vii 53zdz-5).

Come è facile vedere, si tratta di una chiara indicazione che gli sviluppi teo

rici che occupano i libri VI e VII del dialogo richiedono un’ulteriore discus

sione (nell’Accademia?), e che i loro risultati vanno considerati provvisori.

Ciò si deve, come già si è accennato, al fatto che essi forzano i limiti e

i vincoli della teoria delle idee, che è invece oggetto di homotogia. Questa


— o8blo

quindi

94 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONMATHEMA 95

eccedenza — che risponde del resto, come vedremo, a esigenze teoriche

imprescindibili nel contesto della Repubblica — è segnalata, nei passi sull’i

dea del “buono”, dall’infittirsi di allusioni di tipo religioso. A proposito

del sole, si parla naturalmente di “dei del cielo” (5o$a4), e l’ambito solare

riecheggia nell’esclamazione “Apollo!” attribuita a Glaucone (509cl)”;

la discendenza del sole dal “buono” ha una risonanza quasi teogonica

(5o8bh-i3), e la stessa ingiunzione euphemei rivolta a Glaucone che evoca

la possibilità di identificare il “buono” con il piacere suona come un invito

a non bestemmiare la divinità. Altrettante indicazioni, queste, che pos

sono avere una doppia valenza: segnalare, da un lato, che il discorso si sta

muovendo sul crinale sottile fra argomentazione teorica e mito, dall’altro

che la prospettiva filosofica delineata va a occupare uno spazio di tradizio

nale pertinenza religiosa’.

La metafora solare e le funzioni del “buono”

Socrate decide dunque di parlare del “buono” non direttamente, ma attra

verso la metafora del sole, “prole” (engonon) che il “buono” stesso ha gene

rato come proprio anatogon nel mondo “visibile”, mentre esso appartiene

a quello noetico (5o8bh-cz).

Questa “generazione” è a sua volta naturalmente metaforica, non essen

do possibile concepire la derivazione diretta di un oggetto empirico da un

ente noetico. Il rapporto padre-figlio significherà dunque un’analogia di

posizione e funzioni dislocate però in due sfere di diverso valore e consi

stenza ontologica, la superiore occupata dal “padre”, l’inferiore dal “figlio”.

Da questa situazione originaria della metafora derivano immediata

mente due conseguenze, che ne caratterizzano l’intero sviluppo.

La prima: il discorso sull’explicans, il sole, non dice mai che cosa

esso è, bensì ciò con cui non va identificato: la luce, la visione, l’occhio

(o$aiI ss.), la generazione degli oggetti naturali (5o9b4: questo costi

tuisce un’aporia, perché il sole è a sua volta un oggetto empirico, visibile

—, deve appartenere a sua volta all’ambito della genesis).

Del sole vengono piuttosto descritte le funzioni, ciò che esso fa nella sfe

ra che gli è propria’4. Questa curvatura del discorso sul sole si riflette in

quello sull’explicandum, il “buono” (e viceversa ne risulta implicitamente

governata). Anche la determinazione del “buono” si caratterizza, come vedremo,

in termini negativi, e soprattutto come una aitiotogia, un’analisi

delle sue funzioni causali, piuttosto che come una descrizione di ciò che

eSSO è di per sé stesso’5.

La seconda conseguenza è anche più rilevante. La partizione di campi

fra sole e “buono” confina quest’ultimo nella sfera noetica; non è dun

que in questione, nell’ambito metaforico, il suo rapporto con quella em

pirica. Ora, è propriamente in quest’ultima che il “buono”, esattamente

come il giusto e il bello, è causa, per partecipazione, dell’attribuzione del

la proprietà di esser buone (giuste, belle) a cose e azioni. Nella sfera

tica, la causalità del “buono” deve essere naturalmente riferita soltanto

alle idee, e nei loro riguardi, come vedremo, esso non è immediatamente

causa di bontà bensì di altre proprietà che sono comuni a tutte le idee in

quanto tali.

Veniamo dunque schematicamente alla struttura della metafora’. Il

sole è origine della luce (5o8b9) e tramite essa è condizione di possibilità

della visione, il rapporto che connette l’occhio agli oggetti visibili (5o9a).

Il sole inoltre, grazie presumibilmente al calore che emana, è causa della

generazione (genesis), della crescita e del nutrimento degli oggetti visibili,

cioè appartenenti al mondo della natura (5o9b3-4).

Trasferita all’ambito noetico, la prima parte della metafora illustra la

struttura del rapporto conoscitivo. Il “buono” conferisce agli oggetti della

conoscenza (le idee) verità ed essere, -r aì -rà v (o8d). Il nes

so m ... icttL ricorrente nei passi che stiamo analizzando, indica la stretta

connessione fra i due termini: la verità risulta una proprietà ontologica

dell’essere delle idee (nel senso, probabilmente, di autoidentità), e a sua

volta questo essere è primariamente esser-vero (perfettamente conoscibile

nelle sue proprietà invarianti). Per il polo soggettivo della conoscenza il

“buono” è causa di scienza e verità, [...] iccd & i8r(c (5o8e3), °

anche dirci TE ccì Gra (o$e). Qui la verità del conosciuto è la

condizione di possibilità dello statuto epistemico della conoscenza, che

è normalmente in Platone determinato dal suo oggetto. Fin qui, la “spie

gazione” metaforica può venire interpretata in modo piuttosto lineare.

Come il sole, mediante la luce, è la condizione di possibilità della visione,

così il “buono” lo è della conoscenza. Questo è direttamente conciliabile

con il valore semantico di to agathon. Si può pensare che l’intenzionalità

conoscitiva (a tatere subjecti) sia causata dal fatto che le idee sono buone a

conoscersi, quindi desiderabili, e che buona e desiderabile è la conoscenza

stessa’7. A tatere objecti, le idee presentano, in aggiunta alle loro specifiche


non-essente

96 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONTHE 97

proprietà essenziali (l’esser-giusto, l’esser-bello, l’esser-quadrato), anche

proprietà comuni, in primo luogo l’esser-vero che esse derivano dal “buo

no”: è la loro verità che costituisce mediatamente la loro bontà, cioè l’esse

re desiderabili come oggetti di conoscenza.

In quanto condizione di conoscenza, scienza e verità, 11 “buono” non

sarà identificabile con esse (o8e5, 5o9a6-7), ma a esse ancora superiore

per “valore” (timeteon, 5o9a5) e “bellezza” (kattos, 5o9a6): la sua superio

rità rispetto alla sfera conoscitiva appartiene dunque, in accordo con la

semantica di to agathon, non all’ordine epistemico-ontologico ma a quello

della valorizzazione.

La seconda parte della metafora solare induce tuttavia uno sviluppo

che eccede almeno a prima vista questo orizzonte. Come il sole è condizio

ne della generazione degli oggetti “visibili”, così dal “buono” quelli noetici

derivano (pareinai) non solo l’esser conosciuti ma anche tò Eivct( TE icctì rìpì

oi)oLa’ (5o9b6-7): l’essere e l’essenza, cioè il modo di essere proprio delle

idee, che esistono in quanto essenze (perciò, di nuovo, in quanto vere)18.

Va notato che risulta in questo modo escluso che le idee siano noemata

prodotti dall’intenzionalità conoscitiva, benché esse ne rappresentino co

munque la polarità “passiva” (cfr. Soph. 248ez-4).

In ogni caso, essendo condizione dell’esistenza delle idee in quan

to idee, il bene risulta ulteriore rispetto alla ousia che costituisce il pia

no ontologico delle idee: è dunque tvctt ooia (5o9b9), ma lo è

ancora una volta nell’ordine della valorizzazione, per “dignità e potenza”

(7rptti ccì inrtpxovto).

Prima di discutere le conseguenze derivanti allo statuto ontologico ed

epistemologico dell’idea del “buono” da questa sua collocazione ulteriore

rispetto al piano della ousia (il modo d’essere delle idee)29, è opportuno

affrontare due paradossi che emergono dagli sviluppi della metafora sola

re. Il primo consiste nel fatto che le idee, enti per definizione ingenerati,

derivano però dal “buono” “essere ed essenza’ equivalenti alla genesis del

mondo empirico. Questo paradosso è forse più apparente che reale, perché

le idee non vengono comunque “generate” come le cose; poiché il loro

modo di essere in quanto essenze consiste primariamente nella verità e

nell’invarianza, sono queste proprietà che esse derivano dal “buono’ e che

garantiscono la loro peculiare “esistenza” in quanto norme e paradigmi°.

La “generazione” delle idee non consiste dunque nel passaggio dalla nonesistenza

all’esistenza, ma nel compimento del rapporto conoscitivo fra

polarità soggettiva e oggettiva.

Il secondo paradosso è più serio e rappresenta in un certo modo una

riformulazione del primo. Poiché il “buono” non è immediatamente causa

di “bontà” per le idee ma piuttosto di essere e verità, questa idea non do

vrebbe venir chiamata auto to agathon ma auto to atethes, o meglio ancora

at#o to on: questa espressione designa però, nel Sofista (z58b), piuttosto

uno dei “generi” più estesi che un’idea in senso stretto. Che l’idea del

“buono” sia causa di proprietà che non le pertengono in modo specifico, a

differenza di quanto accade per le altre idee come “giusto”, “bello” o “gran

de”, rappresenta una chiara violazione del teorema delle idee formulato

nel fedone. Questo pone, da un lato, il difficile problema teorico di come

sia pensabile la forma di causalità del “buono’ e dall’altro quello del suo

statuto in quanto idea di tipo anomalo. Su questo aspetto occorre ora ri

volgere l’indagine.

Lo statuto onto-epistemologico dell’idea del “buono”

In quanto causa (fondamento e condizione) della conoscenza e dell’essere,

l’idea del “buono” non può che risultare “al di là’ superiore, rispetto all’u

na e all’altro. Significa questo che essa è “trascendente” rispetto all’essere e

alla conoscenza, quindi — secondo un’inferenza tipicamente neoplatoni

ca — e perciò non conoscibile?

La risposta a questa domanda, come ha recentemente dimostrato Bal

tes, non può che essere negativa31.

Che il “buono” non possa venir considerato come esterno all’ambito

dell’essere è segnalato, in primo luogo, dal fatto che esso è a più riprese

designato come un’idea (oaz, 5o8e3, 517cl, z6el, 534cl). Non credo,

come è stato talvolta sostenuto, che sia possibile reperire nel linguaggio

platonico una netta differenza di ordine ontologico fra idea ed eidos,

termine che non viene mai riferito al “buono”; se questo uso lessicale non

è casuale, esso può significare al più che il “buono” è un’idea il cui statuto

è diverso rispetto a quello degli eide di tipo standard, ma la differenza non

può comunque giungere fino a considerano trascendente rispetto all’es

sere, ciò che non è mai indicato in Platone dal termine idea. L’apparte

nenza dell’idea del “buono” al campo dell’essere, e insieme l’eccezionalità

della sua condizione, sono del testo segnalate in numerosi luoghi del te

sto. Essa è descritta come ciò che vi è di più luminoso (phanotaton, 518c9)

e di più felice (eudaimonestaton, 526e3-4) nell’ambito dell’essere, come


9$

IL POTERE DELLA VERITÀ

MEGISTONTHE 99

il migliore (ariston) fra gli enti (532c6). Il linguaggio di questi passi in

dica in modo inequivocabile come l’eccedenza del “buono” rispetto agli

altri enti (ideali e no) non sia di ordine ontologico ma piuttosto assiolo

gico (come tetos e condizione di conoscenza e felicità) e anche estetico.

La forte valenza etico-estetica del “buono” è del resto sottolineata negli

straordinari passi conclusivi del filebo, dove al termine dell’indagine ci

si avvede che «la potenza {dynarnis] del buono si è rifugiata nella natura

del bello» (64e), e che dunque per circoscriverla non basterà una sola

idea ma occorrerà ricorrere a tre caratteristiche, «bellezza, proporzione

e verità» (6a).

La luminosità e la verità del “buono” rinviano inoltre all’ambito della

conoscenza, cui esso appartiene in modo eminente come a quello dell’es

sere. Che il “buono” sia conoscibile è indicato fin dal principio dalla sua

condizione di idea e (quindi) di mathema, oggetto di conoscenza (5o5a1),

e lo conferma implicitamente l’analogia con il sole, il quale è insieme con

dizione e oggetto della visione (5o8blo). L’idea del “buono” appartiene

dunque al campo del conoscibile (gnoston), benché si collochi al suo limite

estremo (teteutaia) e dunque sia visibile solo con difficoltà (5i7b8 s.); essa

è situata al tetos del noetico (53zbz), il che significa insieme il compito del

processo conoscitivo, la realizzazione del suo fine ultimo e il suo limite

estremo.

L’idea del “buono” non trascende dunque la conoscenza, come non

trascende l’essere, ma anche in questo caso ha una posizione eccedente ri

spetto a tutti gli altri oggetti di conoscenza. Questo pone comunque un

problema ulteriore: la non appartenenza del “buono” al piano della ousia

impedisce, in linea di principio, che la sua conoscenza possa venir esaurita

nel logos tes ousias, nella definizione di essenza che è propria delle altre idee.

È vero che in 534b8 Socrate afferma che il dialettico deve procedere per il

“buono” in modo simile (hosautos) a quanto fa per le altre idee, delle quali

comprende il logos tes ousias. La somiglianza deve tuttavia venire limitata

all’opposizione fra il procedimento dialettico e quelli non-dialettici, ad

esempio matematici; questo non esclude che il dialettico si comporti nei

riguardi dell’idea del “buono” in modo diverso rispetto alle altre. Sembra

confermarlo la descrizione del suo procedimento come eminentemente

critico-negativo (534b-c), e della sua apprensione di auto ho estin agathon

come atto puramente noetico (53zb1: &vr

Di tutto questo si dovrà discutere altrove (cfr. qui CAP. io). Occorre ora

trarre qualche conclusione sul senso della collocazione del “buono” non

all’esterno ma all’estremo limite della conoscenza e dell’essere, il che ne fa

certamente un vertice “terzo” rispetto all’una e all’altro (come ha sostenu

to, parzialmente a ragione, Ferber)34.

La supremazia fra gli enti (in senso etico, estetico, veritativo) esclu

de intanto che il “buono” possa venir considerato in senso estensiona

le come equivalente alla totalità o all’insieme degli enti stessi. Se X è

migliore di A, B, C, non si può dire che X A + B + C. Detto in al

tri termini, il “buono” non entra nel logos tes ousias di nessun’altra idea,

ed è certamente meno esteso dell’essere, altrimenti si giungerebbe alla

conclusione, assurda in Platone, che ogni ente (ideale o no) è buono in

quanto tale. Va ricordato a questo proposito che la prima mossa del pro

cedimento dialettico rivolto alla conoscenza del “buono” è di tipo nega

tivo, consiste cioè nel “distinguere” e nel “mettere a parte” (diorisasthai,

aphairein) il “buono” da tutte le altre idee (534b9 ss.) — un’operazione

che non avrebbe senso se compiuta ad esempio nei riguardi dei megista

gene del Sofista.

Il “buono” non è perciò “elemento” o “genere” delle idee e degli enti

in generale, come il sole non lo è di ciò di cui è condizione di crescita. È

certamente vero che il buono in sé (auto to agathon), così separato dagli

enti nella sua collocazione oltre la ousia e al limite dell’essere, è l’origine

di quella bontà residuale (atto agathon, 534c5) che può venire attribuita

alle idee e agli enti in generale (questo è il caso classico in cui la conoscen

za di cI permette l’attribuzione di F a enti diversi, cioè la comprensio

ne del “resto del buono”). La non-identità del “buono” con l’essere delle

idee (di cui è causa e condizione) esclude la possibilità di considerare gli

enti come dotati di valore in quanto tali, e rende inoltre problematica

la riduzione del “buono” all’Uno che alcune testimonianze aristoteliche

attribuiscono all’Accademia platonica. E probabile che questa riduzio

ne (come quella analoga discussa nel fitebo al “limite” e alla “misura”)3

sia stata sperimentata all’interno dell’Accademia nel tentativo di offrire

una risposta teoricamente lineare alla domanda “Che cosa è il buono’ do

manda che nel contesto della Repubblica non sembra suscettibile, come si

è detto, di una risposta formulabile in termini di logos tes ousias. Ma dire

che il “buono” l’Uno significa compiere uno spostamento semantico

non giustificato in questo contesto8, e comporta o di accettare l’equie

stensione aristotelica di Uno ed essere, e quindi tornare per questa via a

una valorizzazione poco plausibile di tutti gli enti in quanto tali, negan

do l’ulteriorità e la separatezza del “buono’ o di rifiutarla alla maniera


100 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTON’L4THEM4 Io’

neoplatonica, e allora il problema del rapporto Uno-molti reduplica, in

altro e meno pertinente linguaggio, quello del rapporto fra il buono in sé,

l’essere e la ousia.

Molti di questi problemi sono tematizzati nella critica aristotelica all’i

dea del “buono” in Etica Nicomachea i 4. Se il “buono” si dice negli stessi

modi dell’essere, allora dovrebbe comparire in primo luogo nella categoria

della sostanza, risultando identificabile sostantivamente come “il dio e il

pensiero” (1o96a15); ma il “buono” platonico ovviamente non è ousia e

quindi neppure un principio cosmo-teologico come il primo motore im

mobile cui Aristotele qui allude. La separatezza del “buono” platonico fa

invece sì, secondo Aristotele, che a esso non ineriscano i “beni” effetti

vamente perseguiti e desiderati, e che viceversa esso non inerisca a questi

beni destituendoli dunque di valore; ma se è così, l’idea del “buono” risul

ta vuota e vana (mataion, 109 6bio), impossibile da praticare e possedere

(prakton oude kteton, 1o96b33 s.): che il “buono” non sia ousia ne esclude

infatti proprio questo carattere patrimoniale. Neppure il “buono” può

fungere da orizzonte di riferimento, paradergna, per i beni che si possono

praticare e possedere: medici e generali non ne fanno, né potrebbero far

ne, alcun uso nel perseguire i beni propri alle loro tecniche, la salute e la

vittoria (1o97a1 ss.). Qualcosa di più persuasivo, aggiunge Aristotele, sem

brano dire i pitagorici e Speusippo° (non dunque il Platone della Repub

blica discusso in questo passo), quando pongono l’uno nella systoichia dei

beni (io9 6b5 ss.), ma la discussione aristotelica in proposito è purtroppo

rinviata a un’altra occasione.

La critica aristotelica è preziosa perché conferma, in negativo, la sepa

ratezza del “buono” in Platone, la sua non equiestensione all’essere, la sua

differenza rispetto alla ousia e anche all’Uno.

Considerazioni analoghe si possono fare intorno alla collocazione del

“buono” al limite estremo del campo conoscibile. Possedendo in massimo

grado la “luce” dell’esser-vero, il “buono” è certamente conoscibile. La sua

conoscenza — che non può venire conclusa nell’enunciazione di un togos

tes ousias — è tuttavia difficile, richiede un lungo percorso attraverso i saperi,

presume il lavoro critico-negativo della confutazione dialettica. Se

il “buono” fonda la scienza, non può tuttavia probabilmente essere pos

seduto alla maniera dei suoi teoremi, e la sua conoscenza coincide forse

con la stessa dynamis tou diategesthai, la “potenza del discorrere dialettico”

(5;ib4, 533a$). Quest’ultima è dal canto suo in stretto rapporto con un’al

tra dynamis, quella del “buono” stesso.

La potenza del “buono”

La problematica eccedenza del “buono” rispetto all’essere e alla conoscen

za deve comunque venire pensata nella sua modalità specifica: Platone

descrive il rapporto fra causa e causato asserendo che il “buono” è al di là

(epekeina) della ousia per presbeia e dynamis (5o9b9), “dignità e potenza

I due termini evocano nel loro insieme una posizione di regalità, che è ri

presa infatti dal basiteuein del “buono” noetico in 5o9d1 (è il caso di ricor

dare che lo stesso verbo descrive il potere dei filosofi in v 473c11: l’idea del

“buono” è dunque l’equivalente ontologico del governo filosofico in poli

tica, ovvero quest’ultimo ne è per così dire il rappresentante nella storia).

li “buono” sovrasta (hyperechein) dunque il piano delle idee e della co

noscenza per la sua dynamis (per il sintagma i io &y8of. vcq.u, cfr. Phit.

64e5). il termine non vale qui certamente “facoltà” ma capacità di causa

zione, potenzialità di produrre (e subire) effetti e nessi relazionali’. Che il

“buono” assuma, nella sua ulteriorità rispetto alle idee, la configurazione

di una dynamis, ha rilevanti conseguenze in ordine alla sua comprensio

ne. Sappiamo infatti, da un passo importante del libro v, che è impossi

bile “definire” (diorizesthai) una dynamis, e che essa va compresa a partire

dall’oggetto cui si applica e dagli effetti che produce (477di: èC’ 4 TE QT1

ccì 6 7rEpyErat). Se è così, il modo corretto di porre la questione intorno

all’idea del “buono” non consisterà nel chiedersi “Che cosa è” (cioè nel

tentare un’impossibile definizione enunciandone il togos tes ousias), bensì

“Che cosa fa’ quali effetti produce una volta che sia stato delimitato il

luogo onto-epistemologico che essa occupa (ai limiti estremi dell’essere e

del pensabile), la funzione causale che svolge e gli oggetti ai quali prima

riamente si riferisce (le idee). Quali sono dunque gli effetti prodotti dalla

dynamis del “buono”? Possiamo, per semplicità di analisi, distinguerne

una classe negativa e una positiva.

La prima è chiaramente implicata dal “maggior valore” che il “buono”

presenta rispetto a scienza, verità e ousia (5o9a4-5), ed è resa esplicita dal

primo movimento della “potenza” dialettica, che consiste nel “toglier via”

(aphairein) l’idea del “buono” da tutte le altre (534b9), negando così la

possibilità di identificare le seconde con la prima. In altri termini, ciò si

gnifica che nessuna idea, nessun sistema della conoscenza o stato di cose

è tale da poter esaurire in sé il “buono”: essi ne possono partecipare (co

stituendo così qualcosa che appartiene al “resto del buono’ alto agathon,

534c5) ma non lo possiedono nella sua interezza. L’orizzonte assoluto di


100 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTON MATHEMA

101

neoplatonica, e allora il problema del rapporto Uno-molti reduplica, in

altro e meno pertinente linguaggio, quello del rapporto fra il buono in sé,

l’essere e la ousia.

Molti di questi problemi sono tematizzati nella critica aristotelica all’i

dea del “buono” in Etica Nicomachea I 4. Se il “buono” si dice negli stessi

modi dell’essere, allora dovrebbe comparire in primo luogo nella categoria

della sostanza, risultando identificabile sostantivamente come “il dio e il

pensiero” (1o96a15); ma il “buono” platonico ovviamente non è ousia e

quindi neppure un principio cosmo-teologico come il primo motore im

mobile cui Aristotele qui allude. La separatezza del “buono” platonico fa

invece sì, secondo Aristotele, che a esso non ineriscano i “beni” effetti

vamente perseguiti e desiderati, e che viceversa esso non inerisca a questi

beni destituendoli dunque di valore; ma se è così, l’idea del “buono” risul

ta vuota e vana (mataion, Io96bzo), impossibile da praticare e possedere

(prakton oude kteton, io96b33 s.): che 11 “buono” non sia ousia ne esclude

infatti proprio questo carattere patrimoniale. Neppure il “buono” può

fungere da orizzonte di riferimento, paradeigma, per i beni che si possono

praticare e possedere: medici e generali non ne fanno, né potrebbero far

ne, alcun uso nel perseguire i beni propri alle loro tecniche, la salute e la

vittoria (1o97a1 ss.). Qualcosa di più persuasivo, aggiunge Aristotele, sem

brano dire i pitagorici e Speusippo° (non dunque il Platone della Repub

blica discusso in questo passo), quando pongono l’uno nella systoichia dei

beni (1o96b5 ss.), ma la discussione aristotelica in proposito è purtroppo

rinviata a un’altra occasione.

La critica aristotelica è preziosa perché conferma, in negativo, la sepa

ratezza del “buono” in Platone, la sua non equiestensione all’essere, la sua

differenza rispetto alla ousia e anche all’ Uno.

Considerazioni analoghe si possono fare intorno alla collocazione del

“buono” al limite estremo del campo conoscibile. Possedendo in massimo

grado la “luce” dell’esser-vero, il “buono” è certamente conoscibile. La sua

conoscenza — che non può venire conclusa nell’enunciazione di un togos

tes ousias — è tuttavia difficile, richiede un lungo percorso attraverso i saperi,

presume il lavoro critico-negativo della confutazione dialettica. Se

il “buono” fonda la scienza, non può tuttavia probabilmente essere pos

seduto alla maniera dei suoi teoremi, e la sua conoscenza coincide forse

con la stessa dynamis tou dialegesthai, la “potenza del discorrere dialettico”

(5iib4, 533a8). Quest’ultima è dal canto suo in stretto rapporto con un’al

tra dynamis, quella del “buono” stesso.

La potenza del “buono”

La problematica eccedenza del “buono” rispetto all’essere e alla conoscen

za deve comunque venire pensata nella sua modalità specifica: Platone

descrive il rapporto fra causa e causato asserendo che il “buono” è al di là

(epekeina) della ousia per presbeia e dynamis (5o9b9), “dignità e potenza”.

I due termini evocano nel loro insieme una posizione di regalità, che è ri

presa infatti dal basileuein del “buono” noetico in o9dz (è il caso di ricor

dare che lo stesso verbo descrive il potere dei filosofi in V 473c11: l’idea del

“buono” è dunque l’equivalente ontologico del governo filosofico in poli

tica, ovvero quest’ultimo ne è per così dire il rappresentante nella storia).

Il “buono” sovrasta (hyperechein) dunque il piano delle idee e della co

noscenza per la sua dynamis (per il sintagma toD &yaOot) cfr. Fhil.

64e5). Il termine non vale qui certamente “facoltà” ma capacità di causa

zione, potenzialità di produrre (e subire) effetti e nessi relazionali’. Che il

“buono” assuma, nella sua ulteriorità rispetto alle idee, la configurazione

di una dynamis, ha rilevanti conseguenze in ordine alla sua comprensio

ne. Sappiamo infatti, da un passo importante del libro v, che è impossi

bile “definire” (diorizesthai) una dynamis, e che essa va compresa a partire

dall’oggetto cui si applica e dagli effetti che produce (477d1:‘ c

cì 6 &irsp-y&ttat). Se è così, il modo corretto di porre la questione intorno

all’idea del “buono” non consisterà nel chiedersi “Che cosa è” (cioè nel

tentare un’impossibile definizione enunciandone il logos tes ousias), bensì

“Che cosa fa”, quali effetti produce una volta che sia stato delimitato il

luogo onto-epistemologico che essa occupa (ai limiti estremi dell’essere e

del pensabile), la funzione causale che svolge e gli oggetti ai quali prima

riamente si riferisce (le idee). Quali sono dunque gli effetti prodotti dalla

dynamis del “buono”? Possiamo, per semplicità di analisi, distinguerne

una classe negativa e una positiva.

La prima è chiaramente implicata dal “maggior valore” che il “buono”

presenta rispetto a scienza, verità e ousia (5o9a4-5), ed è resa esplicita dal

primo movimento della “potenza” dialettica, che consiste nel “toglier via”

(aphairein) l’idea del “buono” da tutte le altre (534b9), negando così la

possibilità di identificare le seconde con la prima. In altri termini, ciò si

gnifica che nessuna idea, nessun sistema della conoscenza o stato di cose

è tale da poter esaurire in sé il “buono”: essi ne possono partecipare (co

stituendo così qualcosa che appartiene al “resto del buono”, alto agathon,

534c5) ma non lo possiedono nella sua interezza. L’orizzonte assoluto di


motivata

e

I0Z IL POTERE DELLA VERITÀ

yEGISTON MATHEMA 103

valore resta ulteriore alla verità della scienza e anche a formazioni etico

politiche come una eventuale ka1tzo1is: tutto ciò può essere “simile al buo

no” (agathoeides, come scrive Platone con un efficace neologismo, 509a3)

ma è diverso dal “buono” stesso e risulta dunque non autofondato dal pun

to di vista del valore. Questo vale senza dubbio anche per il mondo nel SUO

insieme: l’idea del “buono” è il fondamento del valore ma non la garanzia

della sua presenza nel mondo, e non costituisce dunque né il principio di

una onto-teologia né tanto meno di un provvidenzialismo immanentistj

co41. Da questo punto di vista, è vero che 11” buono” non è causa del male

(ii 379b15 s., vii 517c), ma ciò non significa, com’è ovvio, che il male sia

provvidenzialisticamente assente dal mondo.

L’ulteriorità dell’idea del “buono” rispetto al piano dell’esistente tan

to noetico-ideale quanto storico-empirico determina dunque un punto di

vista critico-negativo che segnala l’infondatezza assiologica dell’esistente

stesso, l’impossibilità che un qualsiasi suo stato pretenda il possesso o la

realizzazione esaustiva del “buono”

Dall’altra parte, però, è proprio la dynamis del “buono” a produrre ef

fetti nei quali è riconoscibile il “resto del buono’ la sua presenza mondana,

dando così luogo a un movimento costruttivo-positivo.

In primo luogo, essa produce conoscenza e verità, cioè scienza come

luogo nel quale l’una e l’altra si incontrano; è “signora” (kyria) di pensiero

(nous) e del suo contenuto, atetheia (517c4). Questo significa che l’idea

del “buono” è causa dell’intenzionalità conoscitiva perché presenta la ve

rità conoscibile come buona, cioè desiderabile ed efficace al fine di una

vita felice. L’intenzionalità conoscitiva stabilisce un nesso che connette

una polarità soggettiva

— dalla bontà della verità — una polarità

oggettiva, costituita dall’esistenza immutabile delle idee. L’idea del “buo

no” è la condizione di questo nesso fra conoscenza, verità ed esistenza

noetica.

C’è un ulteriore effetto positivo, produttivo, dell’idea del “buono”.

Essa conferisce valore (quindi desiderabilità ed efficacia) alle idee in quan

to norme etico-politiche (perciò, in ultima istanza, conferisce loro esisten

za in quanto norme). Il “buono” è il principio e il fondamento dell’intero

sistema dei paradigmi e modelli regolativi delle condotte private e pub

bliche: esso è infatti in ogni caso «la causa di tutto ciò che vi è di retto

e di bello» e a esso deve riferirsi chiunque «intenda agire saggiamente

[emphronos] sia nella vita privata sia in quella pubblica» (517c). In quanto

dotata della massima verità (atethestaton) normativa, l’idea del “buono”

costituisce, come si è visto, il canone di riferimento per le norme legislative

(nornirna) relative alla giustizia e alla moralità (4$4c9 ss.).

Se nell’ambito dell’intenzionalità conoscitiva l’idea del “buono” era la

condizione di possibilità della scienza, in quello etico-politico essa appare

dunque piuttostO la garanzia di validità della opinione vera (atethes doxa)

che governa le condotte giuste nella dimensione storica della comunità

umana.

Per lapraxis, tanto conoscitiva quanto etico-politica, l’idea del “buo

no” funge dunque come tetos e causa finale, principio di desiderabilità di

scienza e giustizia; ma al tempo stesso anche come causa efficiente genera

trice di verità e normatività del campo noetico.

La dynarnis del “buono” si estende dunque su di una complessa gamma

di effetti, critico-negativi da un lato, positivo-produttivi dall’altro. Essa si

presenta certamente in questo modo come il correlato oggettivo del lavo

ro della dialettica filosofica. Reciprocamente, il suo problematico statuto

onto-epistemologico, che ne rende la conoscenza per principio più diffici

le di quella delle altre idee, rende parimenti problematico lo statuto meto

dologico e cognitivo della dialettica stessa, come Glaucone non manca di

rilevare nel libro Vii (53zd-e: cfr. qui CAP. io).

Quanto più ampia e complessa è la gamma degli effetti della dynamis

del buono, tanto più profonda risulta la trasgressione rispetto al teorema

delle idee introdotta nella sua discussione nel libro vi, e tanto più “straor

dinaria” la hyperbote che le viene riconosciuta, secondo le parole di Glau

cone. C’è da chiedersi, a questo punto, perché Platone — nell’assenza,

almeno provvisoria, di una adeguata borme, di una condizione di homoto

gia dialettica — abbia deciso di tentare il difficile esperimento consistente

nell’attribuire al “buono” non solo una funzione di norma e di tetos, ma

anzi principalmente di fondazione metaideale e metaepistemica, dalla

quale quella funzione è derivata solo in seconda istanza.

Poiché questo ruolo eccedente del “buono” compare solo nella Repub

blica, e anzi solo nei suoi libri centrali, la risposta va senza dubbio cerca

ta nello specifico contesto dialogico, secondo il principio metodico della

Kontextbezogenheit. Da questo punto di vista, è chiaro che nella strate

gia argomentativa della Repubblica risulta di vitale importanza che la na

tura onto-epistemologica delle idee nel loro insieme (prescindendo cioè

dall’essenza specifica di ognuna) sia fondata su di un principio di valore,

quale è appunto to agathon. Le idee esistono e sono vere in quanto prodot

te da questo principio, che per la propria stessa natura le rende inoltre utili,


104 IL POTERI DELLA VERITÀ

vantaggiose, desiderabili, perciò fruibili come norme e criteri per la valu

tazione e l’orientamento della condotta etico-politica. La destinazione dei

filosofi al potere appare legittimata dal fatto che essi soltanto, a differenza

dei politici e dei loro consiglieri sofisti, possono fare riferimento

— fonda

to sulla conoscenza dialettica — a questo principio supremo di verità e di

valore, o di verità del valore.

L’esigenza antiprotagorea di una fondazione etica assoluta, che sfugga

al rischio della arbitrarietà e della mutevolezza delle opinioni individua

li e collettive, è spinta da Platone fino al punto “iperbolico” di fare del

“buono” stesso il fondamento dell’essere e della verità delle idee, e dunque

anche della scienza e della conoscenza in generale. Nel triangolo formato

da etica, ontologia ed epistemologia, che caratterizza lo stile di pensiero

proprio di Platone, il ruolo fondativo del “buono” costituisce la garanzia

del primato del vertice etico, come è richiesto dal contesto di un dialogo

sulla giustizia e sul potere giusto quale è la Repubblica6.

Il costo teorico di questa operazione è certamente elevato. Da un lato,

l’idea del “buono” è descritta come causa di proprietà diverse dalla bontà,

quali la verità e l’essere; dall’altro, la sua collocazione “al di là della ousia”

ne mette in questione lo stesso statuto di idea, e con esso la possibilità della

dialettica di offrirne la definizione d’essenza. Tutte queste aporie suscitano

tanto il dubbio metodico di Glaucone quanto le reticenze di Socrate, la sua

“provvisoria” incapacità di superarlo con risposte teoricamente esplicite.

Non c’è dubbio che Platone stesso, e la discussione accademica, abbia

no a più riprese affrontato queste difficoltà, esplorando diverse possibilità

di soluzioni teoricamente più controllabili. Il fitebo sembra concepire il

“buono” piuttosto come una struttura di ordine e simmetria immanente

all’ambito ontologico del “misto’ un principio di limite forse non dis

simile, come si è detto, dagli esperimenti teorici che nelle dottrine non

scritte portavano a concepirlo come “principio” e/o “elemento” di uni

tà nel molteplice. Per altri aspetti, come mostra il Sofista, l’elaborazione

platonico-accademica sembra essersi mossa nella direzione di rescindere

o almeno di allentare gli stretti vincoli con i quali la Repubblica aveva ten

tato di connettere fondazione ontologica, principio di valore e metodo

dialettico.

Ma questo inaudito sforzo di unificazione fra le tre dimensioni era co

munque destinato a diventare, dalla critica aristotelica nell’Etica eudemia

e nella Nicomachea, fino alle ardite elaborazioni metafisiche dei neoplato

nici, un terreno aperto di scontro teorico e di esercizio ermeneutico. Lo

MEGISTONJTHE 105

è ancora per noi, e questa “apertura” è probabilmente legittimata dall’in

trinseca problematicità, dalla polisemia teorica del testo della Repubblica.

Come si è cercato di indicare, ci sono tuttavia limiti al pluralismo in

terpretativo e alla gamma delle opzioni esegetiche: essi consistono nel ri

spetto del contesto del dialogo, dell’intenzione complessiva che domina

le sue strategie teoriche, dell’udienza e degli scopi peculiari ai quali era

destinato. Se questi limiti vengono violati, la legittima apertura delle inter

pretazioni diventa arbitrio ermeneutico, applicazione riduttiva di schemi

di lettura allogeni che cancellano la specificità del dialogo e ne dissolvono

la straordinaria, benché problematica, potenza filosofica: la dynamis, in

somma, non tanto del “buono” quanto della dialettica.

Note

i. Th agathon è un aggettivo neutro sostantivato, esattamente come to katon, to dika

ion e così via (tecnicizzati nel linguaggio delle idee con il sintagma auto to). Non c’è

quindi motivo di tradurre, come accade tradizionalmente in italiano e in francese,

con i sostantivi “bene”, “bien” (magari con l’iniziale maiuscola). Si rende dunque “il

buono”, come “il bello”, “il giusto” (così l’inglese “Good” e il tedesco “das Gut”). Va an

cora notato che nel greco dell’epoca di Platone non è attestato il sostantivo agathotes.

a. Per queste espressioni cfr. W. Kersting, Ptatons “Staat”, Darmstadt 1999, pp. 135-8;

nello stesso senso anche P. Stemmer, Ptatons Dialektik, Berlin-New York 1991,

pp. 171-a, che riprende per questo aspetto le tesi di W. Wieland, Ptaton unti die for

men des Wissens, Gòttingen 1981, pp. 163, i8o.

3. Si tratta di una tesi ribadita a più riprese da G. Reale, ad esempio in Ruota dette

dottrine non scritte di Platone “Intorno al Bene” netta “Repubblica” e nel ‘Tilebo”, in

Id. (a cura di), Verso una nuova immagine di Platone, Milano 1994, pp. 295-332 (cfr.

pp. 314, 299). Cfr., nello stesso senso, H. J. Kràmer, Die Idee des Guten. Sonnen- unti

Liniengteichnis (Buch vIso4a-sIIe), in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Potiteia, Berlin 1997,

179-103 (cfr. pp. 182-3).

.

Cfr. ad esempio l’espressione ‘uOoi 7rpò tèv 7r6)1.Lov in Resp. iii 4o8a1. Sulla se

mantica di agathon, e sulla sua connessione con la felicità (Gutsein), cfr. Stemmer,

Platons Diatektik, cit., pp. 553 Ss., 171-a. Su questa prima parte dell’argomentazione

platonica (distinta da quella che segue Sulla relazione fra “buono” e idee), cfr. anche

G. Santas, The form ofthe Goodin Plato’s Repubtic (1980), ora in G. fine (ed.), Plato,

Oxford 2000,

pp. 249-76 (cfr. pp. 252-3).

s. Cfr. in questo senso Stemmer,PtatonsDiatektik, cit.,p. 173, n. 78.

6. 11 principio metodico dell’autonomia dei singoli dialoghi è largamente diffuso

fra gli studiosi che si richiamano alla posizione che va sotto il nome di diatogicatap

proach: cfr. ad esempio i saggi raccolti in G. A. Press (ed.), Ptato’s Diatogues: New

Studies and Interpretations, Lanham 1993; e f. J. Gonzales (ed.), The Third Way:


io6

IL POTERE DELLA VERITÀ

MEGISTONMATHEMA 107

New Directions in Platonic Studies, Lanham 1995. Da punti di vista diversi condi

vidono questa interpretazione M. Frede, Ptato’s Argument and the Diatogue form,

in Methods ofInterpreting Ptato, in “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, suppi.

voi., 1992, pp. 201-19; N. Blòssner, Kontextbezogenheit undArgumentative funktion:

methodischeAnmerkungen zurPlatondeutung, in “Hermes”, CXXVI, 199$, pp. 109-101,

e da ultimo ampiamente C. L. Griswold, E Pturibus Unum? On the ?latonic “Corpus”,

in “Ancient Philosophy”, XIX, 1999, pp. 361-97. Qualche osservazione in proposito

anche in M. Vegetti, Societd diatogica e strategie argomentative netta “Repubblica” (e

contro la ‘Repubblica”), in G. Casertano (a cura di), La struttura detdiatogoptatonico,

NapoLi zooo, pp. 74-85. Sulla questione dei personaggi dialogici cfr. da ultimo i saggi

raccolti in G. A. Press (ed.), T47ho SpeaksforPtato?, Lanham zooo.

. Si tratta delle tesi sostenute da Santas, The fonn ofthe Good, cit., p. z$, e da Stem

mer, Platons Dialektik, cit., pp. 54-5, 164-5. La posizione di Stemmer è stata discussa

in questo senso da G. Giannantoni, La dialettica platonica, in “Elenchos”, XV, 1994,

pp. los-is (cfr. pp. iio-i). La “non-cosalità” ontologica delle idee è sostenuta anche

da Wieland, Platon und die Fonnen des Wissens, cit., pp. 142-3 (essa non implica tut

tavia il carattere non-proposizionale della loro conoscenza come l’autore sostiene a

pp. z$i ss.). Cfr., in questo senso, anche F. Fronterotta, ‘fé’9ri. La teoria platonica

delle idee e laparteczpazione alte cose empiriche, Pisa zoo,, pp. 179-80.

8. Sul ruolo centrale della homologia nella dialettica socratico-platonica cfr. ad esem

pio G. Giannantoni, Il dialogare socratico e la genesi della dialettica platonica, in P. Di

Giovanni (a cura di), Platone e la dialettica, Roma-Bari 1995, pp. 3-2.7 (cfr. pp.

Rilevano la mancanza di homologia che in seguito interviene tra Socrate e Glaucone

M. Dbcsaut, L’analogie intenable: le Soleil et le Bien, in Id., Platon et la question de la

pensée, Paris ZOOO, p. 146, e T. Ebert, Meinungund Wissen in der Philosophie Platons,

Berlin 1974, p. 173 (che tuttavia la attribuisce all’insufficienza intellettuale di Glau

cone e non, come sarà invece il caso, alla trasgressione socratica rispetto al livello di

consenso teorico consolidato).

9. Si tratta di passi inequivocabilmente riassuntivi di uno dei principali teoremi

accademici: «siamo soliti [ezothamen] porre una sola singola idea per ogni gruppo

di cose molteplici» (Resp. X 596a6-7); «sostenete che siamo partecipi con l’anima,

mediante il pensiero, dell’essenza che davvero è e che permane sempre invariata nella

sua identità» (Soph. z48all-;;); «penso che tu [Socrate] ritenga che vi sia un’unica

singola idea» (Parm. 13;al-3).

io. Questa è esattamente l’interpretazione che Aristotele formula e discute in fE I 8

izi7bl-i6.

ii. Cfr. i passi citati in proposito da Adam ad loc. (p. Del resto, anche la tesi

del piacere come bene, almeno in una sua variante (si pensi al Protagora) , può venir

fatta risalire al gruppo socratico: cfr. in proposito T. H. Irwin, Plato’s Moral Theory,

Oxford 1977, pp. 224-5.

iz. Una formula simile è in Tim. 4$c, dove il protagonista del dialogo si rifiuta di

esprimere le sue opinioni (ta dokounta) circa il principio, o i principi, di tutte le cose

(cfr. qui il «principio del tutto» di 5iib8), Nel caso del Timeo però la reticenza si deve

al «presente modo di trattazione», cioè alla forma mitica del discorso narrato, e non

alla mancanza di una adeguata borme.

13. Da punti di vista diversi, sottolineano questo aspetto sia Kràmer, Die Idee des

Guten, cit., p. 183, sia f. Trabattoni, Scrivere nell’anima, firenze 1994, pp. io- (il

primo ritiene che nella Repubblica Platone non si identifica completamente nella

«maschera di Socrate», il secondo che la verità non può comunque essere espressa

se non come opinione di qualcuno, aperta a una «progressiva e infinita possibilità di

verifica»).

14. Reale, nell’introduzione a H. J. Kràmer, Dialettica e definizione delBene in Plato

ne (1966), trad. it. Ivfilano 1989, scrive che «Platone dice chiaramente di avere bene in

mente, ossia di sapere, che cosa sia t’essenza delBene, ma di non volerlo dire», temen

do di « attrarre delle derisioni »,come gli sarebbe accaduto, secondo qualche testimo

nianza, nel corso della sua celebre lezione sul bene, dove aveva parlato di Uno anziché

di ricchezza, salute ecc. (p. i6: ma il pericolo del ridicolo è a più riprese esplicitamente

affrontato nella stessa Repubblica). In questo saggio, Kràmer pensa piuttosto, sulla

scorta della Lettera vii, che gli interlocutori di Socrate non siano abbastanza tempra

ti nell’esercizio dialettico per ricevere questo supremo insegnamento, non affidabile

comunque alla scrittura. T. A. Szlezk, Platone e la scrittura dellafilosofia (1985), trad.

it. Milano 1988, pp. 398-405, interpreta reticenze e omissioni come rinvii a ulteriori

“strutture di soccorso’ il cui ultimo riferimento consiste comunque nelle dottrine

non scritte e nell’identificazione di “buono” e Uno che esse sosterrebbero secondo la

testimonianza aristotelica. Lo stesso autore, nel saggio L’idée du Bien en tant qu ‘arche

dans la “République”de Platon, in M. Fattal (éd.), Laphilosophie de Platon, Paris zooi,

pp. 345-72, suppone invece che la cautela di Socrate prefiguri quella che dovrebbe ve

nire adottata nello Stato ideale per evitare gli abusi della filosofia da parte dei giovani

e dei non dotati (pp. 366 ss.).

Cfr. in proposito la discussione in M. Vegetti, L’idea del bene nella ‘Repubblica”di

Platone, in “Discipline filosofiche”, i, 1993, pp. 207-29.

i6. È la tesi di H. G. Gadamer, L’idea del bene tra Platone e Aristotele (1978), trad. it.

in Studi platonici2, Casale Monferrato 1984, pp. ii-z6i. A Gadamer, cui preme rista

bilire l’unità della tradizione classica («la filosofia platonico-aristotelica del logos»,

p. iii), pare che il filebo traduca la «mitica» trascendenza del bene nella Repubblica

in una sua presenza negli enti come misura e ordine (pp. 129-30). Aristotele darebbe

dunque «risposte concettuali», sviluppando il filebo, aciò che Platone aveva «anti

cipato in maniera simbolica» (p. 161). F. Renaud, Die ResokratisierungPlatons. Die

platonische Hermeneutik Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999, osserva che

con questa «immanenza del bene» (pp. 76 ss.), «il Platone di Gadamer sembra più

aristotelizzante che platonico o socratico» (p. 134).

17. In 533a1-z Socrate dubita che Glaucone sia in grado di seguirlo nella sua tratta

zione della dialettica nonostante l’impegno (prothymia) da lui profuso. Quasi con le

stesse parole, in Symp. zIoaz-3 Diotima dubita che Socrate possa seguirla nel discorso


io8 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTON MATHEMA 109

sulle cose d’amore in cui pure profonderà tutta la suaprothymia. In entrambi i casi, il

dubbio non ha a che fare con la forma scritta del discorso n con la qualità intellettua

le dell’interlocutore (come potrebbe riferirsi allo stesso Socrate?), bensì con il fatto

che ci si prepara a compiere un salto teorico rispetto a ciò che si ritiene l’interlocutore

sia preparato a comprendere e accettare.

i8. NeL primo di questi passi si dice dei matematici che TE).EuTcZ)otv 6.to)oyouÉdvu

7tÌ TOSTO o &v un frt 6pdoum. Nel secondo Socrate si rimprovera di aver in

trapreso (bormesai) la ricerca sulle proprietà della giustizia senza averne prima defi

nito l’essenza. Nelle Leggi viene formulato il precetto metodico di «non mettersi in

movimento» (hormeseien) prima di aver consolidato (bebaiasaito) l’indagine su dove

porta la strada. Sulla homotogia come punto di partenza dialettico cfr. l’espressione

aristotelica 6toXoyl tu))’EJOm in Thp. 11oa33.

19. L’espressione va attribuita all’attitudine del rispondente (Brisson) e vale dunque

“scoppiando a ridere” (cfr. Shoreyadloc.: il divertimento di Glaucone «is Plato’s way

ofsmiling at himself»). Cfr. in questo senso anche R. Ferber, Platos Idee des Guten,

Sankt Augustin 1989’, pp. 14 ss. La stessa espressione è usata da Glaucone nei riguardi

dei kompsoteroi che identificano il “buono” con laphronesis in obl1, e da Socrate

contro i cattivi geometri in VII 527a6. Cfr., nello stesso senso, iii 4o6c6, VII ia.j.

zo. «Divina trascendenza» è la traduzione di Adam, seguito ad esempio da G. Rea

le e da T. A. Szlezàk («gòttliches Uberragen»). Nel senso dell’eccesso interpretano

B. Jowett, L. Brisson, R. Ferber («wunderbares treffen»). Kersting, Platons “Staat”,

cit., vede nell’espressione di Glaucone una «Selbstironie» platonica (p. ai8).

ai. Così in Tim. 85c4, Poi. 283c3, z85b$, Prot. 356a2, ba. Hyperbote significa “eccesso”

anche in Tim. 75C7 (in rapporto alle stagioni), 86e3 (per il fuoco), Ep. vii 3a6dx (cibo

e piaceri), Leg. 776a6 (pienezza). Solo in Leg. 739d4 hyperbotepros areten significa

“superiorità per virtù”, ma in riferimento alla costituzione proposta nella Repubblica,

la cui perfezione viene considerata eccedente ie possibilità della natura umana.

a;. In più occasioni G. Reale (cfr. Per una nuova interpretazione di Platone, Milano

1997”, p. 339) ha proposto un’interpretazione di questa esclamazione come rinvio

alla dottrina del Bene-Uno, basandosi sull’etimologia plotiniana del nome Apollo

(u privativo + potton = Uno), attribuita del resto ai «Pitagorici» (Enn. v 5.6). Ma

nulla del genere risulta dalle etimologie platoniche di Crat. 404 ss., secondo le quali

il nome illustra le capacità del dio come musicista, medico, indovino e arciere.

23. J. Adam, p. 6a, definiva la concezione platonica «non meno poetica e religiosa

che filosofica». Da un punto di vista critico, E. Cassirer, Da Talete a Platone (1925),

trad. it. Roma-Bari 1984, osservava che se si pensai! rapporto fra bene e mondo come

«un rapporto causale, pensando il derivato come scaturiente dall’origine, così cer

tamente non parliamo più il linguaggio della conoscenza pura, ma il linguaggio del

mito» (p. i); Cassirer individuava per contro nel bene una «suprema unità di sen

so» (p. x8). Sulla valenza teologica dell’idea del “buono” è tornato E. E. Benitez,

The Good or the Derniurge: Causation and the Unity of Good in Plato, in “Apeiron”,

XXVIII, 1995, pp. 113-40 (l’autore attribuisce a Platone l’aspirazione a una unificazio

ne del versante etico e di quello metafisico-teologico del “buono”, rappresentato dal

Demiurgo de! Timeo, che tuttavia rimane teoricamente irrisolta; molto discutibile la

descrizione “scolastica” dell’idea del “buono” come ens realissirnum, pp. 117 ss.).

24. Cfr. in proposito P. Gnisei, Visione e conoscenza. Il ‘gioco” analogico di “Repub

blica” vI-vii, in Casertano, La struttura del dialogo platonico, cit., pp. 262-96 (cfr.

pp. 269, 275).

25. Cfr. intanto in questo senso Dixsaut, L’analogie intenable, cit., pp. i;i-i (in par

ticolare pp. 122-3, ia: se il “buono” non è un’essenza ma una potenza, «la détermina

non de ce que fait le Bien, la détermination de sa manière propre d’agir et d’étre cause,

est aussi la définition de sa manière d’ètre: comme une cause»).

aò. Essa è schematizzata in Adam, p. 6o; per le dissimmetrie e i relativi problemi cfr.

Dixsaut, L’analogie intenable, cit., pp. 136

27. 11 ricorso all’intenzionalità conoscitiva può forse superare la severa critica di

J. Annas, An Introduction to Plato’s ‘Repubtic”, Oxford 1981, alla funzionalità espIi

cativa di questa parte della metafora (p. 284: «for all the grand language we are left

without any idea ofhow no go taking the first step»).

z$. Cfr. in questo senso Santas, The forrn ofthe Good, cit., p. ;; Dixsaut, L’analogie

intenable, cm., pp. 142-3; A. Graeser, 7enseits von Sein’ Ìvlutrnassungen zu Status und

funktion der Idee des Guten, in “freiburger Zeitschrift fur Philosophic und Theolo

gie”, XXVIII, 1981, J3. 70-7 (cfr. 3. 72).

29. Sulla ousia come modo d’essere delle idee cfr. M. Dixsaut, “Ousia’,’ “eidos”et “idea”

dans le “Phédon”, in “Revue Philosophique”, CLXXXI, 1991,

pp.

479-500; Kràmer, Die

Idee des Guten, cm., p. i$6, n.

30. Molto preciso in questo senso G. Cambiano, Platone e le tecniche (1971), Roma-

Bari 1991’, p. 174: «l’idea del bene è causa delle idee — cioè della loro sostanza, alla

quale è intrinseca la normatività, rimanendo normativa rispetto a esse»; «la con

formità alla normatività dell’idea del bene tende la molteplicità delle idee un ordine

coerente, conoscibile, apprezzabile e utile».

31. La trascendenza del bene inteso come Uno rispetto all’essere è stata a più riprese

sostenuta da Kràmer, che ha parlato di «Uberseiendenheit des Einen» (Epekeina tes

ousias. Zu Ptaton, Politeia 5093, in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, LI, 1969,

pp. 1-30, cit. p. ), di bene «ùber das 5cm» e di «Ubertranszendenz des Einen» (Die

Idee des Guten, cit., pp. i86, 192). C’è tuttavia una certa oscillazione in Kràmer fra le

posizioni di ispirazione heideggeriana di Areté bei Platon undAristotetes, Heidelberg

1959, dove la trascendenza dell’Uno è concepita come «l’antico anatogon della “dif

ferenza ontologica” » di Heidegger (p. 55, n. 4), e quindi appartiene all’ambito della

relazione fra essere ed ente, e le successive contrapposizioni, di ispirazione piuttosto

neoplatonica, fra l’Uno e l’essere. Per la posizione di M. Heidegger cfr. Iconcettifon

damentali delta filosofia antica (corso 1926), trad. it. Milano zooo, p. ;: «l’essere

è il telos, la “fine”, l’agathon [...] L’idea del bene è l’essere e l’ente autentico»; cfr.

anche La dottrinaplatonica della verial (1942), in Segnavia, a cura di F. Volpi, trad. it.

Milano 1987: il bene è ciò grazie a cui il «Seiendc è mantenuto e salvato nell’essere»


‘Io IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONI4THEMA III

(p. 184). Su questi problemi cfr. F. franco Repellini, Gli agrapha dogniata di Platone:

la loro recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme’ XXVI,

pp. 5 1-84; e M. Vegetti, Cronache platoniche, in “Rivista di filosofia”, Lxxxv, 199%,

pp. 109-29 (CAP. i in questo volume). La trascendenza dell’Uno rispetto all’essere è

sostenuta anche da Reale (cfr. fra gli altri Ruolo delle dottrine non scritte di Platone,

cit., pp. 301 ss.). Una interessante oscillazione anche in Ferber, Platos Idee des Guten,

cit., che a p. 67 pone il bene «enseits des seienden Wesen», cioè al di là delle idee,

ma a p. 68 al di là di « Sein und Wissen». Sulla posizione di Ferber cfr. anche n.

32. M. Baltes, Is the Idea ofGood in Plato’s Repubtic BeyondBeing?, in M. Joyal (ed.),

Studjes in Plato andthePtatonjc Tradition, Aldershot 1997,pp. 3-23. Se la parte critica

di questo saggio è assolutamente convincente, più problematica appare la sua propo

sta, che sembra identificare il “buono” con l’essere in sé o con l’insieme unificato delle

idee (p. iz). Ma se il “buono” è “al limite estremo” dell’essere non può coincidere con

l’insieme dell’essere, ed è comunque ulteriore rispetto alle idee che io compongono;

da un altro punto di vista, l’identificazione “buono”-essere sembra piuttosto di ispi

razione aristotelico-scolastica, e determina l’identificazione della dimensione etica

con quella ontologica.

33. Su questa distinzione ha insistito Gadamer, L’idea del bene tra Platone eAristotete,

cit.; cfr. anche Dixsaut, L’analogie intenable, cit., pp. 126-7.

34. Alcune delle posizioni di questo autore sono a mio avviso da sottolineare e con

dividere. Il “buono” è un principio pratico, fondamento dell’etica platonica, non

identificabile con essere e pensiero, fondamento non immediatamente realizzabile

perché non esauribile nell’esistente a opera di una pur necessaria politica razionale

(«la politica razionale è secondo Platone filosofica, e la filosofia politica»): cfr. Fer

ber, Platos Idee des Guten, cit., pp. 13 1-3. La (feconda) contraddizione epistemologica

di Platone consiste in questo: il pensiero ha necessariamente a che fare con oggetti,

ma il “buono” ha uno statuto meta-oggettuale pur appartenendo nel linguaggio pla

tonico, come Ferber riconosce, all’ambito dell’essere (pp. 150-3). La contraddizione

viene così caratterizzata: il “buono” è “terzo” rispetto a essere e pensare; «das Denken

des Dritten hat das Undenkbare, Unsagbare und Nichtseiende zu denken [...] Was

kein Gegenstand der Theorie 5cm kann, soli es werden» (p. 278). L’intenzionalità

filosofica così delineata finisce tuttavia per sconfinare nel misticismo neoplaronico,

come Ferber riconosce (p. 153), oltre la lettera e il quadro teorico complessivo del

testo platonico.

3. G. Sillitti, Atdi Li delta sostanza: ancora su Resp. vi 5o9B, in “Elenchos’ 1, i8o,

pp. 225-44, argomenta convincentemente che l’idea del bene non può considerarsi

convertibile con l’essere (oltre che con l’Uno), non è «estensionalmente compren

siva di tutte» (pp. 232-3), e che possiede troppe note caratteristiche («comprensio

ne») perché possa risultare più estesa o equiestesa all’essere (p. 243). Una posizione

diversa, che non pare adeguatamente dimostrata, sembra essere sostenuta, oltre che

da Baltes (cfr. n. 32), da Santas, The form ofthe Good, cit., secondo il quale l’idea del

bene è la «ideality common to all the Forms» (pp. 269-70).

36. Si tratta, come è noto, della tesi sostenuta da Kràmer, ad esempio in Platone e

ifondamenti detta metafisica, Milano 1982, pp. 184-98; Reale, Per una nuova inter

pretazione di Platone, cit.; e Szlezk, Platone e ta scrittura detta fitosofia, cit. Questo

autore ha inoltre sostenuto (L’idée du Bien, cit.) che la Repubblica sviluppa una teoria

del principio (il Bene), che è diversa, ma non incompatibile, rispetto alla teoria dei

due principi (l’Uno e la Diade) attribuita a Platone dalle testimonianze aristoteliche:

il Bene non può essere considerato la causa dei mali che sarebbero invece dovuti alla

Diade (pp. 3s-9). La versione “abbreviata” del principio sarebbe da attribuire alla

reticenza socratica dovuta a motivi politico-educativi. Ma è necessario pensare a una

“causa” del male che non consista nella componente irrazionale dell’anima e nella

stessa struttura spazio-temporale dellagenesis, come sembra indicare il Timeo?

Come si è notato, Gadamer, L’idea del bene tra Platone eAristotele, cir., vede nel

fitebo l’immanenza del bene, in quanto Uno-misura, come garanzia dell’ordine del

mondo (pp. 229-30, 261). Una posizione simile in R. Ferber, Didftato Reply to Those

Critics, who Reproached Himfor the “Emptiness” ofthe Platonic Idea or form ofthe

Good?, in E. N. Qstenfeld (ed.), Essays on Plato’sRepubtic, Aarhus 1998, pp. 53-8.

38. Kersting, Platons “Staat”, cit., rileva giustamente che le identificazioni del “buo

no” con l’essere (Heidegger) e con l’Uno (Kràmer-Reale) «snaturano semantica

mente » il valore di to agathon nel linguaggio della Repubblica (pp. 240-I).

39. Il senso della critica aristotelica a Platone sembra tornare, radicalizzato e in una

nuova articolazione teorica, nell’Enciclopedia hegeliana: «questa somma cima del

fenomeno del volere, che si è volatilizzato fino alla assoluta vanità — fino a una bontà

non oggettiva, ma che è certa solo di se stessa, e a una certezza di se stessa nella nulli

tà dell’universale — rovina immediatamente in se stessa», rovesciandosi nel male. A

questo Hegel contrappone «la sostanza, che si sa liberamente, in cui il dover essere as

soluto è altresì essere» e che «ha la sua realtà come spirito di un popolo» (Enciclopedia

delle scienzefitosofiche in compendio, trad. it. B. Croce, Roma-Bari 1984, §S 512, 514).

40. In FE I 8 iai$ai6 ss. Aristotele critica coloro che «ora» (nyn, ripetuto due vol

te) tentano di dimostrare il bene in sé a partire dai numeri (non v’è alcun consenso,

homotogia, che questi possiedano il “buono”). Questo argomento è diverso da quello

classico della teoria delle idee discusso in izi7bl-i6, e può quindi venir riferito agli

“attuali” accademici pitagorizzanti, come lo stesso Speusippo.

41. Per importanti analisi platoniche del concetto di dynamis cfr. Fhaedr. z7od e

Soph. 247d-e: in entrambi si tratta della capacità intrinseca di produrre effetti o di

agire (poiein, dran) su qualcosa, o di subire (pathein) l’azione di un elemento ester

no. Nel Sofista si propone addirittura un consenso (homotogia) sull’identificazione

dell’essere con la dynamis.

42. Annas,An Introduction to ?lato’s “Repubtic”, cit., p. 247, sottolinea la necessità di

non confondere la sovranità del bene con uno «shallow optimism about Providence

and all being for the best». L’ «entusiasmo» platonico per l’idea del “buono” coe

siste con un estremo pessimismo circa «the amount ofgoodness to be found in the

actual world».


soprattutto

III

IL POTERE DELLA VERITÀ

Se neiiaTo 7tVTÒ &p di 5ijb7 è da riconoscere il “buono”, questa dichiarazio

ne sembra tuttavia delimitare l’ambito di ciò di cui esso è causa e principio all’insieme

dei valori morali.

Il principio è stato formulato da Blòssner, Kontextbezogenheit undArgumenta

tive funktion, cit.

La più nitida formulazione del relativismo protagoreo, che nega ai valori etico

politici qualsiasi ousia, è in Theaet. i7zb.

46. Su questo tema sono ancora rilevanti le osservazioni di H. Cherniss, The

Phitosophical Fconomy of the Theory ofldeas (1936), in Id., Setected Papers, Leiden

1977, pp. IzI-32. Che l’idea del “buono” fondi il primato della ragione pratica era tesi

dei filosofi neokantiani come H. Rickert, Der Gegenstand derfrkenntnis. Einfrhrung

in die Transzendentale Fhilosophie, Thbingen I9O4 (pp. 117 ss.); e P. Natorp, Pia

tos Ideentehre, Leipzig I9zI, pp. 191 SS. Inoltre cfr. Ferber, Platos Idee des Guten, cit.,

p. 149. Su questa funzione dell’idea del “buono” cfr. ora anche Fronterotta,

cit., 3p. 137-9.

5

To agathon: buono a che cosa?

Il conflitto delle interpretazioni

sull’idea del buono nella Repubblica4

I

Possiamo iniziare dando qualche indicazione testuale. La discussione sui

lo specifico statuto ontologico ed epistemologico dell’idea del buono è

svolta in cinque pagine del libro VI della Repubblica (5o4a-5o9c); alcuni

riferimenti all’idea del buono intesa in questo senso, e considerata come

fondamento normativo in ambito etico-politico, sono inoltre presenti nel

libro VII (5i7b-c, 5i9c-d, z6e, 53ib-c, 534b-c). Nei restanti tre libri del

dialogo, la idea tagathou torna a sparire; altrove, in tutto il corpus plato

nico, to agathon viene menzionato sullo stesso piano e nello stesso senso

delle altre idee-valore (iv katon, to dikaion, to alethes). Anche nel Fitebo,

il “buono” è considerato unicamente come finalità della vita umana, cioè

in ambito etico-pratico, e alla fine la discussione ne segnala la dissolvenza

(pheugein) nella rete formata dalle idee di bello, symmetria e verità (64e).

Questi dati — se confrontati con l’ampiezza delle trattazio

ni che Platone dedica a temi come la giustizia, la scienza, l’essere e l’esser

vero — sembrano indicare una relativa marginalità, o almeno un caratte

re eccezionale, della discussione “metafisica” intorno all’idea del buono.

Tanto più singolare appare dunque il contrasto con l’immensa letteratu

ra critica dedicata all’interpretazione delle pagine della Repubblica in cui

questa discussione è presentata, e al ruolo centrale che le è stato assegnato

nel quadro della comprensione complessiva del pensiero platonico.

Questo squilibrio fra dimensioni testuali e impegno esegetico può

suggerire una domanda a prima vista paradossale: si potrebbe costruire

un’immagine complessiva della filosofia di Platone che prescinda dalla

“metafisica” del buono? La risposta non può che essere positiva e si fonda

su di un esempio illustre. Nelle sue Vorlesungen, che dedicano a Platone

Questo capitolo è già stato pubblicato in “Argumenta in dialogos Platonis”, i,


TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? ‘IS

“4 IL POTERE DELLA VERITÀ

circa 130 pagine nell’edizione Michelet, Hegel non ne tratta affatto, né

menziona mai la celebre analogia solare, benché citi e commenti per esteso

il modello epistemologico della “linea” che la segue immediatamente nel

testo platonico (509d-511e)’.

In questa sede, intendo proporre un’ipotesi di spiegazione di questa

anomalia esegetica: la “metafisica” del buono è diventata un terreno di

scontro in cui si gioca la questione dell”anello mancante” della filosofia

platonica: la teologia. 5u questo terreno, si affrontano dunque le tesi che

sostengono l’esistenza di una teologia platonica e quelle che la negano; nel

caso affermativo, lo scontro si sposta poi attorno ai modelli teorici in cui

identificare questa teologia (che risultano, per schematizzare, essenzjal

mente due: quello neoplatonico, centrato sull’Uno, e quello aristotelicoscolastico,

centrato sull’ Essere).

z

Eppure, il primo grande interprete critico dell’idea del buono, Aristotele,

sembrava escluderne la possibilità di una fruizione teologica. Se il buono

appartenesse alla categoria della sostanza, egli osservava, sarebbe da inten

dersi come «il dio e il pensiero» (EN I 109 6az), ma il carattere transcate

goriale e meta-sostanziale (epekeina tes ousias, Resp. vi 5o9b8) del “buono”

platonico impediva questa identificazione’.

Ma è naturalmente con la tradizione neoplatonica, da Plotino a Proclo,

che to agathon diventava “buono a” una teologia. Questa fruizione com

portava però alcune operazioni teoriche impegnative, e un esito rischioso.

La prima di queste operazioni consisteva nello spostamento della collo

cazione ontologica del “buono” da epekeina tes ousias a epekeina tou ontos,

assicurandone così uno statuto extraontologico (quindi anche extraepiste

le

mico). La seconda consisteva in una decodificazione semantica di agathon

che lo riduceva all’Uno. A dire il vero, qualcosa del genere secondo —

celebri testimonianze aristoteliche — era già stato tentato da Platone negli

agrapha dogmata (le dottrine esoteriche affidate all’insegnamento orale),

o almeno nella lezione sul bene; ma questo esperimento comportava l’in

troduzione di un secondo principio, la Diade infinita, inaccettabile per

i neoplatonici, per i quali comunque le “dottrine non scritte” di Platone

decodificazione veniva piuttosto Parmenide. cercata nel Per Proclo, anzi,

trattazione la della Repubblica “buono” (in virtù un’applicazione

sul di

ante litteram del cosiddetto diatogicatapproach) volutamente dissimu

era

lata, a causa della presenza interlocutori dialogo fra gli del di sofisti come

Trasimaco e Clitofonte, indegni di ricevere la rivelazione dei mystikotata

possibile invece nel Parmenide presenza in dei filosofici eleatici (Comm. in

Remp., Diss. XI 174.1-Il). To agathon è dunque nome imperfetto dell’U

no, ed entrambi sono inadeguati Principio due

a designare il ineffabile. Le

operazioni convergevano in ogni caso nel fare del “buono” il vertice di una

teologia negativa, che non tutta la tradizione posteriore, come vedremo,

sarebbe stata disposta ad accogliere3.

Ma, anche fuori dell’elaborazione neoplatonica, libro vi

il passo del

della Repubblica sembrava predisporre “buono” una fruizione teologi

il a

ca per così dire spontanea. Th agathon (diventato frattempo, tramite nel il

latino di Cicerone e della scolastica medievale, summurn bonum), veniva

senz’altro interpretato come Dio da un traduttore quattrocen

ad esempio

tesco ignaro di Proclo come Pier Candido Decembrio, annotava che in

margine a 5o9b3: «de Deo loquitur».

3

Con la modernità finisce l’età dell’innocenza, la spontaneità dell’equa

zione summum bonum sive Deus; d’ora in poi, la fruizione teologica del

“buono” dovrà poggiare su argomentazioni più complesse.

Per schematizzare vicenda Otto all’estremo la che ci interessa fra e No

vecento — sono ben questa riduttiva

consapevole che schematizzazione è

rispetto alla ricca articolazione delle posizioni in gioco, ma essa mi è in

dispensabile per tentarne limiti questa

un’esposizione intelligibile nei di

conversazione — vorrei proporre individuare paradigmi di due maggiori

dell’esegesi del buono: quello che chiamerò il paradigma negazionista e il

contrapposto paradzg-ma teologico (o piuttosto, ormai, ontoteotogico). Indi

cherò due varianti etico-pra

del primo, quella logico-gnoseologica e quella

tica; e tre varianti del secondo, una prima chiamerò una se

che “precritica”,

conda di matrice neoplatonica, e una terza di matrice aristotelico-scolastica.

Comincerò dal paradigma negazionista, non perché sia il più influente

(e neppure in ragione della mia personale preferenza) ma perché esso è

sembrano esser risultate ininfluenti, o almeno marginali. La regola per la


ii6 IL POTERE DELLA VERITÀ TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? “7

cronologicamente anteriore nell’arco di tempo che ora ci interessa. Alle

origini di questo paradigma stanno da un lato una posizione teorica, quel

la di Kant, dall’altro una ragionevole considerazione semantica relativa aJ

linguaggio platonico. Questa seconda, su cui insiste soprattutto la variante

etico-pratica del paradigma, rileva che l’ambito semantico di agathon ne

mostra di per sé l’irriducibilità al campo dei concetti onto-teologici propri

del secondo paradigma (Uno, Essere, Dio)4.

Ma veniamo a Kant. Nelle poche ma incisive pagine della Critica del

la ragion pura dedicate al confronto con Platone (370-75, 59-99 dell’e

dizione 1787) egli non discuteva specificamente dell’Idea del bene, ma

dell’Idea (e dell’Ideale) in generale. All’Idea, Kant riconosceva un ruolo

regolativo, nel doppio senso di criterio dei giudizi di valore e di tetos della

prassi morale, mai del tutto attingibile ma infinitamente approssimabile.

In campo pratico (cioè nell’ambito fondato sulla liberta), le idee della ra

gione esplicano dunque il ruolo di cause efficienti del giudizio e dell’azio

ne. Ma Kant non segue Platone sul terreno insidioso del Timeo, e nega alle

idee questo ruolo causale in campo fisico e ontologico; neppure egli può

accettare la “deduzione mistica” delle idee da un’intelligenza divina, né le

“esagerazioni” (come l’ipostatizzazione iperurania) e l”elevato linguag

gio” cui talvolta si lascia andare il vecchio filosofo. Sembrano qui riecheg

giare le ironiche parole sulla daimonia hyperbole con le quali Glaucone

commentava l’enfatica descrizione dell’idea del buono nella Repubblica

(50 9c).

3.1

A partire da questi presupposti, il ruolo di fondatore del paradigma nega

zionista, nella sua variante logico-gnoseologica, va riconosciuto non a un

incerto Zeller quanto piuttosto a Paul Natorp. Nella suaPtatosIdeenlehre,

Natorp si scagliava contro la possibile identificazione del “buono” con il

Demiurgo e la divinità, una “parvenza” suggerita da dialoghi come Fedro,

filebo e Timeo:

A questa parvenza si aggrapperanno avidamente tutti coloro ai quali io non posso

procurare quell’acquietamento dell’animo consistente nel credere che Platone sia

stato in fondo un teista corretto, che egli non abbia detronizzato Dio in favore di

un principio prevalentemente formale e addirittura — cosa che più di ogni altra

incute timor panico alla nostra epoca — logico.

Il Bene non è in alcun modo «Essere ultimo, anteriore e trascendente

il pensiero — nessun Essere viene da Platone più nettamente respinto di

questo —‘ bensì unicamente la Legge [Gesetz] ultima propria del pensiero

stesso». Per Natorp, dunque, che significativamente interpreta la metafo

ra solare riconducendola al modello della linea, e in particolare al concetto

di anhypotheton (“incondizionato”), «nell’Idea pura, nell’idea del bene

come supremo concetto metodico della dialettica, la teologia non ha assolu

tamente alcun ruolo»6. Natorp non accetta tuttavia la restrizione kantia

na dell’idea del bene al solo ambito etico-pratico, e non vede dunque in

essa il segnale della supremazia della ragion pratica (Anhang 14).

Il “buono” non costituisce soltanto la “legalità” dell’azione bensì è la

“Legge del pensiero puro” che rende possibile ogni conoscenza particolare

e la costituzione di ogni particolare “oggettualità” della conoscenza stessa.

Va detto che qui Natorp si libera con una certa disinvoltura della difficoltà

insita nella tesi platonica secondo la quale to agathon è causa non solo di

conoscenza e verità ma anche di essere ed essenza (5o9b-7). Il “buono”

è principio della conoscenza perciò dell’essere, visto che questo è una po

sizione del pensiero (Setzung des Denkens): ricordiamo qui il sottotitolo

dell’opera, Introduzione alt ‘idealismo.

Natorp affronta invece con più attenzione il problema semantico di

agatt;on: perché designare con questo aggettivo il principio noetico incon

dizionato, invece di chiamarlo, ad esempio, Idea in sé o Idea dell’Idea?

Questa semantica indica che la Legge è un dover-essere, un Sollen, innan

zitutto come compito della conoscenza nella sua elevazione metodica a

idee via via superiori, dunque “principio ultimo logico” (come condizione

dell’Essere delle idee) e “principio ultimo etico” come dover essere pratico

(nella conoscenza e nell’azione morale)8.

Pare interessante, a questo punto, segnalare alcuni significativi svilup

pi di queste posizioni natorpiane nell’esegesi recente. Nel 1951, David

Ross, che nel suo Plato’s Theory ofldeas9 si occupava dell’idea del buono

soprattutto per negarne qualsiasi valenza teologica, riconosceva in essa

la “grande idea generica dell’eccellenza in sé”, il concetto limite di una

areté non limitata al campo morale ma dotata di un valore ontologico

universale.

Anche più vicina a Natorp appare la posizione di Santas. In un inte

ressante saggio del 198o’°, questo autore riconosceva nell’idea del buono

il principio della idealità delle idee, ciò che conferisce loro i caratteri ide

ali comuni in quanto distinti da quelli particolari di ognuna (invarianza,


ix8

conoscenza.

dell’essere.

tiana dell’Idea (qui, dell’idea del buono): da un lato, essa funge da regola

cose e comportamenti concreti sotto predicati normativi; dall’altro, essa

compimento, nell’ambito della tradizione neokantiana ma del tutto fuori

dell’esperienza intersoggettiva, a una «comunità delle anime» chiamata

sulta inoltre (sulla scorta di Cassirer) il centro di senso della coesione del

mondo. Proprio per questo, essa non può consistere in «una dichiarabile

zione di un «ideale campo spaziale dello spirito» che dà luogo, a livello

fondamento etico-conoscitivo della comunità politica, l’idea del bene ri

Nel Platone educatore di Stenze1’, l’idea del bene costituiva la fonda

Heidelberg si ispirava, in modo alquanto originale, Julius Stenzel, per altri

versi invece legato all’ambiente jaegeriano del Terzo umanesimo (il che

Heidelberg. Esso faceva capo a Lotze (dalla cui interpretazione platonica

« sanciva il primato speculativo della ragion pratica » ‘. Al neokantismo di

timo a sostenere, contro Natorp, che il Sollen indicato dall’idea del Bene

gure dominanti in Windelband e Rickert. Era stato soprattutto quest’ul

spiega i nessi che egli istituisce fra dimensione gnoseologico-trascenden

tale e dimensione etico-politica della sua esegesi platonica)’6.

La seconda variante del paradigma negazionista, quella etico-pratica, ha

lo di Marburg bensì del cosiddetto neokantismo “sud-occidentale” o di

Natorp aveva preso le distanze), e, sul piano storiografico, aveva le sue fi

anch’essa origine nell’ambito del pensiero ncokantiano; non però quel

IL POTERE DELLA VERITÀ TO%GATHON: BUONO A CHE COSA?

“9

inteÌligibilità, autoidentità): un rapporto simile a quello che intercor

re in Natorp fra Legge incondizionata del pensiero e singoli oggetti di

Getta un ponte fra la variante logicognoseologica e quella etico-pra

tica del paradigma negazionista l’importante tesi di Cambiano”. Rite

nendo che «le idee Sono condizioni dell’uso corretto delle cose», Cam

biano conclude che «l’idea del bene è causa delle idee — cioè della loro

sostanza, alla quale è intrinseca la normatività —‘ rimanendo normativa

rispetto a esse, come condizione del loro uso corretto»;

formità all’idea

dunque

del

la

bene

con

fa delle idee «un ordine coerente, conoscibile,

apprezzabile e utile». Si noterà qui lo slittamento dalla Legge natorpiana

al concetto di norma nel senso “tecnico” di condizione d’uso (Cambiano

intende di conseguenza la dialettica come suprema tecnica d’uso delle

altre technai).

Per tornare a Natorp, egli aggiungeva alcune considerazioni che sem

brano decisamente eccedere le premesse kantiane. L’efficacia dell’idea del

buono si estende fino alla cosmologia perché la legge vige in quanto “sus

siste” ciò che viene posto mediante essa; il mutevole, il divenire, risultano

perciò ‘salvati” nel pensiero che garantisce la persistenza dell’essere nel di

venirela. Sembra che Heidegger non fosse immemore del suo maestro di

Marburg quando scriveva, nel suo orizzonte e nel suo linguaggio, che «il

“bene” consente l’apparire dell’evidenza in cui ciò che è presente possiede

la consistenza del suo essere. Grazie a questa concessione, il Seiende è man

tenuto e “salvato” [Gerettet] nell’essere» ‘

Ma certamente l’erede più diretto e legittimo di Paul Natorp fu l’al

tro grande marburghiano Ernst Cassirer. Nel suo profilo storico della

filosofia greca’4, egli concepiva l’idea del buono da un lato come «fine

comune a cui rimandano tutte le configurazioni particolari dell’Idea»,

una finalità da concepire in senso tanto gnoseologico quanto etico, come

«la via che dalla forma basilare del sapere, dalla forma dell’agire etico

{... conduce su su all’idea del Bene come suprema unità di senso».

Cassirer aggiunge, kantianamente, che se si pensa il rapporto fra Bene

e mondo come «un rapporto causale, pensando il derivato come scatu

a garantire «l’unità statale»: Stenzel faceva così collimare i diversi piani

e insegnabile Idea», che sarebbe «la più mostruosa presunzione della ra

e contro l’orizzonte intellettuale del Terzo umanesimo, nell’opera di Wolf

e principio della facoltà del giudizio pratico, quando si tratta di sussumere

garantisce «l’ordine teleologico del comportamento». Qui l’analisi di

gang Wie1and’. Wieland recupera integralmente la doppia funzione kan

gione umana, condannata a cadere nel ridicolo» (Stenzel sbarrava così di

nuovo la strada verso un suo eventuale uso teologico), bensì soltanto nella

La variante etico-pratica del paradigma negazionista trovava però il suo

prospettici della Repubblica in un disegno unitario, dal “buono” allapotis.

riente dall’origine, così certamente non parliamo più il linguaggio della

conoscenza pura, ma il linguaggio del mito»: in questo senso ilDemiur

prospettiva della conoscenza e del suo valore etico-politico’8

Wieland — che si appoggia soprattutto sui passo 5o5d-5o6a —

si

sviluppa in

in quanto qualifica la giustizia come “buona” e “utile’ il “buono” fornisce

le necessarie motivazioni al comportamento morale, e garantisce la con-

modo originale, accostando la semantica di agathon a quella di chresimon:

go del Timeo appartiene appunto alla forma mitica

voce

del

all’esigenza

pensiero,

di

dando

rappresentare l’inizio temporale, e non solo logico,


I lO IL POTERI DELLA VERITÀ TO%GATHON BUONO A CHE COSA? Il’

vergenza fra utilità individuali e collettive, dunque la saldatura fra morale

individuale e ambito politico. Il sapere del “buono”, connesso con il tema

dell’utilità, diventa un «supremo sapere d’uso [Gebrauchwissen]», deter

minando il senso etico-politico della conoscenza da un lato, l’utilità della

virtù dall’altro, e, nei governanti, si integra con la loro potitische Kunst.

Quanto alla collocazione ontologica del “buono” epekeina tes ousias

(che Wieland intende come “jenseits des Seins”), essa viene interpretata

come descrizione del carattere non sostanziale, non-oggettuale dell’idea

(Ungegestndtichkeit), cioè come indicazione del suo ruolo formale-fun

zionale. Va detto, a questo proposito, che la compatta e persuasiva analisi

di Wieland risulta molto facilitata dal modo piuttosto sbrigativo con cui

vengono affrontati gli aspetti propriamente ontologici della metafora so

lare e della sua applicazione al “buono’ a tutto vantaggio dei passi intro

duttivi in cui Platone insiste sull’utilità della conoscenza di questa idea per

i futuri governanti.

Le posizioni di Wieland hanno avuto un seguito notevole nell’esegesi

etico-pratica del “buono”: Kersting ad esempio ne parla come di un «oriz

zonte di orientamento » e un « centro di integrazione » della vita e a mag

gior ragione del suo governo politicO”. È interessante notare, in ambito

analitico, una certa vicinanza fra l’interpretazione di Wieland e quella di

lerence Irwin. Questi nega che il buono sia «una sorta di essere ulteriore

rispetto alle forme», e lo concepisce piuttosto come il sistema teleologico

che connette le forme stesse, di cui spiega la “bontà”.

3.3

Se si volesse tracciare un bilancio dei risultati acquisiti dal paradigma ne

gazionista, ci si troverebbe di fronte a una serie di argomenti davvero

spicua. Se ne può indicare un elenco sommario.

a) Che appartenga o no al campo dell’essere (su questo c’è qualche oscilla

zione), il “buono’ in virtù della sua ulteriorità rispetto alla ousia, non può

comunque venire considerato come un “oggetto” o Ente determinato (il

fatto che Platone lo qualifichi come idea non è problematico per alcuni di

questi autori, che considerano a loro volta le idee come leggi o nonne).

b) Il “buono’ come del resto tutte le idee, non possiede né vita né pensie

ro (su questo tema è veramente perentoria la discussione di Ross del passo

del Sofista (148e s.) che sembrerebbe indicare il contrario)”.

co

c) Il “buono” non può essere un creatore ontologico, né delle idee (che

sono ingenerate) né tantomeno del mondo empirico che gli è ontologicamente

estraneo (si fa spesso osservare, del resto, che quando Platone parla,

come nel libro V della Repubblica, di essere e non-essere, i predicati non

vanno intesi in senso primariamente esistenziale, ma predicativo, cioè nel

senso di essere X o non essere X).

l) Il “buono” non può coincidere con il demiurgo del Timeo, perché,

come tutto il piano delle idee, gli è ontologicamente superiore (il demiur

go è buono, ma non è “il buono”). Del resto, è convinzione comune in que

sto ambito esegetico che il demiurgo rappresenti la proiezione mitica della

capacità ordinativa del pensiero, oppure costituisca il modo, altrettanto

mitico, con cui Platone aggira la difficoltà teorica, altrimenti insuperabile,

dell’attribuzione alle idee di una causalità efficiente in campo fisico (con

siderata assurda da Kant)’3.

e) Seguendo la caratterizzazione platonica della superiorità del buono in

termini di dynamis epresbeia (5o9b$), to agathon viene interpretato (e

tenuto conoscibile) soprattutto sulla base degli effetti che esso produce,

delle suefunzioni’4: la produzione di legalità e normatività, il conferimen

to di senso e valore alla conoscenza e alla prassi, la posizione di telos della

condotta in vista di utilità autentica e felicità.

In questa prospettiva, insomma, to agathon risulta soprattutto “buo

no a” giudicare il mondo e a orientare la vita.

4

4.1

Ho definito “precritica” la prima variante del paradigma teologico (o on

toteologico) perché essa si ricollega direttamente alle vecchie certezze

del bonum sive Deus e alla tendenza ad avvicinare strettamente, se non

proprio a identificare, il “buono” con il demiurgo del Timeo. Questo

non significa che non esistano ragioni testuali per confutare, o ignora

re, gli argomenti negazionisti. Come è ben noto, Platone scrive nel

bro vi della Repubblica che le idee traggono dal buono to einai te kai

ten ousian (5o9b6-7); nel libro x si parla inoltre di un “dio” produttore

delle idee (597b5); sempre nel libro VI, il “buono” appare come il “gene

ratore” del sole (5o$b13). Nello stesso passo, si parla del “buono” come

ri

li


122 IL POTERE DELLA VERITÀ

TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? 123

“padre”(5o6e4), il che pare alludere al demiurgo del Timeo definito ap

puntopater kaipoietes (z8c)5.

Questo giustifica il persistere di tesi sull’immediata natura divina del

buono, e suiia sua prossimità al demiurg&. Nel suo Flaton del ;9357, Ro

bin sosteneva che la divinità del Demiurgo era relativa a uno stadio infe

riore della realtà (naturale), e aggiungeva:

se il Demiurgo fosse il Dio, lo stadio superiore della realtà sarebbe inversamente

privato di una simile personalità unica e ugualmente organizzatrice; le Idee sareb

bero un popolo di Dei che potrebbero fare a meno di un Dio supremo. Ora c’è

proprio nella dottrina di Platone una esistenza che domina la folla delle Idee e che

ne è anche separata: è il Bene.

È da notare qui che Robin identifica un doppio livello divino, quello del

“buono” e quello del Demiurgo, dotati delle stesse funzioni rispetto ad

ambiti ontologici diversi; ma soprattutto va sottolineato che egli parla del

“buono” (che pure tende a identificare con l’Uno degli agrapha donata)

nei termini schiettamente teologici dipersonatita

Anche loJaeger “teologo” del periodo americano non esitava a identifi

care il Bene con Dio (Platone non avrebbe usato il nome theos per distin

guere la sua divinità filosofica da quelle della religione popolare)8.

In un importante articolo del 199529, Benitez problematizza la posi

zione precritica riconoscendo in Platone l’aspirazione a unificare il ver

sante etico e quello metafisico-teologico del “buono” rappresentato dal

Demiurgo, che tuttavia rimane teoricamente irrisolta. Benitez si appoggia

però a una descrizione “scolastica” dell’idea del buono come Ens reatissi

mum, che appare a sua volta assai problematica.

In ogni caso, questa variante del paradigma teologico appare resistere a

ogni dubbio, se Francisco Lisi° ha potuto recentemente scrivere che «una

lettura letterale dei dialoghi offre uno scorcio di un sistema in cui il prin

cipio più alto agisce come causa formale, finale ed efficiente»; il “buono”

deve allora essere concepito come un «active principle of creation [...].

Re also creates the world» (si noti che, nonostante Lisi neghi al “buono”

il carattere personale del Dio cristiano, usa tuttavia la forma maschile del

pronome personale).

D’altra parte, lo stesso Giovanni Reale’ segnala uno dei punti di ori

ginalità del proprio pensiero rispetto alla scuola di Tùbingen cui egli

aderisce, nella rivalutazione della figura del Demiurgo, in cui riconosce

senz’altro un Dio creatore a pieno titolo (espressione del «più avanzato

creazionismo nella dimensione del pensiero ellenico»), anche se subordi

nato all’impersonale idea del Bene.

Da ultimo, e con maggiore decisione, Michael Bordt ha nuovamente

tentato di costruire un sistema unificato della “teologia” platonica, facen

dovi confluire senza alcuna incertezza problematica tutti gli elementi di

teologia dispersi nei dialoghi, e in primo luogo naturalmente “buono” e

demiurgo32.

4.2

Rispetto all’immediatezza della formula precritica Bonum sive Deus, le

due varianti che ho impropriamente definito aristotelico-scolastica e neoplatonica

percorrono una makrotera periodos, un giro più lungo. Questo

giro passa per l’identificazione del “buono” rispettivamente con l’Essere

e con l’Uno, per poi concludere nelle equazioni che con Beierwaltes si

possono esprimere come Deus est Esse, Deus est Unum. Naturalmente, la

maggiore differenza fra le due varianti sta, come si è già visto, nell’inter

pretazione di epekeina tes ousias come “al di là delle essenze” oppure “al di

là dell’essere”. Ma, poiché ci sono oscillazioni e sovrapposizioni nelle tesi

proposte dai sostenitori delle due varianti, sarà opportuno indicare anche

in questo caso alcune premesse in certo senso comuni a entrambe, benché

con diverse accentuazioni. Per non appesantire troppo il discorso, mi limi

terò a proporne un elenco sommario.

a) La crescente influenza, fra gli anni Trenta e Cinquanta, della filosofia di

Heidegger, che chiudeva l’epoca del predominio neokantiano e storicista

e riproponeva il primato filosofico dell’ontologia34.

b) Più specificamente, il profilarsi di tendenze rivolte alla ricostruzione

di una tradizione unitaria della filosofia europea, o in altri termini della

“metafisica occidentale” Nel nostro campo, la via — come ho segnalato in

altra sede — sembra essere stata aperta dall’importante libro di Philippe

Merlan from Ptatonism to Neoptatonism (1953), che inseriva Aristotele

nella linea di una ontologia derivativa, a partire dal principio teologico,

destinata appunto a raggiungere il neoplatonismo; ma alle spalle di Ari

stotele stava soltanto una “metafisica accademica” ascritta a Senocrate e

Speusippo, che non giungeva però a includere lo stesso Platone. Questo

lasciava aperto un problema e una sfida, che sarebbero stati affrontati da


IL POTERE DELLA VERITÀ TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? 125

Hans J. Kramer. Nel suo libro Der Urpsrung der Geistmetaphysik (1964)

Platone avrebbe finalmente potuto venire riconosciuto come l’autentico

capostipite di una genealogia che raggiungeva Plotino attraverso Aristote

le. Toccava poi a Werner Beierwaltes (Pensare t’Uno, 1985) di ricostruire la

Wirkungsgeschichte del neoplatonismo fino a Hegel36

Su di un altro versante, premeva anche a Gadamer di annettere Platone

alla tradizione della “filosofia del logos” che andava da Aristotele a Hegel,

e che appariva incrinata proprio dal dissenso fra Platone e Aristotele in

torno al Bene; a questo intento conciliatorio egli dedicava il suo grande

saggio del 1978 sull’Idea detBene tra Platone eAristotele, sul quale dovre

mo tornare. In un modo o nell’altro, dunque, la “metafisica occidentale”

poteva ora garantirsi ininterrotte linee di comunicazione fra Platone, Ari

stotele, Plotino e Hegel (non a caso isolando Kant), e di lì eventualmente

proseguire fino alla renovatio heideggeriana.

c) In campo filologico, la novità era costituita dagli studi di Stenzel del

1914 sulla dottrina accademica delle idee-numeri, in cui si affrontavano

sistematicamente le testimonianze aristoteliche sulle “dottrine non scrit

te” di Platone e sulla sua identificazione “esoterica” di Bene e Uno (a dire

il vero Stenzel era stato preceduto da Robin nel 1908, e seguito da Mari

no Gentile nel 1930, ma questi lavori non hanno goduto di molta fortuna

presso gli studiosi tedeschi). Si apriva così un terreno di ricerca quasi ine

dito e molto promettente nella direzione di una reinterpretazione onto

teologica di Platone e in particolare dell’idea del buono.

4.3

Ho parlato di variante “aristotelico-scolastica”, riferendomi alla equiesten

sione categoriale di essere e bene sostenuta da Aristotele (EN I I09lZ3

e al motto tomistico ens et bonum convertuntur. Ma avrei potuto aggiun

gere: heideggeriana. Nei suoi Grundbegff’, corso tenuto a Marburg nel

1916, Heidegger scriveva infatti: «l’essere è il tetos, la “fine”, l’agathon {...]

L’idea del bene è l’essere e l’ente autentico»8. La forma del riferimento

teologico varia di molto nelle tre posizioni, pur essendo a mio avviso pre

sente più o meno direttamente in ognuna di esse.

Nei suoi studi iniziali, che fondavano l’identificazione (neoplatoniz

zante) del Bene con l’Uno, Kràmer tendeva poi esplicitamente a ricono

scere in quest’ultimo i tratti decisivi dell’ontologia heideggeriana. L’Uno

per Kràmer era il principio della Seiendheit (cioè della ousia) delle cose; ne

consegue che «ogni ente, nella misura tempo in cui è, è sempre al stesso

già buono e conoscibiJe. Ogni ente d’altra parte misura è nella in cui si

avvicina al modo di essere dell’Uno, del fondamento. Questo noccio

è il

dell’intero approccio ontologico lo di Platone». Dunque Ueberseiend

la

dell’Uno heit è «l’antico ontologica”» analogon della “differenza di

Heidegger9.

L’equiestensione Uno-essere-bene mirava a conciliare una visione iper

trascendente del fondamento con una per così dire “distributiva” fra gli

enti di essere e bene. Non era chiaro però dottrina princi

come la dei due

pi attestati da Aristotele (Uno/Diade) potesse conciliarsi con l’ontologia

heideggeriana (e neppure con neoplatonica, del resto la metafisica come

vedremo). Forse anche per questo Kràmer seguito dichiarato

avrebbe in

obsoleto il riferimento heideggeriano in virtù «mutato spirito dell’e

del

poca»40.

Con queste oscillazioni, il primo Kramer si era comunque mosso sul

crinale incerto che separa una concezione trascendente una immanen

da

tistica dell’Uno-essere-buono’. primo versante collocato Sul si era Luigi

Stefanini, che aveva scritto nel 1931: «L’essere deficiente del sensibile e

l’essere diffuso negli intelligibili concentra si tutto pienezza sfolgo

nella

rante dell’Essere per “buono”]: fuori non eccellenza [il del quale resta al

cunché di positivo conoscenza l’esistenza». che giustifichi la e Si avrebbe

dunque nella Repubblica una «visione monistica dell’Essere, che al vertice

degli esseri tutti in sé li risolve ed annulla »

Decisamente immanentistica e “distributiva” in senso aristotelico, e

perciò priva di imbarazzanti riferimenti tanto neoplatonismo quanto al a

Heidegger, è invece la posizione Gadamer, proprio per questo può

di che

venire solo indirettamente riferita paradigma teologico. eliminare

al Per

il contrasto dichiarato fra Platone Aristotele, occorre secondo Gadamer

e

istituire una serie di decodificazioni: descrizione Repub

la del Bene nella

blica ha un carattere mitico-metaforico, normalizzata teori

ed essa viene

camente nel filebo. «La trascendenza stata sottolineata

del bene, che era

tanto enfaticamente nella Repubblica » (dove « ciò che rende tali tutte le

cose buone si trova liberato, in maniera difficilmente comprensibile, dal

la qualità di ente») non è altro che «la forma mitica con fondo,

cui, in

Platone esprime quello che nel fitebo rende esplicito facendo “apparire”

il bene nel bello». Dunque «l’essere, quello bene ogni

del come quello di

altra essenza [...] si rivela direttamente nell’ente». bene limite, misura,

ll è


i z6 IL POTERE DELLA VERITÀ

I TOAGATHON BUONO A CHE COSA? i ‘7

ordine, cioè unità, dell’ente. Su questa base, il fitebo può a sua volta veni

re decodificato sulla base dell’ontologia aristotelica: il bene si distribuisce

nell’essere (ousia) degli enti e garantisce l’ordine teleologico e anche co

smo-teologico del mondo. Dunque Aristotele dà «risposte concettuali»

a ciò che Platone aveva «anticipato in maniera simbolica». Gadamer

avrà forse “risocratizzato” Platone, per usare l’espressione di Renaud, ma

la sua ermeneutica del bene immanente l’ha certamente aristotelizzato,

assicurando forse l’unità della filosofia del logos ma rendendo di fatto ir

riconoscibile, nella nebbia mitico-metaforica che ora lo avvolge, il testo

della Repubblica.

Un ultimo esempio della variante aristotelico-scolastica può essere of

ferto dall’interpretazione di Baltes, che sembra identificare il “buono” con

l’essere in sé o con l’insieme unificato delle idee: una posizione dunque

più “inclusiva” che distributiva nel senso di Gadamer. In virtù di questa

posizione, si potrebbe concludere che ogni ente è buono in quanto è; la

dimensione ontologica sembra riassorbire completamente in sé quella as

siologica, il che può essere comprensibile all’interno di una giustificazione

orno-teologica del mondo, ma difficilmente conciliabile con la prospetti

va platonica.

4.4

Sull’ultima variante del paradigma teologico, quella “neoplatonica’ pos

so essere breve perché se ne è già discusso in questa sede. Si può parlare

di neoplatonismo perché è posizione comune degli autori di questo in

dirizzo — che fanno capo alle cosiddette “scuole” di Thbingen e Milano-

Cattolica — la riduzione del buono all’Uno, che viene autorizzata, come è

noto, dalle testimonianze aristoteliche circa gli agrapha dogmata di Pla

tone, e da quella di Aristosseno relativa a una sfortunata lezione pubbli

ca di Platone peri tagathou, in cui appunto sarebbe stata proposta questa

riduzione. Il carattere neoplatonizzante di questa linea interpretativa è

accentuato dalla tesi, spesso ribadita, della trascendenza dell’Uno-Bene

rispetto all’essere. Ma, come avevo avvertito, questa caratterizzazione è

imprecisa, perché in realtà la “metafisica dei principi” ricostruibile a par

tire dalle testimonianze aristoteliche contempla appunto due principi,

quello dell’unità e quello della molteplicità (la “Diade infinita”) dalla cui

interazione risulta, per un processo derivativo (Seinsabteitung) la produ

zione di diversi livelli dell’essere con tasso decrescente di unità e crescente

di molteplicità. L’identificazione dell’Uno con il Bene rende inevitabile

concepire polarmente la Diade come il principio del Male, e questo eccede

drasticamente l’ambito teorico del neoplatonismo per indicare piuttosto

un orizzonte gnostico. Ma di simili conseguenze si discuterà più avanti.

Per quanto riguarda il problema del “buono” nella Repubblica, l’inter

pretazione esoterica-sistematica è rilevante soprattutto per due aspetti. Il

primo riguarda la reticenza e l’esitazione di Socrate di fronte alla richiesta

di offrire una precisa definizione del “buono” (5o6d-e). Gli interpreti “cri

tici” le spiegano di solito come il segnale di un’effettiva difficoltà teorica,

relativa all’audacia, o persino alla hyperbote, di un esperimento di pensiero

che eccede i limiti della teoria delle idee così come è stata finora accettata

dalla homotogia degli interlocutori di questo e altri dialoghi. Gli interpreti

dell’indirizzo di cui ci stiamo occupando ne propongono invece spiega

zioni diverse.

Secondo Reale, «Platone dice chiaramente di avere bene in mente, os

sia di sapere, che cosa sia t’essenza del Bene, ma di non volerlo dire», te

mendo di attrarre delle derisioni, come gli sarebbe accaduto nel corso della

lezione sul bene8. Kràmer pensa piuttosto che gli interlocutori di Socrate

non siano abbastanza preparati sul piano dialettico per ricevere questo su

premo insegnamento, e Szlezk suppone che la cautela socratica prefiguri

quella che dovrebbe venire adottata nello stato ideale per evitare gli abusi

della dialettica da parte dei giovani non dotati: l’uno e l’altro sembrano

così attenersi al principio dialogico che Proclo riferiva ai sofisti. In ogni

caso, questi autori ritengono che nel diniego socratico sia soprattutto in

causa l’inadeguatezza della scrittura a esprimere i concetti più importanti

(timiotera) della filosofia5o.

Il secondo aspetto consiste in un problema che si pone a questo indi

rizzo esegetico. Parlando del “buono” (identificabile con l’Uno) laRepub

buca parla forse di uno dei principi della “metafisica non scritta ma tace

sull’altro. Si tratta, secondo Szlezk, di una versione diversa ma non con

traddittoria rispetto a questa metafisica. Il “buono” non può essere consi

derato causa dei mali che sarebbero invece dovuti alla Diade; il silenzio su

quest’ultima sarebbe dovuto ai motivi politico-educativi di cui si è detto’.

Non è qui il caso di riepilogare le molte obiezioni che sono state mos

se all’interpretazione esoterico-sistematica. Basterà menzionare alcune

aporie teoriche specificamente relative alla riduzione del “buono” a uno

dei due principi della metafisica derivazionistica. Esse risalgono in fon


si

iz8 IL POTERE DELLA VERITÀ I TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? “9

do all’ambiguità delle stesse testimonianze aristoteliche, che definiscono

Uno-bene e Diade tanto come “principi” (archai) quanto come “elementi”

(stoicheta) degli enti. Nel secondo caso, i due elementi possono risultare di

mensioni strutturali degli enti (in quanto ognuno di essi è simuhaneamen

te uno e molteplice) come lo sono in Aristotele forma e materia: ma allora

Uno-bene e Diade risulterebbero unificabili non ontologicamente ma solo

per analogia, il che sembra decisamente estraneo all’orizzonte platonico e

neoplatonico. Si otterrebbero inoltre due conseguenze paradossali: ogni

ente è buono in quanto tale, in quanto unificato dall’Uno (con la già men

zionata riduzione della dimensione assiologica a quella ontologica); vice

versa, le stesse idee, in quanto plurali, risultano già contaminate dal Male.

Se invece si tratta di principi trascendenti, è difficile non concepirli

come una divinità e un’antidivinità, il cui rapporto sarebbe allora conflit

tuale e non collaborativo nella Seinsableitung. In ogni caso, l’assoluta tra

scendenza del principio dell’ Uno-bene destituirebbe il mondo di valore, e

l’etica prenderebbe allora la forma plotiniana di una fuga dal mondo e di

risalita mistica dell’anima verso il principio: una conseguenza, questa, che

appare aliena non soio rispetto all’orizzonte etico-politico della Repub

blica, ma alla stessa 6oicaoi Otc “per quanto è possibile a un uomo” del

Teeteto e di altri luoghi del platonismo.

Si tratta di questioni che possono qui venire solo accennate; va detto,

del resto, che nei tempi più recenti le distanze fra i sostenitori e gli avver

sari delle posizioni esoteriche-metafisiche sembrano essersi attenuate (es

sendo i primi più disposti a riconoscere l’autonomia dei dialoghi rispetto

alle dottrine non scritte, i secondi meno ostili ad ammettere la possibilità

che Platone abbia in effetti tentato “esperimenti di pensiero” del tipo di

quelli attestati da Aristotele). Più che filologico, il confronto a mio avviso

dovrebbe diventare ormai soprattutto filosofico.

Resta ancora da menzionare, prima di concludere, una posizione signi

ficativa anche se difficilmente classificabile, quella di Rafael Ferber. Benché

parzialmente ostile alle tesi esoterico-sistematiche, questo autore può es

sere accostato, come egli stesso riconosce, all’indirizzo neoplatonizzante

per il suo collocare il “buono” «al di là dell’essere e della conoscenza»13.

Lo statuto metaoggettuale e metaepistemico del “buono” lo rende “terzo”

rispetto all’essere e al pensare, producendo così una feconda tensione teo

rica: «Il pensiero del “terzo” deve pensare l’impensabile, l’inesprimibile e

il Nichtseiende [...] Dove non ci può essere alcun oggetto della teoria, soli

es werden». Questa tensione non sembra avere però in Ferber un esito

mistico-metafisico, quanto piuttosto etico-pratico, che lo riavvicina per

questo aspetto alle posizioni dei neokantiani e di Wieland. Il “buono” è

per lui un principio pratico, fondamento dell’etica platonica, non imme

diatamente realizzabile perché non esauribile nell’oggettualità dell’esi

stente ad opera di una pur necessaria politica razionale (essa è «secondo

platone filosofica, ela filosofia politica»)55.

5

Non è certo qui il caso di aggiungere un’altra interpretazione alle molte

già passate in rassegna. To agathon ci è risultato buono a molte cose, forse

troppe: legge del pensiero e criterio dei giudizi di valore, tetos della prassi

morale e divinità trascendente, principio di una metafisica e fondamento

di un’ontologia... Un arco ermeneutico la cui ampiezza può apparire ec

cessiva persino di fronte a testi originariamente polisemici come i dialoghi

di Platone.

Per ridurre a dimensioni più ragionevoli questa hyperbole esegetica

— che non a caso si riferisce alla hyperbole del “buono” sulla quale già iro

nizzava Glaucone — può forse soltanto ricordare un prudente criterio di

metodo. Ci si dovrà chiedere perché la tematizzazione onto-epistemica

dell’idea del buono compaia, nei testi scritti, solo in un dialogo di natura

etico-politica come la Repubblica. Si dovrà dunque interpretarla a partire

dalla suafunzione in questo specifico contesto dialogico, in primo luogo

la legittimazione della pretesa di un governo dei filosofi, e comprenderne

l”economia filosofica”6 a partire da esso. Senza che per questo si debba

tornare al silenzio hegeliano su1 “buono’ si potrà forse in questo modo

rendere teoricamente più governabile la sua interpretazione, e anche con

ferire un senso meglio delimitato agli sviluppi che Platone può averne

esperito nella discussione accademica che restò al di qua della soglia della

scrittura. Anche con queste salutari restrizioni, to agathon resterebbe co

munque, come Lévi Strauss diceva del mito, bon %penser.

Note

i. Nella Enciclopedia dette scienzefilosofiche in compendio( 511, 514) Hegel sembra

riprendere la critica di Aristotele alla “vuotezza” dell’idea del buono in Platone (sen

za peraltro menzionare né l’uno né l’altro) quando scrive: «questa somma cima del


rovina

130 IL POTERE DELLA VERITÀ I

TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? ‘3’

fenomeno del volere, che si è volatilizzato fino alla assoluta vanità — fino a una bontà

non oggettiva, ma che è certa solo di se stessa, e a una certezza di se stessa nella nul1it

dell’universale — immediatamente in se stessa», rovesciandosi nel male. A essa

Hegel contrappone «la sostanza, che si sa liberamente, in cui il dover essere assoluto è

altresì essere», e che «ha la sua realtà come spirito di un popolo». Si minima licet...,

posso ricordare che due recenti brevi presentazioni d’insieme del pensiero platonico

riservano alla “metafisica” del buono un posto quasi altrettanto marginale di quello

hegeliano. In M. Erler, Platon, Mùnchen zoo6, al passo cruciale della Repubblica Sono

dedicate quattro pagine (su 224); in M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino

2003, il” buono” è trattato in un’appendice di sette pagine (su z).

i. Le critiche aristoteliche all’idea del buono nei primi libri dell’Eudemia e della iVi

comachea sono ricche di indicazioni esegetiche illuminanti, per quanto vengano spes

so ignorate dagli interpreti esoterico-sistematici e non solo da loro (nessuna analisi ne

compare nel pur ricco volume curato da G. Reale, 5. Scolnicov, New Images ofPtato:

Dialogues on the Idea ofthe Good, Sankt Augustin ;oo;). Nonostante le preziose ana

lisi di E. Berti, Multiplicité et unité du bien selon FE i 8, in P. Moraux, D. Harlfinger

(Hrsg.), Untersuchungen zur “Eudemischen Fthik”, Berlin pp. 157-84, probabil

mente questi testi meriterebbero ulteriori approfondimenti di indagine.

3. Sull’elaborazione neoplatonica del “buono” cfr. M. Baltes, Is the Idea ofthe Good

in Plato’s ‘Repubtic”beyondBeing?, in M.Joyal (ed.), Studies in Plato and the Ptatonjc

Tradition: Essays Presented tOJOt)n Whittaker, Aldershot 1997, pp. 3-23; e M. Abbate,

Il Bene nell’interpretazione di Ptotino e Proclo, in M. Vegetti (a cura di), Platone, La

Repubblica, trad. e commento, voi. v, Napoli 1003, pp. 625-78.

4. Così ad esempio P. Stemmer, Ptatons Diatektik, Berlin-New York 1992, pp. 153 ss.,

171-2; W. Kcrsting, Platons “Staat”, Darmstadt 1999, pp. 240-I.

P. Natorp, Dottrina platonica delle

.

idee (1903, 1921’), trad. it. I’vlilano 1999, Cit.

p. 19$ (sul “buono” cfr. pp. 235-50, che corrispondono alle pp. i88-zo, dell’edizione

del 192.1, cui va aggiunta laAnhang 14).

6. Ivi, pp. 194-5, 199-200.

7. Ivi,p. ‘94.

8. Ivi,pp. 196 SS.

D. Ross, Platone e la teoria delle idee

.

(i5i), trad. it. Bologna 1989 (sul Bene cfr.

pp. 69-75).

IO. G. Santas, The form ofGoodin Plato’s “Repubtic”(198o), in G. fine (ed.), Plato,

Oxford looo, pp. 249-79.

i,. G. Cambiano, Platone e le tecniche (iri), Roma-Bari 1991’ (cit. p. 174).

iz. Natorp, Dottrina platonica delle idee, cit., pp. 199-100, Anhang 14.

13. M. Heidegger, La dottrina platonica della veritd (1941), in Id., Segnavia, trad. it.

Milano 1987, p. 184.

14. E. Cassirer, Da Thlete a Platone (1925), trad. it. Roma-Bari 1984 (sul buono cfr.

f}2. 154-8).

H. Rickert,Der Gegenstand

,.

derErkenntnis. Einfiihrungin die Transzendentalphi

losophie, Tì.ibingen-Leipzig I904, pp. 117-8.

i6. Cfr. in questo senso le importanti osservazioni in F. Franco Repellini, Note su1

“Ptatonbild” del Terzo umanesimo, in “Il pensiero”, 1-3, 1972, pp. 91-111.

J. Stenzel, Platone educatore (192$), trad. it. Bari 1966, pp. 267 ss., 315.

s. Nello stesso senso e negli stessi anni si esprimeva A. Diès nella sua Introduzio

ne all’edizione Budé della Repubblica (1932): sulla funzione politica del “buono” cfr.

pp. LXIII 55.

19. W. Wieland, Ptaton und die formen des Wissens, Gòttingen 1981 (sul “buono”

cfr. pp. 159-85).

o. W. Kersting, Ptatons “Staat”, Darmstadt ‘929, pp. 235-8; nello stesso senso

p. Stemmer, Platons Diatektik, Berlin-New York 1992, pp. 17 1-2.

2.1. T. Irwin, Plato’s Moral Theory, Oxford 1977’ pp. 225-6. Va detto che in generale

gli interpreti di orientamento analitico manifestano un forte disagio rispetto al passo

sul “buono” della Repubblica. Valga per tutti la deplorazione di J. Annas, An Intro

duction to Plato’s ‘Republic”, Oxford 198;, p. 284: «for all the grand language we are

left without any idea ofhow taking the first step » verso la comprensione dell’idea del

buono. Ma già G. Grote, Plato, andthe Other Companions ofSokrates, London 1883’,

voi. IV, p. 113, aveva sostenuto che se Socrate non è in grado di rispondere a Glaucone

è perché Platone «has no key to open the door» della conoscenza del “buono”.

ii. Ross, Platone e la teoria delle idee, cit., pp. 151-2: secondo Ross, Platone vuol dire

solo che dell’essere fanno parte sia la vita della mente (pensante) sia l’immobilità del

le idee.

13. Questo problema viene ampiamente discusso da Zeller in E. Zeller, R. Mondolfo,

Lafilosofia dei Greci (19225), parte III, voi. 111/I, a cura di M. Isnardi Parente, Firenze

1974, JJ2. 81 55.

14. In questo senso cfr., fra gli altri, M. Dixsaut, Ptaton et la question de la pensée,

Paris zooo, pp. 121-7.

25. Il significato teologico di tutti questi passi viene però discusso e ridimensionato

da f. Fronterotta, La divinité du bien et la bonté du dieu ‘),roducteur” (phytourgos/

demiourgos) chez Platon, in J. Laurent (éd.), Les dieux de Platon, Caen 2003,

pp. 53-76 (il primato del bene resta secondo Fronterotta di natura assiologica e non

ontologica).

a6. Un’ampia rassegna di queste posizioni si troverà nella nota di M. Isnardi Parente

in Zeller, Mondolfo, Lafilosofia dei Greci, cit., pp. 94-106.

27. L. Robin, Platone ,968), trad. it. Milano 1988 (sul buono e il demiurgo cfr.

J22. 171-3).

;8. Cfr. WJaeger, Paideia, vo1. ,i (i), trad. it. Firenze ,954, pp. 493-5.

29. E. E. Benitez, The Good or the Demiurge: Causation and the Unity of Good in

Ptato, in “Apeiron”, z$, 1995, pp. 113-40.

30. E L. Lisi, The form ofthe Good, in Id. (ed.), The Ascent to the Good, Sankt Augu

Stifl 2007, pp. 199-227 (cit. pp. 226-7).

31. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano J9970, pp. 497-539

(cit. p.

529).


132 IL POTERE DELLA VERITÀ TOAGATH0N: BUONO A CHE COSA? ‘33

32. M. Bordt, Ptatons Theologie, freiburg-Mùnchen zoo6.

3. W. Beierwaltes, Platonismo e idealismo (Iy72), trad. it. Bologna 1987.

Cfr. in proposito la ricostruzione di f. Franco Repellini, Gli agrapha dogmata di

Platone: la loro recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme”, z6,

1973, 51-84.

M. Vegetti, Cronache platoniche, in “Rivista di filosofia”, LXXXV, 1994,

f3. 109-29

(CAP. i in questo volume).

36. A questi lavori si deve aggiungereJ. Halfwassen, DerAufitiegzum Einem. Unte,..

suchungen zu Plato undPlotin, Stuttgart 1991.

In H. G. Gadamer, Studi platonici 2 (1976), trad. it. Casale Ivlonferrato 1984,

i5i-26i.

38. M. Heidegger, I concettifondamentali dellafilosofia antica, trad. it. Milano 2oQ,

p. 235 (rinvio in proposito a M. Vegetti, IlPlatone delprimo Heidegger, in “Paradigmi”,

2.1, 2003, pp. 184-90).

Le citazioni sono rispettivamente da H.J. Kràmer,Areté bei Platon undAristote

les, Heidelberg 1959, pp. 473 SS., 555 n. 4; cfr. inoltre Id., DieplatonischeAkademie und

das Problem einer systematischer Interpretation der Philosophie Platons, in “Kantstu

dien”, 55, 1964, pp. 86-7; Id., Epekeina tes ousias. Zu Platon, Politeia 5093, in “Archiv

fùr Geschichte der Phiosophie”, ,, p. 19.

40. H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti della metafisica (1980), Milano 198;, p. 320.

41. L’immanentismo dell’indirizzo esoterico è sottolineato da E. Berti, Il Plato

ne di Krrimer e la metafisica classica, in “Rivista di filosofia neoscolastica’ 75, 1983,

pp. 313-26, che gli contrappone il trascendentismo della “metafisica classica” da Ari

stotele alla scolastica. Va tuttavia notato che Kràmcr insiste sulla trascendenza dell’ U

no, e che d’altra parte, se è vero che il Dio cristiano (e in parte anche quello aristote

lico) sono trascendenti, del tutto immanente è invece l’ordine del mondo assicurato

dalla equiestensione buono-essere.

42. L. Stefanini, Platone (1932), Padova voI. I, pp. 247-8 (rist. anast. Padova

1991).

43. Gadamer, Studi platonici 2, Cit., pp. 229-30, i6i.

44. Così E Renaud, Die Resokratisierung Platons. Die platonische Hermeneutik

Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999’ p. 134.

M. Baltes, Is the Idea ofthe Good in Plato’s “Republic” beyond Being?, in M. Joyal

(ed.), Studies in Plato and the Platonic Tradition: Essays Presented toJohn Whittaker,

Mdershot 1997, pp. 3-23, in particolare p. 12..

46. Sull’impossibilità di considerare l’idea del buono convertibile con l’essere cfr. le

considerazioni di G. Sillitti, Al di Ici della sostanza: ancora su Resp. VI 5093, in “Elen

chos”, I, 1980, pp. 225-44. L’idea del buono non è «estensionalmente comprensiva di

tutte», e possiede troppe note caratteristiche («comprensione») per risultare equie

stesa all’essere.

47. Cfr. in questo senso Kràmer, fpekeina tes ousias, cit.; e Id., Die Idee des Gùten.

Sonnen- undLiniengleichnis (Buch vi504a-sIIe) , in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Politeia,

Berlin 1997, Jj3. 197-203.

48. G. Reale, Introduzione, in H. J. Kràmer, Dialettica e definizione delBene in Pla

tone (1966), trad. it. Milano 1989, p. i6. Si può osservate che Socrate affronta con

sapev0lmd1te ben altre occasioni di rendersi ridicolo di fronte al pubblico ateniese

(nudità delle donne nelle palestre, governo dei filosofi).

Kràmer, Dialettica e definizione delBene in Platone, cit.; T. A. Szlezk, L’idée du

Bien en tant qu’arché dans la Re’publique de Platon, in M. Fattal (éd.), Laphilosophie

dePtaton, Paris ;ooi, pp. 366 55.

o. Cfr. soprattutto T. A. Sz1ezk, Platone e la scrittura dellafilosofia (1985), trad. it.

Milano 1988, pp. 398-405.

,. Szlezk, L’idée dxi Bien, cit., pp. 345-59; e Id., Die Einheit des ?latonbildes in der

“Tùbinger Schule”, in Reale, Scolnicov, New Images ofPlato, cit., pp. 49-68; cfr. da

ultimo Id., Die Idee des Guten in Platons Politeia, Sankt Augustin 2003.

52. Cfr. in proposito R. Ferber, J’[’zrum hat Platon die “ungeschriebene Lebre” nicht

geschrieben? Mùnchen 2007.

Id., Platos Idee des Guten, Sankt Augustin 1989’, pp. 68, 153.

54. lvi, p. 2.78.

J32. 131-3.

Ivi,

.

6. Mi riferisco naturalmente al classico saggio di H. Cherniss, The Philosophical

fconomy ofthe Theory ofldeas (1936), in Id., Selected Papers, Leiden 1977, pp. 121-3;.

Per qualche indicazione bibliografica sull’approccio qui delineato, cfr. M. Veget

ti, Dialogical Context, Theoy ofldeas and the Question ofthe Good in Book VI ofthe

Republic, in Reale, Scolnicov, I.Tew Images ofPlato, cit., pp. 225-36.


Parte terza

L’utopia


ha

Proclo

6

Beltista ezer dynata.

Lo statuto dell’utopia nella Repubblica4

il problema

fin dalla sua comparsa’, l’utopia del libro v (il termine va per ora lasciato

impregiudicato in tutta la possibile ampiezza delle sue accezioni) è stata

certamente oggetto di discussione, di critiche, di interpretazioni. Come

mostrano il Timeo e le Leggi, questa discussione è senza dubbio iniziata

già all’interno dell’Accademia, e avrebbe conosciuto un momento forte

— destinato a dominarne i successivi sviluppi — nel libro ii della Politica di

Aristotele.

Da allora in poi, e fino alle soglie del mondo moderno, i critici della

Repubblica avrebbero contestato come inaccettabili i contenuti proposti

dalla sua utopia, o ne avrebbero denunciato il carattere chimerico.

Nessuno tuttavia, fra gli amici e i nemici della Repubblica — in

cluso mai messo in dubbio una serie di certezze: a) che Platone con

siderasse desiderabili e auspicabili le sue proposte; b) che egli le ritenesse in

qualche misura realizzabili e applicabili alle società storiche; c) che infine

l’utopia della Repubblica appartenga, di fatto e di principio, all’ambito del

pensiero politico.

All’inizio dell’Ottocento, Kant e Hegel fissavano, in modo per così

dire paradigmatico, le due prospettive possibili di lettura della Repubblica,

le due opzioni alternative fra le quali gli interpreti non avrebbero cessato

di scegliere fin quasi alla metà del Novecento.

Scriveva Kant, in polemica con Brucker, che «la Repubblica platonica

è divenuta proverbiale come presunto esempio vivente di perfezione chi

merica, tale da non poter risiedere altrove che nella mente di un pensatore

sfaccendato». Ma, aggiungeva Kant, è puerile «gettar via come inutile»

Questo capitolo è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e com

mento a cura di M. Vegetti, voi. Iv, I. v, Bibliopolis, Napoli zooo.


agli

della

risultava

nel

fino

13$ IL POTERE DELLA VERITÀ BELTISTA EIPER DYNATA 139

il pensiero platonico, con il pretesto della sua «inattuabilità». Si tratta di

una fallacia empiristica, perché, scriveva con la sua abituale severità, «

estremamente riprovevole desumere le leggi di ciò che io devo fare da ciò

che vien fatto, determinando il primo in base al secondo». La legislazione

e l’esercizio del potere descritti da Platone andranno dunque assunti come

principi teorico-ideali, come archetipi, « al fine di ottenere che la costitu

zione giuridica degli uomini si vada sempre più avvicinando alla massima

perfezione possibile», quali che siano, poi, i livelli di adeguazione storica

mente raggiungibili, e certamente non determinabili in astratto5.

Kant stabiliva così la premessa di tutte le interpretazioni della Repub

blica come teoria normativa e valutativa, ideale trascendentale, né utopi

co nel senso di sogno chimerico di evasione né in senso stretto politico

programmatico, ma certo non senza rapporto con il pensiero e la prassi

della politica6.

All’estremo opposto, ma nello stesso spazio concettuale, si situava la

lettura hegeliana.

Anche Hegel escludeva che la Repubblica fosse da considerare alla stre

gua delle «chimere» e dei «pii desideri», perché l’ideale, in virtù del con

cetto, contiene in sé verità, «e la verità non è una chimera». Ma, aggiun

geva Hegel, certo non simpatetico verso l’utopia, Platone non «è uomo da

trastullarsi con teorie e principi astratti», dunque neppure con la forma

dell’ideale che Kant gli aveva ascritto. Hegel non aveva dubbi sulla deside

rabilità — occhi del suo autore — forma di vita comunitaria propo

sta nella Repubblica. Ma l’aspetto decisivo della sua lettura stava nel modo

in cui egli liquidava il problema della possibilità o invece utopicità della

kattzotis platonica. Il privilegiare lo stato e la collettività rispetto alla vita

individuale, l’organicismo radicalmente anticontrattualistico, non ad altro

si devono se non al fatto che «Platone ha rappresentato l’eticità greca nella

sua forma sostanziale: infatti quello che costituisce il vero contenuto della

repubblica platonica è la vita dello stato greco» in cui a sua volta si incar

,

na lo spirito greco, estraneo com’esso era all’idea embrionalmente socrati

ca, poi cristiana e moderna, dell’individualità e dell’interiorità soggettiva8.

Lo storicismo hegeliano produceva dunque un risultato solo in appa

renza paradossale: l’utopista Platone diventava il realista Platone, l’inter

prete più fedele della sostanza etica e della forma spirituale del popolo

greco e del suo tempo. All’interno dello schema hegeliano, questo segnava

tuttavia il limite storico della Repubblica, troppo fedele al suo tempo per

potere tener conto dialetticamente di esigenze dello spirito che sarebbero

maturate più tardi e che soltanto nella forma dello stato moderno avreb

bero potuto trovare la loro soddisfazione. Nell’umanesimo soprattutto te

desco del Novecento, tuttavia, caduta la storicità della fenomenologia he

geliana la Repubblica, in quanto espressione compiuta dello stato e dello

spirito greco, sarebbe tornata a svolgere il ruolo di un modello direttamen

te fungibile in ambito politico e sociale — all’aberrazione di assegnarle

il compito di prefigurare lo stato totalitario del nazionalsocialismo.

Né Kant né Hegel, dunque, e neppure gli interpreti che in modi mol

to differenziati a essi si ispiravano, mettevano in dubbio i tre presupposti

di cui si è detto all’inizio: che le proposte del libro v fossero per Platone

desiderabili, in qualche misura attuabili, e comunque pertinenti alla sfera

della politica e della storia.

«li piano utopico», come ha scritto Dawson, poteva continuare a ve

nir concepito come «un paradigma politico tanto quanto un paradigma

.

etico»

La cesura di questa secolare tradizione interpretativa e critica può pro

babilmente venir situata alla fine della Seconda guerra mondiale, con la

memorabile aggressione di Popper contro Platone, annoverato ora, insie

me con Hegel e Marx, tra i fondatori del pensiero politico totalitario, e

dunque fra i precursori di nazismo e stalinismo”.

La polemica di Popper — fuoco del contesto ideologico che l’aveva

suscitata — senza dubbio per molti aspetti eccessiva e pretestuosa.

Essa metteva in luce però un’evidenza incontestabile: la radicale estraneità

del pensiero politico di Platone rispetto alla tradizione liberal-democrati

ca, e perciò la sua fallacia etico-politica per chiunque considerasse quella

tradizione come un orizzonte valutativo senza alternative.

La prima reazione rispetto a Popper — che consistette nel tentativo

alquanto ingenuo di difendere Platone e scagionarlo da quelle accuse, in

modo da provarne la compatibilità appunto con un “senso comune” libe

raldemocraticolz

— risultò in effetti o troppo debole di fronte all’atto di

accusa, o troppo insostenibile in rapporto a qualsiasi plausibile interpreta

zione dei testi platonici.

È venuta allora prendendo forma una strategia più ranata, che mirava

a difendere Platone in un certo senso da sé stesso: per salvare Platone, si

trattava di depotenziare il senso utopico-politico della stessa Repubblica,

in modo che l’autore fosse posto al riparo dagli effetti indesiderabili pro

dotti dal suo testo. In questo quadro, vengono messe in discussione appun

to quelle certezze di cui si è detto.


è

140 IL POTERE DELLA VERITÀ

La prima, cioè la desiderabilità delle proposte della Repubblica agli oc

chi del suo autore, è denunciata con apprezzabile sincerità da autori come

Gadamer e più recentemente Rosen.

Gadamer ha scritto che la Repubblica costituisce «una grande provoca

zione lanciata alla moderna coscienza cristiana e liberale dell’umanesimo

che venera in Platone uno dei suoi grandi eroi». Per sanare il conflitto,

bisogna allora ipotizzare che il dialogo non sia altro che un «gioco ra

zionale», da ascrivere al genere letterario del «pensare in utopie», che

Popper avrebbe frainteso prendendo alla lettera i «castelli in aria» del

dialogo, da interpretare invece soltanto come stimoli al libero pensiero.

Gadamer propone così la via più semplice e diretta per liberare Platone

dall’ingombrante fardello dell’utopia della Repubblica: si tratta di consi

derarla nient’altro che un surrogato immaginario della realtà, forgiato al

più per fornire un punto di vista critico sull’esistente, senza alcun requisito

intrinseco di desiderabilità e ancor meno di praticabilità”.

Altrettanto esplicito Rosen, che scrive: «Il problema [...] del fatto se

lo stato descritto dalla Repubblica sia possibile, o sia da Socrate creduto

possibile, è perciò di secondario interesse. Il punto decisivo è che esso è

indesiderabile, e in particolare che è indesiderabile per il filosofo»’.

Rosen si accosta per questa via a una seconda alternativa nell’ambito

della strategia di assoluzione di Platone dalla Repubblica, sostenuta in pri

mo luogo da Leo Strauss e condivisa da autori come Crombie e Bloom.

Per Strauss, la kallzolis è indesiderabile, perché costringerebbe i filosofi al

coinvolgimento politico, e inoltre impossibile, perché «l’eguaglianza dei

sessi e 11 comunismo assoluto sono contro natura». Si tratta dunque di

unafiction ironica deliberatamente destinata all’autoconfutazione, cioè a

mostrare sia i limiti intrinseci alla natura della dimensione politica, sia gli

effetti catastrofici che deriverebbero dal tentativo di innestarvi le esigenze

dell’immaginazione filosofica.

Sogno di evasione, dunque, oppure gioco ironico spinto fino alla vo

luta comicità, come sostiene Bloom: in entrambi i casi l’utopia della Re

pubblica sarebbe stata secondo il suo autore tanto indesiderabile quanto

impossibile, e quindi le accuse rivoltegli sulla base del suo testo dipendono

soltanto da una rozza incomprensione esegetica’5.

Nella stessa direzione, ma seguendo un percorso diverso, si orienta

una seconda variante di questa strategia interpretativa: quella consistente

nel considerare la Repubblica come sostanzialmente estranea all’ambito

politico.

BELTISTA EIPER DYNATA ‘4’

Su questa via si è mossa recentemente Julia Annas, preceduta del resto

da autori come Sparshott e Vògelin’6. Le proposte politiche della Repub

blica risultano, «se prese alla lettera, assurde»; esse vengono sviluppate

«in such sketchy, incomplete and extreme ways that it is hard to piace

them in a tradition of serious politica1 philosophy». Annas dubita persi

no che Platone abbia mai avuto davvero interessi di ordine politico (che

sarebbero semmai reperibili nel Politico e nelle Leggi). In ogni caso, la Re

pubblica va letta come un testo sulla morale individuale, rispetto alla qua

le la discussione sullo stato ideale non risulta «a major concern» per sé

stessa’7.

Seguendo le indicazioni di Robin Waterfield”, Annas inclina piutto

sto a leggere le parti politiche della Repubblica come una metaforica dello

stato interno dell’anima individuale (ad esempio, l’aborto e l’infanticidio

di 460c starebbero a significare il rigetto delle idee indesiderate da parte

del soggetto)’9.

In modo invero meno estremo, autori come Bertelli e Blòssner sono re

centemente approdati a conclusioni simili. Non c’è posto per la città giusta

nel mondo storico, scrive il primo, e pertanto l’uomo giusto vivrà lonta

no dalla politica; lapoliteia platonica vale dunque soltanto come «me

taFora dell’ordine interiore dell’uomo», un ordine esclusivamente mora

le°. Blòssner perviene dal canto suo, attraverso una giusta rivalutazione

del carattere dialogico-comunicativo dei testi platonici, alla conclusione

che nella Repubblica la metafora politica è destinata a rendere interessan

te e persuasiva per gli interlocutori di Socrate la descrizione dell’ordine

dell’anima, e la connessione che vi si può instaurare fra giustizia e felici

tà. L’errore della critica popperiana, conclude Blòssner, consiste nel non

aver compreso il contesto dialogico-argomentativo in cui vanno di volta

in volta inserite, e interpretate, le posizioni sostenute dai personaggi pla

tonici — delle quali, dunque, lo stesso Platone non può venir considerato

personalmente responsabilehi.

L’estraneità della Repubblica all’ambito politico — se per esso si inten

dono le forme storiche della società umana — confermata per altra via, sul

la scorta di indicazioni dello stesso Zeller, da Margherita Isnardi Parente.

Il disegno di Platone, essa scrive, «non vuole né intende diventare pro

gramma di azione», né «avrà alcuna espressione pratica». Si tratta invece

di creare una «nuova aristocrazia», una comunità filosofica separata dalla

« contaminazione immediata con la pratica». Platone in sostanza « non in

tende [...] creare una città collettivistica, ma un ceto dirigente cenobitico »


— le

si

‘4’ IL POTERE DELLA VERITÀ BELTIS TA FIPER DYNATA ‘43

Sul “cenobitismo” platonico aveva del resto già insistito Alexandre

Kojève, in uno scritto non a caso destinato a Leo Strauss e alla sua teoria

della dissimulazione ironica. Se vista come progetto destinato alla po/is,

come fa il «lettore comune» ignaro dell’Accademia, la Repubblica appare

«deliberatamente assurda», come prova fra l’altro la sua «ridicola comu

nità delle donne». In realtà, quel che Platone voleva costruire era un “mo

nastero” di filosofi separato dal mondo: chi ha veramente tentato di realiz

zare la “genuina” concezione platonica non sono dunque stati i politici, che

l’hanno volgarmente fraintesa, ma i monaci sia cristiani sia musulmanj’.

La kaizolis non è dunque una città degli uomini, ma una metafora

dell’anima oppure un cenobio filosofico, alla maniera della Platonopoli

progettata da Plotino.

Il carattere comune di queste strategie di difesa di Platone dal suo testo

interpretazioni utopistiche, ironiche, metaforiche, depoliticizzanti —

appare comunque quello di attribuire a Platone stesso i tratti di indesi

derabilità/impossibilità/impoliticità delle proposte della Repubblica, che

risultano ovvi e ineludibili per i suoi interpreti. Se ne è dato conto con una

certa estensione per documentare un consenso esegetico che oggi costitui

sce probabilmente, a mio avviso, il maggiore ostacolo alla comprensione

del libro v della Repubblica e della peculiare forma di utopia che vi si pro

pone. Ma questo consenso, per quanto autorevole, sembra confliggere al di

là di ogni buona regola interpretativa, come ha energicamente sostenuto

Myles Burnyeat, con l’evidenza testuale. Poiché essa ha finito per venire

occultata, o almeno pesantemente selezionata, negli sviluppi della discus

sione postpopperiana, sarà il caso di darne analiticamente conto, prima

di formulare un tentativo di interpretazione complessiva. La rubrica degli

argomenti può venire formulata così: a) le questioni della desiderabilità e

della praticabilità; b) il rapporto paradigma/esecuzione; c) le condizioni

di possibilità, teoriche e pratiche; I) i limiti del progetto collettivistico;

e) l’efficacia discorsiva e politica dell’utopia.

Desiderabilità e possibilità

Platone sembra aver nitidamente previsto il doppio scetticismo — relati

vo tanto alla desiderabilità quanto alla possibilità — che avrebbe investi

to i lineamenti dell’utopia tracciati nel libro v. Socrate esita a sviluppare

il discorso sulla comunanza di donne e figli, perché, dice, «da un lato si

I

dubiterà [apistoito] che si parli di cose possibili [dynata], dall’altro —

che ammettendo che lo siano — metterà inoltre in dubbio che esse siano

davvero le migliori [arista]» (45oc-d; cfr. anche ta nun apisteuomena, vi

50zb5). Più avanti, Glaucone confermerà il pericolo di una diffusa incre

dulità (apistia) relativa sia alla possibilità sia all’utilità (dynaton/opheli

mon) della legislazione sulla famiglia proposta da Socrate (457d).

Socrate si troverà a più riprese a dover affrontare questa duplice per

plessità. Ma il suo maggiore imbarazzo sembra proprio riguardare la que

stione della realizzabilità: «non vorrei che il discorso sembri solo un pio

desiderio [euche] » (45od). E la formulazione di euchai vane e irrealizzabili

sarebbe a buona ragione motivo di derisione (vi 499c; sul timore ricorren

te di suscitare il riso per l’impossibilità o l’indesiderabilità delle proposte

formulate cfr. anche 451al, 45za-b, 473c).

Quando per una volta Socrate ritiene di dover sviluppare il discorso

prescindendo provvisoriamente dalla questione della realizzabilità del suo

progetto egli avverte la necessità di scusarsi. Procederà per un tratto, affer

ma, come quei «pigri di mente» che sognano un Paese di Cuccagna senza

affaticarsi a pensare se i loro desideri siano possibili (dynata), «rendendo

ancora più pigra un’anima peraltro già pigra » (458a-b).

Ma questo « impractical idealism » 25 può essere soltanto provvisorio,

appunto per non incorrere nel ridicolo che giustamente colpisce l’utopia

intesa come mero sogno di evasione dalla realtà, o come un suo «surrogato

immaginario » 6• Di norma, il discorso platonico istituisce un vincolo

crociato, che connette strettamente fra loro le dimensioni di desiderabilità e

di praticabilità del disegno utopico (c’è una sola eccezione a questo vincolo,

peraltro solo apparente, nel passo 47zadi cui si dirà nel paragrafo seguente).

Si veda ad esempio la discussione sull’uguaglianza fra i sessi. Viene po

sta in primo luogo la questione della suapossibffità («se è possibile o no»,

45ze). Una volta mostrato che non si tratta di cosa impossibile (adynaton)

né simile alle euchai (456b), si passa a discutere della sua desiderabilità,

strettamente connessa alla precedente (L v’’atc 7E ,caì Drtorc, 456c4), e

si conclude che questa legislazione «non è soltanto possibile, ma anche la

migliore [arista] per la città» (457a).

Altrove, a proposito della comunanza di donne e figli, la questione

della utilità (ophetimon) viene invece anteposta a quella della possibilità

(dynaton) (457d, cfr. 461e, 466a).

Dopo l’excursus sulle norme relative alla guerra, l’impazienza di Glau

cone diviene incalzante nella sua richiesta di ottenere precisi chiarimenti

an

in


144 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA ‘45

sulle condizioni di attuabffità della nuovapotiteia. Egli teme che le digres

sioni di Socrate gli facciano dimenticare il discorso più importante, «cioè

come è possibile che questa costituzione venga realizzata [genesthai] e in

che modo potrebbe mai esserlo» (%7le).

Poco più avanti Glaucone ripete: «cerchiamo di convincere noi stessi

di questo solo punto: che è possibile e come è possibile [c vvarè’,’ iccì

e lasciamo perdere il resto» (471e).

Non si tratta, come qualche interprete ha scritto, solo di un’istanza in

genuamente o rozzamente “praticista” da parte di Glaucone. Le formule

conclusive di Socrate non lasciano dubbi sullo stretto legame che secon

do lo stesso Platone intercorre fra l’aspetto della auspicabilità delle sue ri

forme e quello della loro praticabilità; in esse, anzi, la possibilità appare

persino condizione di desiderabilità, perché, come si è visto, desiderare

l’impossibile è soltanto ridicolo. Le espressioni di VI ozc

)rLorc eiirrp

vcer, &ptota & ‘é’orro) sembrano in questo senso inequivocabili.

Altrettanto precise, e più volte ribadite, sono le conclusioni sullo staturo

di possibilità del disegno utopico: «Non è impossibile che si realizzi,

né noi parliamo di cose impossibili, benché certo difficili» (vi 499d: o

&VcTO yrvoeat, QTLE! & tayO2EV (cE7T& ).

La stessa formula torna a due riprese (vi 5ozc; VII 5o4d: XcE7r&

v’.rir& ancora in contrapposizione alle euchai).

L’evidenza testuale sembra dunque ampiamente escludere che Platone

intendesse mettere in dubbio l’auspicabilità delle sue proposte, o ignorare

la questione della loro praticabilità, o ancor meno considerarle estranee al

problema della riforma dellapotis storica. L’utopia è qui chiaramente con

siderata come uno strumento di critica dell’esistente (cfr. la sua contrap

posizione alla situazione attuale, ta nun pard tauta gtnomena, conside

rata come innaturale, in 456c), e come il progetto di un mondo costruito

dall’immaginazione filosofica ma considerato come possibile e praticabile.

Diverso è tuttavia il discorso, che occorrerà ora affrontare, sui limiti e le

condizioni di questa possibilità e praticabilità.

11 modello e l’esecuzione

Che cosa significa il carattere di “possibilità” che Platone assegna al model

lo della ka1tzo1is? 11 problema del senso e dei limiti di questa “possibilità” è

tematizzato apiù riprese nei libri ve VI. Nell’insieme, la soluzione sembra

consistere nello stesso statuto diparadeigma assegnato alla kattipotis: la ri

producibiità è una proprietà intrinseca di un paradigma, allo stesso modo

che la partecipabilità è una proprietà delle idee (si tratta, beninteso, di un

rapporto analogico, perché, come ha mostrato Burnyeat, la kattipotis non

è un’ideaY.

Nell’ambito del rapporto modello-copia, è ovviamente inevitabile la

presenza di un’imperfezione, un décatage che separa la seconda dal primo.

11 fatto che l’uomo giusto partecipi della giustizia in sé, del paradeigma di

giustizia non significa evidentemente, scrive Platone, che esso sia una sor

ta di multiplo dell’idea che non ne differisce in nulla: questo è ovviamen

te impossibile. Partecipare dell’idea di giustizia, e riprodurre il modello

dell’uomo perfettamente giusto, significherà approssimarsi nel massimo

grado possibile (hoti engytata) a questi paradigmi esemplari (47ab-c).

Lo stesso rapporto si applica al modello della kat1rotis e alle sue ese

cuzioni. Quel modello è stato tracciato nel discorso, en logois, è stato co

struito al modo di unaftction narrativa, un racconto mitico (cfr. ii 39c,

376d; vi o,e). Ora, dice Platone, la costruzione discorsiva, la lexis, benché

non possa né debba escludere l’esecuzione nella praxis, è certamente più

vicina di questa alla verità; il discorso può descrivere con maggior nitore

e precisione i lineamenti del modello, senza doversi piegare ai vincoli che

condizionano l’esecuzione pratica, l’ergon, immersi come essi sono nella

dimensione spazio-temporale del divenire.

La “possibilità” dell’esecuzione pratica del modello deve allora venir

considerata non come una sua riproduzione identica, ma, ripete Plato

ne, come il massimo di approssimazione consentita da quei vincoli (hos

engytata, 473 a-b).

Il rapporto è reso perspicuo da una metafora pittorica. Chi agisce cor

rettamente nellapraxis (in questo caso i filosofi re o i potenti convertiti alla

filosofia) opera come un «pittore di costituzioni» (iro).ttricv ypco)

che si ispira al modello paradigmatico e tenta di rendere gli uomini che vi

vono concretamente nella storia per quanto è concesso (hoson endechetai)

simili a esso (vi 5oib-c).

C’è a dire il vero un’altra metafora pittorica che sembra contraddire il

senso generale del discorso platonico fin qui delineato, e il nesso che vi vie

ne istituito fra desiderabilità e praticabilità, paradigma e riproducibilità.

La bravura di un pittore non sarebbe diminuita, scrive Platone, dal fatto

che egli non fosse in grado di indicare l’esistenza di un uomo altrettanto

bello di quello che ha dipinto (471d).


146 IL POTERE DELLA VERITÀ BELTIS TA EIPER DYNATA ‘47

Va anzitutto notato che la struttura di questo paragone è asimmetrica

rispetto a quello citato in precedenza. Là il modello era antecedente al di

pinto, che ne rappresentava una riproduzione inevitabilmente imperfetta.

Qui invece il modello è costituito dal dipinto stesso, e l’eventuale replica

ne va cercata fuori, nel campo degli erga. Il pittore di questa metafora va

dunque assimilato non al riproduttore di modelli, ma al costruttore di pa

radigmi en togois: la correttezza logica ed etica di questi paradigmi non

è inficiata, secondo Platone, dall’impossibilità di reperirne nella realtà

empirica una replica identica. Questo non significa contraddire il senso

dell’intero discorso, che insisteva appunto sulla riproducibilità pratica del

paradigma, ma soltanto avvertire che ogni riproduzione di esso è inevita

bilmente imperfetta, senza che ciò ne riduca la validità teorica.

Sembra chiaro da questa analisi che l’utopia del V libro ha per Plato

ne un carattere marcatamente progettuale. Come «ogni utopia seria»,

scrive Finley, essa non è una fantasticheria di evasione dalla realtà, ma «è

concepita come un fine che si può legittimamente tentare e sperare di rag

giungere » z8 Il paradigma è dunque un modello normativo, un « criterio

deontologico cui la prassi deve tendere»z9 nella simultanea certezza della

sua imperativa desiderabilità e del carattere solo approssimato e imperfet

to (dunque anche instabile) di una sua possibile realizzazione.

Questa doppia certezza apre tuttavia un’ulteriore serie di problemi.

Il varco, tanto ontologico quanto storico-pratico, che separa il logos

dall’ergon, il modello dalla riproduzione, impedisce di considerare l’u

topia platonica, anche una volta riconosciutone il carattere progettuale,

come un programma politico di cui sia possibile indicare tappe, tempi e

modi di realizzazione. Come vedremo meglio nel paragrafo ,

i luoghi e

i tempi del suo accadimento vanno pensati sulla scala dell’ «intero corso

del tempo» (VI ozb,ìtcvrì tc p6w); l’evento della kaltrpolis potrebbe

essersi verificato in un remoto passato, o verificarsi oggi in luoghi remo

ti e sconosciuti, o ancora potrà accadere in un futuro indeterminato. Da

questo punto di vista, l’utopia non rispetta dunque, né può rispettare, gli

impegni e i vincoli della temporalità politica; il che non significa tuttavia,

come si dirà più avanti, che essa non disponga di una sua efficacia eticopratica

anche attuale e immediata.

Un secondo problema riguarda la possibilità di determinare il margine

di approssimazione, il décalage che intercorre fra modello e copia: in che

misura, cioè, la kallzpotis è effettivamente possibile, e come va intesa questa

possibilità al di là delle considerazioni di principio fin qui analizzate?

Secondo André Laks, la mancata risposta a questa domanda costituisce

una “lacuna” della Repubblica; una lacuna che può venir colmata soio ri

correndo alle Leggi, nel cui progetto legislativo sarebbe da riconoscere, nel

disegno platonico, l’ambito di possibilità effettiva evocato, ma non preci

sato, dalla Repubbtica°.

Questa ipotesi è senza dubbio sostenuta dal testo delle Leggi (cfr.

v 739b-e). Ma è difficile pensare, dal punto di vista dell’utopia del libro V,

che le Leggi possano davvero rappresentare la “proiezione” applicativa di

quel paradigma. Ne vengono in effetti rovesciati i contenuti presentati

come necessari all’unificazione e alla salute della città, con il ritorno alla

proprietà privata e alla famiglia; ne viene inoltre ignorata l’imprescindi

bile condizione di possibilità, il governo filosofico. Si tratterebbe in verità

di una copia, non “quanto più vicina è possibile” al modello, ma separata

da esso da uno scarto tanto profondo da rendere irriconoscibile il modello

stesso. Se la privatezza di patrimoni e legami familiari è la malattia della

città, di cui la forma di vita comunitaria dovrebbe costituire la terapia,

attuata da medici come i filosofi-re, il modello delle Leggi sembrerebbe

davvero accettare quella malattia come inguaribile, e rinunciare alla fun

zione terapeutica.

È forse da dire che, nel quadro della Repubblica (se non certamente

in quello delle Leggi), la domanda da cui si è partiti sembra mal posta.

È impossibile determinare nell’ambito del discorso teorico la misura e le

forme della differenza destinata a separare, in ogni tentativo di esecuzione,

modello e copie: è impossibile quanto lo è prevedere le circostanze spaziotemporali,

storiche, in cui quei tentativi avranno luogo. Non si tratta sol

tanto di variabili geografiche, climatiche o antropologiche (più importan

ti nella nostra concezione del mondo — perché certamente una kallipolis

fondata a Oslo risulterebbe ben diversa da un’altra a Calcutta — che nella

visione più ristretta di Platone). Si tratta piuttosto della infinità variabi

lità, mutevolezza e instabilità delle situazioni storiche, dei costumi, delle

tradizioni, di cui Platone è certamente ben consapevole, come mostrano

nello stesso libro V le considerazioni sulla diversa valutazione storica della

nudità nelle palestre (451c-d).

Se c’è dunque una lacuna nella Repubblica circa i limiti di praticabi

lità dell’utopia, questa va probabilmente considerata come teoricamente

inevitabile: un altro aspetto, cioè, del divario che separa un’utopia pro

gettuale da un programma politico, e impedisce per principio alla prima

di determinare in anticipo i suoi margini effettivi di realizzabilità. Quello


148 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIFER DYNATA ‘49

che però si deve escludere, ancora in linea di principio, è che lo scarto fra

modello e copia possa esser tale da rendere irriconoscibili i lineamenti fon

damentali del primo: stravolto fino a questo punto, non potrebbe neppure

più venir considerato come desiderabile. Più che una proiezione attuativa

della Repubblica, le Leggi andrebbero allora considerate come una revisio

ne del paradigma stesso, in modo da renderlo praticabile almeno a livello

di “terza città”.

All’interno dell’orizzonte proprio alla Repubblica, va piuttosto con

siderata un’importante espansione della metafora pittorica. I «pittori

di costituzioni», gli attori del processo di trasformazione, non potranno

svolgere il loro compito di riprodurre quanto più fedelmente è possibile il

paradigma cui si ispirano nella tavola (pinax) dell’ambiente storico-politi

co, se non l’avranno prima interamente ripulito e “purificato” dalle forme

politiche e dall’ethos pubblico e privato esistente. Questo azzeramento de

gli assetti legislativi e dei costumi vigenti non è certo una cosa facile (ou

pany rhadion), ma si tratta di una premessa indispensabile al lavoro di rico

struzione etico-politica (vi 5o,a). Nel suo ambito, di per sé perfettamente

comprensibile perché proprio di qualsiasi potere rivoluzionario o di “salu

te pubblica” ai suoi esordi, si inscrive una norma che gli interpreti moderni

hanno considerato a tal punto eccessiva da leggervi un segnale di assurdità

dell’intero progetto, deliberatamente inseritovi da Platone. Ai fini della

radicale “purificazione” della situazione di fatto esistente, scrive Platone, i

nuovi governanti manderanno «nei campi» (eis agrous) tutti gli abitanti

della polis di età superiore ai dieci anni, e ne educheranno i figli, sottratti

ai costumi esistenti (r& cn) secondo il nuovo progetto. Questa sarà

la via più rapida e più facile (tachista te kai rhasta)3’ per instaurare la nuova

potis e la suapoliteia (vii 54la).

Si tratta davvero di un progetto così estremo da risultare volontaria

mente assurdo? Certamente no, se lo si interpreta, nel modo che a me pare

più plausibile, interpretando l’espressione eis agrous come equivalente a eis

georgous. Platone intenderebbe allora dire che il nuovo gruppo di gover

no assegnerà tutti gli adulti della città (tranne, ovviamente, i propri com

ponenti), al terzo ceto, nel quale i contadini sono la parte più numerosa,

e sottoporrà invece i loro figli ai processi di selezione educativa intesi a

identificare nel loro ambito i migliori, degni di venire cooptati nei gruppi

politico-sociali più elevati.

Se si vuole invece interpretare letteralmente il passo, come un’espulsione

di buona parte della popolazione dalla città, Platone non farebbe allora che

riproporre a scopi naturalmente diversi, un progetto che era già stato sto

ricamente concepito dal radicalismo oligarchico di Crizia (cfr. DK 88A,):

«l’espulsione del demo o di una sua gran parte dalla città nell’illusione di

spopolare l’Attica». A differenza che in Crizia, lo scopo non è comunque

l’instaurazione di «un regime agricolo-pastorale di tipo laconico»3z, ma la

rieducazione di giovani ancora plasmabili e non definitivamente condizio

nati dalla forma di vita del vecchio regime. Del resto, anche il progetto di

Crizia non sarebbe risultato intollerabilmente estremistico dal punto divista

dell’esperienza storica dei Greci fra ve iv secolo: un’esperienza che cer

to non ignorava la pratica della deportazione, dell’asservimento e persino

dello sterminio in massa di intere popolazioni (si pensi ad esempio ai casi di

Platea, di Melo o dei progetti di Cleone per Mitilene, riferiti in Tucidide).

Comunque la si interpreti, dunque, l’esigenza platonica appare certo

radicale ma del tutto coerente con la ragionevole esigenza di una “purifica

zione” etico-politica della tavola della polis, e per nulla assurda dal punto

di vista della discussione costituzionale e della pratica storica dell’epoca.

Va invece sottolineato un aspetto che non pare sia stato sufficientemente

messo in luce. In questo passo Platone sembra concepire il processo educa

tivo come rivolto all’insieme della popolazione giovanile dellapolis, alme

no nella fase della sua prima attuazione, e non limitato ai figli del gruppo

di governo. Un’eccezione di cui si dovrà tenere conto in sede di discussio

ne dei limiti del progetto collettivistico della Repubblica.

Le condizioni di possibilità: teoria e comando

Le condizioni che consentono di pensare come possibile il disegno utopi

co del libro v sono individuate da Platone a due diversi livelli, di principio

il primo, di fatto il secondo.

In linea di principio, la riforma è possibile perché essa è conforme a

natura, kata physin, come nel caso dell’assegnazione di uguali funzioni a

uomini e donne: è infatti nella natura di queste ultime il poter svolgere gli

stessi ruoli (455d-e). Qui chiaramente il concetto di natura ha un valore

normativo: è “naturale’ e quindi anche possibile, ciò che è in accordo con

le qualità e le proprietà essenziali delle cose in sé stesse; “naturale” è anche

ciò che risulta, di conseguenza, in accordo con il miglior ordine possibile

delle cose. Per questo, oltre che una garanzia sulla possibilità di principio

di ciò che le è conforme, la natura offre un punto di vista critico sull’esi


come

la

150 IL POTERI DELLA VERITÀ

stente, in cui quell’ordine non è normalmente realizzato: «sono piuttosto

le istituzioni attuali [ta nyn g;gnornena] , contrarie a quelle che proponia

mo, a sembrare costituite contro natura [paraphysin] » (456c).

È interessante notare che nelle Leggi la difformità dalla situazione at

tuale (nun, V 739e) avrebbe invece cominciato a costituire un marchio di

impossibiltà (adynaton) per il disegno utopico (v 746c). Si preparava così

la saldatura effettuata da Aristotele nel libro ii della Politica fra “normali

tà” dell’esistente (1163a2;: ton nyn tropon), la natura umana che vi si espri

me, e normatività di questo sistema normale/naturale: di qui deriva il

carattere innaturale, perciò tanto indesiderabile quanto impossibile, della

forma di vita collettivistica delineata nella Repubblica (cfr. ad es. ;z63b9).

Non sempre, tuttavia, Platone può invocare la conformità all’ordine

naturale come condizione di possibilità, in linea di principio, della tra

sgressione utopica dell’esistente. In casi dove questo riferimento non è

evidente

— per la comunanza di donne e di figli —

condizione di

principio è piuttosto individuata nella coerenza interna dell’argomenta

zione. Che quella comunanza sia «conseguente [epomene] al resto della

costituzione, bisogna confermarlo con il logos» (461e): si tratta dunque

di dimostrare la consistenza, la bomologia (464b$) dei diversi aspetti della

legislazione proposta con il disegno generale e gli scopi del progetto costi

tuzionale. La coerenza intrinseca dell’argomentazione, che ne connette gli

enunciati in modo cogente e «automatico» (VI 498a: 7rà ro croctou

uvLno6’iTc), sostituisce il riferimento alla natura come condizione teo

rica di possibilità del disegno utopico. Si tratta di una forma di necessità

condizionale’, sulla base della quale, assunta la desiderabilità di certi scopi

complessivi, ne consegue in modo appunto «automatico» l’adozione del

le misure indispensabili a realizzarli.

L’utopia risulta dunque “possibile” perché conforme alla natura e alla

logica dell’argomento; questa forma di possibilità consiste però piuttosto

in una garanzia di non-impossibilità teorica, quindi in una condizione più

in negativo che in positivo dell’effettiva praticabilità del progetto di rifor

ma. Per passare dal non-impossibile al praticabile, dal livello di principio a

quello di fatto, Platone ha bisogno di un secondo tipo di condizioni, che

si situano immediatamente al livello del potere, della forza, insomma nelle

contingenze del comando politico.

A questo punto il discorso della Repubblica si sposta in modo signifi

cativo: esso non verte più tanto sulle condizioni di possibilità dell’utopia,

ma, a monte, sulla possibilità che queste condizioni di fatto si verifichino.

BELTISTA EIPER DYNATA ‘5’

Per la realizzazione dell’utopia basta, dice Platone, un solo cambiamen

to (metabole), certo non piccolo né facile, ma tuttavia possibile (473c).

Questo cambiamento, condizione necessaria per l’avvio della trasforma

zione della città, consiste nella celeberrima tesi che i filosofi assumano un

potere regale nella città, o che gli attuali re e dynastai si convertano alla

filosofia, in modo che «potere politico e filosofia» giungano a riunificarsi

(473c-d).

Platone è categorico nell’affermare che senza questo subitaneo cambia

mento ai vertici del potere, che renda il genere dei filosofi (o, che da que

sto punto di vista è lo stesso, dei dynastai diventati filosofi) enkrateis nella

città, mai lapoliteia narrata nel discorso potrà realizzarsi nei fatti (vi 501e:

j

i Oo)o7oe6yto ercu; cfr. anche vii 54od).

Ma è a sua volta possibile questo evento decisivo e condizionante? Se

non lo fosse, l’intero discorso ricadrebbe nella condizione dei «pii de

sideri» (euchai), rendendo giusto oggetto di derisione i suoi autori (vi

499c4-5). Ma non ha alcun senso razionale affermarne l’impossibilità,

benché Platone lasci invero estremamente indeterminate le circostanze

dell’avvento della nuova forma di comando.

Una qualche «fortuita necessità» (vi 499b5: ananke tis ek tyches)

può indurre i filosofi, volenti o nolenti, a governare la città, e questa ad

accettarne il potere; una certa «ispirazione divina» (499cl: ek tinos theias

epipnoias) può suscitare l’amore per la filosofia in quanti ora detengono

il potere o nei loro figli. Tutto ciò può apparire se non impossibile certo

almeno improbabile. Platone compensa tuttavia questo basso gradiente di

probabilità estendendo indefinitamente nello spazio e nel tempo la scena

possibile per l’avvento del nuovo potere. Come escludere che il comando

possa spettare ai filosofi in qualche momento del corso passato, presente

o futuro del tempo, e in un luogo qualsiasi, anche se remoto e sconosciu

to (vi 499c-d)? Come escludere che in «tutto il tempo» (v 7rWvTì rci

xp6v) possa nascere un figlio di potenti dotato per la filosofia, e conser

vare incorrotta questa sua natura (vi 5oza-b)? Una risposta negativa — su

questo spettro indeterminato di possibilità sarebbe appunto insensata;

dunque è possibile « argomentare duramente » (diarnachesthai to logo)

che la politeia dell’utopia, una volta soddisfatta la necessaria condizione

di potere che le dà avvio, possa essere esistita, possa esistere o potrà esistere

(vi 499d).

Basterà che «uno solo» tra i figli dei dynastai (vi 5o2b4) oppure che

«uno o più» dei veri filosofi, divenuti a loro volta dynastai (vii 54od4),


‘5’ IL POTERE DELLA VERITÀ BELTISTA EIPER DYNATA 153

assumano il potere e diano avvio al processo di trasformazione dellapo

tis, perché « tutto ciò che ora appare incredibile giunga a compimento »

(vi ozb: vr’irtmXéottt t& v&v àtorotva).

L’indefinita dilatazione dei tempi e dei luoghi di attuazione dell’uto

pia ne toglie certamente i caratteri di pianificabilità determinata propri

di un programma politico, ma al tempo stesso ne garantisce, insieme con

la possibilità, la non-improbabilità (che del resto, nell’esperienza effettiva

se non nella teoria, poteva apparire meno indefinibile, dal momento che

Platone nella Lettera vii attribuiva lo sviluppo degli eventi di Siracusa ap

punto a tyche oppure a un intervento divino, 316e).

Entro queste coordinate, come vedremo, si delineano la destinazione e

l’efficacia del progetto della Repubblica.

Prima di discuterne, è tuttavia il caso di definire quali ne siano gli scopi,

cioè la forma di vita che ne viene delineata, e i limiti, di fatto e di principio,

all’interno dei quali essa appare praticabile.

Telos e limite dell’utopia: unità della città

e forma di vita comunitaria dei phytakes

Al centro del disegno tracciato nel libro v sta — ripresa e ulteriormente

approfondita

— la stessa finalità che aveva dominato il IV: la costruzione

dell’unità della potis5. L’unificazione della città, al di là del conflitto so

ciale che l’aveva lacerata nell’esperienza storica, e della frantumazione in

una pluralità di centri privati di interesse, aveva costituito, nel libro iv, il

punto di arrivo dell’instaurazione di quell’assetto gerarchico trifunzio

nale in cui si producevano la giustizia e la salute all’interno del corpo dei

cittadini. Ora si tratta di delineare

— secondo la specifica richiesta degli

interlocutori di Socrate all’inizio del libro — la forma di vita del gruppo

dirigente che corrisponda al modello della mia potis, della città unifica

ta, e ne garantisca la stabilità contro le tendenze alla scissione e alla stasis

(462a-b). Le due prime “ondate” sollevate da Socrate hanno appunto di

mira questo progetto: la distruzione della privatezza di patrimoni e di

legami affettivi di cui il nucleo familiare, l’oikos, costituisce tradizional

mente la roccaforte, e la devoluzione alla dimensione pubblica, politica

della vita di tutte le energie morali, intellettuali, emotive prima assorbite

da quella privatezza.

Se il nuovo modello di rapporti parentali tende a profilare l’insieme

del gruppo dirigente della nuova città come una famiglia estesa, in grado

appunto di trasferire sudi sé tutti i vincoli che erano stati propri dell’oikos,

l’esigenza platonica di unificazione va ben oltre questo livello (Aristotele

l’avrebbe visto con chiarezza, basando proprio su questo la sua critica).

La nuova comunità deve essere «il più possibile prossima alla condi

zione di un solo uomo» (462.c), nel senso di una condivisione immediata

e simultanea di sentimenti di fondo quali il piacere e il dolore: la dinamica

psichica collettiva deve dunque reagire di fronte agli eventi che coinvol

gono la vita del gruppo comportandosi come un singolo macroindividuo.

Come già per il nesso giustizia-felicità-salute del libro iv, il modello è qui

quello della comunità-corpo, della polis-soma (464b). Il dolore del dito

è immediatamente risentito dal corpo intero e dal suo centro psichico

(46zc-d), e così deve accadere per la vita comunitaria. Qui Platone ha

probabilmente presenti le tesi di un autorevole testo ippocratico, i Luoghi

dell’uomo. Vi si legge che «le parti del corpo, quando la malattia si scateni

nell’una o nell’altra di esse, immediatamente la trasmettono ciascuna alle

altre» (I i); «così il corpo prova dolore o piacere anche a causa della sua

parte più piccola» (i ). L’organicismo medico viene trasferito da Plato

ne sulla scala della comunità politica, e la coppia piacere/dolore, spostata

dall’ambito fisiologico a quello della psicologia collettiva, diventa il se

gno della compiuta unificazione di questa al livello dei sentimenti e degli

affetti.

Va qui rilevato in particolare il mutamento semantico negli usi lingui

stici della nuova comunità, che da un lato deve riflettere la trasformazione

in senso comunitario della sua forma di vita, dall’altro deve consolidare,

interiorizzandole, le nuove strutture sociali6. Cambierà in primo luogo

l’uso del linguaggio parentale; le parole figlio/figlia, padre/madre, fra

tello/sorella designeranno ora non singoli individui, diversi per ciascun

parlante, bensì interi gruppi di persone distinte per fasce di età; una con

sanguineità solo possibile, virtuale, sostituisce così quella reale, trasferen

done il sistema di vincoli affettivi alla comunità politica nel suo insieme

(46id). E l’uso linguistico non dovrà restare confinato nell’ambito delle

denominazioni (onomata) bensì andrà trasferito a quello delle condotte

(praxeis), in modo che l’istituzione, interiorizzata tramite il linguaggio,

dia durevolmente e spontaneamente luogo a un nuovo sistema di legami

affettivi (463d): infatti «sarebbe ridicolo se i nomi di parentela venissero

solo pronunciati dalla bocca senza influire sulla condotta» (463e).


IH

‘54 IL POTERE DELLA VERITÀ

Ancora più importante è il mutamento semantico che deve intervenire

nell’uso di rhemata cruciali come «mio» e «non mio», che andranno

ora pronunciati «dai più» all’unisono «della stessa cosa secondo lo stes

so punto di vista» (46zc, cfr. 463e s.). Questa mutazione appare fonda

mentale per scardinare quell’egoismo proprietario che costituisce la causa

prima della disgregazione della comunità e dei fallimenti degli sforzi di

politicizzare la vita; in essa si esprimono l’appropriazione e la fruizione

collettiva di patrimoni e affetti, grazie alla quale le “mie cose” diventano

immediatamente le “nostre”, e cade la perniciosa distinzione fra il “mio” e

“l’altrui” Viene così soppressa la privatezza dei sentimenti, e con essa il so

dido istinto che spinge altrimenti a usare il potere per riempire la propria

casa di beni sottratti alla comunità (464c-d). Per usare l’efficace espressio

ne con la quale le Leggi descrivono questo programma, «con ogni mezzo

tutto ciò che si definisce privato venga da ogni parte sradicato dalla vita

dell’uomo» (v 739c).

Viene infine, e conseguentemente, introdotto un drastico mutamento

nel linguaggio del potere.

Il demos non chiamerà più «padroni» (despotai) o, come ora accade

nelle democrazie, « governanti » (archontes) i membri del gruppo dirigen

te politico-militare; li chiamerà piuttosto, oltre che «cittadini», «salvatori

e guardie» (463a-b), riferendosi alla loro funzione di protettori del

corpo civico. Gli archontes a loro volta non definiranno certo «schiavi»

(doutoi) i cittadini sottoposti alloro governo, come ora accade, ma — ri

ferendosi alla propria funzione retribuita di difensori al servizio della cit

tà — «fornitori di salario e di cibo»; chiameranno poi i propri colleghi

non synarchontes, termine che si riferisce alla condivisione del potere, ben

sì symphytakes, «colleghi difensori», che designa non il privilegio ma il

compito di servizio che essi rendono alla comunità (463b).

Anche in conseguenza di questo mutamento di usi linguistici, accade

dunque che si produca, come ha scritto Arends, una «subjektiv erfahrene

Einheit der Wiichter », che costituisce a sua volta « die Voraussetzung zur

objektiven Einheit der Gesamtpolis».

Questa formulazione pone con chiarezza il problema cruciale dei limiti

della forma di vita comunitaria e di conseguenza della garanzia di unità

dellapotis che essa offre: si tratta di un comunismo dei gruppi dirigenti,

che appunto oggettivamente costituisce la condizione di unità anche per

il resto del corpo civico, oppure di una prospettiva destinata a coinvolgere

prima o poi quest’ultimo nella sua interezza? Anche a proposito di questa

3ELTISTA EIPER DYNATA ‘55

difficile questione, si rende indispensabile un esame preliminare dei testi

platonici pertinenti.

A prima vista, la loro risposta è chiara. Come già si era detto alla fine del

libro iii (4i6d ss.), e a più riprese nel corso del iv, l’abolizione della priva

tezza patrimoniale e affettiva riguarda soltanto il gruppo dei phytakes, nel

suo doppio versante politico e militare. Sono gli archontes e i loro epikouroi

ad avere in comune donne, case e pasti, e a non possedere nulla di idion

(458c, cfr. 464b-c per l’insieme dei phylakes).

E basta l’assenza di stasis all’interno del gruppo di governo a scongiu

rare il pericolo di dissensi nel resto della città (atte potis, 465b). La stessa

idea è ribadita e chiarita nel libro VIII: «ogni costituzione si trasforma a

causa di quel gruppo che detiene il potere, quando in esso insorge la stasis,

mentre è impossibile che venga alterata se esso è concorde anche se è del

tutto esiguo» (545cl). Questa tesi può presentare, come ha scritto Laks, un

« carattere brutale » 38: l’unità della potis sembra garantita dalla minaccia

coercitiva che il gruppo dirigente, con la sua coesione, fa pesare su ogni

velleità di ribellione. Proprio questo, però, fa sorgere un problema teorico

che Aristotele non avrebbe mancato di individuare: la divisione della città

in due gruppi sociali di cui l’uno detiene il potere, l’altro la ricchezza, e

che sono separati da forme di vita radicalmente diverse, torna a riprodurre

proprio quella situazione della coesistenza di due città in una, inevitabil

mente foriera di stasis, che Platone aveva denunciato nel libro IV e che

si era proposto di superare con il nuovo modello costituzionale (Pot. ii

1164a)39.

Non mancano, del resto, segnali testuali che alludono a una prospet

tiva di universalizzazione del collettivismo dei gruppi dirigenti. Già nel

libro iii, Platone aveva scritto che «tutti coloro che vivono nella città

sono da considerarsi fratelli» (415a), un’affermazione in cui si può leg

gere l’allusione a una estensione all’intero corpo civico di quella fratel

lanza tra phytakes che sta al centro del libro v40. Ma anche in quest ‘ulti

mo non mancano cenni nello stesso senso. A proposito della comunione

degli affetti, Platone parla di «tutti i cittadini» (politai, 46zb5); anche

altrove, allo stesso proposito, si parla indiscriminatamente di «cittadini»

(46zd8, 464a4). E, per quanto riguarda l’uso comunitario dell’espressione

«mio», Platone dice che la città migliore è quella in cui «i più» (pteistoi)

lo condjvjdono (462c7). Si tratta, certo, di espressioni deboli e forse prive

di intenzione teorica, dove il termine politai potrebbe equivalere, con una

certa forzatura, aphytakes.


156 IL POTERE DELLA VERITÀ BELlISTA FIPER DYNATA ‘57

Due altri passi nella Repubblica sembrano del pari alludere a una uni

versalizzazione prospettica della forma di vita comunitaria. Il primo è

quello già citato del libro VII (541 a): esso prevede l’espulsione dalla città

di tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni (e bisogna naturalmente pensa

re ai cittadini esterni al gruppo dei phytakes che è chiamato a gestire questa

operazione), e alla rieducazione dei loro figli secondo i nuovi criteri: nel

futuro, questo training educativo potrebbe renderli adatti alla condivisio

ne del nuovo modo di vita libero dai vizi passati.

il secondo passo è quello famoso del libro ix (59od-591a), che prevede

la sudditanza di chi è privo di un principio razionale forte a coloro in cui

esso è invece egemone, in modo che sia i primi sia i secondi siano uguali

nella comune sottomissione alla ragione, mediata nel primo caso, diretta

nel secondo.

Allo stesso modo, continua Platone, ci si comporta con i bambini:

essi vanno governati finché non abbiano installato in sé stessi una giusta

potiteia, un phylax e un archon, e a questo punto possono venir lasciati

liberi (eleutheroi). Questo potrebbe far pensare che il governo educativo

del gruppo dirigente sia transitorio e destinato a produrre la maturazione

morale e intellettuale dei sudditi, i quali allora potrebbero a loro volta as

sumere una piena libertà di autogoverno e, di conseguenza, anche il diritto

di accedere al governo della comunità.

Anche questi testi, tuttavia, non sono espliciti, e l’interpretazione che

ne può venire derivata resta soltanto congetturale. Molto meno equivoca

è invece l’interpretazione che Platone stesso avrebbe dato nelle Leggi del

disegno utopico del v libro della Repubblica. Secondo il dialogo tardo,

la forma di vita collettivistica doveva essere estesa «per quanto è possi

bile all’intera città» (v 739cl-2.: cct& 7r&uwv rp 7r6)tv 6rt torce); vi è

inoltre un chiaro accenno alla proprietà comune della terra (740a1: KOt

)/EupyoTVtcYV), che sostituisce quella privata spettante al terzo cero, tenuto

soltanto a devolvere ai governanti una parte della ricchezza prodotta, di

cui si era parlato nel IV libro della Repubblica. Confermando, e portando

all’estremo, la riduzione dellapotis all’unità del singolo individuo (739b-c),

le Leggi sembrano dunque intendere senza incertezze questa unità come

estesa all’intero corpo sociale. Non è affatto chiaro se con questa posizione

Platone abbia inteso chiarire le vere intenzioni della Repubblica, o abbia

piuttosto voluto reinterpretarla tenendo conto di critiche come quella ari

stotelica di cui si è detto.

Questa incertezza rinvia a un problema che si è certamente posto a PIatone

e al dibattito interno dell’Accademia. Da un lato, il «semi-comuni

smo» della Repubblica (per usare la definizione di Barker)4’ sembra desti

nato a riprodurre la scissione della città piuttosto che a garantirne l’unità,

a meno di pensare a un uso continuo e illimitato della forza coercitiva4.

Inoltre, il fatto che anche gli uomini del terzo ceto dispongono di un ele

mento razionale non può fare escludere in linea di principio che un’im

presa educativa gestita dalla città sia in grado di elevare almeno i loro figli

alla condizione di un pieno dispiegamento della razionalità.

Dall’altro lato, l’ipotesi di una progressiva universalizzazione della for

ma di vita comunistica si scontra con un presupposto antropologico e uno

teorico. Il primo consiste nel pessimismo platonico circa la possibilità di

reperire, o di impiantare, nella natura umana quelle eccezionali doti intel

lettuali e morali che la rendono degna della funzione di governo, la quale

appare dunque spettare necessariamente, come è ribadito a più riprese, a

un «piccolissimo» gruppo sociale, forse addirittura a un solo o a pochis

simi individui (cfr. ad es. VI 491a-b, ozb).

Il secondo presupposto deriva direttamente dalla teoria della giustizia

del libro IV: il principio della oikeiopragia presume la scansione funzionale

gerarchizzata del corpo sociale, e non una sua omogeneità al livello più

alto. Secondo un paradosso proprio di questa teoria una comunità in cui

tutti fossero perfettamente giusti non potrebbe più esser giusta a sua volta.

E più concretamente: da ch sarebbero allora svolte le funzioni produttive,

se non da una numerosa popolazione servile di cui non vi è traccia nella

Repubblica

L’interpretazione non può sciogliere questi nodi, che certamente,

come si è detto, erano già apparsi problematici a Platone e all’Accademia.

Quello che si può dire è che il comunismo platonico è eminentemente

politico-morale e non economico (per così dire, dunque, più giacobino

che marxista), e che la sua forma naturale di universalizzazione consiste

nel porre la funzione di governo, esercitata da una minoranza, al servizio

dell’intera comunità. I limiti di questa minoranza sono circoscritti dai di

fetti della natura umana, non da ragioni di classe o di casta. Nulla esclude

che essa possa venire via via integrata da nuovi individui, selezionati per via

educativa: si tratterà però sempre di una universalizzazione solo prospet

tica o virtuale perché ostacolata da quella natura e dai suoi difetti. Questo

rende la concezione gerarchica della giustizia al tempo stesso provvisoria,

in vista dell’orizzonte aperto di plasmabilità educativa del genere umano,

e tuttavia intrascendibile, per la resistenza che a essa oppone la natura stes


158 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA ‘59

sa del complesso psicosomatico umano. Si produce così una situazione

di tensione concettuale che spiega le derive interpretative in un senso e

nell’altro dalle quali è stato caratterizzato 11 lavoro esegetico tanto degli

antichi quanto dei moderni. Ma, anche in questo caso, non è possibile inferire

dal testo della Repubblica più di questa tensione costitutiva, e della

provocazione a pensare che essa propone45.

La questione dell’efficacia

Ilparadetgma della Repubblica non è, come si è visto, una narrazione uto

pica nel senso del “libro dei sogni’ perché presenta le sue condizioni di

realizzabilità; ma neppure è un programma politico immediato perché

non è in grado di determinare, nella teoria, tempi e luoghi di questa rea

lizzabilità.

Diversa, ma parallela, è la questione dello statuto performativo del dia

logo stesso, o in altri termini dell’efficacia che l’autore gli assegna. Si tratta,

evidentemente, di un atto discorsivo dotato di autorità e di argomentazio

ni persuasive, e, in quanto tale, di un gesto in senso lato politico6. Il testo

non lascia dubbi sul fatto che, come ha scritto Burnyeat, «l’intera Repub

blica è un esercizio nell’arte della persuasione», «designed to lead us from

here to there». I primi destinatari di questo sforzo di persuasione sono

«Trasimaco e gli altri», cioè gli individui, i gruppi, le posizioni culturali

che si trovano a venir rappresentati sulla scena del dialogo dai suoi perso

naggi emblematici (vi 493d3). I tempi di questa persuasione sono altret

tanto indeterminati quanto quelli della realizzazione delparadeigma. Essa

può accadere, dice Socrate, in questa o nell’altra vita; e replica alla com

prensibile impazienza di Glaucone («è un rinvio proprio a breve scaden

za!») ricorrendo di nuovo alla scala della «totalità del tempo», rispetto

alla quale qualsiasi dilazione appare davvero breve (498d).

Il secondo orizzonte cui si rivolge lo sforzo persuasivo è indetermina

tamente ampio: sono quei «molti» (polloi, 499e8, 5oodlo), la cui persua

sione e il cui consenso (pepeisthai, homologesosin, ozal) daranno infine

luogo a quella «città convinta» (potinpeithomenen, 5ozb4-5) in cui può

svolgersi l’opera di riforma dei filosofi-re o dei dynastai-filosofi.

Questi ultimi rappresentano in effetti il terzo, e forse il più immediato,

tipo di destinatari dello sforzo di persuasione sviluppato dal dialogo; ma

tale orizzonte rimane soltanto implicito, o piuttosto è adombrato in quella

i’

«divina ispirazione» (theia epipnoia, 499cl) cui Platone affida la conver

sione filosofica dei «potenti».

La Repubblica costituisce dunque un atto discorsivo di persuasione

etico-politica, i cui destinatari si collocano per così dire in cerchi concen

trici, e i cui esiti possono dilazionarsi su tempi indefinitamente lunghi. Ma

questo non esclude una capacità persuasiva e quindi una efficacia anche

immediate, laddove la convinzione raggiunga il livello della reattività mo

rale e psicologica del soggetto. A questo livello, la disgiunzione del logos

dall’ergon, della teoria dall’azione, è, come testimonia Platone stesso, mo

tivo di « vergogna » (aischyne): per questa ragione egli racconta di aver

affrontato il rischio del secondo viaggio in Sicilia, nella vaga e ingannevole

prospettiva di ricongiungere già in tempi brevi il potere e la filosofia (Let

tera VII 3Z8c)4.

Due passi della Repubblica esprimono con chiarezza la tensione che la

sua stessa esistenza come atto discorsivo instaura tra la frustrazione dell’i

nutilità e dello scacco da un lato, e l’aspirazione a una efficacia anche im

mediata, al di là dell’impossibilità teorica di definire scadenze temporali

determinate. Il primo (vi 496c-497a) evoca l’amarezza della solitudine

“socratica” e del suo dilemma. Intervenire in difesa della giustizia nell’a

gone politico in un ambiente ostile e senza «alleati» (symmachoi) com

porta il rischio di andare a morte «prima di aver giovato a sé e agli amici,

risultando inutile a sé e agli altri». Ma d’altra parte la scelta della «tran

quillità» (hesychia), della protezione dell’integrità personale, risulta for

se inevitabile ma al tempo stesso malinconica e insufficiente: non si sarà

certo realizzato in questo modo, dice Platone, «il massimo» (ta megista),

mentre in una potiteia adeguata l’uomo giusto potrà mettere in salvo le

sorti comuni insieme con le proprie. Si profila così di nuovo la situazione

di un circolo vizioso, perché questa politeia non potrà mai esistere senza

l’assunzione di quel rischio da parte del giusto. Se a livello autobiografico

l’esperienza platonica a Siracusa può aver rappresentato un tentativo di

spezzare quel circolo, esso si ripropone, ma in forme diverse, in un secondo

luogo della Repubblica (ix 59za-b).

Il filosofo, dice Socrate, consentirà a svolgere un’intensa attività politi

ca nella sua propria città, ma non nella patria storica, a meno di una « sorte

divina». Glaucone interpreta queste parole nel senso di un’allusione alla

potis delineata fin qui en logois, che di fatto non esiste. Si tratta in effetti,

concede Socrate, di un «paradigma in cielo». Ma aggiunge che la sua

immediata efficacia non va dilazionata all’attesa, e alla possibilità, che esso


per

un

i6o IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA i6x

si realizzi in qualche luogo o in qualche futuro (59ib4). Essa agisce già ora

in chi voglia vederlo, e, vistolo, voglia su questa base «insediarvi se stesso»

(rzurà-v iccttonc(trv), riorientare in direzione di questo modello la propria

intenzionalità etico-politica.

Questo soggetto riorientato — si conclude così il libro ix — «farà sol

tanto le cose di questa città, e di nessun’altra» (59zb4- 5).

L’espressione è ambigua. Se viene intesa nel senso che l’uomo orientato

verso il paradigma parteciperà alla politica solo nella kaltzpolis, si riprodu

ce il circolo vizioso di cui si è già detto, perché senza la sua azione la katti

polis non esisterà mai. Ma «fare le cose» della nuova città (che costituirà

comunque l’unico contesto adeguato per la politica dell’uomo che si ispira

al «paradigma in cielo») può anche significare «agire in vista di essa», e

non in conformità a quella esistente. Il diniego del consenso a quest’ulti

ma è in ogni caso già un atto politico, compiuto qui e ora, che richiede cer

to per il suo successo una theia tyche (59za8-9)’; ma questo stesso atto non

sarebbe possibile senza l’orizzonte di riferimento al «paradigma in cielo»,

che in questa capacità di distacco critico e di orientamento trova così la

misura della sua efficacia immediata, presso coloro che esso è riuscito a

convincere. In questa immediatezza si produce la «vergogna» platonica

per la disgiunzione di logos ed ergon, l’impazienza psicologica — testimo

niata a più riprese anche da Glaucone — una realizzazione che la teoria

può invece presentare come indefinitamente dilazionabile nei tempi e nei

luoghi della storia.

La politica dell’utopia

La discussione sull’impegno politico personale di Platone ha conosciu

to un movimento oscillante fra le sopravvalutazioni tipiche degli anni

Trenta, ad esempio in autori così diversi tra loro come Wilamowitz e Diès

(«Platon n’est venu à la philosophie que par la politique et pour la po

litique»)5’, e le altrettanto eccessive sottovalutazioni, pur con differenti

sfumature, proprie degli anni recenti52, e parallele al rifiuto del carattere

politico della Repubblica. Va detto, in primo luogo, che questo confronto

critico non è stato e non è esente da equivoci e anche da pregiudizi (in

parte gli stessi che come si è visto pesano sull’interpretazione della natura

della Repubblica).

Non c’è in effetti bisogno di nessuna attività “pratica” per considerare

l’autore della Repubblica — come ad esempio quelli del Discorso sulle ori

gini dell’ineguagtianza o del Capitale — politico in senso forte: basta, a

configurarlo come tale, l’atto autorevole ed efficace della costruzione teo

rica del testo.

Rispetto a questa, il problema dell’impegno personale di Platone nella

politica è una questione morale e psicologica di indubbia rilevanza biogra

fica, che va però considerata soltanto tangenziale, seppure naturalmente

non priva di rapporti, rispetto al senso dell’opera teorica. Una ulteriore

cautela è imposta in questo caso dalla necessità di ricorrere alla testimo

nianza autobiografica della Lettera VII, la cui autenticità può difficilmente

essere ormai messa in dubbio, ma che deve in ogni caso venire utilizzata

con una certa prudenza esegetica.

Gli equivoci di cui si è detto possono forse venire chiariti ricorrendo, in

modo impregiudicato, alle evidenze disponibili, sia testuali sia contestuali.

a) È da escludere che Platone sia mai stato, né abbia inteso essere, un po

litico direttamente impegnato nella contesa per il potere alla maniera di

Pericle, Teramene o Crizia.

b) È certo per contro che le origini familiari, le tradizioni e l’ethos dell’a

ristocrazia ateniese spingevano Platone precisamente in questa direzione,

come è confermato dalla Lettera VII (314c, 32.5a, 3;6a). Da questo punto di

vista, il vero trauma nella vita di Platone dovette consistere nella rinuncia

al consueto cursus politico in Atene. Una rinuncia probabilmente vissuta

come lesiva della sua stessa autoimmagine di katos kagathos, oltre che della

sua dignità morale, se è vero che la «vergogna» derivante dall’esser consi

derato come uomo capace solo di parole e non di azione terga) lo indusse

ad accettare, nel 367, la sfida del secondo viaggio in Sicilia (Ep. vii 328c).

c) È altrettanto certo che Platone ha dedicato, lungo l’intero corso della

sua vita, memorabili interventi teorici alle questioni della politica. Che sia

esistita o no una proto-Repubbtica, intorno al 390 (come risulta da Ari

stofane) dovevano esser noti i lineamenti di un precoce disegno utopico

ricostruttivo simile a quello del libro v della Repubblica; se è affidabile la

posteriore autotestimonianza della Lettera VII (316a-b), è di questo stesso

periodo l’idea di un potere filosofico come terapia dei mali sociali. Alla

stessa fase appartiene il risoluto attacco del Gorgia alla tradizionale lea

dershzp della politica ateniese. In seguito, la politica fu al centro, in forme

diverse, di grandi dialoghi come la stessa Repubblica, il Politico, le Leggi,

nei quali inoltre è possibile leggere le tracce di una costante discussione su

questi temi all’interno dell’Accademia.


che

162. IL POTERE DELLA VERITÀ

BELTISTA EI?ER DYNATA 163

ci) È inoltre indubbia la massiccia partecipazione di discepoli dell’Acca

demia, sia pure in forme suscettibili di interpretazioni assai diverse, alle vi

cende politiche del mondo greco del iv secolo, con la rilevante eccezione

di Atene.

Da queste evidenze è possibile trarre qualche conclusione forse meno

esposta ai pregiudizi e agli equivoci consueti nel dibattito interpretativo.

La politicità di Platone è certamente consistita in primo luogo nell’o

rizzonte di una trasformazione etica della società, da conseguire mediante

una strategia di rieducazione collettiva. Questa stessa prospettiva com

portava però direttamente un’inevitabile proiezione politica, sia perché

nell’intera tradizione dell’ethos pubblico dei Greci etica e politica non

erano affatto separabili (basti pensare che Aristotele stesso considerava

l’Etica Nicomachea come un «trattato di politica», i i iobxi ), sia per

ragioni più vicine al nucleo del pensiero platonico. La nuova impresa edu

cativa non poteva che essere il risultato di uno sforzo collettivo program

mato e attuato al livello della polis, come del resto lo era stata la paideia

tradizionale della città greca. Inoltre, Platone era convinto (al contrario

di Aristotele) che nessun progetto rieducativo potesse aver successo senza

trasformare le basi strutturali della società — come l’oikos e la proprietà

privata — agivano in controtendenza rispetto a esso. Etica, educazione

e politica (nel senso proprio di gestione del potere legislativo della città)

non potevano così che risultare solidali nella prospettiva platonica. Que

sto nesso porta direttamente al nucleo della politicità dell’esperienza pla

tonica: la questione dell’accesso al potere necessario per rendere possibile

ed efficace il progetto di trasformazione etica ed educativa della comunità.

Il “realismo” politico di Platone consiste precisamente nella consape

volezza che la disponibilità di un punto di forza è la condizione indispen

sabile per qualsiasi prospettiva di efficacia progettuale. La costituzione

dell’Accademia mirava certamente anche a formare quel gruppo di sym

machoi e hetairoi senza i quali l’uomo giusto è condannato alla solitudine

impotente descritta nel libro vi (496c-d; cfr. Ep. vii 3z5d).

Ma la probabilità che esso possa conquistare il consenso di massa ne

cessario per l’accesso al potere dei filosofi, benché teoricamente non esclu

sa, dovette apparire tanto remota a Platone e agli accademici da indur

li a rinunciare a qualsiasi tentativo in questo senso nel contesto politico

ateniese. Nonostante la prospettiva del potere filosofico sia dal punto di

vista teorico presentata come equivalente a quella della conversione alla

filosofia dei dynastai, è dunque quest’ultima a venire decisamente privile

giata su1 piano delle probabilità concrete. Se è vero che il potere filosofico

rappresenta nel pensiero platonico la «fine della politica» intesa come

competizione per il governo, è anche vero che questa fine può essere attua

ta soltanto da un ultimo e risolutivo atto di forza da parte di un potente,

re o tiranno che sia, convinto a diventare strumento per un progetto che lo

supera e ne abolisce la futura legittimità.

Nel logos della Repubblica i tempi e i luoghi dell’avvento di un simile re

o tiranno disponibile alla conversione filosofica sono per principio lasciati

indefiniti. Ma è comprensibile che nella concreta esperienza personale di

Platone e di alcuni accademici, fra i quali in primo luogo Dione, questa

indeterminazione teorica precipitasse invece nella speranza che quell’avvento

potesse prodursi a breve scadenza e in un luogo ben determinato.

Su questo terreno prese certamente forma la disponibilità di Platone

alle rischiose imprese siracusane, nell’ansiosa ricerca di una figura di tiran

no disponibile a realizzare almeno un embrionale esperimento di trasfor

mazione morale della società e della politica.

L’ingenuità e la mancanza di realismo “machiavellico”6, di cui spesso

è stato tacciato il tentativo platonico, vanno interamente ricondotti alla

comprensibile esigenza, psicologica e morale, di dar corso nella prassi

all’attesa di efficacia propria di un atto discorsivo come il logos della Re

pubblica. Quanto ai ripetuti “fallimenti” di Platone, essi risultano tali solo

se il suo coinvolgimento politico viene inteso, alla maniera di personaggi

quali Crizia o forse lo stesso Dione, come un tentativo di conquistare

munque posizioni di potere nell’impervia situazione siracusana.

Se invece il tentativo platonico viene compreso nella sua dichiarata

radicalità, cioè come destinato all’unico scopo di saggiare la disponibili

tà dei tiranni siracusani alla conversione filosofica e al conseguente pro

getto di trasformazione della società, il suo mancato successo costituisce

soltanto una sorta di verifica sperimentale della difficoltà di realizzazione

dell’utopia che la Repubblica sancisce a livello teorico. Il fatto che i viaggi

di Platone a Siracusa accompagnino tutto il processo di elaborazione della

Repubblica significa che Platone riteneva quella verifica così importante

e imprescindibile da non abbandonarla nonostante le difficoltà via via ri

scontrate (benché da ultimo egli si fosse probabilmente convinto che il

massimo risultato conseguibile non andava oltre una normalizzazione le

gislativa della politica siracusana).

L’attesa dell’avvento del re-filosofo, così efficacemente preconizzato

nella Repubblica, non era del resto destinata a concludersi con l’esperien


164 IL POTERI DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA 165

za biografica di Platone. Essa avrebbe per contro durevolmente segnata la

storia del platonismo, se è vero che gli ultimi accademici avrebbero lasciata

Atene, come racconta Agatia, per mettersi in viaggio alla volta della remo

ta Ctesifonte, nella speranza che sotto il regno di Cosroe si fosse finalmen

te realizzata «l’unione del regno con la filosofia» tu zo.)7.

Note

i È irrilevante ai fini di questo discorso stabilire se l’utopia del libro v appartenga a

una “proto-Repubbtica”, nota già prima del 390, secondo la tesi cara a H. Thesleff, The

Earty Version offtato’sRepubtic, in “Arctos”, XXXI, 1997, pp. 149-74,0 piUttoSto a una

rielaborazione di “alto livello” dell’utopia filo-spartana dei libri in-iv come sostie

ne D. Dawson, Cities ofthe Gods: Communist Utopias in Greek Thought, New York-

Oxford 199;, pp. 75 ss. il Timeo costituisce certamente un termine ante quern per la

conoscenza da parte dei lettori di Platone di questo tema teorico.

a. Per una utile distinzione fra i concetti di utopia, paradigma, ideale e progetto cfr.

C. Quarta, La ‘Repubblica” di Platone: utopia o stato ideate?, in “Idee’ VIII, 1993,

103-14; Id., Paradtgina, ideate, utopia: tre concetti a confronto, in A. Colombo

.

(a

cura di), Utopia e distopia, Milano 1987, pp. 175-201. Per la differenza fra utopie di

evasione e utopie ricostruttive cfr. anche M. I. Finley, Utopie antiche e moderne, in Id.,

Uso e abuso detta storia (‘9), trad. it. Torino 1981, pp. 267-89. Per una definizione

critico-progettuale dell’utopia cfr. A. M. Jacono, L’utopia e i Greci, in S. Settis (a cura

di), IGreci, Torino 1996, voi. I, pp. 883-900.

3. Cfr. in proposito vl. Vegetti, L’autocritica di Platone: il “Timeo” e te “Leggi”, in

M. Vegetti, M. Abbate (a cura di), La ‘Repubbtica”di Platone netta tradizione antica,

Napoli 1999’ p. 13-2.7.

4. Cfr. R. Stalley, Aristotte on Plato’s Repubtic, in Vegetti, Abbate, La Repubblica di

Platone, cit., pp. 29-48; cfr. anche M. Abbate (a cura di), Proclo. Commento atta Re

pubblica (diss. vii-x), Pavia 1998.

I. Kant, Critica detta ragion pura. Dialettica trascendentale,

.

libro I, sez. I, trad. it. a

cura di P. Chiodi.

6. In questo senso cfr. L. Berteili, L’utopia greca, in L. Firpo (a cura di), Storia det

te idee politiche, economiche e sociali, Torino 198;, vol. I, pp. 463-58 I (in particolare

pp. 473-4, 533-8); anche Id., Paradzgmi ptatonici, in V. I. Comparato (a cura di), Mo

delli netta storia del pensiero politico, vo1. i, Firenze 1987, pp. 49-87 (per una diversa

posizione di questo autore cfr. infra, nota zo). Per l’interpretazione dell’utopia plato

nica come “orizzonte logico-normativo” cfr. anche G. Cambiano, Platone e te tecniche,

Roma-Bari I99I, p. 145.

L’edizione Garniron-Jaeschke reca «das griechische

.

Staatsleben, diese griechische

Sittlichkeit», e aggiunge il riferimento al «Volk»: cfr. G. ‘W. F. Hegel, Platone, a cura

diV. Cicero, Milano 1998, p. ;86.

8. Id., Lezioni di storia detta filosofia, I, III, A, 3, trad. it. a cura di E. Codignola,

G. Sanna. Per la versione del testo Griesheim, cfr. Id., Lezioni su Ptatone (i25-i’26), a

cura diJ.-L. Vieillard-Baron (1976), trad. it. Milano (cfr. p. 153 per il testo, p. 67

per l’introduzione).

Per una ricostruzione di questa vicenda cfr. M. Isnardi Parente, Teoria e pratica

.

nel pensiero di Platone, e Id., Aristocraticismo, canseruatorismo, assolutismo in Plato

ne, in E. Zeller, R. Mondolfo, Lafilosofia dei Greci, parte Il, voi. III!;, firenze 1974,

pp. 564-83, 604-24. Cfr. anche F. Franco Repellini, Note sut “Ptatonbitd” det terzo

umanesimo, in “Il pensiero”, XVII, 197;, pp. 91-1;;.

,o. Cfr. Dawson, C’ities ofthe Gods, cit., p. 67 (anche PR. 64-70).

ii. Cfr. K. Popper, La societii aperta e i suoi nemici trad. it. Roma 1986.

Popper poteva del resto riferirsi alla valorizzazione filonazista di Platone in Germa

nia: cfr. L. Canfora, Ptaton im Staatsdenken der Weimarer Repubtik, in H. funke

(Hrsg.), Utopia und Tradition. Ptatons Lehre vom Staat in der Moderne, Wùrzburg

1987, pp. 133-42..

i;. Cfr. ad esempio D. Levinson, In Defense ofPtato, Cambridge (MA) I 953;R. Brum

baugh (ed.), Plato, Popper and Potitics, Cambridge-New York 1967. Su questa linea

cfr. G. Vlastos, The Theory ofSocialJustice in the Potis in Ptatos Repubtic, in H. f.

North (ed.), Interpretations ofPtato, Leiden 1977’ pp. 1-40 (con l’equilibrata replica

di L. Brown, How Thtatitarian is Ptato’s Repubtic?, in E. N. Ostenfeld (ed.), Essays on

Ptato ‘s Repubtic, Aarhus 1998, pp. 13-27). Per esempi recenti di questo wishfutthinking

liberai-democratico cfr. Ch. L. Griswold, Le libératisme platonicien: de la perfection

individuette cornmefondement d’une théoriepotitique, in M. Dixsaut (éd.), Contre Pta

tOri. 2, Paris 1995, pp. ‘55-95; R. iviuller, La doctrineptatonicienne de ta tiberté, Paris

1997.

13. Cfr. H. G. Gadamer, Lznima atte soglie del pensiero netta filosofia greca (1983),

trad. it. Napoli 1988, PR. 61-91 (la citazione alle pp. 63-4).

14. Cfr. 5. Rosen, Introduzione atta Repubblica di Platone (1941), trad. it. Napoli

1990,

19.

.

L. Strauss, The City andMan, Chicago (IL) 1964 (sulle posizioni di Strauss

Cfr.

,.

cfr. la recensione critica di M. Burnyeat, Sphinx without a Secret, in “The New York

Review ofBooks”, May 30, 1985, PR. 30-6, e la nota più cauta di G. Giorgini, Leo

Strauss e ta ‘Repubblica” di Platone, “Filosofia Politica”, v, 1991,

pp. 153-60). A una

linea straussiana è ispirato il commento di A. Bloom, The Republic ofPtato, New York

‘i’ (cfr. pp. 381, 39;). Ma cfr. già I. M. Crombie, An Examination ofPtato’s Doctri

nes, voi. I, London 196;, PR. 73 ss. L’impossibilità di prendere alla lettera le proposte

platoniche sulla famiglia (note dal riassunto del Timeo) era dei resto già stata soste

nuta nel Medioevo: ad esempio Bernardo di Chartres pensava si dovesse interpretarle

per involucrum o in tegumentum (cfr. P. E. Dutton, ed., The Glosae super Timaeum of

BernardofChartres, Roma s.d., p.

i6. Cfr. E. Voegelin, Ordine e storia (1966), trad. it. Bologna 1986, pp. 14$ ss.; F. E.

Sparshott, Plato asAnti-Potitical Thinker, in “Ethic”, LVII, 1967, PR. 214-9.

17.

J. Annas, Potitics and Ethics in Ptato’s Repubtic, in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Po


i66

IL POTERE DELLA VERITÀ

BELTISTA EIPER DYNATA 167

titeia, Berlin pp. 141-60 (le citazioni alle pp. 145, 152-3, 156-7). Questa posizio

ne comporta naturalmente il rifiuto (senza addurre argomenti) dell’autenticità della

Lettera vii, che conferma l’intenzione politica della Repubblica.

x8. R. Waterficld (ed.), Ptato. Repubtic (transl. with Introd. and Notes), Oxford

19. Per qualche recente equilibrata messa a punto sulla questione del carattere poli

tico della Repubblica, cfr. invece Dawson, Cities ofthe Gods, cit., pp. 71, 93; 0. Hùffe

Einft.hrung in Flatons Politeia, in Id., Plato. Politeia, cit., pp. 3-18 (in particolare

pp. io ss.).

io. L. Bertelli, L’utopia, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza (dir.), Lo spazio

letterario delta Grecia antica, vo1. i, t. i, Roma 1992, pp. 493-524 (la citazione alle

pp. soo-).

zi. Cfr. N. Blùssner, Dialogform und Argument: Studien zu Platons “Politeia”,

Stuttgart 1997, pp. 190 55., 212; per il riferimento a Popper cfr. anche la sintesi del

lo stesso autore, Kontextbezogenheit und Argumentative funktion: Methodische

Anmerkungen zur Platondeutung, in “Hermes”, CXXVI, 1998, pp. 189-101 (in parti

colare p. zoi). Per una particolare versione dell’interpretazione dialogica, secondo

la quale Platone avrebbe riferito ma non condiviso l’utopia razionale di Socrate per

ché questa ignorava l’anima irrazionale, cfr. R. 5. Brumbaugh, ReinterpretingPlato’s

Republic, in Id., Platonic Studies ofGreek Philosophy, Albany (NY) 1989, pp. 15-87 (in

particolarepp. 25, 36).

zi. Isnardi Parente, Aristocratismo, cit., pp. 613-4.

23. Cfr. la lettera a Strauss del Is maggio 1958 (in M. Vegetti, Introduzione a A. Kojève,

L’imperatore Giuliano e l’arte della scrittura, 1964, trad. it. Roma 1998, p. 9).

24. Cfr. M. Burnyeat, Utopia and fantasy: The Practicability ofPtato’s IdeallyJust

City, in J. Hopkins, A. Savile (eds.), Psychoanalysis, Mmd and Art, Oxford 1992,

pp. 175-87. Cfr. anche brevemente A. Demandt,Derldealstaat, Kòln pp. 105-6.

z. Così Burnyeat, Utopia andfantasy, cit., p. 178.

z6. Bertelli,L’utopia greca, cit., p. 533.

27. Burnyeat, Utopia and fantasy, cit., p. 177.

z8. Finley, Utopie antiche e moderne, cit., p. 270.

29. Bertelli, L’utopia, cit., p. 500; Dawson, Cities ofthe Gods, cit., p. 71’ parla di « stan

dard to follow». Sulla questione cfr. ora le convincenti osservazioni di Ch. Rowe,

Myth, History and Dialectic in Plato’s Republic and Timaeus-Critias, in R. Buxton

(ed.),fromMythtoReason?, Oxford 1999’pp. 263-78 (inparticolarepp. 269-70).

30. Cfr. A. Laks, Legislation andDemiurgy: On the Relationshz Between Plato’s Re

publicandLaws, in “ClassicalAntiquity”, IX, 1990, pp. 209-29. Le posizioni di Laks

risultano più articolate (nel senso di distinguere il punto di vista della Repubblica

da quello delle Leggi) in The Laws, in C. Rowe, M. Schofield (eds.), The Cambrid

ge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge zooo, pp. 258-92, e in

Platon, in A. Rénaut (éd.), Histoire de la philosophiepolitique, tome i, La liberté des

Anciens, Paris 1999, pp. 57-125. Nel primo, il rapporto di Leggi con Repubblica è vi

sto come «completion, revision, implementation»; nel secondo, la “lacuna” della

Repubblica risulta tale dal punto di vista delle Leggi, che per prime ne decretano lo

statuto utopico. Condivide con opportune sfumature le tesi di Laks M. Schofield,

The Disappearing Philosopher-King, in Id., Saving the City, London-New York

pp. 31-50.

31. È interessante notare che la stessa espressione (rhasta/tachista) compare nelle

Leggi a proposito della realizzazione della aristepoliteia a opera di un buon tiran

no consigliato da un adeguato legislatore (Iv 7iod): il potere si sostituisce qui al

progetto educativo. Va inoltre notato che la katharsis della città nella Repubblica

appare decisamente più mite di quella prospettata in fol. z93d s., dove gli archontes

dotati di scienza ricorrono all’uccisione, espulsione e deportazione di parte del

la cittadinanza. Per la riduzione in schiavitù dei cittadini indesiderabili cfr. anche

309.

32. Cfr. L. Canfora, Crizia prima dei Trenta, in G. Casertano (a cura di), Ifilosofi e

il potere nella societtì e nella cultura antiche, Napoli 198$, pp. 29-41 (la citazione alla

p. 32). È interessante notare che un allievo di Platone e dell’Accademia, Chairon, di

venuto tiranno di Pellene, sembra abbia attuata una variante di “sinistra” del program

ma criziano, con l’espulsione degli aristoi e la distribuzione agli schiavi dei loro beni

e delle loro donne. Cfr. Ath. 508c-509e e K. Trampedach, Platon, dieAkademie und

die zeitgeniissische Politik, Stuttgart 1994, pp. 6--; M. Isnardi Parente, L4ccademia

antica e la politica delprimo Ellenismo, in Casertano, Ifilosofi e ilpotere, cit., pp. 89-117

(in particolare p. 103).

Un’altra contrapposizione fra stato attuale delle cose e progetto della Repubblica

compare in PoI. il iz6ia$ 5.: quest’ultimo risulta ad Aristotele, fra tutti i disegni

costituzionali, il più lontano dalla situazione storica (ii I266a31 ss.). Una prova

dell’indesiderabilità e dell’impossibilità dell’utopia della Repubblica consiste secon

do Aristotele appunto nel fatto che niente di simile è mai stato scoperto e sperimen

tato nel corso del tempo passato (ii 1264al ss.). Anche per un altro esponente del

moderatismo dcliv secolo, Isocrate, non si tratta di inventare leggi nuove ma di sce

gliere le migliori fra quelle che esistono (Antidosis $3).

Cfr. in proposito Cambiano, Platone e le tecniche, cit., pp. 145-6.

3. Sul tema cfr. J. F. M. Arends, Die Einheit der Polis, Leiden 198$, pp. izo ss.

36. Sul tema cfr. 5. Campese, Pubblico e privato nella Politica di Aristotele, in

“Sandalion”, VIII-IX, 1985-86, pp. 59-83 (in particolare p. 7°); anche M. Vegetti, L’io,

l’anima, il soggetto, in Settis, I Greci, vo1. I, cit., pp. 431-67 (in particolare pp. 452 ss.).

37. Arends,DieEinheitderPolis, cit., p. 183.

38. Laks, Platon, cit., p. 83. Sulla delimitazione del «comunismo platonico» al

solo gruppo dirigente ha fortemente insistito Isnardi Parente, Aristocraticismo, cit.,

pp. 647-9.

Non mancano infatti cenni di una propensione di Aristotele, di fronte a queste

difficoltà, a interpretare in senso universalistico (cioè di proprietà comune della terra

e dei beni) il comunismo platonico: cfr. fol. li 3 ,6,bl$ ss., 1z63a$, iz63bl5 ss. Sulla

fondatezza di questa interpretazione aristotelica cfr. R. F. Stalley, Aristotle’s Criticism


i68 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA 169

ofPtato’s Repubtic, in D. Keyt, F. D. Miller (eds.), A Companion to Aristotte’s Potitic,

Cambridge (MA) 1991, pp. 181-99 (in particolare p. 185); R. Mayhew,Aristotte’s Criti

cism ofPtato’s Repubtic, Lanham 1997.

40. Insistono su questo punto, in relazione agli altri passi che prospettano una ten

denziale universalizzazione della forma di vita comunistica, R. von Pòhlmann,

schichte der Soziaten frage unti des Soziatismus in der antiken Weit, Mùnchen 1915,

vo1. I, pp. 420, 605, VOI. Il, pp. 75 55.; e P. Natorp, Gesammeite Abhandtungen zar

Soziatpddagogik, Stuttgart 1907, voi. i,pp. 1-36.

41. Cfr. E. Barker, Greek Fotiticat Theory, London (191$) I97o, p. zo; anche G.

Klosko, TheDevetopment ofPtato’sPoiiticat Theory, New York-London 1986, pp. 141-9.

42. Questa conseguenza è delineata da Aristotele, quando prospetta la trasforma

zione dei ptjylakes in una guarnigione armata (phrouroi) per far fronte all’ostilità dei

proprietari privati della terra (Poi. ii 1164a26).

43. Questa delega del lavoro agli schiavi è invece chiaramente prevista nelle Ecctesia

zuse di Aristofane, VV. 651-65;.

Per questo dibattito, cfr. R. Bodéùs, Pourquoi Flaton a-t-it compose les Lois,

in “Etudes classiques’ LIII, 1985, pp. 367-72; Dawson, Cities ofthe Gods, cit., p. 89;

Vegetti, L’autocritica diP/atone, cit.

s. Una intelligente problematizzazione di questi temi, in relazione all’antiplatoni

smo di Popper e Russeli, in R. Maurer, De t’antzplatonismepolitico-philosophique mo

derne, in Dixsaut, Conti-e Flaton. 2, cit., pp. 129-54 (in particolare pp. 143-51).

46. Utili osservazioni in questo senso in A. Ophir, Piato’s Invisibte Cities, London

1991, pp. 3’ 100 Ss. (su questo libro cfr. però le riserve di N. Pappas, Ptato’s Inuisibie

Cities, in “Ancient Philosophy”, Xiii, 1993, pp. 417-30).

Cfr. Burnyeat, Utopia and fantasy, cit., p. 184. Si tratta di immaginare una possi

bile uscita dalle «parochial perspectives ofeveryday existence» (p. 185).

4$. Alla luce di questo passo, non appare fondata l’affermazione di M. Isnardi Pa

rente, filosofia e politica nette lettere di Platone, Napoli 1970, p. 195, secondo la quale

«il filosofo antico [e Platone in particolare] non avverte alcuna esigenza di coerenza

“ideologica” fra posizioni teoretiche e impegno pratico».

A differenza di Burnyeat, Utopia and fantasy, cit., p. 177, non credo che il «pa

radigma in cielo» sia da riferirsi all’ordine visibile degli astri che dev’essere trasferito

nell’anima. Ouranos vale comunemente nellaRepubblica come metafora dello spazio

noetico (cfr. «gli dèi del cielo» (il sole) in vi 50$a4 rapportati al bene in o$ci;

anche VII 516a9). In VII 5z9d7 s. Platone afferma che gli «ornamenti del cielo», cioè

gli astri, devono essere usati come paradeigmata (esempi) degli oggetti ideali dell’a

stronomia geometrizzata. Non c’è quindi un valore paradigmatico del cielo rispetto

alle vicende umane, ma esso costituisce un rinvio al livello delle idealità matematiche.

Anche nel nostro passo, il «paradigma in cielo» sembra dunque costituire un rinvio

alla dimensione etico-ideale del bene.

50. Questa espressione non significa certamente l’attesa di un intervento provviden

ziale nella storia, ma di un propizio e fortuito insieme di circostanze (cfr. vi 499b5;

Ep. vii 316e, e, per un uso parimenti debole, ad es. Hdt. iii 139.3). Per la «necessità»

(ananke) che può indurre il filosofo ad agire nella dimensione pubblica, senza limi

tarsi a «forgiare sé stesso» (ti a6v0v icuràv 7r)&TTE1v), cfr. VI 5oodò. Questa possi

bilità esclude l’interpretazione di Adam che interpreta heauton katoikizein nel senso

interiorizzante di “found a city in himself’ Questo però non è in Platone né in greco

il senso di katoikizein + accusativo, che vale invece “insediare qualcuno in qualche

luogo” (tipicamente di una colonia): cfr. ad es. Resp. 543b;; 579a5.

i. Nella celebre biografia di U. von Wilamowitz, Platon, Berlin 1919, cfr. nel voi. i le

pp. 4zI ss., 641 55., nel voi. il le pp. z8i ss. La citazione di A. Diès è dall’Introduzione

aPtaton. La Répubtique, Paris 1932 (1989), p. v.

z. Cfr. fra gli altri Isnardi Parente, fitosofia epolitica, cit., pp. 171 Ss.; P. A. Brunt, Pia

to’s Academy and Politics, in Id., Studies in Greek History and Thought, Oxford

pp. 181-341 (pp. 303, 331); Trampedach, Ptaton, cit., che parla di un Platone meta- e

antipolitico ma non «Unpolitisch» (pp. 278-9).

Cfr. in proposito, oltre alle opere citate alle note 1, 30 e 44, D. Nails, Agora,

Academy, and the ConductofPhitosophy, Dordrecht 1995,

pp.

116, 223 55.

Cfr. l’imponente documentazione raccolta nella parte i del libro di Trampedach,

Platon, cit.

Così in ivi,

.

pp. 111-1; per l’effettiva prevalenza della possibilità del re-filosofo cfr.

anche Arends, Die Einheit dei- Polis, cit., p. z; K. von Fritz, Platon in Sizitien unti

das Probtem derPhilosophenherrschafi, Berlin 1968, p. 15.

6. Su questo tema ha insistito von fritz, Platon in Sizitien, cit., pp. 17, 115 ss. Sull’e

sperienza siracusana cfr. l’acuta riflessione di L. Canfora, Ilfallimento di Platone, in

“Micro-Mega”, 4, 1999,

pp. “7-37.

Sulle interpretazioni neoplatoniche della memoria del filosofo-re cfr. D. O ‘Meara,

Conceptzons néoptatoniciennes duphitosophe-roi, in A. Neschke (éd.), Images dePlaton

et tectures de ses oeuvres, Tournhout 1997, pp. 35-50.


cioè

che

7

Il tempo, la storia, lutopia*

All’inizio: la kallrpotis

La struttura compositiva dei libri viii e Ix della Repubblica pone imme

diatamente un problema: perché la kallzolis — la forma compiuta di

una società umana governata secondo giustizia — compaia all’inizio della

“storia”, anziché al suo termine, come era accaduto nel primo movimento

del dialogo, dal libro ii al v. Va detto, naturalmente, che si parla qui di

“storia” sia nel senso di totalità del tempo umano (quale è menzionata a

più riprese nel libro vi, 486a8-9, 49$d5, 499c8-9, 5ozbi)’, sia in quello di

“racconto”, mythos, narrato nel dialogo (cfr. in questo senso ii 376d), non

certo in quelli di una ReaIgeschichte, alla maniera tucididea (sebbene certo

non manchino con questa punti di intersezione), e tanto meno di una “fi

losofia della storia’ che è del tutto assente in Platone.

Il problema tuttavia resta: perché, dunque, la kallrpolis è situata ora

all’inizio e non alla fine dei tempi?

Ci sono, in primo luogo, due importanti funzioni argomentative. Sulla

prima di esse gli interpreti hanno ampiamente insistito. Poiché lo scopo

d’insieme dei due libri è quello di mostrare — rispondendo definitivamen

te al problema posto nel libro ii da Glaucone e Adimanto — la giustizia

è remunerativa in termini di felicità individuale e collettiva, la figura della

città e dell’uomo perfettamente giusti andava evocata per fornire il para

metro di misura, il criterio di valutazione delle forme di vita via via più di

stanti da essa, fino a quelle della città e dell’uomo tirannici, perfettamente

ingiusti e perciò perfettamente infelici: uno standard di riferimento, dun

que, un Ideattypus con cui contrastare le figure dell’ingiustizia’.

Altrettanto importante — almeno per chi attribuisca a Platone la con

* Questo capitolo è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e com

mento a cura di M. Vegetti, voi. v, 11. vi-vii, Bibliopolis, Napoli 2003.


come

il

da

cosa

172. IL POTERE DELLA VERITÀ

IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘73

vinzione che il progetto utopico sia in qualche misura praticabile _3 risulta

una seconda funzione argomentativa. Nel libro VI Socrate aveva indicato

tre possibili dimensioni temporali per l’esistenza della kattrotis: «nell’in

finito tempo passato, o anche oggi in qualche regione barbarica [...] oppu

re se accadrà nel futuro» (499c-d). Si trattava ora di proteggere la prima

ipotesi — vedremo tutt’altro che irrilevante — una possibile obie

zione: se la città dell’utopia è esistita nel passato, perché oggi non esiste

più? E reciprocamente, la sua attuale inesistenza non è prova che essa non

è mai davvero esistita?4 A questo risponde il libro VIII: se anche fosse esi

stita nel passato, la kattzpolis non avrebbe potuto durare indefinitamente

nel tempo, e la sua scomparsa non dimostra quindi la sua impossibilità.

Questo argomento è rilevante perché in 59l Glaucone avrebbe seccamente

respinta la seconda possibilità evocata da Socrate (che la città giu

sta esista ora in qualche luogo della terra). Quanto alla dimensione futura

(che sarebbe stata ancora rievocata in Leg. V 739c), essa non è più esplici

tamente ripresa nella Repubblica, se non in un’allusione del libro IX

e costituisce, come vedremo, uno dei maggiori problemi interpretativi dei

nostri due libri.

Torniamo però all’ipotesi di una ka11zolis formatasi in un remoto pas

sato, e poi inevitabilmente estinta nel corso del tempo. Essa va situata in

un contesto più ampio e trasversale, che riguarda in Platone il tema ricor

rente del tempo delle origini.

Il tempo dell’inizio

L’inizio dei tempi è di norma in Platone — secondo una chiara memoria

esiodea — tempo almeno apparentemente felice della positività. Versioni

diverse ne compaiono nel Politico, nel libro III delle Leggi e nel libro ii

della stessa Repubblica.

Nel primo di questi dialoghi, il tempo dell’inizio è contrassegnato dal

governo diretto di Crono sul mondo umano; nel secondo, da un’umanità

primitiva “sana” e non conflittuale; nel terzo, infine, da una società altret

tanto primitiva della produzione e dello scambio, esente da ingiustizia.

Dal punto di vista che ora ci interessa, queste tre situazioni degli ini

zi presentano tuttavia un tratto in comune: in nessuna di esse esiste una

condizione che si possa definire propriamente umana. Nel Politico, tutti i

bisogni degli uomini sono soddisfatti dal dio, un re-pastore che «li guida

i

I

al pascolo» (271e, z75a). Chiedendosi se fossero più felici gli uomini di

allora o quelli che vivono nel tempo attuale di Zeus, lo Straniero propo

ne un’alternativa ironica. Sarebbero certo stati felici gli uomini «allevati

[trophimoi] da Crono», se avessero dedicato il tempo libero alla filosofia;

ma se essi invece — che appare più probabile — «mentre si riempivano

fino al collo di cibi e bevande, si raccontavano tra loro e con le bestie miti

del tipo di quelli che appunto anche adesso si raccontano sul loro conto,

è molto facile decidere » sulla questione della rispettiva felicità (271c-d)5.

Nelle Leggi, un’altrettanto ironica citazione di Omero permette di pa

ragonare la vita degli uomini primitivi a quella dei Ciclopi, che non hanno

assemblee deliberanti né leggi politiche, mentre ciascuno di essi detta leg

ge a donne e figli, fuori da ogni civile consorzio. Si tratta qui di un potere

patriarcale nel quale «i più vecchi comandano, in virtù del potere tra

smesso loro da un padre o da una madre, e gli altri, seguendoli come gli uc

celli, formano un solo gregge, soggetti a leggi paterne e retti dal regno più

giusto di tutti» (III 68oa-e). Non c’è bisogno di dire che questi uomini

ignorano le leggi vere e proprie così come la scrittura, e sono sprovveduti e

ignoranti (atechnoteroi, amathesteroi) in tutte le tecniche, in primo luogo

quelle della guerra.

Quanto alla società sana del ii libro della Repubblica, è appena il caso

di ricordare che essa viene seccamente liquidata da Glaucone come una

«città di maiali» (37id), e perciò subito abbandonata da Socrate.

Queste diverse versioni dell’umanità primitiva risultano dunque am

bigue nella loro apparente positività: la condizione umana appare infatti

descritta con tratti di una sorta di animalitii pre-storica, che la distanzia

no nettamente dal tempo umano in senso proprio. In ognuno di questi

quadri, la condizione storico-umana inizia con il tempo della crisi e della

catastrofe, con l’avvento del disordine. Nel Politico, l’abbandono del mon

do da parte di Crono costringe gli uomini a «governarsi da soli e ad aver

cura di se stessi» (274c-d): vengono così, in una sorta di rivisitazione del

mito del Protagora6, le scoperte delle tecniche, delle scienze e infine della

politica. È questo il tempo di Zeus, lineare e “storico”, un tempo sulle cui

origini violente il Politico tace, ma che erano ben note tanto dalla tradizio

ne esiodea quanto dal Prometeo incatenato8.

Nelle Leggi, è la scoperta delle tecniche, soprattutto quelle metallurgiche

foriere di guerra e di stasis, a porre fine al buon tempo antico; nella Repubbli

ca, lo stesso ruolo è svolto dall’irruzione nella storia della città del lusso e del

Iapleonexia, che comporta a sua volta la comparsa degli eserciti e delle guerre.


passa

la

174 IL POTERI DELLA VERITÀ

Il tempo propriamente umano inizia dunque con l’esplosione della

crisi, del disordine, del conftitto — insomma, dal punto di vista antropo..

logico, della pleonexia. Solo a partire di qui vengono prodotti i saperi, la

filosofia, la politica: insomma le tecniche umane per governare il disordine

dopo la catastrofe delle origini. E con esse nascono — secondo un flesso

tipico dell’artificialismo platonico — le figure destinate a questo governo

del disordine: appunto il filosofo, il politico, il legislatore.

La kattzotis della Repubblica, in quanto realizzazione compiuta di

questo governo del disordine, che consegue finalmente un controllo po

litico e psicologico sulla pteonexia, appare dunque collocata logicamente

non all’inizio ma al termine del processo, come pieno dispiegamento della

condizione storico-umana. Tuttavia, se la si considera dat punto di vista

delta crisi, essa può anche apparire come un inizio, in quanto questa stes

sa crisi può venir pensata come un effetto della sua disgregazione, della

sua instabilità e del suo fallimento nel compito di governare il disordine.

Questo non comporta ancora, almeno per quanto riguarda la Repubblica,

una visione ciclica del tempo storico-umano, perché la stessa realizzazione

della kallzpotis non è che una possibilità bensì latente in questo tempo,

ma tutt’altro che necessitata da esso, che potrebbe dunque permanere nel

disordine delle sue origini.

Lo spostamento di prospettiva, che disloca la città dell’ordine giusto

non alla fine ma all’inizio del tempo umano, diventa invece, nel linguag

gio mitico del Timeo, una «verità» (z6c7-d;) che colloca senza incertezze

una kalttolis, dai tratti simili se pure contraffatti rispetto a quella della

Repubblica (basti pensare alla sostituzione dei filosofi-re con un ceto sacer

dotale, novemila anni prima di Socrate e Crizia (la sua distruzione

24a)0,

sarebbe qui stata dovuta a un cataclisma naturale, e non a una instabilità

strutturale).

Né l’ambigua collocazione della katl;polis della Repubblica (alla fine

ma anche all’inizio del tempo), né la dislocazione mitica di quella del Ti

meo in un’epoca remota, possono tuttavia fare di entrambe un’imitazione

(mimema) del regno di Crono, secondo un’allusione forse presente nelle

Leggi (IV 7i3b)”. Si tratta infatti di società altamente evolute nei saperi,

nella filosofia, nelle tecniche del governo e soprattutto della guerra: cose,

queste, del tutto ignote all’umanità “animalizzata” dei tempi di Crono.

Se mai, c’è un segnale dell’ambiguità della collocazione della kall;polis

della Repubblica sul tranquillo crinale che separa precariamente, con il suo

controllo etico-politico, due fasi del disordine nella storia umana. Rac

IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 175

conta il mito finale della Repubblica (x 6x9b-d) che l’anima di un uomo

vissuto in una potiteia ben ordinata, «inesperta di sofferenze», che ave

va acquisito la virtù non per filosofia ma per condizionamento educativo

(ethos), era la più pronta a scegliere, dopo la reincarnazione, la vita del

la «maggiore tirannide». In questo sorprendente ricongiungimento fra

i due estremi del libro VIII, che salda il principio e la fine della “storia”

della degenerazione etico-politica, è forse da leggere un’indicazione pre

cisa: il governo del disordine, una volta che sia eventualmente conseguito,

reca in sé un fattore di instabilità perché tende a sostituire la tensione “fi

losofica” verso l’ordine con forme di condizionamento educativo intese

certo a favorirne il consolidamento, ma che sono d’altra parte incapaci di

riattivarne il senso, e dunque impotenti a controllare il risorgere di quei

desideri pleonectici il cui orizzonte compiuto è il massimo disordine della

tirannide.

La decisione platonica di collocare la kallipolis nel libro VIII all’inizio

del tempo storico-umano ha dunque anche questo significato: di mostra

re che la sua eventuale realizzazione, come compimento dello sforzo di

governo del disordine, può costituire il fine di questo tempo, ma certa

mente non la sua fine (non più di quanto un altro operatore d’ordine, il

demiurgo del Timeo, possa determinare la fine dell’influenza caotica della

“necessità” nel mondo).

Una fenomenologia “dialettica”

L’instabilità del governo del disordine è resa inevitabile dal suo stesso inseri

mento nel continuum spazio-temporale, e la sua deformazione inizia quindi

nel momento stesso in cui il progetto utopico — clii esigenza è d’altronde

imposta dallo stesso disordine dei tempi — dal piano del logos a quello

degli erga. Questo è il senso del discorso delle Muse con cui si apre il li

bro VIII: un discorso certamente scherzoso, come è chiaramente indicato

in 545d-e’, ma non per questo privo di due assunti di grande importanza

teorica. 11 primo è nettamente formulato all’inizio del logos: « è difficile che

venga sovvertita una città così costituita, ma poiché per ogni cosa che è nata

vi è distruzione [yrvovc rrvTì cOopd ltt]’3, neppure una simile costru

zione resisterà per tutta la durata del tempo, ma si dissolverà» (546a).

Il secondo assunto, che chiarisce e giustifica il primo, emerge dal senso

complessivo del discorso sul “numero geometrico”: è impossibile imporre


anche

176 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘77

alla dimensione spazio-temporale un compiuto controllo perfettamente

razionale (quindi matematizzabile), quale invece è possibile per il campo

dell’ontologia eidetica (a modello appunto geometrico), il cui ordine ha

peraltro una funzione paradigmatica rispetto agli sforzi di governare quel

la dimensione (cfr. VI 500 c-d)’4.

La deformazione inevitabile — anche questo va a mio avviso preso sul

serio nel discorso delle Muse —

non riguarda soltanto la qualità etico-po

litica della società umana, ma anche la stessa qualità “biologica” del suo

gruppo dirigente, secondo il nesso circolare di perfettibilità dell’umano

che era stato proposto dall’ “eugenetica” del libro v.

Alla luce di questi due assunti generali, il libro VIII descrive in modo

più determinato le ragioni che rendono inevitabile la crisi della kattipotis

realizzata: una crisi che non può non avere inizio da quella del suo grup

po dirigente, secondo un assioma costante della teoria politica platonica

(545d, cfr. III 415c, v 465b). Nonostante la vaghezza del discorso platoni

co (547a-b) sembra che questa crisi inizi con un conflitto tra il ceto di go

verno “filosofico” e quello “militare”, o fra elementi degenerati presenti in

entrambi. Chiari sono invece i motivi e la soluzione del conflitto: c’è una

spinta incoercibile alla rtrivatizzazione (« spartirsi terra e case privatiz

zandole»), e all’asservimento del terzo ceto (« asservire, riducendoli alla

condizione di perieci e di servi, coloro che prima erano da loro difesi come

uomini liberi»): il ceto di governo assume dunque il monopolio esclusivo

della ricchezza, del potere e della guerra (547c).

Che la crisi della kattro1is assuma questa forma specifica non dipende

soltanto dai principi generali formulati nel discorso delle Muse, ma più

specificamente — se i riferimenti platonici sono di nuovo molto va

ghi, limitandosi ad accennare alle “razze” pseudoesiodee descritte nella

“nobile menzogna” del libro III (415a-b) — dalla dinamica logico-genetica

della sua formazione. Essa aveva avuto infatti origini violente, fondata

com’era sulla rieducazione di un ceto militare comparso nella città della

pteonexia; e il suo gruppo dirigente era stato costituito sulla base di un

accordo fra l’elemento razionale (togistikon) e quello collerico-aggressivo

(thymoeides), la cui fedeltà al primo, nonostante ogni sforzo di condizio

namento educativo “indelebile’ non poteva che risultare strutturalmente

precaria’5.

E, come risultava chiaramente dai timori espressi nelle analisi del li

bro IV, l’elemento timico, nell’anima come nella città, una volta rescissa la

sua alleanza con quello razionale, poteva agire sia in vista dei propri autonomi

desideri, sia al servizio di quelli inferiori, propri dello epithymetikon

(441a, 444b)’.

Nasce dunque da questa crisi la narrazione delle forme sociali e psico

logiche dell’ingiustizia, che, secondo il metodo già collaudato nel libro IV,

fa precedere le prime alle seconde, nonostante la ribadita asserzione che le

poiiteiai e le loro metabotai dipendono dal tipo di ethe dei rispettivi cittadi

ni (544d-e). Per molte ragioni, non si tratta ovviamente di una narrazione

“storica” e fattuale’.

In primo luogo, Platone si limita dichiaratamente all’analisi delle quat

tro forme costituzionali paradigmatiche, trascurando una molteplicità di

varianti secondarie pure storicamente esistenti (544c-d)’8. Ma c’è di più: la

sequenza delle trasformazioni dei regimi non è cronologicamente lineare

né necessitata (e tanto meno, come vedremo, istituisce una sincronia fra

la vicenda dell’anima e quella della città), benché sia certamente ricca di

riferimenti concreti alla storia effettiva, che dovevano costituirne un’effi

cace esemplificazione per gli interlocutori del dialogo e per i suoi lettori’.

Si tratta dunque di altro. Per molti aspetti (che andranno discussi) non

sembra arrischiato interpretare la sequenza politica e psicologica di timo

crazia, oligarchia, democrazia e tirannide, che segue la crisi della kaitrpotis,

secondo una prospettiva dichiaratamente hegeliana, come una fenomeno

logia la cui “legge” di movimento è di tipo dialettic&°. Nel suo insieme,

essa andrà concepita come una rappresentazione della dinamica dell’ani

ma e di quella delle proiezioni sociali (cioè dello “spirito oggettivo”) cui

essa dà luogo, senza che fra i due movimenti si possa stabilire né un rappor

to di sincronia né un rispecchiamento puntuale.

Questa doppia dinamica si fonda su una realtà antropologica di base:

la tripartizione dell’anima, la presenza in essa di forze e desideri irraziona

li, l’incoercibile pulsione della pteonexia (qui spesso designata come apte

stia, 555b9, 56b6, bio, c, 5$6b3, 578a1, 59ob8) verso gli scopi, ben noti

a Tucidide, della phitotimia e del kerdos”. A partire di qui, si instaura un

movimento basato sulla dinamica della contraddizione: i desideri pleonec

tici delle diverse parti dell’anima tendono verso un limite estremo, il cui

raggiungimento determina però il rovesciamento (metabole) in una forma

contraria (questo principio è nitidamente formulato, a proposito dell’o

ligarchia, in 55b8-xo, e della democrazia in 563e9-Io)”. In altri termini,

in ogni assetto dell’anima e della città coesistono, in una contraddizione

dinamica, elementi della forma precedente, elementi specifici della nuova

forma che tende a sostituirla, ed elementi che la porteranno a sua volta a


— che

— del

in

per

e

178 IL POTERE DELLA VERITÀ

venir superata (questa situazione contraddittoria è chiaramente descritta

in 547d a proposito della timocrazia).

Il sistema delle contraddizioni può venire delineato a partire da que

sti presupposti generali. Nel caso della timocrazia, l’elemento dominante

emerge compiutamente non nel padre timocratico, ex aristocratico,

bensì nel figlio, 55ob — è il desiderio dell’autoaffermazione personale, phi

totimia ephitonikia (548c). Questo desiderio è reso possibile dalla ripriva

tizzazione della vita e dall’asservimento del terzo ceto, che trasferiscono le

aspirazioni del principio timico dallo spazio comune a quello individuale.

Ma la privatizzazione comporta l’esistenza della famiglia, della casa, dei

relativi forzieri (54$a). E questa è la condizione necessaria per l’insorgere

di un ulteriore desiderio di “riempimento’ di uno spostamento dell’au

toaffermazione in direzione dell’accumulo di ricchezze prestigiose, come

l’oro e l’argento (55oe); una condizione alla quale si aggiunge un’educa

zione diretta all’aggressività, priva di filosofia e di musica (54$a-b)’3. Acca

de così che phitotimia ephilonikia si rovesciano inphitochrematia (ia), e

la timocrazia si trasforma — l’eccesso del principio di autoaffermazione

privata che la reggeva — oligarchia: il primato del potere si trasforma nel

potere del denaro.

Ancora più chiara è la contraddizione propria dell’oligarchia. Il princi

pio dominante in questo sistema è naturalmente l’accumulo di ricchezze

(555b9-;o). A questo fine, esso non solo non contrasta, ma anzi favorisce

l’impoverimento di una parte del gruppo dirigente, che per l’eccesso di

indebitamento è costretto ad alienare il patrimonio familiare, rilevato da

altri a condizioni di usura (551a-b, 555c). La parte impoverita del ceto oli

garchico diventa così il veicolo per il rovesciamento del governo dei ricchi

resto inidoneo tanto alla politica quanto alla guerra (551d-e9), per

avarizia e dominante propensione agli affari — per la sua sostituzione con

quel potere dei poveri che è la democrazia.

In essa il principio dominante e assoluto è la libertà, che per insaziabili

tà si trasforma rapidamente in anarchia, nel rifiuto di qualsiasi autorità po

litica e morale (561a b-e). L’estrema libertà è però destinata a trasformarsi

in un asservimento altrettanto assoluto (564a): per tutelarsi dalla temuta

riscossa oligarchica, e incapace com’è di autogoverno per il rifiuto di sot

toporsi all’autorità della legge comune, il popolo dei liberi e dei poveri è

costretto ad affidarsi a un “protettore” armato, che ne diventerà il padrone

tirannico (5c5b-d).

La contraddizione politica e psicologica della tirannide è in un certo

IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘79

senso speculare rispetto a quella della democrazia. Se qui è l’estrema li

bertà a rovesciarsi in schiavitù, nella tirannide lo stesso effetto è prodot

to dall’assolutezza del potere. Solo e odiato, il tiranno vivrà nella paura

(578a) e risulterà servo e prigioniero sia di coloro di cui si circonda per

proteggersi (579a-b), sia dei suoi stessi desideri, che non trovano più alcun

freno nella legge o nella moralità. A differenza però da ogni altro sistema,

la contraddizione della tirannide non sembra produttiva di alcuna metti

bote, né vi è un movimento dialettico che da questo regime conduca a un

altro. Su questo, che rappresenta uno dei problemi cruciali della Repubbli

ca, dovremo tornare in seguito.

Ora è piuttosto il caso di analizzare il senso di questa fenomenologia

dialettica delle costituzioni e dei tipi umani. Va detto, in primo luogo, che

non esiste alcuna sincronia fra i mutamenti morali e psicologici dei tipi

d’uomo e quelli delle forme costituzionali a essi analoghe. I primi presen

tano, come risulta dai casi dell’uomo timocratico, oligarchico e democra

tico, una temporalità tendenzialmente generazionale4 (anche se da non

prendere strettamente alla lettera), che non corrisponde a quella, più di

latata, delle corrispondenti forme politiche. Si può benissimo diventare

un uomo tirannico anche se non si vive in un regime tirannico, anzi la

coincidenza tra le due figure, in cui il primo assume il potere nel secondo,

è da considerarsi come un caso limite (cfr. 578c). Non esiste del resto una

corrispondenza immediata e lineare fra tipi d’uomo e classe dirigente dei

regimi a essi analoghiz6: è vero però che la struttura dialetticamente con

traddittoria di ogni forma costituzionale degenerata non solo consente,

ma comporta, la compresenza in essa, e all’interno del suo stesso grup

po dirigente, di tipi psicologici diversi, e a loro volta contraddittori, che

si alternano e si contendono il potere (così ad esempio nella timocrazia

coesistono l’ex aristocratico rinunciatario, il timocratico vero e proprio,

in cui si fanno però strada tendenze oligarchiche, l’oligarca compiuto). E

il caso di insistere sul fatto che, come nessuna forma costituzionale cor

risponde pienamente al suo Idealtypus, per le contraddizioni dinamiche

che la attraversano, lo stesso vale per i tipi psicologici. È stato ad esempio

persuasivamente mostrato che un personaggio come il Callicle del Gor

gia presenta tratti democratici (per il rifiuto di istituire una gerarchia fra

desideri), tirannici (per l’aspirazione a dominare gli altri ma non sé stes

so), timocratici (il desiderio di onore e potere, con il riferimento all’uomo

“leonino”), e persino filosofici (la speranza nell’avvento di un “uomo solo”

capace di governare la città: Gorg 484a-b; Resp. VI 5ozb; Leg. IX 875c)’’.


una

i8o IL POTERE DELLA VERITÀ

- IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA i8i

Allo stesso modo, le metabolai costituzionali formano, come si è detto,

una sequenza fenomenologico-dialettica, che non si dispone tuttavia in

una temporalità storica di tipo lineare. Forme degenerate possono benis

simo coesistere nello stesso ambito politico: la democrazia ad esempio, al

modo di un supermercato (pantopotion), contiene in sé ogni tipo di Costi

tuzione (553d), pur essendo la forma dominante rispetto alle contraddi

zioni latenti al suo interno. Ma non è il soio caso. Secondo le Leggi, la co

stituzione spartana somiglia alla tirannide, per il potere degli efori, ma per

altri aspetti anche alla democrazia, «d’altra parte dire che non è un’aristo

crazia [nel linguaggio della Repubblica un’oligarchia] è del tutto assurdo,

e inoltre in essa c’è la monarchia a vita» (iv 7izd-e). La distinzione fra

complessità delle costituzioni “reali” e tipologie di governo caratterizzate

secondo la forza dominante viene chiaramente formulata in questo stesso

passo delle Leggi (71ze9 ss.).

Ogni forma storica va dunque pensata come un sistema di contraddi

zioni latenti, la cui dinamica conduce in ogni caso alla possibilità di ulte

riori degenerazioni rispetto alla costituzione dominante —

possibilità

che va compresa secondo la sequenza fenomenologica teorizzata nel libro

VIII, la cui funzione è dunque anche quella di rendere possibile, come ha

scritto Dorothea frede, una Zukunftprognase’8.

Due cose appaiono comunque certe, pur nella complessità di livelli

dell’analisi platonica.

La prima è che la tirannide è la forma inevitabile della degenerazione

tanto psicologica quanto politica perché essa rappresenta l’espressione li

mite, la massima potenzialità, di quella pteonexia da cui ha origine la crisi

della kaltzatis (riappropriazione della proprietà privata, asservimento del

terzo ceto, competizione per il potere e la ricchezza). L’orizzonte della ti

rannide, ancor prima della sua eventuale realizzazione compiuta, è dunque

implicito in ogni fase delle costituzioni degenerate, e nei tipi d’uomo loro

analoghi, e rappresenta dialetticamente la loro veritd, anche se in forma

solo incoativa.

La seconda certezza è che non esiste nei libri VIII e IX alcuna prospet

tiva di ritorno “ciclico” dalla tirannide all’aristocrazia, contrariamente a

quanto avrebbe sostenuto Aristotele nella Politica:

a proposito della tirannide Socrate non dice se sarà soggetta a trasformazioni e,

nel caso che lo sia, per quale ragione e in quale forma di costituzione passi. Il mo

tivo è che non era facile dirlo, perché non è determinabile: secondo lui, infatti, Li

tirannide deve passare nettaforma prima e migliore di costituzione: in tal modo si

avrebbe continuità e un ciclo perfetto. E invece la tirannide si trasforma anche in

tirannide (Poi. V 12. 1316a).

Pur con qualche incertezza, Aristotele sembra attribuire dunque a Plato

ne, per confutarla, una concezione ciclica del tempo storico che è invece

assente nella Repubblica. In questo modo egli sovrappone diverse con

cezioni della temporalità presenti, ma distinte, in Platone, e apre d’altra

parte un problema: che cosa accade dopo la tirannide? In altri termini,

questo sistema, in quanto verità limite della condizione politico-morale

degli uomini, non è soggetto a contraddizioni e dunque risulta insuperabi

le? E qual è allora, se non appartiene al ciclo, il tempo proprio dell’utopia?

Dimensioni della temporalità

Esistono in Platone due distinte concezioni della temporalità, quella co

smica e quella storico-umana, cui se ne aggiunge, come vedremo, una ter

za, quella dell’utopia°.

La prima di queste dimensioni, segnata dal moto degli astri ( Timeo, Po

litico) e dalla vicenda “geologica” delle catastrofi ricorrenti (Timeo, Leggi),

ha un andamento ciclico. Le interferenze di questa forma della tempora

lità cosmo-geologica con il tempo storico-umano sono però descrivibili

solo nel registro della narrazione mitica, perché la distanza dagli eventi

delle origini non può venire colmata se non con il ricorso a ipotesi più o

meno “verosimili”: l’incerto statuto di queste interferenze è ben esemplifi

cato dall’ ironica presentazione del discorso delle Muse nel libro viii della

Repubblica che tenta di mettere “tragicamente” in rapporto l’algoritmo

geometrico dei moti astrali con la vicenda delle generazioni umane e la

crisi della kaltipotis.

La seconda dimensione è quella del tempo storico-umano, che si in

staura a partire dal distacco dalle origini mitiche: è questo il tempo del

disordine, della degenerazione (morale, politica e anche biologica), ma al

tempo stesso il tempo dell’esigenza dell’ordine, dello sforzo deliberato di

ricostruzione. Questa dimensione non è in alcun modo ciclica’, ed è strut

turata dal movimento dialettico delle contraddizioni latenti nelle forme

politiche da un lato, nei tipi psicologici dall’altro.

C’è, infine, il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione del progetto


i8z IL POTERE DELLA VERITÀ

IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 183

d’ordine, della ka1tzotis attuata. Va sottolineato che questo tempo non

appartiene alla sequenza dialettica del tempo storico-umano, né la Repub

blica lo presenta come il telos di questa sequenza (se mai soltanto come

l’ipotesi di un’origine che la rende comprensibile). L’avvento della kat

tzpotis nella storia è descritto come un evento possibile nell’infinità della

distensione temporale (5oib;: en panti to chrono), ma non necessario n

programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e at

teso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica

degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul

movimento orizzontale di questa dialettica. Una ricognizione attenta del

linguaggio platonico relativo alla temporalità dell’utopia lo può indicare

chiaramente.

La prima condizione di realizzabilità dell’utopia è, si sa, l’intervento

dei filosofi nella politica della città. Ma che la natura filosofica si salvi nelle

città della storia è impossibile «a meno che un dio si trovi a soccorrerla»

(49za5: T( o8o-c Oev grazie insomma a un «favore divino»

(493a1: Oo itoipc). Che poi i filosofi così salvati siano indotti a occupar

si della politica delle città dipende da «una fortuita necessità» (499b5:

àvc-ycy ri èic 499c7: tis ananke; cfr. ood); questo non accadrà,

in altri termini, «a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina»

(591a8: theia tyche). Anche così, la loro azione politica potrà avere successo

solo grazie a «circostanze propizie sopravvenute per una sorte divina»

(Ep. VII 3Z7 3-5: cttpo [...] payEov6TcYv OE( TLVÌ TXfl).

La condizione di possibilità alternativa (la conversione alla filosofia dei

potenti o dei loro figli) viene descritta con lo stesso linguaggio. Essa avrà

luogo se «per una qualche ispirazione divina sorga [...] un vero amore per

la filosofia» (499c1-z: ek tinos theias eptnoias; sull’ispirazione dei politici

cfr. anche Men. 99d, e sulla epzpnoia Leg. VII 811c9). In altri termini, i po

tenti possono diventare filosofi «per una sorte divina» (Ep. vii 3z6b3: ek

tinos moiras theias) , come potrebbe accadere a Dionisio «con l’aiuto degli

dèi» (Ep. vii 3z7c3: syttambanonton theon). Similmente è preconizzato

nelle Leggi l’avvento di un uomo dalla natura adatta al regno filosofico

(Ix 875c4)32.

Che cosa ci dice questo linguaggio ricorrente di tyche, moira, kairos,

ananche, theion? Il suo primo significato è senza dubbio che le condizioni

di realizzabilità della kaltzpolis non appartengono al corso normale della

storia, che il suo avvento non ne costituisce il telos predeterminato. Esso

può soltanto essere dovuto al verificarsi fortuito e istantaneo di circostanze

propizie e cogenti, il cui carattere straordinario ed eccezionale

(tanto nel senso della rarità quanto in quello del valore) è sottolineato dal

ricorso al termine theion (che non può in alcun caso indicare un disegno

provvidenziale unapronoia divina, perché essa non avrebbe evidentemen

te il carattere fortuito di tyche). L’avvento della kattipotis rappresenta un’e

sigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare

la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è

improbabite (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe

comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto

alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

Katoikizein

Possiamo a questo punto riaprire alcune questioni di fondo relative al sen

so del disegno utopico della Repubblica. Il dialogo è attraversato, da questo

punto di vista, da un complesso gioco delle parti; quanto ai libri VIII e IX,

essi sembrano concludersi con un residuo non detto.

Il gioco delle parti è quello che viene a lungo interpretato dal maestro

di Platone, Socrate, e dal fratello Glaucone: con ogni verosimiglianza, due

facce dello stesso Platone. Socrate tende ad arroccarsi nel presente dialo

gico delfare teorico (Il 369c9: tc )6yci i. &p rot6i1.ttv 7r6)v), che può

presentare i caratteri dell’affabulazione immaginaria (Il 37d9: hosper en

mytho mythotogontes). Tutto ciò in nome della rivendicata superiorità, in

termini di verità, del logos sull’ergon, della texis teorica sullapraxis politica

(V 473a).

Glaucone vuole al contrario costringere (anankaze, 473a5) Socrate

a ragionare sul futuro della realizzazione del disegno teorico, a passare

dunque alla dimensione dipraxis ed ergon (‘ Ie: «non parlarne più, ma

cerchiamo di convincere noi stessi di questo solo punto: che questa costi

tuzione è possibile e come è possibile, e lasciamo perdere il resto»). L’esi

genza “demiurgica” formulata con forza da Glaucone finisce per obbligare

Socrate a una svolta decisiva, costringendolo a passare dal piano dell’affa

bulazione teoricapresente all’analisi delle condizioni di possibilità di una

realizzazionefutura: senza l’assunzione di potere da parte dei filosofi que

sta realizzazione non avrà luogo (501e4-5:o 7rO)ttE(ì

)6yc pyc toetcu).

Glaucone sembra dunque aver vinto, anche se Socrate, come abbiamo


commenta

intendi

184 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA i8

visto, non può che affidare questo futuro all’incertezza di tyche, moir e

kairos. Ma la discussione, che sembrava così conclusa, si riapre quasi in

provvisamente alla fine del libro ix. Dopo una lunga analisi, che ha de

scritto la condotta morale dell’uomo filosofico in una società diversa dalla

katlrpotis, Socrate conclude:

Così anche per gli onori [timas]3: mirando allo stesso scopo [cioè a preservare

integra ed equilibrata la sua potiteia interiore, en hauto, sie;], volentieri parte

ciperà e godrà di quelli che ritenga possano renderlo migliore, mentre rifuggirà

in privato e in pubblico da quelli che rischiano di rovinare la stabilità della sua

condizione.

Con un brusco e inatteso ritorno alla questione politica, Glaucone com

menta: «Perciò non vorrà certo svolgere attività politica [tapotitika (...)

prattein], se è di questa condizione che si prende cura». Socrate risponde

che «ne farà, e anche molta, nella città che gli è propria, non però for

se nella sua patria, a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina

[theia tyche] ». «Capisco

Glaucone

— nella città la

cui fondazione siamo venuti discutendo, quella che sta nei discorsi [en lo

gois], perché penso che essa non esista da nessuna parte della terra». Glau

cone rileva qui il carattere teorico della discussione condotta da Socrate, e

contemporaneamente nega una delle tre possibilità di realizzazione della

kallzpolis che erano state enunciate (499c-d), la sua esistenza attuale in

qualche luogo remoto e sconosciuto. Non può negare invece la sua esisten

za nel passato, su cui si è fondata tutta l’argomentazione degenerativa che

occupa i libri VIII e IX; e neppure nega la sua possibilità futura. Per quanto

però riguarda il presente, Socrate aggiunge:

Ma forse [isos, può valere anche “certo”], in cielo ne è posto [anakeisthai]3 un mo

dello [paradezma], offerto a ch voglia vederlo, e vedendolo [6p63vTt: “tenendolo

d’occhio”] intenda icìuràv Toncinv. Ma non fa alcuna differenza se essa esista da

qualche parte o se esisterà in futuro [estai]: egli agirà solo in vista della politica di

questa città [Tà (scil.potitika) T5T) 6vs &v rpcltttv], e di nessun’altra (59za-b).

Si tratta naturalmente del passo su cui hanno da sempre insistito gli inter

preti che tendono a negare, o a ridimensionare, il carattere politico della

Repubblica, e ad accentuarne invece l’interesse per la moralità individuale

e interiorizzata. Una reinterpretazione del testo deve iniziare con il chia

rimento del significato di katoikizein, che vi riveste un’importanza cen

trale. Tutti i traduttori hanno seguito la proposta di Adam, che interpre

tava «found a city in himself». Questa interpretazione può senz’altro

appoggiarsi sul riferimento alla «costituzione interiore» menzionata in

5iei, ma non corrisponde al significato normale, in greco e in Platone, del

costrutto katoikizein + accusativo.

Esso vale “insediare, trasferire, far abitare” qualcuno o qualcosa in qual

che luogo, “deportare” una colonia8. Questo è il significato di tre delle quat

tro ricorrenze in cui il costrutto appare nella Repubblica (375a5: ‘cctronct’ctt

Tp, TràXn? Ei [...] T67to; 543b2.: &yOvTE TO oTpctT1cYrcg

oi1dJEt; 579a5: 6 OEÒ CSK)s) KcTOtK(JEtEv yE(TOV)3.

Nelle Leggi, il valore prevalente del costrutto è naturalmente quello

di “fondare una colonia”, installando la popolazione in una nuova città

(7o5e1, 9x9d4, 757dx, 747e9, 75;d5; in 848e4 si parla di “insediare” una

parte degli artigiani nella città, en astei katoikizein).

Lo stesso valore prevalente di “installare, insediare” ha il costrutto nel

Timeo (69d7, cfr. 70a3, 70e2, 7idz, 89e3; e, per le popolazioni insediate in

un territorio, 14c5, z4d3; cfr. Criti. 113c).

Anche la Lettera vii presenta un uso inequivocabile nello stesso senso

(329e1: ti &Kp67ro)av &y y&rv Kcd Krouc(Jc), mentre altre ricorrenze del

costrutto hanno valore più incerto40.

Il fatto che il significato prevalente di katoikizein + accusativo sia dun

que quello di “trasferire, insediare” qualcuno in qualche luogo, ha sugge

rito a qualche critico l’interpolazione nel passo che stiamo discutendo di

un avverbio di luogo o di moto: così Jowett e Campbell aggiungono ekei

dopo katoikizein, e, secondo l’apparato di Slings, H. Richards propone

tose (“proprio verso quel luogo”) dopo heauton. Anche senza interpolazio

ni, è tuttavia abbastanza chiaro il luogo in cui può insediarsi politicamente

il soggetto che abbia deciso di abbandonare la “patria” storica: en ourano,

nel “cielo” del paradigma, cioè della teoria normativa4T.

Per questo, sono appunto necessarie due decisioni: la prima è di ordine

prevalentemente intellettuale, il voler vedere (‘rc ov)o.tvq 6p&v) il para

digma teorico; la seconda, di ordine morale, consiste nel “voler cambiare

habitat politico’ continuando ad avere di mira (questo è il valore del par

ticipio presente horonti) quel paradigma.

Alla luce di queste premesse, si comprende meglio il seguito, che vale

letteralmente “farà le cose di questa città soltanto, e di nessun’altra” In que

sta frase si gioca molto del senso politico della Repubblica. Essa racchiude

infatti due significati, che non credo possano essere disgiunti. Il primo è

TOt1CtOJt’.’ EI


perché

non

a

essa

i86

IL POTERE DELLA VERITÀ

IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 187

che ovviamente il “filosofo” dispiegherà la pienezza della sua attività poli

tica (cfr. il kai mata di 591a7) nella nuova città, in vista della sua conserva

zione. Il secondo è che egli, se agirà nella patria storica, lo farà solo in vista

e in funzione dell’avvento dell’altra città: questo non è escluso, ma può

accadere, come si è visto, solo nelle circostanze di una theia tyche (592a8-9)

Interpretato in questo modo, tutto il passo che stiamo discutendo non

costituisce affatto una prova del carattere sostanzialmente non politico, e

invece tutto rivolto all’interiorità morale, della Repubblica. Invece che li

mitarsi a «plasmare soltanto se stesso» 6vov icvrò’ì 7r)&TTEtv), 11 filo

sofo può trovarsi nella necessità di trasformare il mondo umano secondo

«l’ordine che vede lassù [icti p]» (5ood5-7): un passo, come ora si può

meglio vedere, perfettamente parallelo a quello che stiamo commentando,

che non si limita all’interiorizzazione della norma morale e non esclude

affatto l’attività politica trasformatrice nel filosofo nella città storica, an

che se essa dipende da una «qualche necessità» che corrisponde al “caso

eccezionale” di wza.

Il chiarimento che ci viene dunque dalla fine del libro ix è questo: l’oriz

zonte etico di un’eventuale attività politica del filosofo all’interno della sua

patria storica non coinciderà in nessun caso con questa stessa patria, perché

ciò distruggerebbe la sua “costituzione interiore”; se questa attività politica

ci fosse — circostanze propizie lo consentono o lo esigono — non

potrà in ogni caso avere altro scopo che la realizzazione della katliolis, la

cuipoliteia è in armonia con quella “interiore”. Non si tratta dunque di uno

spostamento dall’esterno all’interno, dalla politica alla morale, ma di un

ridislocamento (espresso dakatoikizein) delle finalità di un’azione politica,

certo “eccezionale” ma cui non si rinuncia in linea di principio.

« Datemi una città retta a tirannia»:

il silenzio della Repubblica

I libri VIII e IX si concludono con un paradosso. Nella sua perfetta infeli

cità, la tirannide è apparentemente l’unico regime che non reca in sé una

contraddizione in grado di condurre al suo superamento dialettico, e risul

ta quindi lapiù stabile tra le forme costituzionali. Parallelamente, sul piano

psicologico, il tiranno — differenza dall’uomo timocratico, oligarchico e

democratico — sembra avere un figlio destinato a rovesciarne il modo

di vita e il sistema di valori: al pari del regime tirannico, anche la famiglia

tirannica sembra dunque esente da contraddizioni destabilizzanti.

Questo silenzio, se non lo si vuole considerare definitivo, può venire

colmato ricorrendo ad altri luoghi della Repubblica e ad altri testi platoni

ci, che consentono forse di fornirne una spiegazione. Il libro vi parla a più

riprese come è ben noto, della possibilità della conversione alla filosofia

di basileis e di non meglio qualificati dynastai; e soprattutto si riferisce alla

possibilità che nascano loro figli «per natura filosofi» (5o1a6), qualcuno

dei quali potrebbe preservare la propria buona natura. La trasformazione

verso la katlzolis diventerebbe così possibile grazie all’avvento di un solo

uomo adeguato e dotato del potere in una città obbediente (5o;b4-5: ttc

bccvà y6vo 7r6).tv ic’rv 7rE1Go.Lé-v)9v). Questo passo è ripreso da vici

no in quello delle Leggi dove si allude all’avvento di un solo uomo dota

to di nous e quindi in grado di governare senza leggi (ix 875c: ti 7tQt ti

Non è neppure necessario ricorrere al progetto formulato nella Lettera

vii di conversione del tiranno siracusano, per vedere come questi passi,

con il loro insistere sull’unico dynastes, o un suo figlio, rieducabile alla

filosofia, alludano a un possibile “buon uso” della tirannide. Esso viene

reso esplicito in un celebre passo del libro iv delle Leggi. Qui il futuro

legislatore esprime il desiderio che gli venga affidata una città retta a ti

rannia (tvpcvvouLéwv ot 6rt Tp 7r6).tv), e governata da «un tiranno43

giovane, dotato di buona memoria e di facilità ad apprendere, coraggioso

e magnanimo» (7o9e6-8, 71oc5-6), e inoltre sophron: forse il “buon figlio”

del tiranno, sul quale si tace nella Repubblica? In ogni caso, questa è la

condizione perché una città raggiunga la costituzione felice nel modo mi

gliore (arista), più rapido (tachista, 7Iob) e più semplice (rhasta, 7iod8).

Occorre, naturalmente, che il giovane tiranno abbia la buona sorte di in

contrare un eccellente legislatore disposto a collaborare con lui (7Ioc-d).

E dunque la concentrazione di tutto il potere nelle mani di un solo

uomo a costituire la leva archimedea per una metabole rapida e facile

(711a). Platone ribadisce qui, con una chiarezza ancor maggiore che nella

Repubblica, la centralità della questione del controllo del potere e della

forza:

Un tiranno che intenda trasformare i costumi di una città non ha affatto bisogno

di grandi sforzi né di moltissimo tempo: occorre solo che si avvii lui per primo

nella direzione in cui intende condurre i cittadini [...]. Nessuno potrà convincerci


o

i88 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 189

che una città possa mutare le sue leggi in modo più rapido e semplice altrimenti

che grazie al comando [hegemoniaj di chi detiene il potere [ton dynasteuonton]

né che ora questo avvenga in altro modo, né che mai accadrà in futuro (711b-c)45

La conversione del tiranno — meglio del “figlio del tiranno”

— alla fi

losofla, il suo incontro con un consigliere filosofico, sembrano dunque

chiudere, nelle Leggi, il circolo che la Repubblica aveva lasciato aperto,

rispondere alla domanda “Che cosa succede dopo la tirannide” alla quale

essa non aveva dato riposta. E sembrano anche dar ragione ad Aristotele:

ma in modo molto parziale, perché il transito dalla tirannide alla kattzolis

non appartiene alla regolarità del ciclo storico, bensì al verificarsi di circo

stanze fortuite ed eccezionali, a più riprese inscritte nel segno della theia

moira e della tyche6.

In ogni caso, resta da chiedersi perché la Repubblica non formuli que

sta risposta nel modo esplicito delle Leggi, benché, come si è visto, non

manchino accenni in questa direzione. Non è il caso di ipotizzare un mu

tamento di convinzioni da parte di Platone su questo problema cruciale. È

più probabile attribuire il silenzio di Platone a due motivi, entrambi legati

alla struttura dialogico-argomentativa del dialogo. In primo luogo, l’esi

genza di mostrare come quelle del tiranno e della città tirannica siano, in

quanto tali, le forme di vita e di costituzione in assoluto più infelici; in

secondo luogo, l’ambientazione strettamente “ateniese” del dialogo, che

non poteva non tener conto dell’avversione e del sospetto antitirannico

propri di quella cultura.

Del resto, la conversione del tiranno, se è certamente la via “più rapida

e semplice” verso l’instaurazione della kallzolis, non è però l’unica. Quel

le stesse circostanze potrebbero anche far sì, sia pure con una probabilità

ancora minore, che la città stessa decida di affidarsi ai filosofi (vi 499b6),

che i “molti” se ne lascino convincere (ozai-z), così come, nel Politico, si

prospettava la possibilità che i cittadini accogliessero di buon grado (aga

pasthai, 3oid4) il vero re. Il silenzio della Repubblica sulla conversione del

tiranno può forse venire allora interpretato anche alla stregua di un mes

saggio implicito: se non si desidera giungere davvero fino alla tirannide,

che costituisce un esito altrimenti inevitabile del tempo storico, è neces

sario che sulla soglia della catastrofe la città e i “molti” prendano questa

decisione, accettando l’unica alternativa possibile. Altrimenti, il filosofo

resterà solo di fronte al suo eventuale e pericoloso discepolo, il “figlio” del

tiranno.

Note

Su questi passi cfr. le analisi di K. Thein, Le lien intraitabte. Enque’te sur te temps

dans la “République” et le ‘Timée”de Platon, Paris zooi, pp. 35-7.

a. Per questa funzione cfr. ad esempio D. Frede, Platon, Popper unti der Historizi

smus, in E. Rudolph (Hrsg.), Polis unti Kosmos. Naturphitosophie unti politische Phi

tosophie bei Platon, Darmstadt 1996, I’J• 74-107 (pp. 83, 96); Id., Die ungerechten

Verfassungen unti due ihnen entsprechenden Menschen (Buch VIII 543a- Ix57Òb), in O.

Hòffe (Hrsg.), Platon. Politeia, Berlin 1997, pp. z51-7o (pp. 264-5); anche R. Kraut,

Comparison ofJustandlnjustLives, in Hòffe, Platon. Politeia, cit., pp. 271-90. Si tratta

naturalmente della linea interpretativa preferita dagli studiosi che negano l’esisten

za nella Repubblica di una teoria politica autonoma, cioè indipendente dagli scopi

di persuasione morale: cfr. in questo senso soprattutto N. Blòssner, Diatogform unti

Argument: Studien zu Platons “Politeia”, Stuttgart 1997, pp. 127, i6.

Cfr. in questo senso ampiamente CA?. 6 e supra, § Dimensioni della temporalitti,

.

Katoikizein, «Datemi una cittti retta a tirannia»: il silenzio della Repubblica.

Dalla irreperibilità storica della kall;polis Aristotele avrebbe tratto una delle prove

.

della sua impossibilità: cfr. Fol. li 5, 1264I SS.

Come scrive esattamente P. Vidal-Naquet, «le paradis de l’gc de l’or est, en défi

.

nitive, un paradis anima1»: cfr. Le mytheptatonicien du “Politique”, in Id., Le chasseur

noir, Paris 1981, p. 373.

6. Su questo cfr. M. Vegetti, Protagora, autore della “Repubblica”? (ovvero, il “mito”

del “Protagora”nel suo contesto), in G. Casertano (a cura di), Il “Protagora”di Platone:

struttura e problematiche, Napoli 2004, vo1. i,pp.

145-5 8.

Cfr. in questo senso N. L. Cordero, Lafunzione etica del mito in Platone (aproposi

.

to del mito del “Politico”), in M. Migliori (a cura di), Il dibattito etico-politico in Grecia

tra il ve il Ivsecolo, Napoli zooo, pp. i6i-so (p. 178).

8. Cfr. G. Giorgini, Decadenza efilosofia in Platone, in “Filosofia politica”, ix,

pp. 5-14.

Su questa categoria antropologica, cfr. M. Vegetti, Anthropologies of ‘ileonexia” in

.

l’lato, in M. Migliori (ed.), Plato Ethicus, Sankt Augustin 2004, pp. 3’s-z7 (CAP. 8 in

questo volume).

io. Su questa contraffazione cfr. M. Vegetti, L’autocritica di Platone: il “Timeo” e le

“Leggi”, in M. Vegetti, M. Abbate (a cura di), La “Repubblica” di Platone nella tradi

zione antica, Napoli 1999, pp. 13-27. Sul discorso di Timeo come “prova” della realiz

zazione della kallipolis in un remoto passato cfr. C. Natali, Antropologia, politica e la

struttura del “Timeo”, in C. Natali, 5. Maso (a cura di), Plato Physicus. Cosmologia e

antropologia nel “Timeo”, Amsterdam 2003, pp. 225-41 (pp. 229-30).

ii. Questa è l’interpretazione di f. Lisi, Héros, dieux etphilosophes, in “Revue des Étu

des anciennes”, CVI, zoo, pp. 5-za. Sulle differenze fra le due epoche cfr. U. Bonana

te, Il tema della decadenza in Platone, in “Rivista di filosofia”, LXXVI, 1985, pp. 207-37

(pp. 224-5).

1IllL


democrazia

tirannide.

190 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 191

iz. Questo carattere scherzoso è sottolineato ad esempio da frede, Die ungerechte

Verfassungen, cit., pp. 255-6. Lo stile tragikos del discorso delle Muse significa “incom..

prensibile, oscuro’ come mostra il confronto con la sola altra ricorrenza dell’avverbio

in 4i3b4 (cfr. in questo senso D. Hellwig, Adikia in Ptatons “Politeia”, Amsterdam

1980, p. 78). Il non aver visto questa intonazione ironica indebolisce il pur interes

sante articolo di W. Janke, Atethestate tragoidia. Fine Deutung der Ìvfetabote-reihe in

g Buch des Staates, in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, XLII, 1965, pp. zi-6o

il quale tra l’altro attribuisce una funzione “catartica” (certamente estranea a Platone)

alla “tragedia” dellepoiiteiai (pp. 252, 259).

13. C’è qui forse una eco di Senofane (DK B z6). Genomenoi significa senza dubbio

la kattrpoiis realizzata. È interessante notare che Hellwig, Adikia, cit., non ritenendo

possibile questa realizzazione, è costretta a interpretare il testo come se significasse

l’abbandono o la deviazione dal progetto di giustizia formulato soltanto nei logoi

(pp. 84-6).

14. Cfr. in questo senso Thein,Leiien intraitabte, cit., p. 127.11 tempo noetico-astrale

è appunto il risultato di una messa in movimento dei solidi dell’ontologia geometrica

(vii 5z9d).

i. Si trattava del resto di una storia già narrata da Tucidide a proposito della crisi

dell’Atene periclea. Nonostante le esortazioni di Pericle, nella condotta della guerra

gli Ateniesi agirono dopo di lui «Kur& r& i&c t).ort[lkt ici.ì tt cip », perseguen

do time e ophetia dei privati (ii 65.7): sull’opposizione koinon/idion in questo passo,

che anticipa in modo decisivo le analisi platoniche, cfr. G. Carillo, Katechein, Napoli

2003, pp. 110-2.

i6. Nel caso dell’oligarca, è chiaramente detto che lo thymoeides, insieme con il togi

stikon, è posto al servizio dello epithymetikon (543d).

17. Così l’avrebbe invece interpretata Aristotele, criticandola su questa base median

te una numerosa serie di controesempi fattuali, in Pol. V iz: cfr. in proposito Hellwig,

Adikia,cit.,p.i.

i8. All’origine c’è come sempre il logos trtpotitikos erodoteo (iii 8o-$z), dove vengono

contrapposte la monarchia, l’oligarchia e la democrazia (cfr. in proposito l’analisi di

L. Bertelli,Ìvletabotepoiiteion, in “Filosofia politica’ III, ‘989pp. 277-326 (pp. 286-9).

La monarchia “buona” può corrispondere all’aristocrazia platonica; Platone poi arti

cola l’oligarchia in una forma migliore (la timocrazia) e una peggiore, che mantiene

il nome di oligarchia.

19. Cfr. in questo senso frede, Platon, Popper unti der Historizismus, cit., pp. 84, 94.

Questo non toglie che la fenomenologia platonica possa risultare suscettibile di pro

iezioni addirittura in termini di Weitgeschichte: E. Voegelin, Ordine e storia (1966),

trad. it. Bologna 1986, p. 190, vi scorge una sequenza aristocrazia [feudale] — oligar

chia [borghese] — — Ed è difficile non pensare, a proposito di

queste ultime due forme, alla vicenda novecentesca della repubblica di ‘Weimar (cfr.

per questo riferimento P. Friedlànder, Piato (1928), zvoll., trad. ingi. New York 1969,

j3. 13 8-9).

zo. Cfr. in questo senso R. Porcheddu, Dialettica delle costituzioni e delle ideologie

nella ‘Repubblica” di Platone, Sassari 1984, p. Io. H. Ryffel, META3OLE POLITEION.

Der Wandetder Staatsverfassungen, Bern 1949, parla di « Aktions-Reaktions-Gesetz »

e di «Prinzip des Gegenstandes» (p. 92).

21. Cfr. in proposito Vegetti, L’autocritica di Platone, cit.

22. Per un accenno in questo senso cfr. frede, Piaton, Popper unti der Historizismus,

cit., p. 86. Cfr. anche L. H. Craig, The War Lover: A Study ofPlato’s ‘Republic”,

Toronto 1994, 3. 28.

23. Su questo nesso cfr. ivi, pp. 59-60.

24. Cfr. Blòssner,Dialogt2n-m undArgument, cit., p. 113.

z. Allo stesso modo, va notato, possono esistere uomini in possesso della scienza

regale senza che esercitino di fatto il potere (Poi. z59b).

z6. Su questo punto ha ampiamente insistito G. R. F. Ferrari, City and Soul in Pia

to’s Republic, Sankt Augustin 2003. Ferrari si spinge tuttavia troppo in là, escluden

do ogni forma di interazione causale fra uomo e città (ciò che può essere facilmente

confutato sulla base delle considerazioni del libro VI, che insistono sulla pressione

conformativa esercitata dallapolis storica, e dalle stesse preoccupazioni educative pro

prie della kalltolis su cui insiste il libro iv). La radicale disgiunzione fra anima e città

operata da Ferrari, che vede fra i due poli una relazione solo analogica (p. so), lo porta

a ridurre drasticamente (senza però negarlo del tutto) il significato politico della Re

pubblica, e ad accentuarne l’interesse prevalente per la morale individuale (pp. 89 ss.).

27. Cfr. in questo senso M. Bonazzi, A. Capra, Callicle e Serse: democrazia e tirannide

nel “Gorgia” di Platone, in 5. Simonetta (a cura di), Potere sovrano: simboli, limiti,

abusi, Bologna 2003, pp. 217-33 (pp. zz8 ss.).

z$. Frede, Die ungerechten Verfassungen, cit., p. 270.

29. Aristotele potrebbe però riferirsi a Leg. iv 7Iod-e (cfr. in questo senso le impor

tanti osservazioni di Ryffel, METABOLE POLITEION, cit., pp. 102-3). Per questo snodo

cfr. supra, § Katoikizein.

30. Non è persuasivo il tentativo di K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone,

Milano 198$ (si tratta di una versione riveduta della seconda parte di Ptatons unge

schriebeneLehre, Stuttgart I96$), di unificare queste dimensioni in una serie lineare,

individuandone una linea generale di “progresso”.

31. Cfr. in questo senso Vidal-Naquet, Le chasseur noir, cit., pp. 9, 48-58; Thein,

Le lien intraitable, cit., pp. 156-7; Frede, Die ungerechten Verfassungen, cit., p. 254;

Porcheddu, Dialettica delle costituzioni, cit., pp. 64-5.

32. È da notare che nel Timeo la coincidenza del racconto di Crizia sull’Atene primi

tiva con quello di Socrate sulla kallzpolis viene considerata come causata utiav(w ic

TtVO T1X9 (25e4).

33. Platone non usa in questi contesti l’avverbio exatphnes (sul cui senso teorico cfr.

Parm. i6c-e), che viene però riferito alla visione del bello noetico in Symp. iioe,

e al sorgere della conoscenza filosofica in Ep. VII 34idi. Su questo carattere istanta

neo del tempo dell’utopia cfr. soprattutto K. Thein, The foundation and Decay of


forse

l’interesse

192. IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘93

Socrates’ Best City (Repubtic VI 499b-c, ami Books viii-ix), in A. Havlicek, F. Karfik

(eds.), The ‘Repubtic”and the “Laws”ofPtato, Prague 199$, pp. 67-75 (pp. 70-2); Id.,

IViettre la kaltipotis en acte: t’équivoque temporette dans la “Répubtique” de Ptaton, in

C. Darbo-Peschanski (éd.), Constructions du temps dans te monde grec ancien, Paris

2.000, pp. 253-65 (pp. 255-60).

Va qui notato che il Timeo, parzialmente in linea con il libro VIII, colloca nel

passato, anziché nel futuro, la dimensione della “realtà” (atetheia/praxis, ;od, zIa),

mentre al presente resta quella del mythos e dei logos (ze, z6c$-di).

Si tratta evidentemente delle timai che spettano al filosofo ($zc), qui significatj

vamente disgiunte dalle cariche politiche (archai) che invece erano legate alle timai

in 546c4.

36. Il verbo designa normalmente la deposizione o la costruzione di un’offerta votiva.

Le altre due occorrenze in Platone parlano del gramma inscritto sui tempio di Delfi

(Charm. i64d6), e di un lagos dedicato al dio (Symp. 197e7). Qui c’è una chiara allu

sione allapolis en logois keimene di aaii. Sul senso di ouranos cfr. nota 4;.

37. Cfr. Adam, pp. 369-70, seguito in questo daJ. Annas, Politics in Ftato’s “Repu

blic”: His and Ours, in “Apeiron”, XXXIII, 2000, pp. 303-26, che traduce «refound

himself» e interpreta come «internalize the idea! ofvirtue as “a city ofhimself”»

(pp. 306-7).

3$. Basti citare ad es. Hdt. lI 154.3, [PLAT.1 Ep. VIII 357a.

39. Il quarto caso, che può venire addotto come controesempio isolato, è in

(cfr. anche Leg. 7ozdz).

40. Cfr. 336a6, 33;b7; 332C9 potrebbe venire usato come controesempio abbastanza

isolato (“rifondare le città”).

41. Questa interpretazione conferma che ouranos non può significare qui il “cielo”

degli astri visibili, che con il loro ordine fornirebbero un modello da trasferire alla

società umana, secondo l’ipotesi formulata da Burnyeat. Questa ipotesi è giustificata

dal fatto che ouranos in Platone vale di norma appunto “cielo visibile” (con l’ecce

zione però del libro x, dove si tratta del luogo di ricompensa delle anime giuste, cfr.

614c-e), e dal riferimento al Timeo dove gli astri del cielo hanno appunto questa fun

zione paradigmatica. Ma essa si scontra con la critica all’osservazione del cielo visibile

formulata nel libro VII della Repubblica (il participio horonti comporterebbe allora

quello “stare col naso all’insù” che viene ridicolizzato in 5;9a-b), e che si concludeva

con l’invito a “lasciar perdere le cose del cielo” (53ob7). Esse possono sì venir usate

come paradeigmata, nel senso però di segni e problemi che rinviano allo studio del

mondo noetico (5z9d7), non di modelli esemplari per la vita umana, che il filosofo

reperisce appunto in quel mondo (vi 484c-d, ood5). Il paradeigma della città giusta

sta dunque nei logoi della teoria (592a11), non negli astri visibili, ed è qui che occorre

“trasferirsi”. Ouranos dovrà dunque avere in questo passo un senso metaforico, sug

gerito del resto dalla metafora solare del libro VI (cfr. gli «dei del cielo» in 5o8a4).

42. Frede, Ptaton, Popper und der Historizismus, cit., parla, per escluderla, di una

« Sackgasse » «hoffnunglose » (pp. 94-6).

Il meritorio traduttore italiano delle Leggi, A. Zadro, rendeva pudicamente

“principe” (c’è del resto un illustre precedente: Machiavelli chiama “principi’ nell’o

pera omonima, personaggi definiti “tirannni” nei Discorsi, come Pandolfo Petruz

zi; cfr. in proposito L. Strauss, La tirannide. Saggio sul “Gerone”di Senofonte, 1948,

trad. it. Milano 1968,p. 112, n. 128). Per altri tentativi «to mitigate the outrage felt by

those ofliberal sentiment» di fronte a questo passo, cfr. H. W. Ausland, The Rhetoric

ofPlato’s “Second-Best”Regirne, in 5. Scolnicov, L. Brisson (eds.),Plato’s “Laws’ from

Theory into Practice, Sankt Augustin 2003, pp. 65-74.

Sulle possibili identificazioni di questa figura (Dionisio u, Dione?) cfr. Vegetti,

L’autocritica di Platone, cit., p. 23. In ogni caso, come notano D. Nails, H. Thesleff,

Early Academic Editing: Ptato’s “Laws”, in Scolnicov, Brisson, Ptato’s “Laws”, cit.,

14-29,

pp. questa descrizione del tiranno «has much more in common with the

description ofguardian candidates in the Republic than with those who rule in the

Laws» (p. 21).

Che tutto questo passo non incontri — per imbarazzo — dei com

mentatori, è confermato già da un esame dei luoghi discussi negli indici analitici delle

due più recenti raccolte di studi sulle Leggi: cfr. Scolnicov, Brisson, Plato “Laws”, cit.,

ci L. Lisi (ed.), Ptato’s “Laws”andItsHistoricatSrnficance, Sankt Augustin 2001.

46. Una diversa forma di contiguità fra tiranno e filosofo è indicata in un passo al

quanto enigmatico del Politico: «In questo modo dunque è emerso il tiranno, dicia

mo, e il re e l’oligarchia e l’aristocrazia e la democrazia, quando gli uomini hanno

mal tollerato [dyscherananton] quell’unico monarca e hanno perso la fiducia che mai

potesse sorgere qualcuno degno di un tale potere [...J e hanno sospettato invece che

costui rovinasse, uccidesse e maltrattasse chiunque di noi volta a volta egli volesse;

giacché se emergesse uno del tipo che diciamo noi, sarebbe ben accolto [agapasthai]

e amministrerebbe pilotando felicemente l’unica costituzione rigorosamente corret

ta» (3oIc-d, trad. Accattino). Non è chiaro perché nascano il disgusto e il sospetto

per il “monarca” giusto, né perché essi non dovrebbero riproporsi per la nuova figura

di cui si è in attesa. Chiare invece sono la contiguità fra “monarca” e tiranno, e una

certa circolarità dei rapporti fra le due figure. Non sembra che questo passo abbia

richiamato l’attenzione degli interpreti, piuttosto interessati a sottolineare il second

best, l’ossequio alle leggi in assenza del vero sovrano. Cfr. comunque M. Lane, A New

Angie on Utopia: The Potitical Theory ofthe “Statesman”, in C. J. Rowe (ed.), Reading

the “Statesman”, Sankt Augustin 1995, pp. 276-91: il passo presenterebbe un’analisi

delle paure e delle preoccupazioni suscitate dal potere assoluto, che è importante dis

sipare perché «costituiscono un formidabile ostacolo all’apparizione teorica e reale

della miglior politica» (p. 290).

47. Del resto, come nota Strauss, La tirannide, cit., p. 136, n. 57, anche nelle Leggi

l’Ateniese lascia a un anonimo “legislatore” l’evocazione della città tirannica e del

“buon tiranno”, così come nel Politico l’elogio della monarchia assoluta è affidato non

a Socrate ma allo Straniero di Elea: altrettanti segnali di quanto questo tipo di discor

si siano difficili da attribuire a un cittadino ateniese.


8

Antropologie dellapleonexia.

Callicle, Trasimaco e Glaucone in Platone*

I

Ci sono nei dialoghi di Platone personaggi di grande rilievo intellettua

le, ben caratterizzati sul piano letterario e sostenitori di tesi di notevole

livello teorico, che gli interpreti normalmente sottovalutano consideran

doli come semplici pretesti per la confutazione socratica, il cui edificante

trionfo viene celebrato anche al di là della lettera e del senso comples

sivo del testo platonico. Queste interpretazioni si basano su un falso e

superato presupposto metodologico, che individua troppo facilmente nel

personaggio di Socrate il portavoce unico della filosofia di Platone. Ma,

almeno negli ultimi due decenni, si è sempre più diffusa la consapevo

lezza che Platone è autore di dialoghi, e che il suo anonimato d’autore

non è casuale. I dialoghi non sono capitoli di un trattato, e ciò che in essi

viene esposto non è un sistema chiuso di dottrine filosofiche. I dialoghi

rappresentano piuttosto la messa in scena della ricerca filosofica, dei suoi

problemi, dei suoi metodi, dei suoi argomenti; l’autore è presente in tutti

i suoi personaggi (secondo l’efficace espressione di Erik Ostenfeld, «Who

speaks for Plato? Everyone!»), nelle tesi filosofiche e nelle forme di vita

che essi rappresentano, proprio come Sofocle lo è in Edipo, Giocasta o

Tiresia. Questo non significa che non sia possibile individuare teoremi e

tratti di un pensiero filosofico proprio di Platone, ma li si potrà riconosce

re come tali solo dopo una lettura attenta dei dialoghi che conceda ai loro

personaggi, e alle posizioni che essi sostengono, tutta la loro autonomia

e la loro efficacia teorica, e che ne comprenda le ragioni e il significato

complessivo.

*

Questo capitolo è già stato pubblicato in Enosis kaiphitia, CUI CM, Catania zona.


rispetto

in

in

196 IL POTERE DELLA VERITÀ i ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXIA ‘97

2

Intendo discutere in questa sede le posizioni di due grandi interlocutori

della Repubblica, Trasimaco e Glaucone, ai quali è necessario accostare un

personaggio che per certi aspetti è prossimo a essi, quello di Callicle nel

Gorgia. Vorrei mostrare come Callicle, Trasimaco e Glaucone rappresen

tino tre varianti teoriche di un medesimo paradigma filosofico, fondato

su quella antropologia della pteonexia che si era imposta nella cultura gre

ca, e specialmente ateniese, a partire dagli ultimi anni del V secolo. Vorrei

inoltre mostrare che alcune posizioni che possiamo ritenere tipicamente

platoniche, attribuite al personaggio Socrate, sono profondamente in

fluenzate dalle teorie critiche sostenute da Callicle, Trasimaco e Glaucone,

al punto di non consentire una visione d’insieme della Repubblica ottimi

stica, edulcorata ed edificante come viene proposta da molte sue interpre

tazioni tradizionali.

3

Antropologia della pleonexia significa — termini molto schematici —

una concezione della natura originaria, profonda e immutabile dell’uomo

come dominata dal desiderio di sopraffazione reciproca, dalla spinta inco

ercibile ad “avere di più” — termini di potere, gloria, ricchezza, dunque di

“signoria” — a una ripartizione equilibrata e paritaria di questi beni.

La legge della pteonexia si applica tanto ai rapporti fra gruppi e indi

vidui all’interno delle singole comunità cittadine quanto a quelli fra le

poleis, le città stesse. Il contesto storico in cui si sviluppa questo pensiero

antropologico è chiaramente individuabile: da un lato, l’imperialismo ate

niese, che, sotto la maschera di un’impresa democratica, svela la natura

della città comepolis tyrannos, secondo l’espressione che Tucidide (ii 62.3)

attribuisce al suo maggiore leader, lo stesso Pericle; dall’altro, i conflitti

interni fra i gruppi rivali degli oligarchici e dei democratici, le staseis che

infrangono il patto di cittadinanza su cui si era costruita l’esperienza stori

ca dellapolis. Si tratta insomma, per dirla con le parole di Tucidide, di quel

«maestro violento» (biaios didaskalos, iii 8z.) che era stata per i Greci

e per il loro pensiero antropologico e politico la guerra del Peloponneso.

Il primo e più lucido allievo di questo maestro era stato senza dubbio

lo stesso Tucidide. C’è una «natura dell’uomo», egli scrive (e altrove ag

giunge: «una natura necessaria»,physis anankaia, v ,os.i), che lo spinge

a esercitare la violenza della pleonexia contro le leggi comuni (iii 8z.z, 6),

per impadronirsi del potere (arche), a causa di una innata phitotimia, de

siderio di vittoria e di gloria (iii $z.8). Per gli dei e per gli uomini vige in

realtà una sola legge: che chi possiede la forza comanda, ou an kratearchei,

indipendentemente dal diritto e dalla ragione (v 105.1).

Platone mostra con grande chiarezza come questa antropologia della

pteonexia fosse tanto diffusa, nel passaggio fra v e iv secolo, da raggiunge

re i giovani intellettuali aristocratici vicini alla sua cerchia familiare: suo

fratello Glaucone, in primo luogo, e anche Callicle, una figura di politico

di stampo criziano che è presentato nel Gorgia come l’amante di Demos,

un fratellastro dello stesso Platone.

Per natura, sostiene Caflicle nel Gorgia (483c-d) «il più forte è desti

nato ad avere di più [pleon echein] del debole», anche se, con una sorta di

rivoluzione nietzscheana nella morale, i deboli chiamano «ingiustizia»

(adikein) questo naturale e necessario pleonektein dei forti.

Quanto a Glaucone, nel libro ii della Repubblica egli afferma che tutti

per natura desiderano l’esercizio della pleonexia, e che l’eguaglianza non

è che un vincolo innaturale imposto dalla violenza del nomos voluto dai

deboli nell’intento di proteggersi (359c).

È comune a personaggi dialogici come Callicle, Trasimaco e Glaucone

insistere sul fatto che questa antropologia pleonectica rappresenta la “veri

tà delle cose”, una verità che smaschera 1e menzogne imposte dalle ideolo

gie egualitarie e dalla morale pubblica della città (e forse era proprio questa

“verità” che ispirava il titolo dello scritto di Antifonte, un uomo che tanto

nella teoria quanto nella pratica politica aveva contribuito alla formazione

di questo pensiero dellapleonexia).

A partire da questa base comune, tuttavia, i tre personaggi platonici

offrono tre diverse varianti del paradigma, di livello intellettuale e teorico

molto diversificato.

4

Cominciamo dunque da Callicle, la cui posizione è insieme la più forte

come testimonianza della scelta di un modo di vita, ma la meno profonda

da un punto di vista teorico.


19$ IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 ‘99

C’è, secondo Callicle, una naturale pteonexia dei più forti; per difen

dersene, i deboli (astheneis) hanno introdotto la morale e la legge dell’e

guaglianza (to ison echein, 483b-c), hanno sviluppato una formazione

educativa che tenta di convincere i forti che in questa eguaglianza contro

natura consistono «il bello e il giusto» (484a).

Callicle riflette qui senza dubbio le nostalgie di potenza dell’oligarchia

ateniese umiliata dalla legge egualitaria della democrazia: basti per ora ri

ferirsi al frammento del Sisfo che viene attribuito a Crizia, dove si parla di

una giustizia tirannica (dike tyrannos) che si contrappone all’uso naturale

della forza, kratos (DK 88 B 2.5 ‘1V. s-7); o ancora al dialogo di Mcibiade

con Pericle nei Memorabili di Senofonte, dove il primo insiste sul carat

tere violento, costrittivo, di qualsiasi legge, anche di quella democratica

(i z.40-45). Questa nostalgia emerge ancora più chiaramente nell’evoca

zione fatta da Callicle della figura di un uomo leonino, un uomo dotato di

una natura capace di « strapparsi di dosso, di spezzare e di liberarsi da tutte

queste pastoie: egli calpesterebbe le nostre scritture, i trucchi e gli incante

simi e tutte le leggi contro natura. Lui, che era uno schiavo, si rialzerebbe

e ci apparirebbe come un padrone — e allora risplenderebbe la giustizia

secondo natura» (484a).

La nostalgia dell’uomo-leone lascia trasparire ancora una volta l’ombra

di Alcibiade, che era stato definito appunto un “leone” pericoloso per la

città nelle Rane di Aristofane (vv. 1431-1).

Come si diceva, la forza straordinaria con cui Callicle evoca l’antro

pologia dellapteonexia rappresenta più una scelta di vita, una nostalgia di

memoria omerica, una speranza di liberazione dai vincoli della morale e

della legge egualitaria, che un vero e proprio argomento teorico. Da questo

punto di vista, la debolezza di Callicle consiste nell’evocare la forza come

una qualità naturale, perciò assoluta, che si trasforma tuttavia sul piano

storico e sociale in una debolezza: l’uomo leonino è di fatto uno scon

fitto, un debole, di fronte alla forza collettiva della maggioranza, del pie

thos, come osserva senza difficoltà Socrate (4$8d-4$9b). La stessa tesi era

già stata sostenuta dal sofista difensore della legge egualitaria conosciuto

come l’Anonimo di Giamblico: nessun individuo, per quanto forte come

l’acciaio (adamantinos) può resistere vittoriosamente alle leggi condivise

dalla comunità cittadina (DK 89 B i.6). Dcl resto, gli stessi esempi addotti

da Callicle (le guerre portate in nome del diritto del più forte da Dario

contro gli Sciti, e da Serse contro i Greci, 4$3e) rimandano entrambi, ab

bastanza ironicamente, a due sconfitte subite dai cosiddetti “forti”.

È però su di un altro terreno che la testimonianza di Callicle circa la

“verità” dell’antropologia dellapieonexia appare insuperabile: cioè nel suo

rifiuto di accettare il confronto dialettico con Socrate, di subirne la confu

tazione e gli argomenti (5o5d); da questo punto di vista, Callicle è imbatti

bile, a meno di usare la forza (e di confermare così la sua “verità”). Socrate è

perciò costretto al soliloquio, a un monologo che si conclude (513a ss.) con

il racconto, di ispirazione orfica, sui premi e le punizioni che attendono

nell’al di là il giusto e l’ingiusto, e reintegrano dunque l’equilibrio violato

dalla pteonexia in questa vita. Si tratta, è il caso di notano, precisamen

te dell’argomento che nel libro ii della Repubblica Adimanto, anche lui

fratello di Platone, proibirà a Socrate (in breve: non si può ricorrere agli

dei in difesa della morale, perché tutto ciò che sappiamo della religione

ci viene dai poeti, ed essi dicono anche che gli dei si lasciano convincere e

sedurre dai sacrifici: e chi meglio dell’ingiusto, grazie alle ricchezze accu

mulate con la suapteonexia, può offrire sacrifici sontuosi?).

5

Se dunque la forza della posizione di Callicle sta soprattutto nella testimo

nianza irriducibile di un’ideologia e di una forma di vita, ben diverso è il

caso di Trasimaco nel libro i della Repubblica.

Non c’è in lui alcuna traccia dell’opposizione ideologica di natura e leg

ge, né alcuna nostalgia eroica dell’uomo-leone. Ciò che Trasimaco scopre

sono la forza, il kratos, e la sua pleonexia non contro la legge, ma dietro la

legge, come suoi presupposti mascherati. Trasimaco sostiene in effetti due

tesi differenti, la prima delle quali (338d-e) è senza dubbio quella teorica

mente più rigorosa e originale. Questa tesi è così articolata: a) le norme di

giustizia sono stabilite dalla legge. Non c’è un valore morale che trascenda

la legge; del resto, il principio che la condotta giusta è quella che si con

forma alla legge è tesi largamente diffusa nel v secolo, e l’equivalenza fra

dikaion e nomimon, sostenuta nel sofistico peri nomon, è condivisa dallo

stesso Socrate del Critone e dei Memorabili di Senofonte; b) ma la legge

è emanata da chi ha la forza per farlo, cioè dal potere, to archon: a mia

conoscenza, il Trasimaco della Repubblica è il primo a formulare questo

concetto astratto di potere, che può riferirsi tanto alla maggioranza demo

cratica quanto all’oligarchia degli aristocratici e all’arbitrio del tiranno;

c) ma ogni forma di potere emana leggi funzionali all’interesse primario


l’aggressività

nella

zo o IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 lo I

della propria conservazione. Dunque, se la giustizia è rispetto delle leggi,

e se le leggi sono strumenti del potere, ne consegue, conclude Trasimaco

che la giustizia non è altro che il vantaggio del più forte, tou kreitton05

xympheron.

Partito da un positivismo giuridico largamente condiviso, Trasimaco

dunque ne smaschera l’inganno ideologico leggendo dietro a esso il posi

tivismo del potere (egli passa cioè da un Rechtpositivismus a un Machtposi

tivismus). Platone riassumerà così le sue tesi nelle Leggi (iv 714c-d): «Le

leggi, dicono, le impone sempre nella città la parte più forte [to kratoun].

E credi tu, dicono, che mai democrazia vittoriosa, o altra forza politica, o

anche un tiranno, credi che vorranno dare leggi per altro scopo principale

se non per il vantaggio di mantenere il proprio potere [arche] ?».

La forza teorica di questa prima tesi di Trasimaco è tale, come vedremo,

da non poter essere seriamente confutata da Socrate, e da richiedere, per

una sua reinterpretazione se non per il suo rifiuto, l’intero sviluppo del

dialogo fino al libro ix.

La seconda tesi di Trasimaco (344a-c) deriva dalla prima non per con

seguenza logica ma per un effetto retorico, risulta più debole sul piano teo

rico e meno originale, finendo per avvicinarsi alle posizioni di Callicle (il

cui atteggiamento viene del resto in parte ripreso dal rifiuto di Trasimaco

di continuare la discussione con Socrate verso la fine del libro i).

Secondo la prima tesi, il potere, essendo anteriore alla legge, era per de

finizione esterno alla norma di giustizia. Si stabilisce così una polarità po

tere/giustizia dalla quale, in modo appunto retorico, è possibile derivare

le equazioni potere = ingiustizia, suddito = giusto. Di qui la tesi secondo

cui la giustizia, praticata dai sudditi, è un “bene altrui’ cioè è funzionale

all’interesse dei potenti ingiusti che li opprimono. La figura perfetta del

potere ingiusto torna quindi a essere quella dellapleonexia del tiranno, l’u

nico uomo che sia veramente “libero” in quanto “padrone” di sé e degli

altri: questa immagine di uomo eteutherios perché dispotikos rievoca diret

tamente le nostalgie “eroiche” di Callicle.

Perché Platone attribuisce al personaggio Trasimaco queste due tesi,

che non sono logicamente connesse e rappresentano due livelli di pensie

ro molto diversi? Si può tentare una risposta ipotetica a questa doman

da: forse Platone intendeva suggerire che la seconda tesi costituiva per la

cultura contemporanea la “verità”, non teorica ma psicologica e appunto

retorica, della prima; che cioè il rigore logico di una “teoria critica” come

quella attribuita a Trasimaco finiva inevitabilmente, se essa non veniva

reinterpretata in modo adeguato, per lasciare il campo allapteonexia tiran

nica alla maniera di Callicle, e soprattutto — concretezza storica — di

Crizia e di Alcibiade.

6

Dal canto suo, Glaucone deriva dal paradigma della pleonexia una teoria

critica della giustizia che assume la forma di una genealogia della morale.

Come per Callicle e per Trasimaco, lapulsione primaria e naturale dell’uo

mo è quella di adikein, di esercitare una violenta sopraffazione sugli altri

per conquistare potere, gloria e ricchezza (358e). Ma — e qui sta l’originalità

della tesi di Glaucone, che ne fa uno straordinario precursore di Hobbes e

del pensiero contrattualistico — naturale genera un altrettan

to universale sentimento di paura: non ci sono superuomini alla maniera

di quello evocato da Callicle, ognuno è troppo debole per poter sperare di

esercitare la violenza sugli altri senza doverne subire una ancora maggiore.

Nasce così il patto (syntheke) di giustizia, che consiste in una reciproca ri

nuncia alla violenza e nell’impegno comune a rispettare le leggi. La legge e

la giustizia costituiscono dunque la protezione dei deboli, ma non ci sono,

come pensava ancora arcaicamente Callicle, deboli e forti “per natura”:

la debolezza, e la paura che ne consegue, sono una condizione universale

degli uomini in società, che li costringe a rinunciare alla pulsione primaria,

al basic instinct della violenza.

Almeno in apparenza, perché la rinuncia allapteonexia riguarda solo la

superficie civilizzata e socializzata del cittadino che ha bisogno dell’appro

vazione (eudokimesis) degli altri. Sotto questa superficie, resta la ferocia

originaria del «vero uomo» (359b). La pulsione della pleonexia sceglie

allora la via della segretezza, del complotto, della società segreta (hetairia,

synousia), sotto la protezione pubblica dell’abilità oratoria e dell’esibizio

ne di virtù civiche. Il conflitto pleonectico si sposta dunque dall’atmosfera

“eroica” di un Callicle, dall’evocazione tirannica di Trasimaco, alla realtà

quotidiana della trama segreta, dell’intrigo, della menzogna.

Dietro la tesi di Glaucone sta probabilmente la figura di un “cattivo

maestro” del pensiero e della politica quale fu, verso la fine del v secolo,

l’ateniese Antifonte. Le ricerche papirologiche di Fernanda Decleva Caiz

zi e le analisi storiografiche di Michel Narcy hanno ormai mostrato l’unità


202 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA FLEONEXL4 203

di questa figura, che veniva di solito scissa fra il sofista “democratico’ che

avrebbe contrapposto l’egualitarismo naturale alle gerarchie arbitrarie im

poste dalle convenzioni e dalle leggi, e l’oligarchico golpista di cui testimo

nia Tucidide (viii 66-70). Antifonte aveva in realtà descritto la reciproca

rinuncia all’adikein nella vita pubblica, che costituiva il contratto (homo

logia) su cui si fondano la società e le sue leggi; aveva però denunciato l’in

sopportabile violenza che queste leggi recano alla vera natura dell’uomo,

pretendendo di regolarne il comportamento i desideri (epithymiai), per

sino i gesti e le funzioni del corpo. Egli aveva quindi rivendicato l’utilità

della violazione segreta (tathra) delle leggi in nome del ristabilimento dei

diritti di natura (DK B fr. iA). Nella vita politica, come ci informa Tu

cidide, egli aveva organizzato grazie alla sua intelligenza e protetto dalla

sua deinotes oratoria, il colpo di stato dei Quattrocento, preparato dalle

società segrete e portato a termine grazie a una alternanza di intimidazio

ne e di violenza. È probabile che Platone si riferisse proprio ad Antifonte

quando denunciava nelle Leggi quei cattivi maestri che insegnano ai giova

ni che «in verità» la cosa più giusta è «vincere commettendo violenza»,

e promuovono staseis al fine di vivere « una vita corretta secondo natura»,

che consiste nel dominare gli altri e non servirli come vorrebbe la legge

(x 8$9e s.).

Crizia per un verso, Antifonte per l’altro, sembrano dunque essere

stati i maestri di pensiero e di azione della pteonexia, sullo sfondo storico

dell’imperialismo ateniese, della stasis nelle città, della rivolta oligarchica

contro la legge egualitaria della democrazia.

Platone ne elabora le posizioni teoriche, sovente, credo, le rende sul

piano filosofico più rigorose di quanto fossero in origine, ne produce di

verse versioni, che articolano tutto il ventaglio di possibilità di pensiero

che era implicito nel paradigma della pteonexia, e le porta sulla scena del

suo teatro filosofico attraverso la voce di grandi personaggi dialogici come

Callicle, Trasimaco e Glaucone.

lutto ciò rappresenta una formidabile sfida per la confutazione socra

tica: una sfida dalla quale, occorre dirlo subito, il personaggio Socrate, al

del Gorgia e dei primi due

quella

meno nella sua configurazione iniziale —

perdente.

esce

libri della Repubblica

La confutazione socratica fallisce a più riprese. fallisce di fronte al si

lenzio di Callicle, che oppone la forza di una scelta di vita a quella degli

argomenti e costringe Socrate a un monologo che si conclude con il mito

del giudizio delle anime: un mito, appunto, e non una teoria, del tipo di

quelli cui Adimanto gli proibirà di fare ricorso nel libro ii della Repubblica

(36 5d-3 66b).

La confutazione fallisce a più riprese anche di fronte a Trasimaco,

come Socrate riconosce apertamente alla fine del libro i della Repubblica.

Qui il fallimento è dovuto soprattutto all’impotenza del paradigma delle

technai, cui Socrate fa come al solito ricorso, a dire qualcosa intorno alla

logica del potere: il medico e il pastore non sono buoni esempi per con

futare il rapporto fra kratos, arche e nornos, e del resto Trasimaco non ha

difficoltà a svelare l’interesse pleonectico che sta anche dietro le maschere

di questi buoni artigiani (e l’usurpatore Gige della favola di Glaucone era

lui stesso un pastore).

Ed è proprio Socrate, nel libro 11, a dichiararsi incapace di “portare aiu

to” alla giustizia di fronte all’attacco sferrato da quei “figli di Trasimaco”

che sono secondo lui, sul piano intellettuale se non su quello morale, i

fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto. Non ne è capace, se non a condi

zione di abbandonare il livello della morale individuale che gli era consue

to e di accettare la sfida dellapteonexia sul terreno che le è proprio, quello

antropologico e quindi politico.

7

A dire il vero, anche su questo terreno Socrate va incontro inizialmente a

uno scacco, che è talvolta sfuggito all’attenzione degli interpreti. Socrate

apre il suo passaggio alla dimensione politica con la proposta di un’altra

antropologia, che non confuta quella pleonectica ma la sostituisce. Si tratta

di un’antropologia collaborativa, secondo la quale gli uomini sono spinti a

unirsi in società dalla necessità di soddisfare i loro bisogni primari (chreia).

Ci sono probabilmente riflessi democritei in questa nuova antropologia

socratica, da cui si origina una società prevalentemente economica, basata

sul principio della collaborazione produttiva, della divisione del lavoro,

dello scambio paritario di beni e servizi. Una società semplice, sana, a suo

giusta. Come

al livello di un’economia elementare —

cioè

anche

modo —

è noto, questa ipotesi antropologica di Socrate e il modello di società che

ne deriva vengono liquidati da Glaucone con una secca battuta: si tratte

rebbe, egli dice, di «una società di porci» (37zd), dove il termine non va

inteso naturalmente in senso morale ma in quello dell’eccessiva semplici

tà, dell’ignoranza e della stupidità. Ma perché Socrate ritiene che questa


— che

204 IL POTERE DELLA VERITÀ

battuta sia sufficiente a fargli abbandonare il suo primo modello sociale?

Quello di Glaucone non è evidentemente un argomento ma ha, ancora

una volta, la forza della testimonianza di una scelta di vita: e in questo caso

chi la propone è troppo importante perché il suo dissenso possa venire

ignorato. Il ceto che Glaucone rappresenta — quello stesso al quale vie

ne indirizzato l’intero sforzo persuasivo della Repubblica — non potrebbe

mai accettare un mondo primitivo e regressivo come quello delineato da

Socrate, che non soddisfa le sue esigenze urbane, i suoi ideali di una vita

colta, raffinata, abbellita dalle arti e premiata con il prestigio di un potere

politico e militare giusto, certo, ma accompagnato dalla time, dal ricono

scimento sociale cui quel ceto “signorile” si sente destinato.

Di fronte all’opposizione radicale di Glaucone, il primo progetto so

cratico di un’antropologia e di una società non pleonectiche è dunque

destinato ad abortire. È allora necessario intraprendere una via più lun

ga, che accetti come dati primari della condizione umana il bisogno del

lusso, la tryphe, dunque quella pleonexia dalla quale si origina la guerra

fra le città. La necessità della guerra produce a sua volta la formazione

di un ceto politico-militare che era assente nel primo modello. È la ri

educazione di questo ceto, che affonda le sue radici nella tryphe e nella

pteonexia, che porterà finalmente alla formazione della città giusta, nella

quale il conflitto pleonectico sarà superato da una struttura sociale ge

rarchizzata e governata da un potere razionale (tutto questo almeno nel

togos; nel tempo storico questa rieducazione potrebbe configurarsi — se

condo le prospettive formulate nei libri V e VI — come la conversione

di dynastai politici e militari ad opera di un piccolo gruppo di autentici

filosofi-legislatori).

8

Un conflitto superato e governato, ma non certo estinto. Al contrario, il

libro IV della Repubblica offre una potente fondazione psicologica all’an

tropologia della pleonexia. Per la prima volta, la concezione della “natura

umana” che essa evocava viene giustificata da una teoria dell’anima, che

mostra come il conflitto pleonectico sia radicato nell’apparato psichico

di ogni uomo in modo tale che ogni sforzo di governarlo non può che

risultare precario.

ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 205

Bisogna qui premettere un’osservazione di metodo che troppo spesso

è trascurata dai commentatori. La tripartizione del corpo sociale su cui si

fonda l’equilibrio della città giusta è, nel testo platonico, un progetto deli

neato dal logos, un modello normativo affidato ai fondatori e ai legislatori

della kattzotis, filosofi o dynastai che essi siano. Per contro, la tripartizione

dell’anima è il risultato di una descrizione dell’effettiva realtà psichica, di

una fenomenologia dei processi decisionali e delle fonti motivazionali da

cui essi dipendono (il “conflitto tragico” gioca un ruolo importante nel

sapere psicologico che sta alla base di questa fenomenologia). Questa dif

ferenza di punti di vista (il dover essere sociale da una parte, la realtà psi

cologica dall’altra) spiega molte delle difficoltà nella costruzione di una

perfetta omologia fra le due tripartizioni, che Bernard Williams ha analiz

zato in modo magistrale.

La fenomenologia dell’anima rivela che in essa sono presenti due com

ponenti, due masse energetiche destinate a riprodurre senza sosta l’insor

gere della pulsione pleonectica: lo thymos, il desiderio di autoaffermazione,

l’aggressività rivolta allo spirito di vendetta, alla gloria e al potere; e lo

epithymetikon, la fonte dei desideri di piacere e di ricchezza. Lo thymos

può, grazie a una strategia educativa complessa, venire indotto ad allearsi

con la parte razionale dell’anima, convincendosi che solo nel governo del

la ragione esso può trovare l’autentica realizzazione dei suoi bisogni (ma

anche in questo caso si tratta di un’alleanza precaria ed esposta al pericolo

di una stasis psichica). Al contrario lo epithymetikon è una irriducibile mi

naccia per il potere della ragione. Scrive Platone:

queste due parti [logos e thymos], così allevate e veramente educate in modo da

apprendere ciò che è loro proprio, prenderanno il controllo di quella desiderante

è la più grande nell’anima di ciascuno e per sua natura la più insaziabile di

ricchezze. Essa va sorvegliata per evitare che, diventata grande e forte gonfiandosi

dei cosiddetti piaceri connessi al corpo, cessi di svolgere la propria funzione e tenti

di ridurre in servitù e sotto il suo potere le altre parti, ciò che non le si addice per la

sua origine, sovvertendo così l’intero modo di vita di ognuno (442a-b).

Lapleonexia non è dunque una concezione antropologica arbitraria, con

cepita da qualche storico, sofista e oligarca impressionato dalla lezione

di quel «maestro violento» che era stata la guerra del Peloponneso, alla

quale contrapporre, come faceva Socrate nel libro Il, un’antropologia col

laborativa del lavoro e dello scambio. Si tratta piuttosto, secondo Platone,


non

è

zo6 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 107

di una realtà psicologica insuperabile, che può essere controllata, ma non

soppressa, da un tenace sforzo di condizionamento educativo dell’anima

e della città.

Uno sforzo, tuttavia, i cui successi non possono essere che parziali e

precari. Questa è la lezione di quel paradossale rovesciamento di pro

spettiva che Platone opera nei libri viii e ix della Repubblica. Secondo

i teorici della pteonexia, all’origine stava uno stato di natura, appunto

pleonectico, che l’inganno delle leggi e della giustizia cercava in qualche

modo di reprimere e di celare, a protezione dei deboli. Secondo Platone,

invece, la “natura” che sta al principio — una natura che costituisce evi

dentemente un concetto non descrittivo ma normativo, e un inizio che

non è storico o cronologico, ma per così dire fenomenologico — la città

giusta, la katliolis. Essa subisce un inevitabile processo di deformazione

e decadenza sotto la pressione delle pulsioni pleonectiche, quella timica

prima, quella epithymetica in seguito. È dunque il tempo storico, non

la natura delle origini, che costituisce il luogo fenomenologico di realiz

zazione della pleonexia. Ma il risultato non cambia: esso si conclude, in

una paradossale “fine” antiteleologica, nella tirannia, la forma di vita e di

potere che Platone aborriva e che costituiva invece l’oggetto del deside

rio di Callicle e di Trasimaco, la segreta aspirazione di ogni “vero uomo”

secondo Glaucone.

Le leggi storiche — quelle dell’oligarchia, della democrazia, natural

mente della tirannide — sono allora secondo Platone freni per lapleo

nexia ma suoi strumenti. Trasimaco (e soprattutto il Trasimaco della sua

prima tesi) aveva dunque ragione. La realtà inevitabile della storia delle

società umane consiste nel trionfo, in forme diverse, della violenza e della

sopraffazione reciproca, nell’asservimento dei poveri da parte dei ricchi, o

dei ricchi da parte dei poveri, fino all’assoggettamento universale rappre

sentato dalla tirannide.

Se questa è, ancora una volta, la “verità delle cose’ Platone non ha che

una sola risposta, e una sola proposta. È necessario accettare, con Trasi

maco, la centralità della questione del potere, to archon. Si può tuttavia

tentare di costruire un gruppo di potere non trasimacheo, cioè relati

vamente immune dallo spirito di pleonexia, mediante un’operazione di

chirurgia politico-morale che ne estirpi le radici, cioè la proprietà, la fa

miglia, la privatezza del patrimonio e degli affetti (come Platone avrebbe

ricordato nelle Leggi, si tratta insomma di far sì che «con ogni mezzo

tutto ciò che si definisce privato venga da ogni parte sradicato dalla vita

dell’uomo», V 739c): tutto ciò insomma che altrimenti trasforma inevi

tabilmente il cane da guardia in un feroce predatore come il lupo (il pe

ricolo evocato nel terzo libro della Repubblica). Questo gruppo di potere

dovrebbe subire una indelebile tintura educativa, al tempo stesso etica e

intellettuale, capace di garantire che il suo sia un potere di servizio e non

di oppressione. Esso dovrebbe infine venir dotato della forza necessaria

grazie all’alleanza con un ceto guerriero le cui aspirazioni all’autoaffer

mazione possano venire sublimate in direzione della ricerca della felicità

universale del corpo sociale, compresa come unica possibile garanzia an

che per una vera felicità delle sue singole componenti: una finalità eu

daimonistica, dunque, che non si contrappone alla deontologia ma ne è

strettamente implicata.

A questo punto, tutto funzionerebbe secondo lo schema di Trasimaco:

è vero che le leggi saranno in ultima istanza strumento della conservazione

del potere di questo gruppo, to archon, ma è anche vero che esso lavorerà

per la felicità dell’intero corpo sociale anziché per la sua spoliazione. La

questione del potere, di “chi comanda’ resta dunque primaria e centrale:

ma è possibile pensare che la destinazione del potere stesso cambi di senso,

si orienti verso il bene comune, facendo diventare la giustizia un “bene

proprio” anziché altrui.

Trasimaco non è allora confutato ma almeno corretto. Tuttavia anche

questa correzione risulta, come si è visto, provvisoria e instabile. L’im

menso sforzo di ricondizionamento intellettuale e morale dellapleonexia,

ispirato dal “paradigma in cielo” della giustizia, dà luogo a una costru

zione artificiale, che si appoggia su di un terrain vague. La realtà psichica

dell’uomo, la mutevolezza delle circostanze storiche, il conflitto sempre

riprodotto dalle condizioni stesse della vita sociale, determinano una

malattia perpetua, una aezatheia del genere umano, che è appunto la

pleonexia. Vale la pena di combatterla, come dicono le righe finali del

la Repubblica, per «star bene» (eu prattein), in questo e magari anche

nell’altro mondo, in un viaggio che può durare mille anni. Ma la guarigio

ne dell’anima e della città, la loro salute, non sono stati che si possano mai

considerare stabili e acquisiti per sempre. Per sempre, c’è solo la “verità”

della pteonexia.

Il peggior torto che si possa allora fare a Platone è di considerarlo un

pensatore edificante, affrancandolo da quel lato oscuro del suo pensiero

cui danno voce personaggi come Callicle, Trasimaco e Glaucone, e che

costituisce una parte non piccola della sua “verità”


2.0$ IL POTERE DELLA VERITÀ

Riferimenti bibliografici

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zooo (che comprende il citato saggio di E. Ostenfeld); cfr. anche M. Vegetti,

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in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogoplatonico, Napoli zooo, pp. 74-85

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Franaise d’Histoire des Idées politiques’ III, 1996, pp. 3i-45; su Tucidide e il dibat

tito sofistico intorno apteonexia cfr. anche G. Giorgini, Idoni di Pandora, Bologna

1001, capp. I, VII.

Sulla teoria della giustizia e l’omologia anima-città nel Iv libro della Repubblica

si è fatto riferimento a B. Williams, The Anatogy of City and Soul in Ptato’s ‘Repu

blic”, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exegesis andArgument,

Assen 1973, pp. 196-lo 6. Sulla questione cfr. anche Vegetti, Platone, La Repubblica,

cit., vo1. III, pp. 11-45.

Interessanti osservazioni critiche sulle tesi discusse in questo saggio sono state

formulate da F. Decleva Caizzi, Glaucone, Socrate e t’antropologia della pteonexia, in

“Elenchos”, XXIV, 1, 2003, pp. 361-73.

Parte quarta

La verità


Socrate

che

il

9

Nell’ombra di Theuth.

Dinamiche della scrittura in Platone*

La prima e maggiore ambiguità del corpus filosofico di Platone sta nella sua

stessa esistenza. Si tratta di un insieme di scritti teorici senza precedenti,

per dimensione e qualità, nell’esperienza culturale greca — che però ven

gono presentati come progetto mimetico di trascrizione della parola di un

filosofo — aveva sempre rifiutato la scrittura. Non solo: questi

scritti contengono anche elementi di una teoria sistematica del rifiuto della

scrittura nei suoi valori comunicativi (fedro), legislativi (Politico), conosci

tivi (Lettera vii). L’ambiguità rischia di paralizzare sul nascere un’indagine

sulle forme e le dinamiche della scrittura in Platone. Se si privilegia il dato

di fatto dell’esistenza del corpus platonico, si può vedere in Platone — con

tro le sue stesse parole — l’artefice di una rivoluzione scritturale, lo scopri

tore delle virtualità concettuali insite nella messa per iscritto del pensiero:

è la proposta, fondamentale ma anche paradossale, avanzata da Havelock’.

Se ci si tiene, all’opposto, alla lettera dei passi ora ricordati, leggendovi i

luoghi forti della costituzione di una teoria unificata della negatività della

scrittura, occorre declassare l’intero corpus allo statuto di un gioco lettera

rio, non più che propedeutico rispetto all’esercizio della vera filosofia, le

cui tracce andranno allora cercate in direzione delle dottrine non scritte: è

questa la via su cui si sono mossi, con un rilevante sforzo argomentativo, gli

interpreti della scuola di Thbingen, Gaiser e Kràmer in particolare.

Per sfuggire alla trappola che Platone ha teso al suo lettore — cui senso,

tuttavia, andrà interpretato — si è scelto qui di muoversi a monte rispetto

alle strettoie di questa alternativa. Si tenterà cioè di seguire, in modo esten

sivo3, i numerosi segmenti di interrogazione platonica sulla scrittura, nelle

loro direzioni disperse e anche divergenti: una tortuosa linea di crinale fra

l’impatto arcaico dell’esperienza grafica e le mature teorie della lingua e

Questo capitolo è già stato pubblicato in Ivi. Detienne (a cura di), Sapere e scrittura in

Grecta, Laterza, Roma-Bari 1989.


una

a

appunto

elementare

al

2.12. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “3

del testo proprie del iv secolo. Se ne potranno definire alcuni profili locali:

il mito ambiguo delle origini della scrittura, la sua assunzione metaforica

nella figura di un sapere elementare che rinvia a un possibile sapere degli

elementi, la costruzione di un modello di conoscenza analitico-sintetica

messo alla prova innanzitutto sulla phone, lo strumento di una circola

zione culturale e di una pratica legislativa che si tratta di controllare e di

governare, infine il problema del testo filosofico. Altrettanti elementi che

rendono la riflessione platonica sulla scrittura — monte della sua eventua

le chiusura teorica — produttiva, nella sua autonomia, di nuove forme di

sapere possibile, di nuove esplorazioni intellettuali.

L’invenzione della scrittura

Platone toglie agli dei e agli eroi della tradizione greca, come Prometeo

o Palamede, la responsabilità preoccupante dell’invenzione di un ritrovato

ambiguo come la scrittura. Essa viene piuttosto collocata nell’antichità im

memorabile dell’Egitto dei re, dei sacerdoti e dei templi: qui si sviluppa una

scrittura sacra (hiera grammata) e capace di conservare una memoria on

nicomprensiva (paniagegrammena) (Tim l3a-d). All’opposto del vecchio

Egitto, barbaro6 a suo modo per eccesso di antichità e di civilizzazione, si

situano i barbari privi digrammata, legati alla tradizione orale delle leggi dei

padri, il cui prototipo sono i Ciclopi omerici (Leg. III 68ob). Nello spazio

intermedio tra questa barbarie “orientale” e “occidentale’ segnata rispettiva

mente dall’abuso e dal difetto della scrittura, si collocano i Greci: sottoposti

come sono alla vicenda delle catastrofi alluvionali, essi ciclicamente scopro

no e riperdono i grammata, avvicinandosi di volta in volta alla condizione

egizia e a quella “ciclopica’ costretti comunque a una memoria lacunosa e

intermittente, e a un rapporto difficile con la scrittura (Tim. za SS.; Leg.

iii 6$oa), in qualche modo indicativo dello stesso atteggiamento platonico.

Com’è ben noto, l’inventore della scrittura che Platone sostituisce a

Prometeo e Palamede è un dio egiziano, Theuth, che sottopone il suo heu

rema al re Thamus e ne viene rimproverato, perché esso è nocivo alla me

moria e al vero sapere (?haedr. za ss.). La capacità inventiva di Theuth

è coerente ma ambigua. I suoi ritrovati — variante platonica della lista

altrove attribuita a Palamede — si possono disporre in due serie; la prima,

“alta”, comprende aritmetica, geometria, astronomia — le discipli

ne che la Repubblica indica come essenziali per la formazione del filosofo;

a essa ne segue una “bassa”, che include la dama (petteiai), i dadi (kybeiai)

e appunto le lettere scritte, igrammata (Phaedr. z74d). La coerenza fra le

due serie sta nel fatto che tutte le discipline comprese si basano su elementi

semplici (numeri, figure, solidi nel primo caso, pedine, dadi, lettere nel

secondo), e ne utilizzano le proprietà combinatorie. Quanto all’ambigui

tà dell’invenzione della scrittura, essa risulta evidente se si riscrivono le

due serie in ordine di crescente complessità conoscitiva7: otterremo allora

la sequenza di dama, dadi, grammata, aritmetica, geometria, astronomia.

Nel campo generale delle invenzioni elementari-combinatorie, la scrittura

si colloca dunque al limite tra la serie dei giochi, di cui fa parte, e quella dei

saperi produttivi di verità, ai quali prelude.

L’invenzione di Theuth non è del resto abbandonata alla condanna del

re Thamus. Nella sua collocazione mitica, essa anticipa la produttività co

noscitiva dell’impiego metaforico e paradigmatico dei grammata, precisa

mente nell’esplorazione della possibilità di costruire una forma generale di

sapere elementare-combinatorio.

Sapere elementare, sapere degli elementi

Impiego metaforico e paradigmatico, si è detto. In sé stessa, la tecnica della

scrittura (e quella connessa della lettura) non rappresenta più per Platone

un fenomeno culturale emergente e innovativo, e neppure un formatore

dell’immaginario scientifico, come poteva accadere ancora per gli atomi

sti. Scrittura e lettura costituiscono certo un sapere, che ha i suoi specia

listi, i grammatistai. Senza questo sapere noi avremmo la pura percezione

della figura e del colore delle lettere ma non le conosceremmo, come udia

mo il suono della phone dei barbari senza comprenderla (Theaet. i63b)8.

Ma si tratta di un sapere di grado minimo, ovvio e declassato

— pari dei

suoi specialisti —, nel senso che è il primo cui i ragazzi accedo

no e di conseguenza il più diffuso. Il grammatistes occupa sempre il primo

posto nelle sequenze di insegnanti elementari formulate da Platone, che

gli affianca nell’ordine kitharistes e paidotribes (cfr. ad es. Prot. 3izb); il

primo apprendimento dei ragazzi consiste nel passare dalla comprensio

ne della voce a quella dei grammata (Prot. 325e), ed è a loro che spesso i

genitori affidano il compito minimo di leggere o scrivere qualcosa (Lys.


214

rispecchia probabil

ignorano ancora?

IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THIUTH 215

zo9a-b). Platone non fa che registrare questa situazione quando prescrive

nelle Leggi che i futuri cittadini debbano apprendere “con precisione” i

grammata fra i io e i i anni di età (Leg. vii 809c ss.).

Capacità minima e diffusa, e come tale agevolmente fruibile a un livello

metaforico elementare, la scrittura gode tuttavia di una serie di proprietà

interessanti. È ripetibile a piacere (Rpp. mi. 366c), ha capacità referenzialj

(quando un ragazzo scrive o legge un nome altrui «non fa le cose pro

prie», Charm. i6id-e). li segno grafico rimane identico anche nel variare

delle sue dimensioni (Resp. ii 36$d); forma un piccolo gruppo di stoichefa

che restano riconoscibili in tutte le combinazioni in cui vengono a tro

varsi (peripheromena) (Resp. iii 401a). Il gramma è dunque stoicheion, ele

mento primo, semplice e invariante della scrittura; stoichelon esso stesso,

può venir assunto a paradigma estensibile a qualsiasi elemento cui pos

sano venir ridotte, e da cui possano venir derivate, strutture complesse’°.

Sapere elementare, la lettura può quindi a sua volta essere concepita come

il paradigma universale di una conoscenza degli elementi. Un passo del

Potitico (277e-z78b) offre la chiave di questa estensione paradigmatica del

gramma/stoicheton e della scrittura/lettura:

Noi in qualche modo sappiamo che i fanciulli, appena sono divenuti esperti delle

lettere [grammata] {...] discernono bene ciascun elemento [stoicheton] quando

si trova nelle sillabe più brevi e più semplici, e sono capaci di esprimerli corret

tamente [...]. Ma in altre sillabe non li distinguono più chiaramente e allora su

di essi le loro opinioni e i loro discorsi sono falsi [...]. E non credi allora che sarà

facilissimo ed efficacissimo questo modo per guidarli alla conoscenza di ciò che

[trnagein] prima davanti a quelle sillabe

Quale?

in cui essi li riconoscevano correttamente, poi porre questi di fronte a quelli non

Riportarli

che

secondo

stesso.

è in gioco un pensiero degli elementi. A chiunque si debba la teoria, essa

mette in opera, secondo Platone, il paradigma dei grammata/stoicheia e

tn dei Megarici, posizioni comunque non estranee all’orizzonte socratico

se non certo esenti da un’eco atomistica, come sempre, del resto, quando

ticolazione teorica del discorso platonico è troppo complessa perché sia

qui possibile ricostruirla analiticamente; altrettanto difficile è il problema

storiografico di identificare i sostenitori di questa dottrina, cui Platone al

platonico, forse condivise problematicamente dallo stesso Platone, anche

mdc molto vagament&. Si tratta secondo alcuni di Antistene, secondo al

za basata sulla riduzione delle strutture complesse agli elementi semplici

enunciati o dei nomi nominando gli stoicheia onde essi sono generati. L’ar

che le compongono; in particolare, di ottenere la definizione (logos) degli

Il primo di questi esperimenti, condotto nel Teeteto, è di ordine episte

mologico. In questione è la possibilità di ottenere una forma di conoscen

menti. La produttività teorica di questo paradigma viene messa alla prova

definizione del modello scrittorio come possibile infrastruttura teorica di

una episteme analitico-combinatoria: invarianza degli elementi primi, ri

da Platone, con una serie di esperimenti concettuali, in direzioni diverse e

ducibilità a essi dei composti, regole di derivazione dei composti dagli ele

funzione vocalica e del sapere grammaticale. Ma intanto, si è completata la

allora il problema di individuare gli equivalenti metaforici generali della

nazione di lettere sarebbe possibile; e la grammatica rappresenta il sapere

specifico relativo a questo campo di combinazioni (Soph. 253a). Si apre

che regolino le combinazioni possibili. Alcune lettere, infatti, possono dar

le vocali, in particolare, fungono da legame senza il quale nessuna combi

solo per quanto riguarda la riducibilità delle strutture complesse ai loro

elementi primi, ma anche in vista della produzione di criteri di selezione

luogo a mescolanze perché si accordano (synarmottei) fra loro, altre no;

significherà conoscere qualsiasi testo possibile; il possesso di questo sapere

Più seriamente, il paradigma dei grammata può venire utilizzato non

un nome qualsiasi significa immediatamente diventare più esperto in tutta

il quale, poiché ogni testo è composto da grammata, conoscere le lettere

quanta la tecnica (grammatikoteros, i8c-d). Su questa via, non è difficile

primario riduce qualsiasi ulteriore conoscenza a un semplice riconosci

mente una sorpresa più arcaica di fronte all’esperienza scrittoria —

per il sofista Eutidemo giungere al paradosso —

con risultati contrastanti.

mento (Euth. ziia)”.

ancora conosciuti, e finalmente comparando i primi ai secondi mostrare che in

entrambe le serie di combinazioni {symptokai] sono presenti elementi simili e del

la stessa natura, fino a che accanto a tutti quelli ignorati siano posti e mostrati gli

elementi corrispondenti da loro interpretati correttamente, e questi elementi, una

volta mostrati così e divenendo quindi modelli [paradergmata], diano modo di

denominare ogni elemento in ogni sillaba, quando è diverso, come diverso dagli

altri, quando identico, come identico sempre dallo stesso punto di vista con se

A prima vista, la proprietà più sorprendente della conoscenza per elementi

fondata sul paradigma del gramma è la sua indefinita ripetibilità e quindi

estensibilità. Il Politico osserva che riconoscere le lettere di cui è formato


con

come

zx6 IL POTERE DELLA VERITÀ I

NELL’OMBRA DI THEUTH 217

della loro relazione con le sillabe: queste hanno un logos, una definibilità

che consiste precisamente nella risoluzione nelle lettere che le compongo..

no; il processo si arresta qui, perché gli stoicheta non sono ulteriormente

definibili (atoga) ma solo nominabili con il loro suono o classificabifi se

condo i tipi’3. Lo stoicheion non è dunque conoscibile (gnoston) in sé stes

so: come lo sarà allora la sillaba se la sua conoscenza dovrebbe risultare

dalla scomposizione in lettere e dalla enumerazione/nominazione di que

ste ultime? D’altra parte, se si dovesse inferire (tekmairesthai) dal modello

addotto per lo sviluppo della teoria, le lettere-elementi dovrebbero posse

dere una conoscibilità più evidente e sicura delle sillabe che ne derivano.

La conclusione, come è noto, è dubitativa e aporetica: chi non combina le

lettere nelle sillabe non ha conoscenza, ma anche scrivendo ordinatamen

te tutti gli stoicheia del nome “Teeteto” se ne otterrà una retta opinione

basata su un logos definitorio, ma non ancora una conoscenza scientifica,

una episteme (Theaet. zoie-zo8a).

Per quanto ci interessa più da vicino, i dubbi epistemologici tematizzati

da Platone

— molta cautela e anche rispetto per la teoria discussa —

sembrano essere di due tipi. Il primo riguarda la legittimità conoscitiva

generale di un metodo “elementaristico”, analitico-scompositivo, che non

è rifiutato tout-court ma che sembra incapace di comprendere l’originalità

formale del composto rispetto ai suoi elementi (cfr. soprattutto zo3e)’4, o

la sua referenzialità, come nel caso del nome “Teeteto” (zo8b). Il secondo

riguarda più da vicino la legittimità del,gramma a fungere da metafora del

lo stoicheton: in quanto non definibile in sé, ma solo nominabile, ilgramma

sembra mancare della trasparenza conoscitiva, della ricchezza di significa

zione che un elemento dovrebbe possedere perché le sue combinazioni sia

no suscettibili di conoscenza ulteriore e più elevata. Le possibilità offerte

in questo senso dal gramma verranno ulteriormente esplorate nel Cratito.

Ma il tema viene ripreso in modo diretto nel Timeo, dove Platone si chiede

esplicitamente con quali caratteri sia scritto il libro del mondo. Quelli che

una lunga tradizione considera “elementi”, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco,

non solo non vanno considerati stoicheia, ma neppure sillabe dell’alfabeto

cosmologico (Tim. 4$b-c). La piramide, ad esempio, è lo stoicheion del

fuoco, ma essa — ogni altro solido — risulta a sua volta una “sillaba”, il

composto (systasis) dei veri elementi, i triangoli rettangoli scaleni ed equi

lateri (56b-57c).

Come si vede, il Timeo non rifiuta affatto il modello analitico-com

binatorio, ma sostituisce la suggestione metaforica del gramma con il ri

ferimento almeno parzialmente non metaforico alle figure geometriche

“prime” come costituenti elementari del mondo. Rispetto ai grammata,

i triangoli presentano per Platone l’incommensurabile vantaggio episte

mologico di una totale definibilità, di una trasparenza senza residui alla

visione conoscitiva, quindi la capacità di fondare un edificio conoscitivo

sempre più complesso ma sempre linearmente riducibile alle proprietà dei

suoi elementi primi.

Quanto al Sofista, Platone vi sperimenta, come è noto, un particolare

metodo scompositivo e quindi definitorio degli aggregati ideali complessi,

quello dicotomico. Qui gli elementi in cui si conclude la scomposizione

non sono grammata e neppure triangoli, bensì forme semplici e indivisibi

li, gli atoma eide (Soph. ;;9d). A parte l’andamento generale del metodo,

sembra interessante rilevare la formazione di nuovi nomi corrispondenti a

livelli intermedi di realtà, che la dicotomia mette in luce e che sono restati

finora anonimi (z67d).

L’onomaturgia platonica procede utilizzando le parole del linguaggio

comune come stoicheia dalla cui composizione risultano i nuovi termini;

reciprocamente, la definizione di questi ultimi consisterà nella somma del

le definizioni dei termini elementari in cui possono venire scomposti (si

pensi a parole di conio platonico come zootherike,pezotherikon, anthropo

theria, mathematopolike ecc.: Soph. zzoa ss.).

Anche qui, come per altri aspetti nel Timeo, il paradigma analitico

combinatorio dell’episteme scrittoria resta attivo e produttivo, nonostante

le aporie del Teeteto e la negazione al gramma della dignità di stoicheion

universale.

Ma è naturalmente sul terreno della lingua, del rapporto phone

gramma, che le potenzialità conoscitive della scrittura possono venire spe

rimentate più a fondo’.

Decisiva è in questo senso l’analisi del Fitebo (17a-b, i8b-d). L’emissione

vocale costituisce un continuum, unitario per un certo aspetto, e per un al

tro anche indefinitamente molteplice (apeiron). L’unico modo per gover

nare conoscitivamente questo continuo paradossale sono appunto le lettere

dell’alfabeto, i ,grammata: esse rappresentano uno strumento analizzatore

che mediante i grafemi scompone la voce nei suoni-fonemi elementari che

la costituiscono. 11 gramma è dunque il termine medio tra la voce, una e

indefinita, e l’insieme discreto e numerabile dei suoni che la compongo

no. Mediante questa analisi, Platone elabora al tempo stesso una conquista

concettuale e un modello epistemologico. La prima consiste nel compiuto


219

NELL’OMBRA DI THEUTH

risponderanno così al flusso e al movimento, delta e tau alla immobilità e

alla quiete (426c SS., 434C ss.). Ma che cosa significa questa corrisponden

za? La prima possibilità esplorata in questa direzione da Platone consiste

nel far corrispondere a ogni fonema-grafema un semantema, cioè a ogni

elemento della scrittura fonetica un radicale semantico immediatamente

referenziale rispetto alla struttura fine della realtà stessa. L’aggregazione di

questi radicali nei nomi primi, e di essi nei nomi composti, darebbe final

mente luogo a un linguaggio “naturale” o normale, cioè adeguato alla sua

funzione di strumento di simulazione/rivelazione delle cose stesse.

Questa prima possibilità semantica di adeguazione del linguaggio al

mondo è esemplificata da Platone con i nomi delle lettere: per quanto

compositi, essi devono sempre contenere la dynamis della cosa-lettera si

gnificata, come è ad esempio B nel nome beta (393e). Il nome corretto

si appropria dunque della “potenza” della cosa, e la significa. C’è indub

biamente un sapore arcaico in questo nesso elementare di significazione

tra parola e cosa; Platone lo esemplifica tuttavia, almeno nel suo versante

compositivo, che va dal semplice al complesso, con un sapere relativamen

te “moderno” qual è quello dei metrici orhythmikoi del V secolo. Essi sono

in grado di riconoscere e quantificare la dynamis degli stoicheia risalendo

da questi alle sillabe e poi al ritmo nel suo insieme (424c: con le stesse pa

role era definito il sapere di Ippia, maestro della dynamis di lettere, sillabe,

ritmi e armonie, in Hzpp. ma. i85d)’7.

Ma che cosa può garantire che la dynamis della cosa sia davvero cattura

ta dal segno fonico-grafico, e che il nome ce la restituisca, ce la “manifesti”

grazie alla sua potenza semantica? Platone è sistematicamente consapevo

le, attraverso tutto il Cratito, dell’arbitrarietà del nesso semantico che si

presume immediato tra sistema degli stoicheia, dei nomi primi e dei nomi

composti da un lato, e l’essenza delle cose, lo stato del mondo dall’altro.

Tanto è vero che egli produce due differenti analisi dei “radicali semantici”

IL POTERI DELLA VERITÀ

iis

riconoscimento della struttura e della funzione dell’alfabeto fonetico: la

cui invenzione è attribuita a «un dio o un uomo divino», Theuth secondo

la leggenda egiziana (lo sfondo egiziano, dunque semi-ideografico, appare

qui incongruo al ritrovato alfabetico, ma, come si vedrà, l’insistenza su di

esso non è priva di senso in rapporto ad alcuni sviluppi del Cratito).

Per quanto a suo modo definitiva, la teoria della scrittura fonetica inte

ressa qui a Platone per la sua fruibilità come modello; e precisamente per

una forma di sapere che

una volta —

ancora

a

la sua capacità di alludere —

non si smarrisca sterilmente nella polarità uno-infinito, ma che sia in gra

do, attraverso il processo analitico di elementazione e numerazione degli

stoicheia, e quello ricompositivo di aggregazione ordinata degli stoicheia

stessi, di muoversi nello spazio intermedio fra quella polarità, di passare

da una concezione indifferenziata a una articolata e composita dell’unità

via dell’esemplarità scritturale— si

la

quella

che rinviano a due opposte visioni del mondo, una delle quali —

sicuramente errata.

“eraclitea”, centrata sul dominio del movimento —

Di fronte all’esaustione e allo scacco di questo primo esperimento in

è

tellettuale, Platone imbocca, se pure meno sistematicamente, un’altra via,

quella suggerita dal grafismo della tradizione atomistica’8. In questa nuova

prospettiva il segno grafico, sciolto dalla connessione organica con il fone

ma, conta per la sua forma materiale e visibile. Il nome corretto sarà quello

che contiene ed esibisce, nei segni che lo compongono, il “typos della cosa”,

il suo sigillo, la sua impronta: un marchio di riconoscimento ridotto all’es

(fhit. i8a-b). Anche per questa via —

giunge al “parmenicidio”, si ricostruisce uno spazio discorsivo pur sempre

epistemologicamente controllabile e collocato tra la tautologia eleatica e il

suo orrore per la molteplicità indefinita: il sapere della dialettica viene così

strettamente metaforizzato da quello della grammatike (i$d).

Ma è certo nel Cratito che Platone compie l’esperimento intellettuale

più radicale e più esaustivo sulle possibilità conoscitive della scrittura in

quanto tale, fonetica e no.

Come è ben noto, il problema del Cratito consiste nel saggiare la tenuta

del legame fra linguaggio e realtà, la consistenza del rapporto fra i nomi e

le cosel6. Si tratta in altri termini di verificare se sia possibile, e pensabile,

una “normalità” corretta del linguaggio tale da stabilire una sequenza tra

l’essenza della cosa stessa (ousia toupragmatos), la forma del «nome per

natura» (onomaphysei), e la trascrizione di quest’ultimo in elementi (stoi

cheia) fonetico-grafici, quindi in grammata e sillabe. Se questa sequenza

fosse possibile, essa sarebbe allora ripercorribile all’inverso: lettere e silla

be, con i nomi che ne risultano, sarebbero leggibili come simulazione (mi

mesis), o meglio ancora come rivelazione (detoma) della ousia della cosa

stessa (Crat. 39od, 393d, 423e, 433b).

Questo nesso immediato fra il nome e la cosa non può venir rivelato

al livello dei nomi composti o aggregati. Un primo passo analitico dovrà

ridurli ai loro componenti primi, ai nomi-stoichela, quali possono essere,

nel contesto di un pensiero del movimento di tipo eracliteo, rhoe, flusso,

o ienai, andare (Crat. 4zza, 424a). Ma un secondo passo è in grado di

ridurre questi nomi ai loro radicali alfabetici: lettere come rho e iota cor


— con

il

per

12.0 IL POTERE DELLA VERITÀ

NELL’OMBRA DI THEUTH 12.1

senziale ma ben visibile (Crat. 431e). Torna in questo nuovo contesto, e

non a caso, l’esempio dei nomi delle lettere; solo che ora il nome beta non

è tanto il veicolo semantico della dynamis di B, quanto il suo rappresentan

te figurale, perché ne racchiude in sé la forma. Gli stoicheta dei nomi primi

dovranno dunque essere non significativi, ma riproduttivi della cosa, do

vranno essere homoia (uguali o simili) a essa, proprio come i colori della

pittura stanno alla cosa raffigurata (434a).

È difficile interpretare il senso di questo secondo esperimento plato

nico, direttamente centrato sul segno grafico, se non riportandosi, al di là

degli stessi stoicheia dell’atomismo, in direzione di un immaginario ideo

grafico. In una drastica quanto provvisoria rinuncia all’orizzonte della

scrittura fonetica elaborato nel fitebo, il geroglifico egiziano sembra di

ventare ora il modello possibile dello stoicheton del nome primo “corretto”

E questo può gettare nuova luce sull’insistenza platonica circa le origini

della scrittura in terra d’Egitto.

Rinuncia tuttavia provvisoria, si diceva. Anche l’esperimento di sosti

tuzione dei radicali semantici con radicali (ideo-)grafici per garantire la

consistenza del nesso fra il nome e la cosa viene portato rapidamente al suo

scacco. Il controesempio immediatamente evocato è quello dei nomi dei

numeri, altrettanto primi quanto quelli delle lettere ma incapaci di esibire

nella loro configurazione il typos della cosa (435c ss.).

Di fronte a questo duplice fallimento, non resta a Platone che proporre

un rincrescimento che non è soltanto ironico — ritorno a un crite

rio più “grossolano” (phortikon), e soprattutto più debole, di garanzia del

rapporto fra linguaggio e stato del mondo: quello della convenzione se

mantica tra i parlanti. Si apre così la via per il ripiegamento, al di là dell’in

chiesta sul linguaggio e sulla sua infrastruttura grafica, verso la riflessione

diretta sulle “cose stesse’

Che cosa rimane di quell’inchiesta? In negativo, la rinuncia alla pretesa

arcaica di catturare nel segno grafico, per una via o per l’altra, l’essenza e la

potenza delle cose. In positivo, ancora una volta, un paradigma “gramma

ticale” che costituisce il modello forte di un sapere analitico-combinatorio

non senza rapporti, come si è visto, con lo stesso programma dell’impresa

dialettica; e ancora, una mossa potente in direzione della costituzione di

una nuova scienza, la linguistica, che nasce nello spazio del rapporto fra

voce e scrittura, con la consapevolezza della capacità di quest’ultima di

oggettivare, articolare, dominare la voce parlata, e dell’autonomia — per

quanto malvolentieri accettata — della lingua rispetto alla realtà’.

i

Dalla scrittura al libro

Accanto alle sue potenzialità come paradigma teorico, c’è sicuramente un

incentivo esterno che spinge Platone alla sua riflessione intorno alla scrit

tura. Non più certamente l’arcano di una techne da poco inventata, com’e

ra accaduto in tempi ormai lontani; ma una vera e recente “rivoluzione

culturale’ la diffusione del libro e la sua generale accessibilitàbo. Questo

fenomeno appare a Platone capace di alterare profondamente i modi, i

contenuti e i destinatari della comunicazione culturale.

Come l’esperienza del v secolo aveva dimostrato, la scrittura è uno

strumento flessibile e accessibile a molti (mentre la forma orale della co

municazione richiede la preliminare credibilità del parlante, la sua capaci

tà di attirare e dominare un uditorio). Il libro consente inoltre una libertà

pressoché illimitata di discorso, non sottoposta alla censura immediata da

parte dell’uditorio; e, soprattutto, esso si offre a una fruizione non selet

tiva, né per quanto riguarda la cerchia dei lettori né per le circostanze e le

ragioni della letturahl. In questo modo, il libro da un lato “democratizza” la

circolazione culturale, dall’altro la rende anche a-sociale — chi punti a

un modello di socialità chiuso e coeso — perché isola il suo lettore dal con

testo e dal controllo del corpo sociale cui appartiene’. Per tutte queste ra

gioni, la circolazione dei libri appare a Platone eversiva in rapporto al suo

progetto di ricostruzione di una città fondata sull’educazione collettiva e

sulla coesione culturale che le è necessaria; una potenzialità dei libri con

fermata, come vedremo, dai loro effettivi contenuti, spesso irresponsabili,

talvolta decisamente pericolosi nei riguardi dei temi centrali del progetto

platonico: la vera filosofia, le giuste leggi, le credenze sugli dei.

Il fenomeno è preoccupante anche perché ormai radicato e diffuso in

modo irreversibile: gli ateniesi sono abbastanza esperti di g?ammata per

poter leggere il libro di Anassagora sugli astri (Apot. z6d). Sullo stesso

Socrate, che pure rifiuta tenacemente la scrittura, il libro agisce irresisti

bilmente come un’esca sugli animali (Phaedr. z3od): non gli basta sentir

leggere i libri di Anassagora, ma li acquista e li legge avidamente, con la

maggior rapidità possibile (Phaed. 98b). La diffusione e la fascinazione

del libro richiedono allora uno sforzo rivolto non a una impossibile ri

mozione, ma a limitarne, controllarne, governarne l’impatto per renderlo

compatibile con le strategie di fondo del programma platonico.

I dialoghi offrono intanto, sia pure in modo sporadico, un censimento

degli scaffali di quella che potremmo definire la “biblioteca d’Atene”.


2,2,2. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’ OMBRA DI THEUTH “3

afferma

Platone introducendo il problema della Scrit

«Nelle poteis» —

«ci

tura delle leggi —

sono opere scritte e discorsi scritti che sono opera di

molti autori» (Leg. Ix 858c). Questa biblioteca comprende libri comun

que “profani’ ma che possono spingersi fino alla profanazione, all’empietà

e all’ateismo.

Ci sono innanzitutto «opere scritte, senza metro o col metro, di poe

ti e quanti altri hanno voluto deporre nella memoria il loro parere sulla

vita», da Omero e Tirteo a Licurgo e Solone (Leg. ix 88d-e). Ci sono poi

opere poetiche scritte ma non musicate, in versi o in prosa, e syngrammata

antologici tratti da esse, che i giovani devono imparare a memoria: sphale..

ragrammata, scritti pericolosi, dice Platone, per l’irresponsabilità dei loro

autori e la inattendibilità dei contenuti (Leg. vii 8iob-8iib). Ci sono i libri

dei retori, come quello di Lisia, altrettanto irresponsabili e per giunta ca

paci di uccidere la memoria, secondo il rimprovero mosso dal re Thamus

a Theuth. Fedro tenta infatti di apprendere a memoria il discorso di Lisia,

ma poi abbandona questo sforzo “arcaico” di memorizzazione della comu

nicazione bocca-orecchio e si impadronisce del libro, che desidera recitare

a memoria; alla fine, premuto da Socrate, rinuncia anche a questo esercizio

e si arrende alla lettura (Phaedr ,,8a-e): un preambolo ironico, che prelu

de appunto alla grande discussione del Fedro tra l’inventore della scrittura

e il suo re in terra d’ Egitto.

Nella biblioteca d’Atene sono poi numerosi i manuali delle arti, della

retorica in primo luogo (?haedr. 66d), genere letterario che si immagi

na inaugurato da Nestore e Odisseo durante gli ozi sotto le mura di Troia

(zCib), e inoltre di medicina (z68c): manuali naturalmente incapaci ditta

sformare i loro lettori in buoni retori o in buoni medici, perché contengo

no tutt’al più le sole premesse dell’arte (z68a ss.).

Più futili ancora i libri dei sofisti come l’elogio di Eracle, dovuto a Prodico,

o quello del sale (Symp. i77b). Ma questi scritti diventano grotteschi

e pericolosi quando sfiorano i grandi temi della verità filosofica e religiosa.

Grotteschi, come l’Atétheia di Protagora che profetizza dall’adyton non di

un tempio, ma di un libro oscuro (Theaet. i6za); o come le formule enig

matiche (ainittontai) degli autori di scritti «sulla natura e sul tutto» alla

maniera di Empedocle (Lys. zi4b-d). Ma soprattutto pericolosi, come la

biblioteca ateniese dell’ateismo, prodotto di una «ignoranza tanto più

espongono la nascita degli dei e

grave in quanto pare essere il massimo dell’intelligenza» (Leg. x $86b).

«Ci sono da noi discorsi scritti nei libri, alcuni in versi, altri in prosa

che parlano degli dei. I più antichi narrano come in principio fu la prima

natura del cielo e delle altre cose, [...]

come venuti all’essere gli dei ebbero rapporti fra di loro» x (Leg. 886c).

Questi scritti non sono nè lodevoli nè utili né tantomeno veritieri, anche

se meritano una qualche indulgenza per la loro antichità. «Ma lasciamo e

diciamo addio a ciò che riguarda queste cose antiche [...] Noi ora dobbia

mo accusare le opere dei nostri moderni sapienti quanto sono e in causa

dei mali» (Leg. x 8$ Cd): questi libri negano, noto, divinità come è la degli

astri e l’esistenza di una qualsiasi provvidenza divina.

Tutto ciò che esiste negli scaffali della potis, tutto ciò che la scrittura

offre a una circolazione culturale diffusa e indiscriminata, risulta dunque

inutile o nocivo: questi libri indeboliscono la memoria, offrono al consu

mo giochi intellettuali futili, danno alloro lettore l’illusione non ma la re

altà del sapere, minano le credenze tradizionali poterle sostituire senza con

altre più vere. Quando si pone la questione libro cruciale del filosofico — il

chiarisce come la cattiva qualità

libro per eccellenza della verità —

Platone

della biblioteca d’Atene non dipenda soltanto irresponsabilità dalla teo

rica e morale a un tempo dei autori, più intrinsecamente suoi bensì dalla

stessa forma-libro, dal guasto che la scrittura opera contenuti.

sui suoi

Tre opere possono rappresentare la tipologia libro del filosofico par (a

te gli scritti sofistici di cui si è già detto). un libro Anas

A estremo, c’è il di

sagora, vero best seller dell’ateismo nella presentazione Platone

che ne fa

(Apot. 6d, Phaed. 97b ss.).

Accanto a esso, un libro non ignobile, dovuto a un autore “serio” (spou

daios) come Zenone di Elea: questi sente tuttavia giustificarne

il dovere di

sia la pubblicazione

— il libro gli è stato rubato prima potesse decidere

che

se «dario alla luce» o meno — sia la composizione: stato scritto, effet

è in

ti, per offrire «un qualche aiuto» Parmenide (boetheia) al logos di (Parm.

iz8c-d). Giustificazione invero insufficiente alla luce del passo del Fedro,

dove è semmai il libro, muto e impotente mani tutti, nelle di ad aver bi

sogno dell’ «aiuto del padre»-autore (Phaedr. z75e). E infine, all’estremo

opposto, c’è il «libro di Platone»: opera tuttavia, significativamente, non

del filosofo ma del tiranno siracusano Dionisio, impadronisce con

che si

un atto di forza dei logos del maestro propria e lo irrigidisce scrittu

nella

ra vii (Ep. 34ib). Ma Platone resiste a questa imposizione tirannica della

forma-libro al suo pensiero: egli non lo ridurrà mai a syngramma, perché

la filosofia non è comunicabile (rheton) come le altre discipline, ma si ac

cende d’improvviso nell’anima dopo dialettica

il travaglio della synousia

341c); nè in questo campo syngrammata possono i valere — come accade


di

di

può

può

può

da

2.2.4

IL POTERE DELLA VERITÀ

NELL’OMBRA DI THEUTH

2.2.5

per gli altri saperi e come il fedro aveva concesso (Phaedr. ;75d)

pro

memoria, hypomnemata, perché ciò che davvero è importante in filosofia

non si dimentica più una volta che abbia lasciato la sua traccia nell’anima

(Ep. vii 344d). Se anche accade che un autore “serio” consegni qualcosa

alla scrittura, non si tratterà certo delle sue cose più serie: ritorna il tema

della scrittura per “gioco” (paidia), come tesoro di ricordi destinati innan

zitutto a sé stessi, rimedio contro l’oblio della vecchiaia, di cui aveva par

lato ilfedro (z76d).

Se i manuali delle technai hanno dunque una qualche legittimità, pur

non bastando a generare il sapere, il manuale filosofico non ne ha alcuna,

non può e non deve esistere: quando ciò accade, esso è inevitabilmente

ateo o “tirannico”. Si pone altrettanto inevitabilmente, a questo punto, il

problema della scrittura filosofica di Platone. Il fedro, e ancor più la Lette

ra vii, escludono che essa possa venir presa “sul serio”: la vera filosofia non

accade se non nel «discorso vivente e animato», «scritto con la scienza

nell’anima», di cui quello scritto nel libro è tutt’al più un fratello, o me

glio un eidolon (Phaedr. z76a)’4.

Questo discorso vivente è capace di selezionare i suoi legittimi interlo

cutori — fronte alla anonimia volgare dei lettori di libri —, difendersi

e insegnare — fronte all’opaco mutismo dell’altro’ —, infine deter

minare la cruciale conversione, in cui si gioca l’essenza del platonismo, dal

la parola dialettica alla visione ontologica, dal logos all’eidos. Se tutto ciò

può apparire scontato, alta è tuttavia la posta in palio nello scontro delle

interpretazioni. Non prendere “sul serio” la scrittura di Platone può signi

ficare il rinvio, al di là di essa, a un corpus dottrinale “serio”, dunque chiuso

sistematicamente, dunque ancora metafisico, il cui punto di riferimento

esplicito andrà cercato, più o meno, nel neoplatonismo; oppure — secondo

una prospettiva neokantiana —, significare, all’opposto, una consape

volezza platonica dei limiti del testo scritto, delle sue condizioni d’uso nei

contesti della comunicazione, infine dell’impossibilità di chiusura di qual

siasi sistema filosofico’6. È in gioco, come si vede, il senso del platonismo:

un gioco probabilmente senza fine, di cui si intesse la tradizione filosofica

occidentale, e la cui indecidibilità ermeneutica dice molto circa l’ambigui

tà originaria del platonismo stesso.

A ben guardare, infatti, la Lettera vii non segnala soltanto l’inadegua

tezza della scrittura rispetto al discorso vivente della filosofia, ma insiste

soprattutto sul limite assoluto della parola filosofica, scritta o parlata che

essa sia: un limite connesso al carattere non esprimibile discorsivamente

(rheton) ma solo intuitivamente visibile della verità stessa. C ‘è dunque,

se mai, una doppia sostituzione, che è anche decadenza: della visione con

la parola (e questo fa radicalmente dubitare che Platone possa aver consi

derato le “dottrine orali” come espressione adeguata della verità)’Z; e del

dialogo parlato con la sua trascrizione. Entrambe le sostituzioni sembrano

compensare la loro inadeguatezza con una pari necessità: di rappresenta

zione mimetica del livello superiore’8, e di preparazione educativa a esso.

Su questo si tornerà più avanti; per ora, come si era avvertito, preferiamo

muoverci all’interno del labirinto offerto dalle esplicite dichiarazioni pla

toniche. Leggeremo dunque nel preambolo del Teeteto la regola (ironica)

e il senso della non serietà della scrittura dei dialoghi.

Come viene fabbricato un dialogo platonico, secondo la versione del

narratore del Teeteto, Euclide? A monte del dialogo scritto c’è, beninteso,

un dialogo parlato e “vivente”, quello fra Socrate e Teeteto, che si suppone

accaduto trent’anni prima, e che Euclide non può riferire a viva voce (apo

stomatos), non avendovi assistito. Ma già udendo il primo racconto di So

crate egli aveva scritto appunti, hypomnemata; poi con calma aveva steso

tutto quel che ricordava, chiedendo via via a Socrate di colmare le lacune,

sicché alla fine «tutto il discorso era stato scritto» (Theaet. 143a). Ma non

è in questa forma, nella forma del racconto di Socrate, che il ragazzo leg

gerà il libro dove è depositato il dialogo (ormai divenuto, come di regola

in Platone, un dialogo dei morti). Euclide ha scelto di presentare Socrate

dialogante (diategomenon) con gli altri personaggi: ha cioè eliminato le

parti narrative e utilizzato il solo discorso diretto. Dopo questo complesso

percorso intermedio, la scrittura, originata dalla voce di Socrate, cede di

nuovo il posto a una voce, quella del ragazzo lettore (Theaet. ;43b-c).

Tecnicamente, non c’è dubbio che Euclide-Platone faccia qui riferimen

to esplicito al modello della scrittura teatrale, che è definito con gli stessi

termini nella Repubblica: «Quando si sopprimono le parole intercalate dal

poeta tra un discorso e l’altro e si lasciano i dialoghi [...] si ha la tragedia»

(Resp. III 394b)’9. Ma soprattutto teatrale è l’intera sequenza di genera

zione del dialogo: l’evento originario, il dialogo, situato in un passato non

lontano ma segnato nella sua chiusura dalla morte dei protagonisti; il rac

conto, ossia propriamente il “mito”; la composizione del dialogo scritto;

infine la messa in scena che si attua nella lettura, e riconsegna il dialogo alla

voce (il Teeteto produce anzi un effetto di “teatro nel teatro’ perché i due

protagonisti del primo dialogo, che si suppone parlato, Euclide e Terpsio

ne, sono poi gli spettatori del secondo, di cui Euclide è anche l’autore).


di

della

e

propria,

zz6 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “7

Che il dialogo si definisca nella dimensione teatrale, sia trasformando

i lettori in spettatori-ascoltatori, sia mirando a porsi come la “vera tra

gedia” capace di sostituire quelle della tradizione, è del resto detto più

volte dal vecchio Platone (Criti. io8b; Leg. vii 817b-c). Il suo rapporto

con la verità serve certamente a mettere il dialogo filosofico al riparo dalla

censura che colpisce le altre forme teatrali°. Ma non può nasconderne

altri due aspetti, che esso condivide con l’intera dimensione teatrale cui

appartiene. Il primo è la presenza ineliminabile, costitutiva, della scrittura

come registrazione (immaginaria), supporto, regola della voce dialogante.

Se è impossibile e illegittimo scrivere il manuale filosofico, sarà dunque al

contrario legittimo e possibile scrivere teatro filosofico, che può simulare,

cioè rappresentare, i modi della veritiera comunicazione tra anime. Certo

resta difficile capire come questo teatro possa sottrarsi alla censura psico

logica che la Repubblica muove alla tragedia: un dispositivo che cancella

l’autore, frantuma e pluralizza l’unità sia del narratore sia del soggetto

ascoltatore, inducendo incontrollabili dinamiche di identificazione (Resp.

III 395 ss.).

Il secondo aspetto dà invece conto della necessità, della ragione segreta

di questo teatro filosofico: secondo l’analisi del Gorgia, «nei teatri i poeti

fanno retorica [...] che ha per spettatore tutto il popolo» (Gorg 5ozc-d).

Dal teatro, la replica filosofica spera quindi di derivare efficacia retorica,

capacità persuasiva universale posta al servizio di un progetto di rifonda

zione della città’.

Tanto più che essa è in grado, a differenza della tragedia, di “mettere

sulla scena” lo spettatore che vuole convincere, di farne un protagonista

dell’azione rappresentando e controllando, quindi, non solo lo sforzo del

la persuasione, ma anche i progressivi effetti che esso determina sul suo

destinatario: il i libro della Repubblica è in questo senso il più spettacolare,

ma non certo l’unico esempio di convocazione di “tutto il popolo” sulla

scena del dialogo, di trasformazione del lettore/spettatore in personaggio

dell’azione scenica32.

Scrivere filosofia è necessario per rappresentare persuasivamente la filo

sofia e la sua pretesa al comando; scriverla nella forma del teatro è l’unico

modo possibile per coniugare il massimo di efficacia retorica, nel contesto

della “teatrocrazia” ateniese (Leg. iii 7oIa), con il massimo di negazione

di una presenza tanto inevitabile quanto imbarazzante come quella della

scrittura. L’ambiguità del ricorso platonico alla scrittura filosofica, pur nel

rifiuto esplicito — matrice socratica — possibilità di un libro filoso

fico, ripete dunque l’ambiguità della stessa esperienza teatrale. Questo

non risolve certo i problemi ermeneutici di cui si è detto, ma propone for

se una dimensione diversa per ripensarli.

In ogni caso, l’ironico gioco di specchi tra voce e testo offre a Platone

una via d’uscita per poter scrivere ciò che non si dovrebbe scrivere. Ma la

questione si pone in modo ancora più acuto intorno a un problema decisi

vo come quello della scrittura delle leggi.

Scrivere le leggi?

La biblioteca della città colloca, nel suo posto d’onore, un genere parti

colare di scrittura, quella delle leggi e dei decreti. Gli stessi uomini più

potenti e illustri nelle poteis, che si vergognano di comporre e di lasciare

discorsi scritti perché temono di esser scambiati per sofisti, cioè per autori

e venditori di discorsi per conto d’altri, amano però questa particolare

forma di logografia: i loro syngrammata consistono appunto nelle leggi,

una scrittura in virtù della quale figure come Licurgo, Solone, Dario han

no ottenuto onore eterno (Phaedr. 157d-2.58c). La diffusa approvazione

sociale per la scrittura legislativa, il syngramma potitikon, non la sottrae

tuttavia alla critica del Fedro: essa non possiede né stabilità (bebaiotes) né

certezza (sapheneia), ed è piuttosto motivo di vergogna per il suo autore

perché ha i contorni vaghi del sogno laddove, intorno alle questioni del

giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, occorrerebbe il rigore della veri

tà dialettica (z77d-178a).

È compito del Politico la ripresa e l’approfondimento di questa critica

alla scrittura delle leggi. Ci sono due tipi di legislazione: quella orale, basa

ta sulle tradizioni dei padri — come sappiamo dalle Leggi, dei pri

mitivi e dei barbari — quella costituita da leggi scritte. Rigide, inadattabili

al mutare delle situazioni, ostili per la loro stessa natura a ogni mutamento

verso il meglio, queste ultime sono tali da determinare la sclerosi della vita

sociale, la distruzione delle technai, la paralisi del progresso (PoI. 296a ss.).

Esse sono, al più, un sostituto, un rimedio per l’assenza del vero politico

e legislatore: proprio come un medico, partendo, può lasciare ai pazienti

un promemoria scritto della terapia da seguire, ma appena tornato lo ab

bandona e si adatta alla nuova situazione (195c ss.). La legge scritta non

è che imitazione della verità, laddove, in presenza della techne regia, del

dialettico re, il mimema perde ogni senso e deve lasciar spazio alla piena


su

12.8 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH 12.9

verità della politica, capace di governare le situazioni sempre mutevoli in

rapporto a uno stabile possesso della episteme (300c-e).

C’è tuttavia, nel Politico, una importante concessione rispetto alla rigi

da critica del fedro. Nell’assenza, o nell’attesa, del vero re e della sua scien

za, il meglio è che ogni potiteta si attenga a un rigoroso rispetto della legge

scritta, che può almeno preservarla dall’arbitrio tirannico. Lo spazio della

legge scritta si estende tra il potere del re-filosofo e quello del tiranno, che

ne costituisce la contraffazione (PoI. 300e-3oIc).

Un ulteriore passo in questa direzione è compiuto nel dialogo sulle

Leggi, dove Platone sembra per certi aspetti compiere una confutazione

precisa e puntuale delle tesi estreme del fedro. Le leggi sono i migliori e i

più belli di tutti igrammata esistenti nelle città. Essi dovranno apparire ai

cittadini come padri e madri amorose (è appena il caso di notare che men

tre nel fedro la scrittura aveva bisogno di un padre, qui è padre essa stessa),

non come un tiranno che affigga ai muri i suoi editti dispotici; e per questo

dovranno esser precedute da ampi proemi che persuadano i cittadini e li

educhino all’obbedienza (Leg. ix 858c La funzione delle tradizioni

orali e patrie è qui ridotta a quella di tessuto connettivo, di avvolgimento

protettivo a garanzia del corpus delle leggi vere e proprie, che devono esse

re scritte (vii 793a-b). Le disposizioni scritte delle leggi, in grado in ogni

tempo di dar conto (etenchos) di sé, godono di una stabilità totale (pantos

eremei) (x 891a): anche qui non è difficile misurare la distanza dal fedro,

dove la scrittura, muta e incapace di difendersi, mancava precisamente di

stabilità e certezza. Ma c’è di più: igrammata del legislatore saranno una

sicura pietra di paragone (basanos sapbes) di tutti gli altri discorsi; i giudici

dovranno conservarli in sé come antidoto, alexiha?7nakon, che li proteg

ga dal rumoreggiare delle voci della città (XII 957d).

La scrittura della legge, rifiutata nel fedro, appena tollerata nel Politico

come rimedio all’assenza del re, trionfa dunque nell’ultimo Platone come

regola fondamentale della vita della città, come canone di ogni possibile

discorso. E la città delle Leggi è affollata di scrittura: si scrivono, oltre alle

leggi e ai loro proemi, le tavolette per l’elezione dei magistrati (v 753c), le

loro eventuali condanne (VI 755a), i titoli di proprietà della terra — me

moria scritta per il futuro — (V 741c), i testamenti (xi 913c). È notevole

che la scrittura accompagni nelle Leggi proprio momenti della vita sociale

ignorati o banditi dalla Repubblica, come i meccanismi elettorali e soprat

tutto la proprietà patrimoniale dell’oikos. Ma è ancora più notevole che

questa scrittura delle Leggi può consumare i suoi fasti soltanto al prezzo di

un ritorno alle sue originarie modalità “egizie”• è scrittura del potere e del

sacerdozio, conservata sugli altari e nei templi (741c, 753c, 856a).

Platone sembra dunque recuperare, da ultimo, una piena legittimità

sociale della scrittura ma con una serie di condizioni pesanti, che la se

questrano alla libera circolazione culturale: il controllo della sua produ

zione, affidato al legislatore, dei suoi contenuti, che dovranno consistere

nel comando, nella norma e nell’educazione all’obbedienza, infine degli

spazi della sua pubblicazione. Questa scrittura normalizzata e normativa

pare destinata a riassorbire, nelle Leggi, anche l’ambiguo teatro filosofico,

e costituire essa stessa la “vera tragedia”37. Quanto agli altri libri, che non

possono venir banditi come quelli degli atei — cioè i promemoria delle

arti, le compilazioni poetiche e così via —, di essi pesano la diffidenza

del legislatore, il discredito che colpisce gli autori, l’incertezza della pub

blicazione e della diffusione (basta ricordare il libro “rubato” a Zenone,

quello di Lisia che Fedro nasconde sotto il mantello, l’esecrabile manuale

del tiranno Dionisio).

Ma una valutazione complessiva della presenza e delle dinamiche della

scrittura in Platone non può certamente fermarsi alle Leggi, e alla loro ri

gida codificazione della parola scritta.

Il sistema vicariante

L’analisi fin qui condotta consente, secondo un piano di lettura trasversale

al testo platonico, di ricomporre elementi diversi in un profilo sistematico

del luogo e delle funzioni della scrittura. Un sistema di prossimità e diffe

renze, articolato in una lunga serie di coppie solo in apparenza polari.

Gramma/stoicheion: la lettera non è l’elemento, ma pure la scrittura al

fabetica costituisce il modello del sapere degli elementi.

Scrittura/matematica: un sapere basso e uno alto, che hanno tuttavia la

stessa origine e la stessa forma combinatoria.

Gramma/phone: dove il primato appartiene alla voce, al “discorso vi

vente’ che però tocca alla capacità analitica della scrittura di articolare e

trasformare in “Iingua”

Scrittura/filosofia: il libro filosofico non può esistere ma a sua volta il

discorso della filosofia non può che essere trascritto.

Scrittura/legge: la vera legge è la viva voce del vero re, ma nel suo silen

zio occorre scrivere le leggi.


legate,

a

2.30 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH

2.31

Scrittura/memoria: la scrittura danneggia la memoria individuale n-

al tempo stesso produce e conserva quella sociale.

Scrittura/anima: la scrittura si colloca all’opposto dell’anima, che tut

tavia può esser metaforizzata come un libro scritto da quel grammateus

interiore che sono la nostra memoria e le nostre sensazioni (Phit. 38e-39a)

Sembra dunque che la scrittura tenda punto a punto a riempire gli spazi

lasciati (provvisoriamente?) liberi dall’assenza del vero sapere, della vera

memoria, della vera voce, del vero re. Un sistema provvisorio e vicarian

te, un’ombra, o meglio un “doppio’ del quale va tenuta sotto controllo la

pretesa di sostituire definitivamente l’altra polarità, alta e solare. Recipro

camente, sono l’assenza, il sempre rinviato avvento di quest’altra polarità

a segnare il carattere precario, limitato, umbratile della dimensione della

scrittura, tuttavia insostituibile (proprio come, nella Repubblica, la distan

za siderale dell’idea del bene rendeva insieme provvisorio e indispensabile

il lavoro della dialettica, le sue metafore, i suoi miti). Nell’attesa della tra

sparenza del nome, dell’illuminazione dell’anima, dell’ascesa al potere del

re filosofico, la dimensione della scrittura genera paradigmi di conoscenza,

progetti di sapere, forme di coesione politica, oggetti intellettuali.

Platone elabora una irripetibile fusione di arcaismo e profezia di un

nuovo mondo. Dal punto di vista storico, tuttavia, egli non sfugge a una

collocazione precisa: la sua interrogazione sulla scrittura, la sua pratica di

trascrizione delle parole dei morti (ma di morti recenti, come quasi tutti i

personaggi dei dialoghi), si colloca sul sottile crinale tra due epoche, quella

di Socrate e quella di Aristotele — rispettivamente, al privilegio della

parola e a quello del testo. Un breve intervallo, una condensazione di pos

sibilità aperte: destinate a costituire un miraggio ricorrente per la filosofia,

ma un punto di svolta irreversibile per la storia culturale della scrittura in

Occidente. E anche a consolidare un carattere specifico dell’antico: quello

di essere una civiltà permeata di scrittura che non è tuttavia mai stata una

civiltà del Libro e neppure dei libri’.

Note

i. E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà detta scrittura. Da Omero a Platone (1963),

trad. it. Roma-Bari I983. Per una messa a punto delle discussioni suscitate da

quest’opera cfr. G. Cern, Ilpassaggio dalla cultura orale atta cultura di comunicazione

scritta nell’età di Platone, in “Quaderni Urbinati”, 8, 1969, pp. 119-33.

.. Basti qui rinviare all’ampio bilancio di questa tendenza interpretativa tracciato

da H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti delta metafisica, Milano 1982 (sul quale cfr.

M. Isnardi Parente, Recensione, in “Gnomon”, 1985,

, pp. 120-7). Cfr. ora anche

G. Reale, Platone, Milano 1986. Più problematico e sfumato K. Gaiser, Platone come

scrittorefitosofico. Saggi sutt’ermeneutica dei dialoghiplatonici, Napoli 1984. Molti sag

gi rilevanti di questa tendenza sono raccolti in I. Wippern (Hrsg.), Das Probtem der

ungeschriebenen Lehre Ptatons, Darmstadt 1972. Un quadro dei presupposti culturali

di questa posizione in F. franco Repellini, Gli agrapha dogmata di Platone: la loro

recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme’ I, 1973, pp. 51-84.

Per un bilancio complessivo, cfr. qui CAP.I.

3. Questa analisi si basa in effetti su uno spoglio globale dei passi di Platone relativi

ai diversi aspetti di scrittura e lettura, e i luoghi citati possono costituirne un indice

pressoché completo. È rilevante avvertire che si è considerata autentica la Lettera vii

(per questa opzione basterà qui rinviare a M. Isnardi Parente, filosofia e politica nette

lettere di Platone, Napoli 1970). Occorre anche avvertire che il taglio di lettura segui

to comporta inevitabilmente l’isolamento della scrittura dalle sequenze metafoniche

in cui essa è inserita, e che includono molto spesso l’aritmetica, la musica e altre forme

di apprendimento “elementare”.

4. Quel «certo [tis] Prometeo» di cui parla il filebo (i6c) non è l’inventore della

scrittura ma dell’analisi dei rapporti fra uno e molteplice. Anche in questo dialogo

l’invenzione delle lettere dell’alfabeto è attribuita — secondo «una leggenda egiziana»

— Theuth, o,più vagamente, a «un dio o un uomo divino» (isb). Sulle origini

egiziane della leggenda cfr. R. Eisler, Ptaton und das àgyptische Alpha bet, in “Archiv

ftir Geschichte der Philosophie’ 27, 1912, pp. 3-13.

Primi storici, i sacerdoti egiziani sono anche i primi traduttori. Attraverso la ritra

.

duzione di Solone, i loro grammata avrebbero raggiunto i Crizia (nonno e nipote),

quindi lo stesso ambiente familiare di Platone (Criti., I,3a-b). La scrittura egizia si

fa qui il veicolo della continuità di una storia di casta che salda la remota antichità

dell’Atene dei tempi di Atlantide con il legislatore e il tiranno dell’Atene storica e

con il filosofo che ne progetta la rifondazione. Cfr. in proposito L. Brisson, Platon, tes

mots et tes mythes, Paris 1982, pp. 32-49.

6. Anche gli Egiziani sono infatti barbari: cfr. Resp. IV 435 5.

La prima serie è costruita naturalmente in analogia alla seconda, quale risulta dal

.

libro vi della Repubblica.

8. In quanto sapere specialistico, si può essere agathoi (Prot. 345a) oppure phautoi

(Phaedr. z4zc) nella scrittura; è rilevante ad esempio la rapidità nello scrivere igram

mata (Charm. 159c). A un livello superiore, è da supporre che l’insegnamento della

scrittura si integrasse con quello “metrico”: Ippia è definito maestro della dynamis

dei grammata, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie (Hzpp. mai. z85d). È il caso di

sottolineare, a proposito del passo del Teeteto e altri simili, che gramma oscilla in Pla

tone tra un significato grafico e uno fonetico: cfr. D. Gallop, Plato and the Atphabet,

in “Philosophical Review”, 72, 1963, pp. 3 64-76, che replica a G. Ryle, Letters and

Syllables in Ptato, in “Philosophical Review”, 69, 1960, pp. 431-51.

Sulla condizione sociale del grammatistes, cfr. M. A. Manacorda, Scuola e inse

.


2.32

IL POTERE DELLA VERITÀ

NELL’OMBRA DI THEUTH

2.33

gnanti, in M. Vegetti (a cura di), Oratità scrittura spettacolo, Torino 1983. Per il valore

filosofico in Platone di questa figura, cfr. H. Joly, Platon entre te maitre d’écote et Ief

briquant de mots. Remarques sur lesgrimmata, in Philosophie du langage etgrammaire

dans t’antiquité, Bruxelles 1986, pp. 105-36.

io. Sulla questione del rapporto fra gramma e stoicheton è fondamentale W. Schwa

be, ‘Mischung” und “Etement” im griechischen bis Ptaton, in “Archiv fUr Begriffge

schichte”, Supplementheft 3, 1980, pp. 83, ii6 ss. Cfr. anche T. A. Druart, La stoichéio

logie dePtaton, in “Revue Philosophique de Louvain”, 1975, pp. 143-62..

il paradosso è riecheggiato in Theaet. 198e.

i;. Sulla questione cfr. Schwabe, ‘liischung” und “Element”, cit., pp. 151 ss. Per un

avvicinamento della teoria allo stesso Platone propende M. Burnyeat, The ÌVlaterjal

andSources offlato’sDream, in “Phronesis”, 15, 1970, pp. 1cl-i;.

13. Una classificazione dei grammata secondo il suono (consonanti sonore, conso

nanti afone, vocali) in Theaet. ;o3b; cfr. Phil. ;8b.

14. Per lo sfondo scrittorio di questo problema, cfr. le ricerche sulla scrittura attica di

R. Herder, Die Meisterung der Schrft durch die Griechen (i;), in G. Pfhol (Hrsg.),

DasAlphabet, Darmstadt 1968, pp. 169-9; («Jeder Buchstabe steht als Individuum

fur sich, die Atomisierung ist bis zu letzter Abstraktheit getrieben, die Einheit des

Ganzen beruht nur noch in dem Koordinatentennetz des System», p. z8i); anche

Rottenschrft, in ivi, pp. 311-80 (in particolare pp. 379-80).

i. Le considerazioni che seguono devono molto al contributo presentato al collo

quio sulla scrittura (Parigi 1988) da Gian Arturo Ferrari.

i6. Nell’ambito della vasta bibliografia sul Cratito, occorre rinviare almeno ai saggi

fondamentali: V. Goldschmidt, Essai sur te Cratyle, Paris 1940; A. Pagliaro, Nuovi

saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956; M. Buccellato, Linguaggio e socie

tu alle origini del pensiero greco, in “Rivista critica di storia della filosofia’ 16, 1961,

3J3. 159-77; K. Lorenz, J. Mittelstrass, On RationalPhilosophy ofLanguage: The Pro

gramme in Plato’s Cratylus Reconsidered, in “Mmd”, 75, 1966, pp. i-;; R. Robinson,

Essays in Greek Philosophy, Oxford 1969; J. Derbolav, Platons Sprachphilosophie im

Kratylos und in den spàteren Schrften, Darmstadt 197;; C. H. Kahn, Language and

Ontology in the Cratylus, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exe

gesis and Argument, Assen 1973, pp. 151-76; K. Gaiser, Name und Sache in Platons

Kratylos, Heidelberg 1974; G. Genette, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris 1976;

e i saggi di M. Schofield, B. Williams,J. Annas, in M. Schofield, M. Nussbaum (eds.),

LanguageandLogos, Cambridge 1981, rispettivamente pp. 6i-8i, 83-9 3, 95-114.

17. Cfr. in proposito Schwabe, ‘Mischung” und “Element”, cit., pp. 114 Ss.

i8. Sulla natura “grafica” degli atomi democritei cfr. H. Wismann, Réalité et mature

dans latomisme démocritéen, e G. A. Ferrari, La scritturafine della realttì, in F. Roma

no (a cura di), Democrito e l’atomismo antico, Catania 1980, rispettivamente pp. 6 1-74

e 75-90.

19. Cfr. in proposito analisi e bibliografia di W. Leszl, Linguaggio e discorso, in M. Vegetti

(a cura di), Il sapere degli antichi, Torino 1985, pp. 13-44.

lo. Sulle dimensioni storico-culturali del fenomeno basta qui rinviare a E. G. Tur

ner, Ilibri netl4tene del ve iv secolo a.C. (195;), trad. it. in G. Cavallo (a cura di),

Libri, editori epubblico nel mondo antico, Roma-Bari 1975, pp. s-;; D. Lanza, Lingua

e discorso nell4tene delle professioni, Roma-Bari 1975, pp. 52-87; per la filosofia H.

Cherniss, Ancient forms ofPhilosophic Discourse, in Id., Setected Papers, Leiden 1977,

pp. 14-3; cfr. ancheJ. Goody, I. Watt, The Consequencies ofLiteracy, inJ. Goody (ed.),

Literacy in Traditional Societies, Cambridge 196$, pp. 2.7-68, in particolare pp. 49

Cfr. da ultimo M. Erler, Platons Schrftkritik im historischen Kontext, in “Altsprachli

cher Unterricht”, 2.8,4, 1985, pp. 17-41; G. F. Nieddu, Testo, scrittura, libro nella Grecia

arcaica e classica: note e osservazioni sullaprosa scientfrco-filosofica, in “Scrittura e civil

tà”, 8, 1984, pp. 113-61, in particolare per Zenone e Anassagora pp. 249 SS.

Anche se non esplicitamente nominata, la scrittura è probabilmente responsabile

di quella volgarizzazione (anaphandon) delle dottrine filosofiche sul movimento, un

tempo celate dagli antichi sptto il velo della poesia, che i moderni sapienti mettono a

disposizione anche dei calzolai (Theaet. i8od).

i;. Cfr. in questo senso Herder,DieZvleisterung, cit.,p. 2.91.

23. La controversia del iv secolo sul carattere orale o scritto della retorica costitui

sce certamente uno degli sfondi della riflessione platonica: cfr. P. Friedlànder, Plato

(191$), trad. ingl. New York 1958, voi. ,, pp. III Ss.; 5. Gastaldi, La retorica del wsecolo

tra oralita e scrittura, in “Quaderni di storia”, 14, 1981, pp. 189-116.

2.4. Sul problema si possono consultare le equilibrate considerazioni di H. Joly,

Le renversementplatonicien. Logos, episteme, polis, Paris 1974, pp. xii ss. Cfr. anche

J. Derrida, Lapharmacie dePlaton, in Id., La dissemination, Paris 197;; dilettantesche

le osservazioni di J. M. Charrue, Lecture et écriture dans la civilisation hellénique, in

“Revue de Synthèse”, 83-84, 1976, pp. 119-49; su Platone 131 ss.

;. Sull’incapacità del libro di «interrogare e rispondere», sulla sua costrizione a

«ripetere sempre la stessa cosa», cfr., oltre a Phaedr. z75d, Prot. 3292..

z6. Esemplare in questo senso la posizione recente di W. Wieland, Ptaton und die

formen des Wissens, Gòttingen 19$;, pp. 13 55., 53 55.

27. Mi sembrano ancora valide, in questo senso, le osservazioni di H. Cherniss, The

Riddle oftheEarlyAcademy, New York 1961, p. ii. Secondo Gaiser, Name undSache,

cit., pp. 47-8, principi basilari secondo Platone non sono «del tutto ineffabili. Essi

si possono anzi formulare molto bene verbalmente»: a quanto pare, questo è riusci

to molto meglio alla scuola di Thbingen che allo stesso Platone. Che ci sia qualcosa

che «non può esser trasmesso dalle parole», che non si possa eliminare il «sudden

flash of insight», è concesso anche da T. A. Szlezàk, The Acquiring ofPhilosophical

Knowledge According to Plato’s Seventh Letter, in G. W. Bowersock, W. Burkert, M.

C. J. Putnam (eds.), Arktouros. Hellenic Studies presented to 3. MKnox, Berlin

pp. 354-63, p. 363. È certo, piuttosto, che la soglia dell’ineffabilità viene costantemen

te messa alla prova dal lavoro (anzi, dalla “battaglia”, cfr. Resp. VII 534c) del discorso

dialettico, che ritesse continuamente la sua proposta di senso in attesa, o in luogo,

della visione ultimativa del fondamento.

;$. Come la scrittura è eidolon del logos vivente (Phaedr. 2762.), così il dialogo lo è del

la verità stessa (cfr. ad es. Resp. vii 5332.). Scrittura e dialogo stanno dunque rispetto a


2.34 IL POTERE DELLA VERITÀ

. NELL’OMBRA DI THEUTH ‘35

voce e verità nella posizione dell’eidoton di Elena a Troia, secondo la versione stesjco

rea del mito valorizzata dallo stesso Platone (Resp. Ix 86c). Come la guerra di Troia,

il lavoro filosofico sembra dunque svolgersi attorno al simulacro di ciò che è assente.

Il discorso può assumere una curvatura imprevista se si suppone, come fa E. A. Have

lock, Dike. La nascita detta coscienza (1978), trad. it. Roma-Bari 1981, che il primato

della visione sia un « riflesso della crescente, per quanto inconscia preponderanza del

la parola scritta su quella parlata, della parola vista su quella ascoltata» (pp. 405-6).

L’estremo inferiore della scala determinerebbe così quello superiore. Ma è possibile

attribuire proprio a Platone una tale inconsapevolezza di fronte alla scrittura?

29. Un’analisi delle parti narrative dei dialoghi può dimostrare che in molti casi esse

forniscono all’ascoltatore/spettatore informazioni di tipo “scenico” (cfr. J. Andrieu,

Le diatogue antique, Paris 1954, pp. 306-7, 3,8-9). Su Platone scrittore di tragedie è

appena il caso di ricordare il famoso aneddoto di Diogene Laerzio, 3.5; secondo Tra

sub, Platone avrebbe inoltre pubblicato i dialoghi per tetralogie al modo dei tragici

(DL 3.50). La teatralità dei dialoghi non andrà comunque pensata nel senso che la

loro “pubblicazione” (un problema ancora aperto) avvenisse mediante la recitazione

ai Giochi, con Platone nella parte di Socrate, secondo l’improbabile tesi di G. Ryle,

Ptato’s Progress, Cambridge 1966, pp. 21-54.

30. Cfr. su questo le ampie (ma non del tutto convincenti) osservazioni dij. Labor

derie, Le diatogueptatonicien de la maturité, Paris 1978, pp. 9, ss. (in particolare sul

Teeteto, pp. 395 ss.).

31. Su questi temi occorre rinviare ad alcuni scritti in qualche modo “classici”: R.

Hirzel, Der Diatog, i, Leipzig 1895 (che definisce la forma drammaturgica di Plato

ne «ein Tribut an den herrschenden Zeitgeist», p. zo); Friedlànder, Plato, cit., i,

pp.

121 Ss.; H. G. Gadamer, Platone e i poeti trad. it. in Id., Studi platonici i,

Casale Monferrato 1983, pp. i8-zi; H. Kuhn, The True Tragedy: On the Retationshtp

between Greek Tragedy and Ptato, in “Harvard Studies in Classical Phibology”, sa,

1941, pp. 1-40; 53, 1942,

pp. 37-8 8. Cfr. anche Havelock, Dike, cit., pp. 401 Ss.; e, sul

carattere tragikos del libro viii della Repubblica (545d), ‘W. Janke, Atethestdte tragodia,

in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, 47, 1965, pp. zi-6o. Cfr. da ultimo M. C.

Nussbaum, The fragitity of Goodness, Cambridge 1986 (Plato’s Anti-Tragic Theater,

pJ. 122-35).

32.. Sul tema nietszcheano dello “spettatore sulla scena” in Euripide, cfr. D. Lanza, Lo

spettatore sulla scena, in D. Lanza et al., L’ideologia delta citt,i, Napoli 1977, pp. 57-78;

sulla “messa in scena” della Repubblica cfr. J. Laborderie, Le dialogue platonicien,

pp. 402 Ss.; più in generale sulla città nei dialoghi, P. Vidal-Naquet, La sociétéplato

nicienne des dialogues, in Aux ortgines de t’hellénisme. Hommage ì H. Van Efenterre,

Paris 1984, pp. 273-93. Giuste in questo senso (anche senza che sia necessario accettare

ipotesi “esoteriche”) le osservazioni di T. A. Szlezalc, Dialogform und Esoterik, in “Mu

seum Helveticum”, I, 1978, pp. 18-32: l’autore Platone si addossa anche la responsabilità

dell’interpretazione del suo testo, secondo una modalità arcaica che quest’epoca di cri

nale fra privilegio dell’oralità e dominio della scrittura tende a rendere anacronistica.

3. Cfr. su questo l’importante saggio di Ch. Segal, Tragédie, oratité, écriture, in

“Poétique”, 50, 1982, pp. 131-54.

La traccia che le leggi offrono alla vita della città è paragonata nel Protagora

(3z6d) a quella che i maestri incidono con lo stilo sulla tavoletta per insegnare la scrit

tura ai ragazzi: un’ulteriore connessione metaforica tra legge e scrittura.

il disprezzo della logografia, per il suo aspetto mercenario, è certamente diffu

so nella società ateniese fra v e IV secolo. Platone lo generalizza in un rifiuto della

scrittura politica, che rappresenta tuttavia un problema più complesso: se Pericle non

scrive discorsi, scrivono tuttavia oligarchi come Ctizia e l’autore della Costituzione

degli ateniesi.

36. Platone riformula qui senza dubbio un’esperienza ateniese: i lunghi decreti del

v e IV secolo sono preceduti da un’ampia sintesi del discorso del proponente. Sulla

funzione dei proemi alle leggi, cfr. 5. Gastaldi, Legge e retorica. Iproemi dette “Leggi”

di Platone, in “Quaderni di storia”, 20, 1984, pp. 6 9-109.

37. C’è qui (Leg. VII 8i ie) l’ansia tutta pedagogica di «non lasciar fuggire » il discor

so filosofico sulle leggi, di consegnarbo al circuito della scrittura educativa, quasi che

l’assenza (del maestro-Socrate, della verità, del re legislatore) non sia più sopportabi

le. Prescrive Platone che i nomophylakes e i paideutai, se si imbattono in discorsi non

scritti come quelli messi in scena nelle Leggi, «non se li lascino sfuggire in nessun

modo ma li scrivano [me methienai (...) grophesthai de] » e obblighino i didaskatoi

a impararli e a insegnarli. Cfr, in proposito Gaiser, Name und Sache, cit., pp. 107 SS.

38. Cfr. in questo senso le importanti osservazioni diJ.-P, Vernant, Divinazione e ra

zionatitì (i,7), trad. it. Torino 1982, pp. 15 Ss.


Io

Glaucone e i misteri della dialettica*

L’intervento di Glaucone nel libro VII della Repubblica (532cl-e) svolge,

come spesso accade nel dialogo, un ruolo strategico in rapporto al suo svi

luppo teorico. Glaucone ha ascoltato da Socrate le sue indicazioni sulla

dialettica, e in particolare la stretta connessione con il “buono”, che le asse

gna come ambito specifico il “luogo” più elevato del campo noctico-ideale.

Egli apre il suo intervento rilevando la persistente mancanza di homotogia,

di consenso dialogico sulle argomentazioni di Socrate: «mi paiono cose

estremamente difficili ad ammettersi» (53zd3: cù.rir& v &roxtect),

benché ne ammetta d’altro canto la persuasività («difficili a non ammet

tersi»). Questa assenza di homotogia impone, secondo Glaucone, la ne

cessità di un rinvio a ulteriori e ripetute discussioni, che possano eventual

mente condurre a un più solido livello di consenso: «non se ne deve sentir

parlare solo in questa occasione [53id4 5.: i-v tci trv Trapàvtt]’ ma occorrerà

tornarvi sopra più volte». Per il momento, Glaucone è disposto ad accet

tare le tesi socratiche solo a titolo di ipotesi (53zd6: TcLiiTc 8vrt itrv

-v&v )kyrrai). Ma per sviluppare la discussione, e andar oltre le rapsodiche

indicazioni socratiche sui caratteri, i compiti e i privilegi della dialettica,

Glaucone ha una richiesta precisa da fare, che egli formula con il rigore

concettuale che gli è consueto. Ci siamo finora limitati al “proemio” del

discorso, egli sostiene, e occorre ora entrare nel vero e proprio nomos della

dialettica (53zd6 s.): la metafora musicale rinvia al pieno dispiegamento

argomentativo dell’analisi, alla saturazione metodica dello spazio teorico

che Socrate ha dischiuso.

Glaucone esige dunque che Socrate illustri, a proposito della dynamis

dialettica: a) quale ne sia la modalità specifica (il tropos); b) in quali forme

(eide) si distingua; c) quali ne siano le procedure (bodoi: 531d$-eI). Ciò che

Questo capitolo è già stato pubblicato in f. L. Lisi (ed.), The Ascent to the Good,

Academia Verlag Gmbh, Sankt Augustin 2007.


— destinato

— al

un

si

23$ IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 239

viene richiesto, dunque, è una definizione formale, teoricamente compiu

ta, del metodo dialettico, che ne chiarisca lo statuto epistemologico, allo

stesso modo in cui nel libro VI Adimanto aveva domandato una defini

zione concettualmente precisa dell’idea del buono; anche in questo caso,

l’esigenza di Glaucone è determinata dalla novità della proposta socratica,

e dalla conseguente incertezza dei suoi contenuti, che rendono impossibile

la concessione di un immediato consenso da parte degli interlocutori.

La risposta di Socrate risulta in questo caso (assai più che nella discus

sione sui “buono”) sorprendente per la sua reticenza che assume un tono

quasi aggressivo nel contesto dialogico. Mentre nel caso del “buono” So

crate aveva tentato di evitare una risposta a Glaucone adducendo la propria

inadeguatezza, egli ora addebita in primo luogo questa inadeguatezza pro

prio al suo interlocutore: «non sarai più [...} in grado di seguirmi (015K -r’

[...] oto r’io &Ko)ouOttv), per quanto io non trascurerà certo ogni sforzo

[prothymia]» (VII 533I s.). Nella discussione sull’idea del buono, lo sfor

zo, laprothymia, erano quelli che Socrate si dichiarava disposto a impegna

re nella ricerca, per quanto la sua incapacità (o15 olo r’iooat) rischiasse

di esporlo al ridicolo (VI 5o6d7 s.). Ora invece questo sforzo non è quello

del ricercatore incerto, bensì quello del maestro che ha di fronte un allie

vo inadeguato: una situazione invero assai poco “socratica”, che rovescia

quella in cui Socrate si era trovato di fronte a Diotima nel Simposio. Qui

era la sacerdotessa a temere l’incapacità di Socrate (015K ot’tL oio r’iv Eiv,

zioaz) a seguirla sulla via dell’iniziazione ai misteri dell’eros, nonostante

fosse disposta a impegnarsi con tutta la suaprothymia.

Ma Socrate attenua immediatamente questa posizione “magistrale’

questa violenza dialogica nei confronti del suo interlocutore, introducen

do una seconda ragione della sua reticenza, che questa volta, in modo più

consueto, riguarda la natura stessa del suo sapere: «non scorgeresti più

un’immagine di ciò di cui parliamo, ma la verità stessa [&vtà tà &)O],

almeno come essa mi appare [ -yt & ot ccdvt-ri]. Se è realmente così op

pure no, non è ora il caso di affermarlo recisamente [diischyrizesthai] »

(VII 5333 s.). La condizione del sapere socratico sulla dialettica è dunque

quella stessa, doxastica, che caratterizzava anche le sue vedute sul “buo

no” (T& oIcofrvrc, VI 509c3). Questo può spiegare il tono aggressivo ini

zialmente adottato da Socrate nei riguardi di Glaucone: la sua richiesta è

“impertinente” perché eccede i limiti del contesto dialogico già chiariti in

quella occasione.

Glaucone risulta dunque probabilmente incapace di seguire Socrate su

una via che questi è sì in grado di indicare, ma non di percorrere con il ri

gore epistemico richiesto dalla domanda strategica intorno ai metodi, agli

eide e al tropos della dialettica. Ma perché questa doppia inadeguatezza?

Una compiuta risposta alla domanda di Glaucone appare formulata nel

fedro, senza che la forma della scrittura in quanto tale imponga di per sé

alcuna reticenza. Da un punto di vista “tecnico”, la dynamis dei discorsi

presenta due eide, quelli delle divisioni e delle sintesi (tcv ttpo-tc Kcd

ou’iccyorycsv, ;65c9, z66b4): «qualora io ritenga qualcun altro capace di

indirizzare lo sguardo verso un’unità che sia anche per natura divisibile in

molteplicità, questo io seguo [...] E proprio quelli che sono capaci di fare

ciò, li denomino, e se l’espressione è corretta o no lo sa dio, li chiamo, fino

ad oggi, dialettici» (z66b).

Ricorrere a un diverso contesto dialogico per rispondere a una doman

da formulata nella Repubblica può apparire scorretto, e in effetti lo sarebbe

se anche nel nostro dialogo non fosse chiaramente accennata una conce

zione della dialettica simile a quella più ampiamente sviluppata nel fedro.

In un passo che precede la problematica comparsa dell’idea del buono, il

diategesthai autentico è distinto dall’argomentazione eristica per la sua ca

pacità metodica di operare divisioni, diareseis (V 454a6: r6 [...] t315coOu..t

1cccr’si& tctpo152E-vot tà ).r 6iti,oii 7rtoIco7rE.iv). Una concezione della dia

lettica come tecnica diairetica è dunque già presente nella Repubblica, e an

che il suo secondo eidos, quello sintetico, è in qualche misura implicato dal

carattere sinottico (synopsis, VII 537Cl s.) che le viene assegnato nel dialogo.

Perché dunque Socrate non si inoltra su questo terreno rassicurante

a essere esplorato in forme solidamente epistemiclie nel So

fista — e preferisce arroccarsi in una reticenza attribuita all’inadeguatez

za dapprima riferita aggressivamente a Glaucone e poi anche alle proprie

convinzioni? La risposta a questa domanda non può che rinviare alla pe

culiare architettura teorica della Repubblica. Il sapere dialettico intrattiene

qui — a differenza che in altri dialoghi, come appunto il fedro e il Sofi

sta — rapporto costitutivo con quella enigmatica idea del buono, che ne

costituisce il tetos, l’oggetto privilegiato e al tempo stesso la ragion d’essere

in quanto sapete destinato e legittimato al potere. Se il “buono” è il fonda

mento della supremazia della dialettica, il suo ambiguo statuto ontologico

limite dell’essere e al di là della ousia noetico-ideale — riverbera sullo

statuto epistemologico della dialettica stessa, assicurandone la supremazia

come “fastigio” dell’edificio delle scienze e insieme rendendo incerto il suo

profilo metodico.


benché appaia del tutto ragionevole, risulta a sua volta eccedente rispetto

ai limiti che già la discussione sul “buono” aveva nettamente indicato. Pri

ma ancora che Glaucone la formulasse, Socrate aveva sostenuto che nella

canto che la dialettica esegue» (532a1 5.: OTO &9 cirr6 oriv 6 &v rà

dunque nella Repubblica

la sua discorsività “proemiale”, con l’istanza criti

esigenze di Glaucone —

ne nega

etenchos “socratico” —

te “positiva”: non si tratterà in questo caso di un vero e proprio logos tes

(Resp. VII 534b9: top(ovwOcu rc )6y). Questa operazione non significa

ne della sua ineffabilità ma nella sua “delimitazione” nel discorso razionale

propriamente una “definizione” nel senso aristotelico, bensì appunto in

una delimitazione rispetto alle altre idee, che da un lato nega la possibi

lità di identificazioni del tipo “il buono è la giustizia, la verità” e così via,

dall’altro, e di conseguenza, apre la via a una sua descrizione razionalmen

l’identificabilità senza residui con qualsiasi stato dell’essere, sottolinean

Glaucone e Adimanto. Nel libro IV si perviene a una descrizione, a un

Z40 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 2.41

lagos, dell’essenza (ousia) della giustizia (dikaiosyne) oggetto della ricerca,

In altri termini, l’eccedenza della dialettica fa sì che l’insieme delle episte

mai e delle technai, benché riformate e rifondate, non costituisca altro che

un “proemio”, un preludio al “canto”, al nomos che la dialettica deve final

mente eseguire (53id8). Ma la richiesta di Glaucone, di passare finalmente

all’esecuzione di questo nomos dopo la lunga analisi del proemio (3zd6 s.),

«capacità di dare e ricevere ragione» (532e4 s.) consisteva già «proprio il

ta)yro-Ocu 7rtpal-vE1). 11 nomos, il “canto” epistemico della dialettica coincide

differenza che in altri dialoghi e a dispetto delle

con

a

co-fondativa che essa rappresenta nei confronti delle assunzioni “ipotetiche”

tanto nell’ambito dei saperi matematici quanto in quello etico-politico, li

riferimento costitutivo a un oggetto collocato “al di là della ousia” determina

quindi il carattere “insaturo” del sapere dialettico, la sua strutturale apertura

proemiale di cui è impossibile pretendere il compimento nel nomos.

L’unica risposta possibile alla domanda di Glaucone consisterà dunque

nel descrivere il lavoro che costituisce il compito della dialettica, in cui si

esplica la sua efficacia, la sua dynamis, che corrisponde, nella discorsivi

tà umana, a quella dynamis in cui consisteva la supremazia causativa del

“buono” in campo ontologico ed epistemico. E allora questa descrizione,

in luogo di una impossibile definizione di tropos, badai ed eide, che Socrate

proporrà a Glaucone nel contesto del dialogo.

La dialettica inizia dunque il suo lavoro con un approccio critico-ne

gativo, “togliendo le ipotesi” (533c8), mostrandone cioè l’infondatezza e

muovendo dal loro livello in direzione del principio fondativo (vi ii b5).

Questa confutazione delle ipotesi avviene però —

e

qui è stata segnalata

la soglia della separazione fra la dialettica della Repubblica e il consueto

secondo la doxa bensì secondo la ousia (VII

non

534CZ s.): in effetti il movimento della confutazione delle ipotesi appro

da non all’incertezza, all’aporia, bensì alla comprensione (lambanein)

del lagos capace di descrivere la ousia relativa a ogni oggetto di discussio

ne (534b3 s.). I primi quattro libri della Repubblica costituiscono, si può

dire, un esempio dispiegato di questo percorso della dialettica. Nei libri

che la definisce come “il fare le cose proprie”. Questo livello appare ormai

I e ii vengono sottoposte a etenchos le “ipotesi” doxastiche sulla giustizia

proposte da Cefalo, Polemarco, Trasimaco e dalla cultura cui danno voce

non-ipotetico perché inconfutabile da ogni elenchos, vat)tyc6rarov nel

linguaggio del Fedone (85c9).

L’ulteriore e più specifico lavoro della dialettica intorno al “buono”

consta di tre movimenti, che si possono isolare all’interno di una lunga

e a dire il vero troppo condensata battuta di Socrate, per giunta esposta

in forma negativa, cioè con l’intento di descrivere in primo luogo ciò che

non fa chi non è veramente dialettico (534b8 ss.). Il primo movimento è

quello consueto consistente nel “togliere”, mediante l’elenchos, le ipotesi

infondate sui “buono”. È quanto Socrate ha fatto, anche se in modo un

po’ sommario, nel libro VI confutando le identificazioni del “buono” con

il piacere e l’intelligenza. Questo elenchos deve però venir condotto dal

punto di vista della ousia, e nel caso del “buono” non ci si può fermare qui,

perché come è noto esso non è esauribile nel piano noetico-ideale delle

siai. Occorre dunque un secondo e più specifico movimento, che consiste

nell”isolare”, nel separare il “buono” da tutte le altre idee (534b9 s.: &rà

rrv &À)w ir&rcw &pXcivrrot &ycL8o Anche questa operazione

è stata condotta nel contesto della metafora solare del libro VI (5o8e ss.),

allorché il “buono” era stato separato e distinto da scienza, verità ed essen

za. Che cosa significhi esattamente questa “separazione” del “buono” può

venir chiarito confrontandola con l’esortazione, apparentemente simile,

17, 3$: dDE 7r&vrcI.). Plotino intende negare tutte

le determinazioni del Bene-Uno per costruire una teologia negativa del

di Plotino (Enneadì V 3

Principio assolutamente trascendente e quindi ineffabile. Platone chiede

invece di separare il “buono” da tutte le altre idee per rilevarne la diffe

renza, l’ulteriorità, la non riducibilità all’ambito dell’esistente, empirico

o ideale che sia. Questo necessario aphairein del “buono” —

che

done la posizione estrema di causa e tetos —

non nella dichiarazio

culmina


14Z IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA ‘43

ousias, in ragione del carattere iperessenziale del “buono”, quanto di un’a

nalisi della sua dynamis causale, della sua efficacia (se di definizione si vuoi

parlare, essa non dirà dunque “che cosa è il buono”, bensì “che cosa fa il

buono”). È qui il caso di riconsiderare il passo di vi 5o$e3-4, che può veni

re interpretato in questo senso: “ritieni che l’idea del buono è conosciuta

poiché essa è causa di scienza e verità”: la conoscenza del “buono” è dun

que ottenuta non in sé stessa ma attraverso la sua funzione causale, i suoi

effetti epistemico-veritativi.

Il terzo movimento della dialettica è infine quello discendente. Si tratta

qui, dopo aver conosciuto il “buono stesso”, di vedere le “altre cose buone”,

il “resto del buono” (VII 534c5: &)o cycO&v). Questo significa istituire i

corretti rapporti di partecipazione/predicazione, che consentano ad esem

pio di dire secondo verità che “il giusto è buono”, o magari anche — per ri

prendere le hypotheseis confutate nel libro VI —‘ che, se è falso asserire che

“il buono è il piacere”, o “il buono è l’intelligenza”, è invece corretto, a certe

condizioni, dire che “il piacere è buono” o “l’intelligenza è buona”. La co

noscenza dell’idea del buono, ottenuta per via critico-negativa mediante

un processo di separazione/distinzione dal resto dell’esistente, consente

dunque, nel versante discendente/positivo della dialettica, di “fondare” le

ipotesi, di pronunciare, nel campo dello stesso esistente, corretti giudizi

di valore che riconoscano l’eventuale partecipazione al buono (in quanto

causati da esso) di enti ideali o stati di cose.

Fin qui dunque la risposta di Socrate, che pur nella sua concitazione e

l’iniziale reticen

dopo

nella sua forma negativa ha comunque fornito —

za — qualche importante informazione sui tropos e sugli bodoi della dialet

tica (se non proprio sui suoi eide). A essa Glaucone concede, per la prima

volta, un suo energico (sphodra) assenso (534d;).

Eppure, noi possiamo riformulare, per suo conto e dal suo punto di

cioè proseguire l’interro

possiamo

vista, qualche ulteriore domanda —

gazione dialettica che viene qui provvisoriamente sospesa, raccogliendo

quella ingiunzione a “tornarci sopra” che proprio Glaucone aveva rivolto

a Socrate. Le domande riguardano ancora una volta le modaliti della co

noscenza dialettica e una più precisa determinazione dell’oggettoprincipale

di questa conoscenza.

Per quanto riguarda la prima, essa viene descritta a più riprese come una

comprensione (haptesthai, lambanein) ottenuta attraverso un atto noetico

(noesis, cfr. ad es. 53zbi). D’altro canto, essa viene parimenti descritta come

un’operazione logico-discorsiva (“interrogare e rispondere”, togon didonai,

top[ozw9at zc)6y; cfr. ad es. 534b4 s., b9). Molti interpreti hanno indi

viduato in queste due forme di descrizione della conoscenza dialettica una

tensione, o anche un’oscillazione, tra una polarità discorsivo-argomen

tativa (forse riportabile a una matrice “socratica”), e un’altra culminante

in un’intuizione noetico-eidetica, in una Evidenzerlebnis richiesta dalla

natura extralinguistica degli oggetti ideali e/o del loro “principio’ Altri

hanno sostenuto che, al di là di certe suggestioni derivate dagli usi unguistici,

la conoscenza dialettica deve venire concepita come una Ideenbe

stimmung di carattere interamente definitorio-proposizionale. Una linea

di compromesso è stata individuata nell’assegnare alla conclusione noetica

del percorso dialettico il carattere di uno state ofunderstanding stabile cui

si perviene dopo un lungo lavoro critico-confutatorio attuato nell’ambito

dell’argomentazione discorsiva.

È tuttavia necessario tracciare una netta distinzione fra i due diversi

livelli che la conoscenza dialettica è in grado di raggiungere. 11 primo è

quello degli enti ideali: qui la “visione” eidetica dell’essenza è interamente

solidale con la loro Bestimmung definitoria, il logos tes ousias nel linguag

gio platonico, rispetto al quale la prima si presenta come l’acquisita

tezza della inconfutabilità della hypothesis finale perché essa è riferita al

carattere invariante e alla autoidentità dell’idea. Si tratta di una situazione

certo rara ma non assente nei contesti dialogici: si pensi alla “definizione”

rigorosa della giustizia nel libro IV 443c-444a. Tuttavia, questa stessa ra

rità di simili acquisizioni teoriche segnala un doppio ordine di difficoltà.

Difficoltà innanzitutto interne a questo primo livello: la comprensione

definitoria delle essenze ideali risulta nei dialoghi per lo più problemati

ca e precaria in assenza di un preciso metodo di “mappatura” del campo

noetico, di individuazione delle relazioni, delle affinità e delle differenze

che articolano i rapporti fra idee, del tipo di quello che verrà per la prima

volta delineato sia pure in forma ipotetica nel Sofista. Esperimenti di que

sto tipo, ma privi di una solida infrastruttura metodica, vengono in effetti

a più riprese tentati nei dialoghi (si pensi ad esempio alla discussione sul

kalon nell’Ippia maggiore), dando luogo a risultati non del tutto negativi

ma parzialmente aporetici. Resta dunque per lo più senza risposta (salvo il

caso specifico della giustizia) l’ingiunzione che Trasimaco rivolgeva a So

crate nel libro i della Repubblica: «attento a non dirmi che il giusto è l’op

portuno oil giovevole oil vantaggioso o il profittevole o l’utile; ma dimmi

con chiarezza e precisione quello che intendi [oucJ ot iccd cpt)yit

(336cI1 ss.).

&rt&v)yrj]»


sulle

2.44 IL POTERE DELLA VERITÀ

GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA

‘45

Ma il secondo e maggiore ordine di difficoltà è esterno a questo primo

livello, e consiste nella necessità del rinvio a un’ulteriore fondazione di

verità e di valore delle stesse idee alla cui definizione fosse eventualmente

pervenuta la dialettica, come nel caso della giustizia. Questo rinvio com

porta il passaggio al secondo livello della conoscenza dialettica, quello ap

punto del principio ultimo di fondazione. In questo ambito, la domanda

sulle modalità conoscitive proprie della dialettica si intreccia strettamente

con quella relativa alla precisa determinazione del suo oggetto principale;

lo statuto di questo non può che reagire — secondo un nesso tipicamente

platonico — forme della sua comprensione.

Sappiamo che, al di là delle idee, la dialettica culmina (perainei) nel

tetos del suo percorso di conoscenza, che viene inizialmente caratterizza

to come “principio del tutto” (vi 5iib7), che può venire concepito come

univoco oppure, distributivamente, come relativo al problema in esame.

A seconda dell’alternativa esegetica scelta, l’universalità della dialettica

risulta configurata nel primo caso come “intensiva” (perché perviene alla

comprensione del singolo principio dell’universo e/o delle idee), nel se

condo come “estensiva” (perché assume di volta in volta un punto di vista

unitario sull’insieme dei saperi e dei problemi in discussione).

La questione si complica ulteriormente se si accetta di riconoscere nel

“principio del tutto” l’idea del buono, come il testo platonico sembra sug

gerire in modo inequivocabile pur senza dichiararlo in modo esplicito. Ma

anche questa omissione non può essere sorvolata come non problematica.

Se infatti il “principio del tutto” è il “buono’ esso sembra limitare l’univer

salità della dialettica in entrambe le accezioni che ora si sono considerate.

Il “buono” non può costituire, da un lato, il punto più alto cui perviene

il movimento sintetico-sinottico della dialettica nel senso teorizzato dal

fedro della oua’coy tic tiv iccv, perché esso non può in nessun modo

venir considerato un surnmum genus inclusivo delle differenze specifiche.

D’altro lato, è difficile pensare che il “buono” possa costituire il “princi

pio” dell’universo, perché la sua azione sembra circoscritta alla causazione

delle idee come nuclei essenziali di verità e di valore. E anche per quanto

riguarda lo stesso campo noetico-ideale, di cui il “buono” è certamente

causa e fondamento, appare difficile capire come la dialettica, assumendo

lo a “principio’ possa derivarne, nel suo movimento discendente, la fon

dazione dei teoremi propri di saperi, come quelli matematici, che esulano

dall’ambito etico-politico in cui propriamente l’idea del buono svolge il

suo ruolo fondativo.

La decisione platonica di lasciare almeno esplicitamente anonimo il

“principio del tutto” cui perviene la dialettica potrebbe dunque compor

tare una implicita apertura teorica verso due opzioni compossibili sulla

natura della sua conoscenza: a) un sapere sinottico in grado di assumere

un punto di vista d’insieme sui diversi mathemata e sui loro campi argo

mentativi; b) un sapere del “buono” in quanto fondamento del campo

etico-politico. Il livello di sintesi fra queste due opzioni potrebbe consi

stere nel concepire la dialettìca come c) un sapere in grado di comprendere

(logori lambanein), di valutare (logori didonai) e di utilizzare le conoscenze

in ordine all’orientamento etico-politico delle condotte individuali e pub

bliche, insomma un sapere “regio” e di governo.

In ogni caso, se il “principio del tutto’ come suggerisce la dinamica del

testo al di là del suo iniziale, e probabilmente intenzionale, anonimato, va

identificato con l’idea del buono che riempie di un contenuto la formalità

della sua prima apparizione, da questo derivano importanti conseguenze

per la natura della conoscenza dialettica, su cui è ora il caso di tornare a

interrogarsi.

E certamente da escluderne una forma proposizionale-definitoria che

si concluda con l’enunciazione del logos tes ousias: questo è reso impossi

bile, come si è detto, dallo statuto non essenziale/sostanziale del “buono”.

È altrettanto da escludere una ineffabile visione intuitiva, in ragione del

costitutivo assetto intersoggettivo e discorsivo del dialegesthai. Si deve

dunque supporre che il tipo di conoscenza che fa dialettica può acqui

sire intorno al “buono” sia per l’essenziale quello delineato nel vi e nel

vii libro della Repubblica, oppure, da un altro punto di vista, nel filebo:

l’inserimento, per contiguità e differenze, in una rete di idee affini, nella

quale quella del buono costituisce per così dire un “nodo” (verità, scienza,

essenza, e per altri aspetti bello, limite); una o più descrizioni metaforiche,

come l’analogia solare; infine, e soprattutto, la comprensione dell’efficacia

causale, della sua dynamis specifica.

In questo quadro, i movimenti della dialettica nella Repubblica danno

un’ immagine abbastanza precisa del suo lavoro in progress (per quanto è

possibile, cioè non abbastanza per soddisfare le esigenze epistemiche di

Glaucone). C’è un primo versante critico-negativo, elenctico, che consiste

nel dire ciò che il “buono” non è: dunque nel rifiuto degli pseudo-valori

e della sua identificabilità con qualsiasi “stato delle cose’ nell’asserzione

della sua ulteriorità fondativa persino rispetto al piano epistemico-ideale.

Questo versante non può tuttavia restare isolato pena la trasformazione


in

IL POTERE DELLA VERITÀ

GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA ‘47

pen

z

di nichilismo eristico. Esso deve venire inte

‘o, che consiste in primo luogo nella valorizza

tto di utilità, desiderabilità, quindi di intenzio

po delle idee in quanto tali, della verità e della

ambito che si rivolge il movimento conclusivo

Ido di governare la vita degli individui e della

di criticarne gli scopi falsi e infondati, quanto

di delineare un orientamento della praxis etico-politica fondato su di un

principio incontrovertibile di verità del valore, e di valore della verità.

In questa saldatura del versante onto-epistemologico e di quello eticopolitico

consiste la natura della dynamis della dialettica, che costituisce

allora come si è detto il rappresentante intersoggettivo

— nella discorsivi

tà argomentativa fra gli uomini — della dynamis causale del “buono”. Cià

che la dialettica è propriamente chiamata a fondare, a partire da questa

dvnamis, è il nesso imprescindibile tra verità e valore. C’è qui senza dub

bio una sorta di eccedenza del compito della dialettica, che corrisponde

alla eccedenza ontologica del suo “principio” di fondazione: l’assunzione

programmatica di questa doppia eccedenza rende inevitabilmente parziale

ogni sforzo di realizzazione, e confina dunque sempre di nuovo il sapere

dialettico — come temeva Glaucone — una condizione proemiale, incoa

tiva, alla soglia di una compiuta esecuzione di quel nomos destinato a resta

re un orizzonte insaturo. Nel contesto della Repubbtica, la tensione verso

questo compimento

— cioè verso la realizzazione di un sapere dialettico

stabile e totale — è altrettanto essenziale quanto il suo inevitabile arresto

alla condizione di preludio: un preludio tuttavia non sterile, perché carico

di energia intellettuale ed etica, di una dynamis efficace nei saperi e nella

vita.

Nel grande tentativo logico-ontologico di rispondere a Glaucone ela

borato nel Sofista

— che comportava la teoria della dicotomia, l’introdu

zione dei cinque generi massimi, la teoria della comunicazione fra idee

come fondamento per la distinzione fra enunciati veri e falsi — il lavoro del

dialettico veniva chiamato a ripercorrere le scansioni fra livelli noetici e

relazioni fra idee. Doveva essere in grado di

riconoscere adeguatamente [i.1 un’unica idea estesa in ogni direzione fra molte

altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata; [a.] e molte idee, diverse

fra ioro, comprese dall’esterno da una sola idea, [.] che dal canto suo permane

nell’unità benché estesa fra molti insiemi di idee, [4.1 e molte idee che sono se

parate in quanto completamente distinte. Questo significa saper distinguere per

generi, cioè come essi possono comunicare oppure no (z53d).

Il caso i. sembra riferirsi alle idee dei “generi massimi” come essere, iden

tico, diverso; i casi a. e 3. alle idee-classi, come “tecnica” o “animale’ e a

quelle che esse includono, come “pescatore con la lenza” o “uomo”, o anche

alle idee “partecipare”, come “buono”, e a quelle che ne partecipano, come

“giusto”; il caso 4., infine, sembra costituire piuttosto il risultato o l’esito

del lavoro dialettico, l’individuazione di idee semplici in quanto essenze

delimitate come singoli “nodi” della rete di rapporti di comunicazione e di

differenza che le costituiscono.

C’è ora da chiedersi quali fossero i costi e i guadagni teorici di questa

nuova configurazione della dialettica rispetto a quella che era stata propo

sta nella Repubblica. Come “grammatica generale” dell’essere e del pensie

ro, essa non rinunciava alla supremazia e all’universalità nell’ambito dei

saperi che la Repubblica le aveva assegnati. Veniva tuttavia meno la verti

calizzazione del movimento della dialettica verso un “principio del tutto”

contrassegnato dalla priorità in termini di verità e di valore, e con essa la

pretesa della dialettica di detenere il controllo del livello critico e norma

tivo rispetto sia alle scienze sia alle condotte etico-politiche. Con questo,

come si è detto, la dialettica rinunciava a costituire direttamente la “scien

za regale’ in quanto sapere teorico-pratico relativo al senso delle scienze e

ai fini della vita (anche se, come mostrava il Politico, si poteva continuare a

pensare che essa costituisse la forma di sapere in grado di definire chi fosse

il “vero politico’ cioè l”uomo regale”).

In compenso, il nuovo assetto della dialettica era meglio in grado di

rispondere alle esigenze che Glaucone aveva formulato nella Repubblica,

cioè di mettere in chiaro le proprie modalità procedurali (condizioni di

possibilità della comunicazione fra idee, descrizione delle relazioni seletti

ve fra di esse mediante l’analisi dicotomica, discriminazione fra enunciati

veri e falsi). Un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epi

stemico peculiare della forma del pensiero dialettico, dunque. Che forse

non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e

propria scienza, per diverse buone ragioni.

Faceva da ostacolo, in primo luogo, il permanere del carattere appunto

dialettico, cioè dialogico, intersoggettivo, di questo pensiero. Il procedi

mento dicotomico comportava a ogni passo una decisione, convenuta fra


come

della

in

il

2.46 IL POTERE DELLA

GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA

2.47

VERITÀ

della dialettica in una sorta di nichilismo eristico. Esso deve venire inte

grato da un lavoro fondativo, che consiste in primo luogo nella valorizza

zione — cioè nel trasferimento di utilità, desiderabilità, quindi di intenzio

nalità conoscitiva — del campo delle idee in quanto tali, della verità e della

scienza.

Ed è verso quest’ultimo ambito che si rivolge il movimento conclusivo

della dialettica: essa è in grado di governare la vita degli individui e della

città perché è in grado tanto di criticarne gli scopi falsi e infondati, quanto

di delineare un orientamento della praxis etico-politica fondato su di un

principio incontrovertibile di verità del valore, e di valore della verità.

In questa saldatura del versante onto-epistemologico e di quello eticopolitico

consiste la natura della dynamis della dialettica, che costituisce

allora come si è detto il rappresentante intersoggettivo — nella discorsivi

tà argomentativa fra gli uomini — dynamis causale del “buono” Ciò

che la dialettica è propriamente chiamata a fondare, a partire da questa

dynamis, è il flesso imprescindibile tra verità e valore. C’è qui senza dub

bio una sorta di eccedenza del compito della dialettica, che corrisponde

alla eccedenza ontologica del suo “principio” di fondazione: l’assunzione

programmatica di questa doppia eccedenza rende inevitabilmente parziale

ogni sforzo di realizzazione, e confina dunque sempre di nuovo il sapere

dialettico — temeva Glaucone — una condizione proemiale, incoa

tiva, alla soglia di una compiuta esecuzione di quel nomos destinato a resta

re un orizzonte insaturo. Nel contesto della Repubblica, la tensione verso

questo compimento — cioè verso la realizzazione di un sapere dialettico

stabile e totale — è altrettanto essenziale quanto il suo inevitabile arresto

alla condizione di preludio: un preludio tuttavia non sterile, perché carico

di energia intellettuale ed etica, di una dynamis efficace nei saperi e nella

vita.

Nel grande tentativo logico-ontologico di rispondere a Glaucone ela

borato nel Sofista — che comportava la teoria della dicotomia, l’introdu

zione dei cinque generi massimi, la teoria della comunicazione fra idee

come fondamento per la distinzione fra enunciati veri e falsi — lavoro del

dialettico veniva chiamato a ripercorrere le scansioni fra livelli noetici e

relazioni fra idee. Doveva essere in grado di

riconoscere adeguatamente [i.] un’unica idea estesa in ogni direzione fra molte

altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata; [;.] e molte idee, diverse

fra loro, comprese dall’esterno da una sola idea, [a.] che dal canto suo permane

nell’unità benché estesa fra molti insiemi di idee, [4.1 C molte idee che sono se

parate in quanto completamente distinte. Questo significa saper distinguere per

generi, cioè come essi possono comunicare oppure no (z53d).

il caso i. sembra riferirsi alle idee dei “generi massimi” come essere, iden

tico, diverso; i casi 2.. e 3. alle idee-classi, come “tecnica” o “animale’ e a

quelle che esse includono, come “pescatore con la lenza” o “uomo”, o anche

alle idee “partecipate”, come “buono”, e a quelle che ne partecipano, come

“giusto”; il caso ., infine, sembra costituire piuttosto il risultato o l’esito

del lavoro dialettico, l’individuazione di idee semplici in quanto essenze

delimitate come singoli “nodi” della rete di rapporti di comunicazione e di

differenza che le costituiscono.

C’è ora da chiedersi quali fossero i costi e i guadagni teorici di questa

nuova configurazione della dialettica rispetto a quella che era stata propo

sta nella Repubblica. Come “grammatica generale” dell’essere e del pensie

ro, essa non rinunciava alla supremazia e all’universalità nell’ambito dei

saperi che la Repubblica le aveva assegnati. Veniva tuttavia meno la verti

calizzazione del movimento della dialettica verso un “principio del tutto”

contrassegnato dalla priorità in termini di verità e di valore, e con essa la

pretesa della dialettica di detenere il controllo del livello critico e norma

tivo rispetto sia alle scienze sia alle condotte etico-politiche. Con questo,

come si è detto, la dialettica rinunciava a costituire direttamente la “scien

za regale”, in quanto sapere teorico-pratico relativo al senso delle scienze e

ai fini della vita (anche se, come mostrava il Politico, si poteva continuare a

pensare che essa costituisse la forma di sapere in grado di definire chi fosse

il “vero politico”, cioè l”uomo regale”).

In compenso, il nuovo assetto della dialettica era meglio in grado di

rispondere alle esigenze che Glaucone aveva formulato nella Repubblica,

cioè di mettere in chiaro le proprie modalità procedurali (condizioni di

possibilità della comunicazione fra idee, descrizione delle relazioni seletti

ve fra di esse mediante l’analisi dicotomica, discriminazione fra enunciati

veri e falsi). Un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epi

stemico peculiare della forma del pensiero dialettico, dunque. Che forse

non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e

propria scienza, per diverse buone ragioni.

Faceva da ostacolo, in primo luogo, il permanere del carattere appunto

dialettico, cioè dialogico, intersoggettivo, di questo pensiero. Il procedi

mento dicotomico comportava a ogni passo una decisione, convenuta fra


— ma

solo

cioè

che

come

“il

Z48 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA

‘49

gli interlocutori partecipanti alla ricerca, circa l’insieme o il sottoinsjeme

nel quale fosse via via da collocare l’oggetto indagato (nel caso del “sofista”,

esso veniva di volta in volta assegnato a sette “generi” diversi). Ma c’era

anche un ostacolo più cogente sul piano teorico. La dialettica dicotomica

avrebbe potuto costituirsi come una scienza sul modello della geometria

al livello di universalità che le era proprio — a condizione che

fosse risultato possibile costruire un solo albero dicotomico capace di di

videre il “genere” essere nella pluralità di tutte le sue articolazioni

in

grado di costruire una sorta di atlante tassonomico di tutta la realtà. Ciò

era tuttavia impossibile perché “essere” non è, a differenza ad esempio di

“tecnica” o “animale’ un’idea-classe suddivisibile in specie, bensì rappre

senta una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Non c’è dunque

una dicotomia dell’essere, e di conseguenza non può esistere una tasso

nomia dicotomica universale (come avrebbe invece tentato di costruire il

neoplatonico Porfirio). Questo vale naturalmente anche, a maggior ragio

ne, per gli altri “generi massimi” come il non essere o il diverso, l’identico,

il movimento e l’immobilità. La dialettica dicotomica restava dunque un

procedimento euristico, che muoveva da un problema determinato, la for

mulazione del “togos della cosa” relativo al particolare oggetto indagato, lo

individuava come un nodo della rete mobile di relazioni fra idee al cui in

terno si collocava, e forniva così una griglia utile a distinguere gli enunciati

veri che potevano venire formulati intorno a esso da quelli falsi. Quanto

alle idee, esse continuavano a fungere in questo procedimento come unità

stabili di significato capaci — nelle loro relazioni reciproche — di rappre

sentare riferimenti ordinativi per la comprensione della realtà (empirica

o noetica che fosse); esse non costituivano cioè ancora — come sarebbe

accaduto con Aristotele — forme di una legalità immanente alla natura,

ma certamente la loro “separazione” rispetto al mondo della pluralità e del

divenire risultava fortemente indebolita e ridotta.

Si poteva dunque ancora pensare che la dialettica — come aveva pre

scritto la Repubblica — si muovesse solo nel campo delle idee; e si poteva

inoltre ritenere che il suo statuto epistemico risultasse ora meglio precisa

to, in risposta alle esigenze di Glaucone (che rispecchiavano probabilmen

te la discussione accademica). La dialettica non rinunciava comunque alla

sua originaria natura di indagine mobile e aperta condotta nel confronto

tra soggetti dialogici diversi; se riduceva le sue aspirazioni immediate alla

“regalità” etico-politica, non si trasformava tuttavia in un astratto sistema

di “scienza universale” o di metafisica dell’essere o dell’uno. Il Parmeni

I

i

de sembra appunto destinato a mostrare l’impossibilità di principio della

chiusura della dialettica, la natura inesauribile del suo compito di analisi

critico-confutatoria delle “ipotesi” Qui, come nel Sofista, il vecchio Plato

ne sembra voler mostrare agli accademici che tanto la pretesa di Glaucone

di una compiuta esecuzione del nomos della dialettica, quanto la tendenza

degli “amici delle idee’ e del “giovanissimo” Socrate, verso la costruzione

di un sistema metafisico delle idee, sono estranee alle potenzialità teoriche

della dialettica.

Semmai, il nomos richiesto da Glaucone viene eseguito — giorno se

guente” alla narrazione della Repubblica — nel Timeo, dove si racconta ap

punto la generazione del mondo a partire da un “principio del tutto” che

è buono, anche se non è il “buono” Questo nomos però — è proprio

della tradizione letteraria

— ha il carattere dell’inno che espone le gesta e

le aretai di una divinità. Esso assume cioè le forme di una grande narra

zione mitico-metaforica, che drammatizza il rapporto fra idee e mondo

incentrandolo sull’opera di una dynamis, di una potenza “buona” quale è

il demiurgo. Ma certamente Glaucone

— infatti qui esce di scena

— non

avrebbe riconosciuto in questo nomos quei metodi, quelle forme e quei

modi del procedimento dialettico, la cui definizione egli aveva reclamato

nella conversazione notturna in casa di Cefalo.

Note

i. Glaucone ripete qui, per rinviare il suo assenso, le stesse formule di reticenza

che Socrate aveva usato nella discussione sul “buono”: ‘rò vfrv, T]V 7rcpofcc àp.ov

(o6ea), v T& 7rcpàrL (5o9c9 s.). Per una formula simile cfr. anche Tim. 48c5.

a. A[’r[cv 8’i7rtTi.o Kc1t )Os(, c yt uoico.Lvv$ .tìv &ccvoo. 5. R. Slings,

Criticat Notes on Ptato’s “Potiteia” vi, in “Mnemosyne”, LIV, 1001, pp. 158-81, ha so

stenuto che il genitivo dipende da hos + dianoou (“verbo di pensiero”), e va dunque

riferito non a atetheias bensì all’idea del buono.

3. Cfr. ad es. vii 53zbi 5.: il dialettico non deve arrestarsi «prima di aver afferrato con

il puro pensiero l’essenza del buono».

Nella

.

formula “teologica” diii 38oc8 s., “il dio” è causa non di “tutto” ma solo dei

“beni”.


fino

I’

Sfida sofistica e progetti di verità in ?latone*

I

Barbara Cassin ha scritto, con buone ragioni, che la sofistica è un’inven

zione di Platone. A parte Gorgia, sui quale disponiamo di testimonianze

indipendenti, ma che è anch’egli protagonista di un importante dialogo

platonico, quasi tutto quello che sappiamo dell’antropologia di Protagora

ci viene dal dialogo a lui intitolato, e la sua epistemologia è interpretata e

discussa nel Teeteto. Altri sofisti importanti, come Callicle (Gorgia) e Tra

simaco (Repubblica) sono in larga misura creazioni di Platone, che non

molto avranno in comune con il personaggio storico che reca quel nome.

E soprattutto, in ogni caso, Platone interpreta le tesi dei sofisti, spesso le

rigorizza, le estende, le unifica concettualmente — a dedicare un dia

logo tardo, com’è appunto il Sofista, composto verso il 360, a interrogarsi

ancora una volta su “che cosa sia veramente il sofista”. Un’interrogazione

dunque ricorrente e sempre aperta, se si pensa che a quell’epoca Protagora

era ormai morto da sessant’anni, Gorgia da una ventina; ma con sofisti

come Antifonte Platone avrebbe continuato a discutere fin nel suo ultimo

dialogo, le Leggi.

Sembra dunque di poter dire che Platone abbia dedicato alla sofisti

ca una buona parte del suo cammino filosofico: un rivale da combattere,

una sfida da comprendere, forse un incubo da esorcizzare, in ogni caso una

presenza tanto prossima da risultare inquietante. Rovesciando l’assunto

iniziale, potremmo allora persino dire che la filosofia platonica è un effetto

della sofistica, cioè lo straordinario sforzo di rispondere a un pensiero che

secondo Platone minacciava la possibilità stessa della filosofia nel momen

*

Questo capitolo, inedito, è l’intervento presentato alla conferenza conclusiva del col

loquio della Sezione mediterranea della International Plato Society, tenutosi a Aix-en

Provence nell’ottobre zoi.


Eppure

e

2.52. IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 253

to della sua formazione, e peggio ancora rischiava di confondersi con essa

contraffacendone i tratti.

La prossimità inquietante del sofista al filosofo si ha prima di tutto sul

terreno del discorso — cioè di quella confutazione dialogico-dialettica,

l’etenchos, che era l’emblema del socratismo —, poi anche su quello del

la concezione e dell’esercizio del potere. Una vicinanza che somiglia, in

entrambi i casi, a quella fra il cane e il lupo, che condividono, su versanti

diversi, gli stessi territori agonali.

Parlando nel Sofista della tecnica della confutazione, l’elenchos di me

quivocabile matrice socratica, lo Straniero eleate che conduce il discorso

afferma:

Che nome daremo a coloro che posseggono questa tecnica? Ho qualche esitazio

ne a pronunciare la parola “sofisti”. — [replica Teeteto] è il nostro ragiona

mento che ci ha portato a qualcosa di simile. — [risponde lo Straniero] ma anche

il lupo è simile al cane, la bestia più selvaggia all’animale più domestico. Ch vuoi

essere sicuro deve stare in guardia dalle somiglianze: è un campo su cui è facile

scivolare (z31a).

Il Trasimaco ideologo della tirannide nel libro i della Repubblica è a sua

volta presentato come un “lupo” Ed è anche sul terreno del potere che

la vicinanza fra il cane “filosofico’ protettore del suo gregge, e il temibile

predatore, risulta inquietante, tanto da indurre il Socrate legislatore della

Repubblica a temere una pericolosa metamorfosi dei suoi futuri filosofi-re:

La cosa più terribile e vergognosa per dei pastori è di allevare cani da guardia dei

greggi in modo tale che, per indole ribelle, per fame o per qualche altra cattiva abi

tudine, i cani stessi si spingano a far del male alle pecore finendo per comportarsi

da lupi invece che da cani [...] Non dobbiamo dunque sorvegliare in ogni modo

perché le nostre guardie non facciano altrettanto con i cittadini, dal momento

che sono più forti di loro, finendo per trasformarsi da benevoli alleati in selvaggi

padroni? (III 416a-b)

Per evitare la metamorfosi del buon governante in tiranno (che secondo

Trasimaco è inevitabile in ogni forma di potere), Platone si vedrà costretto

a proporre due dei maggiori “scandali” della Repubblica, l’abolizione della

proprietà privata e della famiglia per i membri del gruppo dirigente (i cani

da guardia di cui si paventa la trasformazione in lupi se avessero interessi

privati da perseguire).

J

La minaccia sofistica investiva dunque, secondo Platone, l’ambito del lin

guaggio, della verità e dei valori, e di qui si riverberava fino al campo della

politica e dell’esercizio legittimo del potere.

Vediamone i tratti (così come Platone probabilmente li comprendeva),

a partire da Gorgia.

Il grande sofista siciliano sembra essere stato il primo a fondare teorica

mente l’autonomia della dimensione retorica, persuasiva, dunque performa

tiva del linguaggio, rispetto al suo tradizionale (e parmenideo) riferimento

alla verità dell’essere. Gorgia avrebbe sostenuto, secondo il resoconto dello

scettico Sesto Empirico, queste tre tesi: i. «Nulla esiste» in senso oggettivo

e assoluto; 2.. « se anche qualcosa esistesse, non sarebbe afferrabile dalla co

noscenza umana», cioè resterebbe totalmente estraneo all’esperienza sog

gettiva; non c’è rapporto fra essere e pensare, altrimenti esisterebbe qualsiasi

cosa pensata, come un uomo che vola; 3. «se infine qualcosa esistesse e fosse

comprensibile, esso non sarebbe comunicabile ad altri», perché la “cosa”

esistente è radicalmente altra rispetto alla “parola” comunicativa (Dx B ).

Dunque il linguaggio della comunicazione umana non fa presa sul

mondo oggettivo; esso non possiede veritd se per questa si intende una

fedele descrizione dell’essere in sé, né i discorsi possono venire valutati in

termini di vero/falso. Restano allora al discorso l’efficacia, la capacità per

suasiva, la potenza produttiva di credenze e condotte, insomma, appunto,

]

la dimensione pragmatica.

Sulle rovine delle pretese veritative del discorso, Gorgia poteva cele

brare il trionfo dei suoi effetti retorici. In un esercizio di scuola mirante a

ottenere l’assoluzione postuma di Elena dall’accusa di tradimento per aver

seguito Paride a Troia, diceva Gorgia che se Elena fu convinta a parole non

la si deve ritenere colpevole, perché

i

i

2

la parola è un grande padrone [...J Può infatti far cessare la paura, sopprimere il

dolore, infondere gioia, suscitare compassione [...J Che poi la persuasione, quan

do si aggiunge al discorso, lasci nell’anima l’impronta che vuole, bisogna capir

lo considerando in primo luogo i discorsi dei naturalisti dediti alle cose celesti,

che sostituiscono un’opinione all’altra eliminando questa e sostenendo quella,

in modo che agli occhi dell’opinione vengano a manifestarsi cose incredibili e

oscure; in secondo luogo le cogenti argomentazioni giudiziarie, nelle quali un

solo discorso, scritto secondo i dettami della tecnica retorica, non detto secondo

verità, diverte e convince una grande folla; infine, le dispute dei discorsi filosofici,


secondo

‘54 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE

‘55

in cui si mostra anche la rapidità della mente, capace com’è di rendere instabile e

mutevole la credenza in ogni opinione (DK B si).

Ciò che discrimina fra loro i discorsi della scienza, della morale, della giu

stizia, della politica e della stessa filosofia non è dunque la rispettiva verità

ma la loro efficacia retorica che si esercita in contesti agonali, come quelli

della politica, dei tribunali, delle dispute scientifiche e filosofiche. La parola

persuasiva può indurci a credere, e a fare, qualsiasi cosa essa desideri. Quan

to alle finalità etiche della persuasione, esse sono affidate, secondo il Gorgia

dell’omonimo dialogo platonico, al senso di responsabilità del retore.

Il secondo grande sofista, Protagora di Abdera, non sembra essere sta

to teoricamente altrettanto radicale di Gorgia, ma certo capace di un’in

fluenza intellettuale secondo Platone ancora più pericolosa. A parte le in

terpretazioni platoniche, di lui ci restano soltanto poche righe, fra le quali

compare quella che sembra essere stata la sua tesi principale: «l’uomo è

la misura di tutte le cose, di quelle che sono per il modo in cui sono, di

quelle che non sono per il modo in cui non sono» (DK B ;). Il senso di

questa enigmatica affermazione può forse venire così interpretato (anche

sulla base dell’analisi che Platone ne proponeva nel Teeteto): c’è un mondo

esterno, ma ogni soggetto è giudice inappellabile delle qualità delle cose

che ne fanno parte, secondo come a lui appaiono (dolci o amare, belle o

brutte, giuste o ingiuste); da lui dipende il giudizio se una cosa è X o

oppure non èXo Y. Si tratta, in altre parole, del principio dell’ermeneutica

contemporanea secondo il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni.

Da questo principio seguono alcune importanti conseguenze di ordine

epistemologico, e soprattutto etico-politico. Per quanto riguarda le pri

me, ogni affermazione, in quanto descrive una percezione o valutazione

soggettiva, è “vera”, poiché non si può porre la questione della verità del

discorso come sua corrispondenza allo stato delle cose. Sul piano etico

politico, I”uomo-misura” si trasforma in un’identità collettiva: abbiamo

allora un soggetto plurale, il “noi” della città o della sua maggioranza as

sembleare, come criterio definitivo dei valori pubblici. Perciò, « quello che

ogni città decide sia giusto e bello, tale in effetti è anche per essa, finché

lo consideri così (Theaet. 167c); e commentava Platone che le dottrine di

Protagora «per le cose giuste e ingiuste, morali e immorali, vogliono soste

nere che nessuna di esse possiede in realtà una propria essenza oggettiva,

ma che diventa vero ciò che è sancito dall’opinione collettiva allorché vie

ne opinato e per tutto il tempo in cui è opinato» (Theaet. i7zb). Protagora

non si fermava però a questo esito di relativismo estremo della verità e dei

valori; anche in lui, la dimensione pragmatica del linguaggio giocava un

ruolo centrale. Non è possibile discriminare le opinioni in “vere” o “false”,

bensì in “utili” e “dannose” per l’individuo e per la comunità, in ordine ai

loro interessi individuali e collettivi, ed è a questo miglioramento prag

matico, non veritativo, delle opinioni, che può mirare la convinzione del

retore sofista ( Theaet. 167a-c).

Nichilismo gorgiano e relativismo protagoreo delineavano così, per Pla

tone, una formidabile sfida intellettuale. Sul piano della conoscenza, essi

convergevano nel sostenere l’impossibilità di un sapere universalmente

e oggettivamente valido, capace di descrivere secondo verità lo stato del

mondo al di là delle credenze soggettive. Sul piano etico-politico, essi ab

bandonavano le norme di giustizia all’arbitrio delle decisioni conflittuali di

individui e gruppi, negando l’esistenza di criteri autonomi di riferimento

che consentissero di valutare la giustezza di queste decisioni. Nel libro i del

la Repubblica, Platone fa sostenere al sofista Trasimaco una tesi radicalmen

te relativistica: il “giusto” consiste nella conformità alla legge; ma la legge

è imposta da chi ha il potere per farlo, ed essa è perciò sempre strumentale

alla conservazione del potere; la giustizia, dunque, consiste nell’utile di chi

detiene la forza, e, viceversa, nell’oppressione dei sudditi (I 338c-339a).

Il lavoro filosofico di Platone consistette in buona parte nel tentativo

di rispondere a questa sfida, per ricostituire le condizioni della verita del

sapere e dell’oggettiviti dei criteri di giudizio etico-politico.

3

Per rispondere alla sfida sofistica occorreva secondo Platone in primo luo

go consolidare il linguaggio, ripristinando il suo riferimento alla realtà,

e con questo garantire le condizioni di possibilità del discorso vero, al di

là del fluttuare delle opinioni abbandonate agli effetti retorici della per

suasione. Come ha scritto Hannah Arendt, per Platone «la persuasione

non è l’opposto del dominio mediante la violenza, ma ne è solo un’altra

forma»; meglio allora sostituirla con quella che la stessa Arendt ha chia

mato «la tirannia del vero». Ma per questo era necessario niente meno

che costruire una nuova concezione della realtà, cioè una nuova ontologia,

antieraclitea (quindi fondata sulla stabilità dell’essere anziché sui flussi del

mutamento), e perciò — la decisiva connessione stabilita nel Teete


sia

256 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 257

to fra mobilismo eracliteo ed epistemologia di Protagora — antiprotagorea

e antirelativistica.

L’esigenza di consolidare il riferimento del linguaggio alla realtà, e

quindi di ripristinare una dimensione veritativa del linguaggio stesso,

è particolarmente acuta nel campo dei valori pubblici e privati, come il

bello, il buono, il giusto (dunque dell’etica e della politica), che era stato

il terreno di elezione del relativismo protagoreo. È il caso di leggere per

esteso a questo proposito un memorabile passo del Cratito (439c-440c):

SOCRATE Possiamo dire che sia qualcosa il bello considerato in se stesso; e così

il buono, e ogni singola cosa? O non possiamo?

CRATILO A me pare di sì, Socrate.

SOCRATE A questo dunque teniamo ben ferma la nostra attenzione; intendo

dire, non ad un volto o a qualcosa dcl genere, se ci appaiono belli, e se abbiamo

l’impressione che tutte queste cose trascorrano in un perenne fluire. Perché il bel

lo, diciamo, in sé, non è sempre tale quale è?

CRATILO Necessariamente.

SOCRATE Ma sarà mai possibile assegnargli un nome veramente giusto, se con

tinuamente ci si sottrae nel suo essere e nelle sue qualità? O non è invece neces

sario che, mentre ne stiamo parlando, esso divenga subito qualche altra cosa, e ci

sfugga, e non sia più quale era prima? [...1 Ma neppure potrebbe essere conosciuto

da nessuno. Non appena infatti ci avvicinassimo per conoscerlo, diventerebbe su

bito altro e diverso, né più lo potremmo conoscere, né per ciò che è, né quanto alle

modalità del suo essere. Nessuna conoscenza infatti conosce ciò che conosce, se

questo non è in alcun modo stabile nel suo essere. [... Ma neppure è possibile che

vi sia conoscenza, Cratilo, se tutto trapassa da uno stato all’altro e nulla permane

stabilmente t...] Se invece esiste ciò che conosce, esiste ciò che è conosciuto, esiste

il bello, esiste il buono, esiste ogni singolo ente in sé, allora mi pare che queste

cose di cui stiamo parlando non abbiano niente a che fare con il flusso o con il

movimento.

Se linguaggio e conoscenza devono essere Stabili e veritieri (dunque sal

vati dalle sabbie mobili di nichilismo e relativismo), occorre che esista un

riferimento reale altrettanto stabile e immutabile (cioè posto al riparo dal

mobilismo eracliteo). Scriveva infatti Platone nel Timeo (29b-c):

I discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò

che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e

solidi, e, nella misura in cui, per i discorsi, è possibile e conveniente essere incon

futabili e invincibili, di nulla devono mancare [...] L’essere è rispetto al divenire

nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza.

È precisamente su questo terreno problematico che nasce l’ontologia delle

idee, destinata ad assumere diverse configurazioni nei contesti dialogici

ma costante nell’intenzione di garantire al linguaggio e alla conoscenza

un riferimento oggettivo stabile e invariante. I predicati universali del tipo

“giusto”, “bello’ “grande”, o anche (sebbene questo sia un caso particolar

mente problematico), “uomo’ “cavallo” e così via, costituiscono nuclei di

signqicato unitari e invarianti che possono venire riferiti a una pluralità

mutevole e instabile di soggetti e di circostanze.

Se tuttavia il loro contenuto potesse variare a seconda delle opinioni

soggettive, non si sarebbe ancora superata, secondo Platone, la minaccia

del relativismo sofistico. Questi predicati devono dunque venire pensati

come descrizioni di un referente primario, che possiede in modo ogget

tivo, assoluto e invariante la proprietà che essi enunciano. La referenza di

“giusto” è un oggetto che Platone chiamava “il giusto in sé’ “la giustizia

stessa”, insomma l’idea (oforma) di giustizia che ha con le singole cose di

cui si può predicare la giustizia lo stesso rapporto che il triangolo ideale dei

matematici presenta con i singoli triangoli di volta in volta disegnati sulla

carta o realizzati con il legno.

Non c’è dubbio che l’ontologia di Platone, almeno nella sua forma

“classica” (tra fedone e Repubblica) — diverso può essere il caso della pro

spettiva “dinamica” delineata nel Sofista — un’ontologia a modello geo

metrico. Quale che sia lo statuto ontologico degli enti matematici (un

problema del resto che appartiene piuttosto alla scolastica platonica), essi

costituiscono l’esempio evidente di oggetti dotati delle proprietà dell’in

varianza, dell’autoidentità, della convertibilità fra nome e definizione,

proprietà che Platone traferisce alle idee come loro tratto distintivo. Esse

fanno degli enti matematici oggetti veri, quindi in grado di trasferire questa

caratteristica ai discorsi che li descrivono. Su questo aspetto, che a sua vol

ta viene trasferito alle idee, si fonda la stretta unità platonica fra ontologia

ed epistemologia, secondo il principio, stabilito nella Repubblica (477a),

della connessione inscindibile frapantetos on epantelòsgnoston.

Anche al livello del metodo, del resto, le potenzialità veritative dei pro

cedimenti delle matematiche forniscono senza dubbio un modello per

quelli dialettici. È vero che, secondo la ben nota critica del libro VI della

Repubblica, l’inferiorità epistemica delle matematiche rispetto alla dialetti

ca consiste nel loro assetto assiomatico-deduttivo, che richiede di assume

re per consenso convenzionale (homotogia) hypotheseis non ulteriormente

fondate e nel dedurne i teoremi conseguenti (ioc-d). La dialettica, al con-


ed

che,

158

IL POTERI DELLA VERITÀ

T

SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE

259

trario, dovrebbe partire da queste hypotheseis e risalire fino a un principio

non ipotetico, anhypotheton. Tuttavia, anche nell’ indagine dialettica un in

dicatore di verità è costituito dalla homotogia conseguita fra i partecipanti

al dialogo; e, come risulta dal fedone (iooa-b), le idee stesse possono venire

considerate come “ipotesi’ bensì difficilmente confutabili (dysexelenchota

toi, 89c-d) ma non del tutto an-ipotetiche. Homotogia e hypotheseis sembra

no dunque avvicinare le procedure dialettiche e matematiche più di quanto

Platone non sembri disposto a riconoscere in modo esplicito.

C’è poi un altro aspetto decisivo nel rapporto fra metodo matematico e

pensiero dialettico. 11 libro vii della Repubblica mostra chiaramente che il

processo astrattivo-idealizzante proposto dai saperi matematici costituisce

la condizione necessaria e sufficiente per l’accesso dialettico alla conoscen

za eidetico-noetica. Esso consente di superare il paradosso gnoseologico

della conoscenza di enti immateriali da parte di un soggetto incorporato,

paradosso che aveva suggerito il regresso anamnestico a una conoscenza

precorporea delle idee. La via matematica alle idee sembra invece costitui

re un’alternativa non mitologica alla reminiscenza, che potrebbe allora ve

nire considerata come la rappresentazione metaforica della comprensione

delle idee come a priori trascendentale di ogni conoscenza possibile.

4

Tutto questo aveva conseguenze decisive anche nell’ambito del governo

della vita pubblica e privata. Dall’ontologia delle idee conseguiva che i “va

lori” (il bene, il giusto, il bello) esistono in modo invariante e indipenden

te dalla mutevolezza delle opinioni, dall’arbitrio delle maggioranze, dal

potere della persuasione retorica. Essi sono l’oggetto di una conoscenza

vera — è proprio questa conoscenza a fondare la differenza tra i filosofi e

i sofisti “filo-dossi’ cioè legati al mondo dell’opinare (doxa).

Questa conoscenza valoriale garantisce la possibilità di pensare, parla

re e agire in vista di scopi universalmente validi, di ciò che è davvero bene

per l’insieme della comunità politica e della personalità individuale. L’e

sistenza di un ordine di valori ideali e la possibilità di una loro conoscenza

sono dunque per Platone la fonte di legittimazione dell’aspirazione dei

filosofi al regno, che viene formulata nella celebre “terza ondata” del li

bro v della Repubblica. Scriveva infatti Platone in questo grande dialogo

(vi 484c-d):

5

Dal momento che fliosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che

resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si

limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà

essere guida della città? [...J Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o

un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa [...J Ti sembra allora

che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della co

noscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e

non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero,

sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in

modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?

Con questa ultima mossa, Platone poteva celebrare la sua vittoria teorica sui

rivali sofisti

— come si diceva all’inizio, egli aveva in qualche modo inte

riorizzato, assorbito nel suo stesso pensiero, fino a farne una sorta di ossessio

ne filosofica e politica. Questa vittoria aveva comportato un complesso siste

ma fondazionale che andava dal linguaggio all’ontologia e all’epistemologia,

e da esse tornava all’uso pragmatico, etico e politico, del linguaggio stesso.

Come ha scritto Main Badiou, questo sistema teorico di protezione

dalla sfida sofistica aveva talvolta effetti “iperbolici’ che andavano persino

oltre lo spirito autentico del platonismo: in sé stesso una filosofia aperta,

critica, dialogica, insomma una filosofia socratica. il timore per il mobi

lismo eracliteo e il relativismo protagoreo rischiava invece di dare luogo

a risultati che potremmo definire di tipo “egizio” nella cultura e nella

politica, cioè a un desiderio di immobilità nelle forme della musica, del

teatro, della costituzione della città. Parallelamente, contro l’individua

lismo dell”uomo misura” si producevano in Platone forme eccessive di

organicismo sociale, di annullamento dell’individuo nella totalità comu

nitaria, come avrebbe denunciato Aristotele nel libro Il della Politica. Se vi

sono ombre di totalitarismo nella filosofia di Platone (e per scorgerle non

è necessario cadere nelle esagerazioni proprie di Karl Popper), risultano

anch’esse un effetto della sofistica, alla maniera delle reazioni immunitarie

il cui eccesso può risultare patologico.

Insomma, sconfiggere la sofistica presentava per la stessa filosofia di

Platone un prezzo molto elevato. Ma il senso, e la grandezza intellettuale,

di questa filosofia, stanno nella sua eccezionale capacità di configurare un

avversario di straordinaria levatura teorica, e di confrontarsi con esso in


260 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE

una discussione tenace e coraggiosa, nella quale noi possiamo riconoscere

l’atto di nascita della tradizione filosofica occidentale.

6

Del resto, il rischio di una reazione “iperbolica” alla sofistica è soltanto

sfiorato da Platone, che se ne tiene lontano per un aspetto essenziale. Cer

tamente, egli insiste sulla necessità, e la possibilità, di acquisire la verità,

come gli indicava il modello delle matematiche. Ma rispetto a questo

modello la sua filosofia presenta una differenza importante. La geometria

lavorava a costruire, fino al compimento con Euclide, un sistema teorema

tico, assiomatico-deduttivo, delle sue verità. E una tendenza a costruire

sistemi di tipo elementare-derivativo è certamente presente anche in Pla

tone: basti pensare alla cosmogonia del Timeo o alle dottrine non scritte

dei principi. Sembra però che la tendenza principale della filosofia plato

nica, come si esprime nei dialoghi, consista nel non chiudere mai il sistema

della verità: il suo sforzo consiste piuttosto nel delineare progetti e regimi

di verità, procedure per la costruzione di discorsi veri.

Questo vale anche per la Repubblica, dove pure la verità è considerata

come l’effetto della descrizione di “oggetti veri’ nell’enunciazione del logos

tes ousias degli enti noetici, in cui consiste il compito assegnato alla dialettica.

Della dialettica però Platone dice più “che cosa fa’ che non “che cosa sa”, la

descrive insomma più come una procedura che come un deposito di verità.

La prima designazione della dialettica è infatti quella di una tecnica, il

dialegesthai, dotata di una sua dynamis, una capacità efficace e in grado di

produrre effetti. C’è poi un’ulteriore e ribadita descrizione che presenta la

dialettica come un “cammino”, un “viaggio” (poreia: 53zb4), cioè un pro

cedimento di ricerca metodicamente organizzato (methodos: 533b3, c7).

La dialettica è presentata inoltre, in modo più forte, come una “scien

za” (episteme). Questo riconoscimento della scientificità del procedimen

to dialettico è formulato per la prima volta da Glaucone (iic), ma esso

viene in seguito confermato da qualche accenno socratico. Si tratta infatti

della capacità di «interrogare e rispondere nel modo più scientifico» (epi

stemonestata, 534d9 s.), che si vale della «incrollabile forza del discorso

razionale» (&7r-rcrtTc)6’yw, 534c3) e che perviene, al suo termine, a quella

“saldezza” (bebaiosetai, 533c7) che è appunto propria dei saperi scientifi

ci. Ma questo consolidamento non è definitivo, e deve venire ogni volta

riconquistato nella « battaglia » (mache, 534c) che il dialettico affronta

nel confronto delle reciproche confutazioni. Lo spazio della dialettica ne

risulta perciò radicalmente configurato come intersoggettivo: il dialettico

ha sempre di fronte a sé altri uomini, altre doxai, di fronte ai quali «dare

e ricevere ragione» (53xe4 5.: &f.vcd TE ICal & cwOct )àyo), e la sua

formazione deve mirare in primo luogo a fargli acquisire questa capacità.

E qui sta la radicale differenza tra dialettica e metodo delle matematiche,

che si configura piuttosto come un monologo teorematico. Il consolida

mento scientifico delle verità dialettiche (la conquista del logos tes ousias)

è possibile e necessario, ma non dà luogo a un sistema chiuso e stabile di

definizioni, piuttosto, come diceva il fedone, a “ipotesi difficilmente con

trovertibili” (è questo ad esempio il caso della definizione della giustizia

nel libro Iv della Repubblica, perfettamente valida nell’ambito politico,

ma che viene rimessa in discussione nel “percorso più lungo”, nzakrotera

periodos, del libro vi).

Nel Sofista la forma della verità non consiste più tanto nella produzio

ne del togos tes ousias di oggetti noetici “veri”, quanto nella costruzione di

enunciati che dicano “le cose che sono come sono’ cioè corrispondano allo

stato delle relazioni reali degli enti noetici tra loro o con gli oggetti empiri

ci. La verità si colloca dunque nell’unione di soggetto e predicato, quando

essa renda conto dell’oggettiva connessione fra i termini reali cui essi si ri

feriscono. La produzione di questo tipo di enunciati è consentita, almeno

a livello degli enti noetici, dalla procedura dicotomica, in grado di reperire

la trama di relazioni di comunicazione che connettono, o separano, i ge

neri ideali fra loro. In linea di principio, la procedura dicotomica sembre

rebbe rappresentare un programma di ricostruzione completa dell’intera

mappa delle relazioni fra generi, e perciò costituire un dispositivo in grado

di produrre tutti i discorsi veri riguardanti la realtà intellegibile.

Questo non è tuttavia il vero progetto della dicotomia così come Plato

ne lo costruisce nel Sofista.

La dicotomia non intende certamente generare un progetto di tasso

nomia universale, una sorta di atlante ontologico di tutta la realtà, come

sembra suggerire qualche sua interpretazione neoplatonica (ad esempio il

celebre “albero” di Porfirio). Questo intento è escluso per principio dall’im

possibilità di dividere il megiston genos dell”essere”, che non costituisce

un’idea-classe inclusiva di un insieme ordinato di enti, come è ad esempio

“animale’ bensì una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Se

l’essere fosse divisibile in specie, dovrebbero esserlo anche gli altri megista


e

epistemologicamente

che

z6z

IL POTERE DELLA VERITÀ

i

gene, come I’ “identico’ il “diverso”, il “movimento” o 1’ “immobilità”, il che

evidentemente è assurdo.

A ciò si aggiunge il divieto di dividere il campo dicotomico “di sinistra”,

che esclude in linea di principio la possibilità di saturare una tassonomia

dicotomica universale.

Ma va soprattutto sottolineato che il campo da dividere è assunto

per ipotesi — per effetto di una homologia fra gli interlocutori (cfr. ad es.

zzzb) — non costituisce il genere aristotelico esistente in natura. Si pensi

ad esempio all’ “arte di condurre animali al pascolo” del Politico, e soprat

tutto ai sei o sette ambiti generali in cui viene via via incluso il “sofista” nel

dialogo omonimo, da cui risultano per via dicotomica altrettante defini

zioni diverse. Il fatto che la validità dei risultati raggiunti dipenda dall’ac

cordo fra gli interlocutori, sia sul punto di partenza sia sull’esito del pro

cesso di divisione, sottolinea il carattere dialettico-dialogico, quindi non

sistematico-tassonomico, dell’intera procedura.

Per Platone la verità è necessaria, e possibile. Questa possibilità è fon

data sul presupposto di una affinità (syngeneia) tra l’anima e l’essere (co

munque poi questa affinità possa venire interpretata, ad esempio nel sen

so aristotelico della passività del nous di fronte ai noeta, oppure in quello

idealistico della produttività del conoscere). La verità può venire acquisita

sia mediante la descrizione di oggetti veri sia mediante la produzione di

enunciati corrispondenti alle relazioni oggettive che organizzano il mon

do. Nell’uno e nell’altro senso, possono venire costruite procedure razio

nali per l’acquisizione della verità, e grazie a esse il relativismo sofistico

può venire sconfitto. Ma né l’eredità di Socrate né la sfida dello stesso sofi

sta possono venire davvero del tutto rimossi.

Si possono costruire progetti e regimi di verità, in grado di dare rispo

ste oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e della praxis eticopolitica.

Il modo in cui queste risposte vengono generate produce segmenti

parziali di verità — ed eticamente decisivi — han

no un orizzonte intenzionale di integrazione conoscitiva. Questo orizzon

te non sembra saturabile — in modo da pervenire a un sistema di verità

chiuso e definitivo — appunto in ragione della natura locale e parziale dei

progetti di verità via via perseguiti, che non si configurano come un pro

cedimento derivativo e teorematico. Se è necessario superare, insieme con

il relativismo sofistico, anche il non sapere socratico, resta il terreno dialet

tico e intersoggettivo in cui si formano e si compiono i progetti di verità.

Confutare Protagora non comporta dunque per Platone precorrere Proclo.

Il

Immortalità personale senza anima immortale:

Diotima e Aristotele*

I

Diotima’ sostiene con molta chiarezza la tesi che il desiderio di possedere

«ciò che è buono» (tagatha) è motivato dall’altro e dominante deside

rio di «essere felici» (tcLt[.u.w urct, 2o4e6 ss.). Eros è dunque rivolto a

«possedere il bene per sempre» (zo6a8-9), e con esso, s’intende, la felici

tà che ne consegue. Questa aspirazione a un possesso perpetuo di bene e

di felicità dà necessariamente luogo a un desiderio erotico di immortalità

(&Gco(c à ctoì tGu.tt!v, 2o6e9 s.)’.

Diotima indica tre percorsi che possono venire seguiti in vista della

soddisfazione di questo desiderio di immortalità.

1.1

La prima via verso l’immortalità riguarda ogni vivente mortale, uomo

o animale che sia (zo7b), e consiste nella procreazione biologica di un

individuo simile al genitore, poiché «in ogni vivente che è mortale vi

è qualcosa di immortale», la gravidanza e la generazione (zo6c6-8):

«la procreazione è ciò che di eterno e immortale spetta a un mortale»

(zo6e8)4.

Infatti, conclude su questo punto Diotima, «la natura mortale cerca

per quanto le è possibile [kata to dynaton] di essere sempre e di essere im

mortale. Ma può farlo solo in questo modo, attraverso la procreazione»

(zo7dx-3).

Questo capitolo è già stato pubblicato in The International Plato Society, x Sympo

sium Platonicum, The Symposium, Proceedings i, Pisa i5th-zoth July zo13, Dipartimento

di Filologia, Letteratura e Linguistica, Università di Pisa, Pisa 1013.


di

a

264

IL POTERE DELLA VERITÀ

IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE

z6

Si tratta in particolare della via seguita da quegli uomini che sono

«gravidi secondo il corpo»: essi si rivolgono alla riproduzione sessuale

«procurandosi attraverso la procreazione di figli immortalità e ricordo e

felicità [&8cnco(wv KcCI n’nyv Kì r q.tov(co] [...] per tutto il tempo a

venire» (zo8e).

1.2

Accanto alla via biologica verso l’immortalità, Diotima ne riconosce al

tre due, queste specificamente umane, che potremmo definire di tipo

“culturale”.

La prima di esse riguarda un tipo d’uomo il cui profilo antropologico è

diverso da quello dedito alla riproduzione biologica. È l’uomo ambizioso,

motivato dalla philotimia, il cui desiderio di immortalità prende la for

ma dell’aspirazione

chiara memoria omerica6 —

un kteos athanaton

(1o8c5 s.), che assicuri «l’immortale memoria» delle loro gesta e della

loro areté: «è per una virtù immortale e una fama gloriosa che tutti fanno

tutto, e tanto più quanto migliori essi siano: infatti amano l’immortale»

(1o8d5-ez).

È nell’ambito di questo tipo antropologico che la tensione verso un’im

mortalità culturale si sviluppa, dopo la primitiva ricerca del kteos eroico

dell’epica, in direzione di un lascito eterno di opere memorabili, tanto

nell’ambito della creazione poetica quanto in quello della storia politica.

La vecchia areté eroica lascia ora il passo a un nuovo quadro di virtù che si

inscrivono nello spazio dell’intelligenza, laphronesis (p6vo&v TE ccd rp

&)yv &pEr]v, 2o9a4): quelle virtù, sophrosyne e dikaiosyne, che per Plato

ne sono essenzialmente “politiche” (cfr. Resp. IV 43odi), e che Aristotele

avrebbe preferito chiamare “etiche” Gli eroi eponimi di queste nuove virtù

sono ora i poeti e gli artisti “creativi”, come Omero ed Esiodo, ma ancor

di più coloro che si distinguono nel garantire il buon ordine (diakosmesis)

delle case e delle città, come i protolegislatori Licurgo e Solone. È grazie

alle loro opere nel dominio della cultura e della politica che essi acquista

no, come i vecchi eroi, fama (kleos) e memoria immortali (zo9d)8.

Fin qui, secondo Diotima, il giovane Socrate è in grado di seguire il

percorso dell’iniziazione erotica. La sacerdotessa dubita però che egli sia

in grado di seguirla oltre la soglia dei cosiddetti misteri maggiori, che apre

la via all’iniziazione epoptica, nonostante che si dichiari disposta a dedi

care al discepolo tutto il suo impegno (oic oi’€ oi6 T&v E’ [...] yc

iccì 7rpo6v.LCa oàv &‘it6XEtc,J, zIoaz-4). Torneremo più avanti sul senso

di questa presunta incapacità di Socrate di seguire Diotima nel percor

so iniziatico. Si tratta ora invece di vedere che cosa sta oltre la soglia dei

“grandi misteri’ È certo comunque che a superarla non potrà essere il tipo

antropologico dell’uomo “fi1otimico’ ma una figura umana diversa: evi

dentemente, è il caso di anticipare, quella del filosofo.

1.3

La terza via verso l’immortalità è anch’essa, come la seconda, di ambito

culturale e non biologico, ma sia il suo approccio sia il suo esito sono di

qualità intellettuale del tutto superiore a quelli della via “filotimica Chi

dunque procede correttamente (orthos) per questa via passerà dall’eros ri

volto alla bellezza di un corpo a quello per tutti i corpi che partecipano del

tratto della bellezza, poi a quello rivolto alla superiore bellezza delle ani

me e dei loro prodotti: comportamenti (epitedeumata), leggi, conoscenze

(episternai) (zioa-c). Questo eros riorientato lo metterà di fronte allo spet

tacolo del «vasto mare del bello», la cui contemplazione gli ispirerà la ge

nerazione di «discorsi [logoi] belli e magnifici», nonché di nobili pensieri

(dianoemata) filosofici, il cui orizzonte è la conoscenza unitaria e per così

dire intensiva (mia episteme) del bello (ziod).

A questo punto, giunto ormai al tetos della contemplazione delle cose

belle, l’iniziato perverrà alla visione istantanea ((v 1cwr6fETctt) del

«bello per natura» (lIoe4-6). Tutto ciò suscita naturalmente parecchie

domande, ma importa qui in primo luogo vedere le conseguenze di que

sta visione del bello in sé. Ch la consegue genera non più simulacri di

areté — tali vanno ormai evidentemente considerate tanto le virtù “eroi

che” quanto quelle etico-politiche — ma la «virtù vera» (21224-6), la

cui natura deve essere dunque considerata soltanto contemplativa. A ch

l’ha conseguita spetta di diventare theophites, evidentemente nel doppio

senso di colui che è “caro agli dei” e che è a loro devoto. Certo anche

a questo tipo di uomo toccherebbe di diventare immortale, athanatos,

se mai ciò potesse accadere a un uomo, e nella misura in cui questo per

un uomo è possibile (21za7-8). Questa è la terza e più elevata forma di

immortalità perseguibile dagli uomini, dopo quella biologica e quella

poetica e politica.


z66

IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE

267

1.4

Tutto questo, si diceva, suscita molte domande. Che cosa esattamente co

nosce l’iniziato quando “vede” il bello? Che forma epistemica assume que

sta conoscenza? Perché essa dovrebbe risultare quasi inaccessibile al So

crate allievo di Diotima? C’è continuità o discontinuità fra i diversi passi

verso l’immortalità, e i tipi d’uomo che a essi corrispondono? Che cosa

accade all’iniziato dopo la visione del bello? Infine quella che è per noi la

domanda più importante: di che tipo è l’immortalità acquisita grazie alla

conoscenza del bello?

‘.4.’

il linguaggio con cui Platone descrive il “bello” oggetto della visione epopti

canon lascia dubbi: si tratta dell’idea o forma del bello, cui vengono riferiti

i tratti ricorrenti in quella che si può definire la teoria standard delle idee’°.

È sufficiente leggerne due passi confrontandoli rispettivamente con quelli

paralleli in Repubblica e fedane. Il bello del Simposio « sempre è e non nasce

né muore, non cresce né diminuisce, [...] non è in parte bello e in parte

brutto, né a volte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto ri

spetto a un’altra » (z,Ia,-4). E si veda Repubblica, dove si polemizza contro

il filodosso che «non ritiene esservi il bello in sé né alcuna idea della bellez

za in sé che permanga sempre invariante nella sua identità», e gli si obietta

che delle molteplici cose belle «non ve n’è una che non possa apparire an

che brutta [...], e che le stesse cose appaiono, da diversi punti di vista, ora

belle ora brutte», a differenza dell’identità invariante dell’idea (v 479a1-8).

Ancora, il bello del Simposio si trova « esso stesso tctà iccO ‘T6] in se stes

so, con se stesso, in un’unica forma [monoeides] , eterno, mentre tutte le altre

cose belle partecipano [metechonta] di esso» (z,ibi-3). Il confronto qui è

con il fedone, dove dell’ «uguale in sé, del bello in sé, e di ciascuna cosa che

è in sé» si dice che «ciascuna di queste cose che sono, essendo uniformi

[monoeides] in sé e per sé [a&rò icaO ‘ct6] e nella medesima condizione, in

nessun momento, in nessun luogo ammette alcun mutamento» (78d3-$).

Non c’è dubbio, quindi, che l’oggetto della visione iniziatica possa de

finirsi tecnicamente come l’idea del bello. Il fatto che il contatto con essa

(designato con il verbo haptesthai) rappresenti il culmine e il compimento

del percorso erotico (tetos, zIoe4) può suggerire un’analogia, almeno di

posizione, con l’idea del buono nella Repubblica, collocata anch’esso al

culmine (telos) del mondo ideale, e oggetto di un’apprensione noetica (VII

53zbi s.), che può a sua volta venire indicata con il verbo haptesthai (vi

5xIb6). Ma si tratta di un’analogia che è appunto solo di posizione, per

ché mentre nella Repubblica il primato del buono rispetto alle altre idee è

argomentato con forza, nel Simposio il bello appare come tetos nel quadro

dominante della sublimazione erotica, né è mai in questione il suo rappor

to con le altre forme del dominio eidetico.

1.4.2

Pochi dubbi possono esservi anche circa il modo di apprensione dell’i

dea del bello nel Simposio. 11 linguaggio platonico rinvia inequivocabil

mente all’immediatezza dell’atto intuitivo, che si configura come visio

ne o contatto (exarphnes, kathoran, haptesthai: zioe, z,,b8). Si aggiunge

esplicitamente che in questo atto l’apparizione del bello non prende la

forma né di un logos né di una episteme (zi;a8), è dunque estranea rispet

to all’ambito della conoscenza linguistico-proposizionale”. È persuasivo

il confronto con l’approccio della dialettica all’idea del buono nella Re

pubblica. Benché anche qui non siano assenti accenni a una conoscenza

di tipo intuitivo, l’accento cade sulla definizione discorsiva (top(oOcu

-rc)6yc), sull’etenchos (vii 534b8-c,), sul logos tes ousias, sul logon didonai

(VII 534b3-5). Confesso di non trovare appassionante la discussione in

torno al carattere irrazionale, mistico, oppure razionale e addirittura iper

razionale” di atti conoscitivi extralinguistici. Linguistico/proposizionale

e razionale non sono evidentemente termini sovrapponibili e convertibili,

e la storia dell’idea di Wesenschau nella filosofia del Novecento è lì a dimo

strarlo. Più interessante è la questione, sollevata da Fronterotta’3, se l’atto

di conoscenza intuitiva individualmente sperimentato sia linguisticamen

te trasponibile, comunicabile e universalizzabile: a me pare che, a differen

za della Repubblica, la questione non sia tematizzata nel Simposio e debba

quindi essere lasciata aperta, anche se una risposta positiva potrebbe, con

molta incertezza, venire suggerita dal rapporto maestro-discepolo che reg

ge l’intero percorso iniziatico.

Va piuttosto notato che la piena visione dell’idea del bello è perfet

tamente accessibile in questa vita, e non richiede — a differenza che nel

Fedone — alcuna separazione dell’anima dal corpo, anzi è possibile solo

al termine di un processo di sublimazione nel quale l’attrazione verso la

bellezza corporea è il punto di partenza imprescindibile. Ma su questo do

vremo tornare da un diverso punto di vista.


anche

non

chiede

appunto

che

z68 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 169

‘.4.3

Che cosa significa dunque l’incapacità di seguirla nel viaggio iniziatico che

Diotima attribuisce a Socrate? In essa si è potuto leggere il segno della insu

perabile minorità del filosofo, costretto, almeno in questa vita, ad amare la

sapienza senza poterla conseguire, e dunque confinato nella zona epistemica

dell’ “opinione vera Questa interpretazione sembra tuttavia smentita da un

passo molto simile della Repubblica, dove è però Socrate, una volta giun

to sulla soglia della piena comprensione della dialettica e del suo oggetto

terminale, l’idea del buono, ad attribuire a Glaucone un’analoga incapacità

di procedere oltre’. Socrate usa qui quasi le stesse parole che Diotima gli

aveva indirizzato nel Simposio: «mio caro Glaucone, non sarai più in grado

[oiucé-rt (...) oi6 -r’io-] di seguirmi, per quanto io non trascurerà certo ogni

sforzo Lprothymia] » (VII 533I s.). Il cambio di posizione fra Socrate e Dio

tima può allora far pensare che l’incapacità di Socrate nel Simposio sia dovu

ta alla sua giovinezza’5, superata nella Repubblica quando un Socrate maturo

avrebbe ormai assunto l’atteggiamento del maestro. Anche questa ipotesi

sembra tuttavia messa in dubbio da un confronto con il Parmenide. Qui

il vecchio maestro eleate riconosce come propria del giovanissimo Socrate

una procedura filosofica consistente nel riconoscere tratti comuni a diversi

enti (è il primo passo nella costruzione della teoria delle idee, cioè il ricono

scimento dell’unità oltre la molteplicità, dello ben epipottois, da cui inizia

anche l’ascesa del Simposio, zlob3 s.), e nel separare (choris) questi tratti da

gli enti che ne partecipano, facendone così eide esistenti in sé stessi: «questo

ragionamento vale anche per realtà quali la forma in sé e per sé [rIo c&rà

icO ‘cir6] del giusto, del bello, del buono» (i3obz-9, cfr. 13oe5-131a1).

Quello insomma che il giovanissimo Socrate fa secondo Parmenide è

la costruzione di una forma standard della teoria delle idee mediante una

semplice procedura logico-ontologica che non richiede né iparaphernatia

dell’iniziazione ai misteri erotici propri del Simposio’6, né alcuna visione

oltreterrena delle idee.

Non sembra dunque che la ragione della difficoltà attribuita da Diotima a

Socrate consista nell’aspetto cognitivo dell’accesso all’idea del bello. Ciò che

viene in questo modo enfatizzato e solennizzato è la difficoltà di una scelta

di vita più che di un orientamento epistemico: la scelta di vita che condurrà

a una forma di immortalizzazione individuale diversa sia da quella biologica

sia da quella politica e poetica, e che dunque richiede una piena maturità

morale oltre che intellettuale da parte di chi si avvia in quella direzione.

‘.4.4

Sembra di poter escludere che vi sia una continuità fra i diversi percor

si verso l’immortalità, e che essi possano venir disposti in una sequenza

progressiva’7: quello erotico-filosofico va intrapreso «fin da giovane»

(zioa6), e a esso corrisponde un tipo d’uomo — il filosofo — an

tropologicamente diverso sia da quello dedito alla procreazione biologica

sia dal phitotimos. La scelta del filosofo comporta una forma di vita che gli

è peculiare: «questa è la dimensione della vita che, se mai altra, un uomo

deve vivere [biòton]: contemplando il bello in sé» (z;idi-3).

Il Simposio — a differenza dalla Repubblica — sembra prevedere alcu

na discesa del filosofo una volta raggiunto lo stadio contemplativo’8. È vero

che giunto alla visione del bello, e al tipo di vita che le consegue, il filosofo

ha ancora un’attività generativa, consistente nel «partorire non simulacri

[eidola] di virtù, ma virtù vera, visto che afferra il vero» (z;1a4-6). Questa

areté, proprio in quanto è “vera”, sarà perciò diversa dalle virtù poetiche e

politiche: se possiamo anticipare un linguaggio aristotelico, essa sarà una

virtù dianoetica e non etica, che configura una forma di vita dedicata alla

verità e non alla politica o alla creazione poetica.

B1ondell’ ritiene inevitabile una discesa: «poiché il filosofo non può

esistere permanentemente nella contemplazione delle forme», «il Socra

te temporaneamente solipsistico tornerà presto fra i suoi compagni mor

tali». Questo può essere certamente vero per il filosofo della Repubblica, e

forse anche per il nostro senso comune. Ma è meno vero per la figura del fi

losofo che Platone delinea nel celebre excursus del Teeteto, con la sua esclu

siva dedizione alla pura teoresi (i73d-i75b), per non parlare dell’ascesi del

fedonebo. Del resto, non c’è nulla di impensabile in una vita interamente

dedicata alla comprensione delle strutture del mondo noetico, se si pensa

a esercizi teorici come quelli programmati nel Sofista e nel Parmenide. Che

il bios theoretikos possa costituire una forma di vita pervasiva, lo avrebbe in

dicato con chiarezza Aristotele — se certamente in lui l’oggetto della

contemplazione risulta assai dilatato rispetto a quello platonico.

1.4.5

Queste considerazioni rendono più agevole la risposta alla domanda per

noi più importante, circa il tipo di immortalità personale che consegue

alla visione dell’idea del bello (e per estensione, è lecito supporre, del mon

do delle forme nel suo insieme). «Non trovi — Diotima — a chi


non

270 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 271

partorisce e alleva virtù vera spetta di diventare caro agli dèi [theophites], e

se mai a un uomo toccasse di diventare immortale, dovrebbe toccare anche

a lui?» (112a7 s.). Il senso di questo passo, in cui Platone indica la terza e

più elevata via verso l’immortalità personale, viene chiarito dal confronto

con un più esplicito testo parallelo del Timeo, il cui linguaggio presenta

forti affinità con quello del Simposio:

colui il quale si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto

questa parte di sé ha esercitato, è assotutamente necessario che, quando attinge

alla verità [à)ìiOrtc i4à7rT1rct1, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella

misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’ immortalità, non ne

trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice (9ob6-c6, trad. Fronterotta

leggermente modificata).

il passo del Timeo conferma ciò che risulta già con molta chiarezza nel Sim

posio. Per individui mortali, l’immortalità personale ottenuta mediante l’ac

quisizione, il consolidamento, la trasmissione educativa della conoscenza — al

pari di quella perseguita mediante la prole o la memoria — richiede e non

presume l’immortalità dell’anima individuale. Come ha scritto Casertano,

« ogni singolo uomo è mortale, in suo corpo e sua anima, ma ha la possibili

tà, nella sua vita mortale, di attingere una forma di immortalità, che consiste

precisamente nell’innalzarsi al mondo immortale della conoscenza»21.

Il senso dell’assenza nel Simposio di una teoria dell’immortalità dell’a

nima individuale, in rapporto all’insieme del pensiero platonico, andrà

discusso più avanti.

È ora il caso di considerare una posterità importante, e in qualche mi

sura sorprendente, delle tesi sull’immortalità insegnate da Diotima; reci

procamente, questa posterità servirà a comprendere meglio il senso e la

portata delle osservazioni che abbiamo svolto fin qui.

2.

1.1

C’è una straordinaria somiglianza fra la via riproduttiva all’immortalità in

dicata da Diotima e il modo in cui Aristotele spiega la finalità della riprodu

zione biologica tanto nel De anima quanto nel Degeneratione animatium:

La funzione più naturale [physikòtaton] degli esseri viventi [...] è di produrre un

altro individuo simile a sé: l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per

partecipare [metecho’sin], nella misura del possibile, dell’eterno e del divino. In

effetti è a questo che tutti gli esseri tendono [oregetai] [...] Poiché dunque questi

esseri non possono partecipare con continuità dell’eterno e del divino, in quanto

nessun essere corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di numero,

ciascuno ne partecipa per quanto gli è possibile, chi più e ch meno, e sopravvive

non in se stesso, ma in un individuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella

specie [eidei]» (De an. ii 4 415a25-b7, trad. Movia).

Più brevemente ribadiva Aristotele nel Degeneratione: «poiché non è pos

sibile che la natura del genere degli animali sia eterna, ciò che nasce è eter

no nel modo che gli è dato. Individualmente gli è dunque impossibile [...]

secondo la specie gli è invece possibile. Perciò vi è sempre un genere di uo

mini, di animali e dipiante» (Degen. anim. Il i 731b31-731a1, trad. Lanza).

Aristotele non fa così che generalizzare, estendendola all’intero mondo

vivente, dagli uomini alle piante, la tesi di Diotima sull’immortalità ripro

duttiva. L’estensione comporta però due conseguenze. La prima è una certa

de-psicologizzazione del discorso di Diotima, che sostituisce l’eros con una

pulsione “naturalissima”; resta vero anche per Aristotele che l’aspirazione

(orexis) verso l’eternità divina costituisce una sorta di programma genetico

del vivente, che può però agire in modo del tutto inconsapevole. La secon

da conseguenza è che la scena dell’immortalizzazione riproduttiva si sposta

decisamente dagli individui alla specie, che ne è l’unico ambito possibile.

Aristotele non riprende in modo esplicito la seconda via verso l’immortalità

personale, quella perseguita dal tipo d’uomo “filotimico’ Non c’è dubbio

però che egli delinei questa forma di vita e la sua connessione con la virtù e la

felicità, anche se non direttamente con l’immortalità mediante la memoria.

Si tratta dell’ambito delle virtù che Aristotele chiama etiche, distinguendolo

da quelle “teoriche” definite, com’è noto, “dianoetiche” Le virtù etiche non

sono le prime anche se godono di una loro eccellenza: «L’agire politico e le

azioni di guerra eccellono tra le azioni secondo virtù»; ne derivano «potere

e onori [timas] , e comunque la felicità [eudaimonia] per se stesso e per i pro

pri concittadini» (EE X 7, ii77bi3-i7, trad. Natali modificata). Tuttavia la

felicità conseguente a questa forma di virtù è imperfetta e di secondo rango,


272 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE

perché condizionata da circostanze esterne e indipendenti dall’individuo

agente, al quale viene richiesto un impegno oneroso e dall’esito incerto.

2.3

Inequivocabile invece la ripresa aristotelica della terza via verso l’immor

talità personale, quella filosofica: essa è manifestata in un passo dell’Etica

Nicomachea dal forte rilievo retorico, centrato sul verbo athanatizein, un

hapax nel corpo aristotelico. Nel celebre capitolo del libro x’4, Ari

stotele decreta il primato della vita teoretica, in quanto attività secondo

la migliore virtù umana, quella esercitata dal nous nella conoscenza delle

cose «belle e divine», da cui consegue la sua capacità di pervenire alla

«felicità perfetta» (teleia eudamonia) (;177a;z-;7). Questa vita consi

ste nell’attività dell’elemento divino inerente alla vita umana, appunto il

pensiero. Per questo, aggiunge Aristotele, «non si deve, essendo uomini,

limitarsi a pensare a cose umane, né essendo mortali pensare solo a cose

mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali fin

quanto è possibile [c’ 6oov rrai ctOwvar(Erv] e fare di tutto per vi

vere secondo la parte migliore che è in noi. Anche se è di peso [onchos]

minuscolo, per potere e per onore essa supera di gran lunga tutto il resto »

(1177b31-117$aI). La più alta forma di immortalità personale possibile per

l’essere umano mortale, la virtù più vera, la perfetta felicità: riecheggiano

con molta forza, in questo passo aristotelico, i tratti decisivi riconosciuti

da Diotima alla contemplazione filosofica dell’idea del bello — certo estesa

da Aristotele a tutto il campo dei possibili oggetti del pensiero speculativo.

Sembra dunque certo che Aristotele abbia trovato nel Simposio elemen

ti decisivi per pensare la questione del desiderio di immortalità individuale

da parte di viventi mortali, e dei diversi livelli ai quali questo desiderio può

venire soddisfatto: dall’eternazione riproduttiva fino all’assimilazione

parziale con l’immortalità divina consentito dalla forma di vita teoretica.

2.4

L’elaborazione e l’espansione aristotelica delle prospettive indicate da

Diotima forniscono dal canto loro preziosi chiarimenti che possono veni

re impiegati retroattivamente per l’interpretazione dei problemi cruciali

sollevati da quelle prospettive.

In primo luogo. Considerata dal punto di vista aristotelico, la questio

ne se il percorso “politico” e quello speculativo verso l’immortalizzazio

ne personale vadano considerati come posti in sequenza o piuttosto in

alternativa può venire chiaramente risolta nel secondo senso. La forma

di vita politica e quella teoretica sono nettamente distinte e contrappo

ste da Aristotele’; a esse corrispondono tipi d’uomo diversi, e diverse

virtù gerarchicamente distinte (quella dianoetica e quelle etiche, anche

se naturalmente l’esercizio della virtù maggiore non esclude il possesso

di quelle etiche, richieste dall’interazione quotidiana fra gli uomini)26.

Aristotele considera l’attività politica come un impedimento e un impac

cio per quella speculativa, cui va dedicata per quanto è possibile la vita

intera — anche se essa concerne un’esigua minoranza di uomini, come

del resto presumibilmente accadeva per la perfetta iniziazione erotica del

Simposio.

Questa opposizione tra virtù, forme di vita e tipi umani contiene in sé

anche la risposta che il punto di vista aristotelico offre al secondo quesito

suscitato dal Simposio, circa l’eventuale “discesa” nelle occupazioni uma

ne dopo l’evento della contemplazione dell’idea del bello. Come si era

anticipato, questa risposta non può che essere negativa. A differenza del

ritorno nella caverna dei filosofi della Repubblica, il filosofo aristotelico

rifiuterà il coinvolgimento politico, decidendo di «vivere da straniero»

nella città (Poi. VII a 1324116). La stessa permanenza perpetua nella sfera

dell’attività teoretica sarà dunque da attribuire al filosofo contemplatore

del Simposio.

Ma veniamo alla terza e più importante questione. L’idea di un acces

so biologico all’eternità della specie, e di una conquista culturale dell’im

mortalità personale che non comporta e non richiede alcuna concezione

dell’immortalità dell’anima individuale, si accorda perfettamente con la

psicologia e l’etica perfettamente “mondane” di Aristotele. Reciproca

mente, il fatto che egli possa accogliere senza riserve queste prospettive

sull’immortalizzazione formulate nel Simposio significa che nella lettu

ra aristotelica esse non comportavano alcun impegno nei riguardi delle

convinzioni altrove formulate da Platone circa l’immortalità dell’anima

individuale, convinzioni che Aristotele non avrebbe potuto affatto con

dividere. Aristotele conferma dunque l’assenza nel Simposio di ogni rife

rimento a questo complesso di dottrine e delle loro ricadute sia morali sia

gnoseologiche.


possano

del

‘74 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 175

3

Un’assenza, questa, che non può venire spiegata con ipotesi di tipo evolu

tivo, vista la prossimità del Simposio a dialoghi, come il fedone e il fedro,

dove il pensiero dell’immortalità dell’anima gioca un ruolo centrale. Sem

bra anche piuttosto arbitrario pensare a uno «scetticismo temporaneo»

di Platone intorno a questa convinzione, come ha fatto HackfortW. Ma

neppure sembrano accettabili “spiegazioni” (nel senso inglese di exptain

away) che implicano unapetitioprinciii, di questo tipo: Platone ha sempre

sostenuto la teoria dell’immortalità dell’anima; dunque essa non può risul

tare assente nel Simposio, anche se il testo sembra confermarl&8.

In realtà, anche l’eclissi dell’immortalità dell’anima individuale deve

a mio avviso venire interpretata secondo il criterio prudente e plausibile

formulato da Thomas Robinson:

Il rifiuto manifesto, da parte di Platone, di ridurre a una sembianza d’ordine artifi

ciale una serie di concezioni dell’anima che, intrinsecamente, sono probabilmente

inconciliabili [...J va compreso come un segno della sua potenza filosofica [...] Esso

può venire attribuito a una sua ferma decisione di lasciare una pluralità di opzioni

aperte in caso di dubbio, decisione di un uomo che lungo tutta la sua vita, e fino

alla fine, ha scelto di esprimersi sempre, su ogni argomento, nella forma di un

dialogo aperto e non in quella di un trattato dogmatic&9.

È del resto ben noto quanto sia problematica e tormentata in Platone la

questione dell’immortalità dell’anima individuale, in ragione delle stesse

esigenze cui essa è chiamata a rispondere. C’è da un lato la necessità di

ordine morale di incentivare la condotta giusta in questa vita mediante

un dispositivo di premi e punizioni previsti per l’anima nell’aldilà, che

possono risarcire il giusto per le sue sofferenze mondane e sanzionare

l’ingiusto per le sue prevaricazioni30, dispositivo ampiamente descrit

to nei miti escatologici del Gorgia e del libro x della Repubblica’. C’è

dall’altro lato l’esigenza gnoseologica di spiegare la possibilità di cono

scenza di enti incorporei come le idee da parte di un’anima vincolata agli

organi di senso: essa può essere più facilmente pensata come un contatto

prenatale fra le idee e un’anima non ancora incorporata, secondo la tesi

del Fedone3z.

Le due esigenze tuttavia confliggono su un punto decisivo, che resta

irrisolto in Platone. Una qualche forma di ricordo dell’esperienza conoscitiva

prenatale deve essere conservato nella vita corporea, perché su di

esso si fonda la via anamnestica per il riconoscimento delle idee anche

in questa vita. Al contrario, l’istanza etica esige la cancellazione di ogni

ricordo delle esperienze prenatali, come indica il mito di Er, perché altri

menti non si avrebbero più in questa vita decisioni morali responsabili,

bensì un semplice calcolo di costi e benefici, in base al quale la condotta

giusta verrebbe presumibilmente scelta in vista dei premi decuplicati con

cui essa è remunerata nell’aldilà, e viceversa sarebbe evitata la condotta

ingiusta per timore delle analoghe punizioni. La memoria, necessaria per

la conoscenza delle idee, renderebbe dunque impossibile la scelta morale.

Una contraddizione questa che Platone non risolve e neppure tematizza,

lasciando che i due tipi di discorso si svolgano su piani diversi e non co

municanti.

Considerazioni simili si possono svolgere intorno alla questione

dell’immortalità dell’anima nella sua singolare individualità. L’esigenza

di ordine morale richiede che la vicenda oltreterrena dell’anima la riguardi

nella sua interezza personale (si parlerà dunque dell’anima di Achille o di

Socrate): premi e punizioni non possono che riguardare tutta l’anima che

porta meriti e colpe della vita dell’individuo clii è appartenuta. Ma d’altro

canto è difficile pensare che le parti dell’anima più strettamente legate alla

corporeità, come lo thymoeides e l’epithymetikon — resto esplicitamente

designate come “mortali” nel Timeo — godere della stessa immor

talità che spetta all’elemento divino che è in noi, cioè il principio razionale

che è tuttavia per sua natura impersonale.

Anche questi problemi non trovano in Platone soluzioni univoche, né

vengono esplicitamente tematizzati.

Se si tiene conto di questo quadro complesso e frastagliato, si può dun

que accettare senza eccessiva sorpresa che il Simposio non prenda affatto

in considerazione l’immortalità dell’anima, e proponga di pensare una via

all’ immortalizzazione personale che ne prescinde completamente: questo

va considerato come uno dei molti esperimenti intellettuali di Platone, la

cui importanza è eccezionalmente confermata dalla sua attenta rivisitazio

ne da parte di Aristotele.

È però il caso di mettere in rilievo una conseguenza importante di que

sto esperimento, alla quale non sempre si è dedicata una sufficiente atten

zione: si tratta della rinuncia alla funzione gnoseologica (oltre che a quella

morale) attribuita all’immortalità dell’anima.


che

dai

176 IL POTERI DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 277

4

Fare a meno dell’ immortalità dell’anima significa nel Simposio rinun

ciare alla reminiscenza (anamnesis) come modalità di recupero di una

conoscenza del mondo eidetico ottenuta dall’anima nella sua vita extra

corporea35. L’accesso all’idea del bello in questo dialogo avviene grazie a

un percorso di sublimazione della pulsione erotica che non richiede

fatto la separazione dell’anima dal corpo, anzi ha nel corpo — come sog

getto e oggetto del desiderio di bellezza — il suo imprescindibile punto di

partenza, e l’indispensabile riserva di energie psichiche da investire nella

conversione verso l’idea. Non c’è dubbio, dunque, che secondo il Simposio

una conoscenza delle idee (che qui sembra di tipo prevalentemente

itivo) è possibile anche senza il ricorso all’immortalità dell’anima e alla

relativa reminiscenza.

È indubbiamente vero che in molti dialoghi — dal Fedone6 al Menone37,

per certi aspetti al Fedro — la compiuta visione del mondo eidetico

è fatta dipendere da un’esperienza cognitiva possibile solo per l’anima

disincarnata, che ne conserva una qualche memoria anche dopo la rein

carnazione.

È altrettanto vero, però, che in altri dialoghi non meno importanti,

oltre che nello stesso Simposio, la conoscenza delle idee risulta possibile

anche senza reminiscenza.

Nel Parmenide, il giovane Socrate sembra impiegare con una certa

disinvoltura il metodo — Aristotele avrebbe chiamato ekthesis — con

sistente nell’isolare un tratto predicativo comune a più realtà empiriche

facendone un’entità noetica “separata” e invariante, insomma un’idea. Un

metodo di trattazione delle idee, naturalmente, che non ha nulla a che fare

con l’immortalità e con la reminiscenza.

Ma ciò che più conta è l’assenza della reminiscenza nella Repubbli

ca, che pure offre nel libro VII il più elaborato programma di accesso al

mondo eidetico che Platone abbia mai formulato. È ben poco plausibile

il tentativo di ridurre la portata di questa assenza riconducendola a ragio

ni «essenzialmente letterarie e drammatiche», perché stonerebbe con la

prospettiva unificante della visione del bene’. Al contrario, la conoscenza

delle idee, e al di là di esse dell’idea del buono, è preparata — a partire

dai paradossi dell’esperienza sensibile — processi astrattivo-idealizzanti

delle matematiche, poi dal lavoro critico-costruttivo della dialettica. An

che qui, e forse qui più che altrove, Platone non sembra avvertire alcuna

af

intu

necessità di ricorrere all’ipotesi di una conoscenza prenatale delle idee e

della sua reminiscenza in questa vita.

Il Simposio non è dunque l’unico testimone del fatto che Platone

bia esplorato soluzioni gnoseologiche diverse per l’accesso al mondo

detico°. Ci sono alternative alla rammemorazione anamnestica, e, nel

loro ambito, ci sono modalità differenziate di approccio alla conoscenza

delle idee (nel Simposio l’accento è posto sull’immediatezza della visio

ne, nella Repubblica sul lavoro dialettico, nel Farmenide sulla ekthesis

dell’unità dal molteplice). Le differenze fra queste prospettive non con

sentono di essere spiegate mediante ipotesi evolutive, e possono proba

bilmente venire considerate non incompatibili nel quadro del pensiero

platonico. Non è però accettabile scegliere una di queste prospettive

come dominante o “strutturale”, facendone un letto di Procuste in cui

annullare la ricchezza di esperimenti teorici presenti nei dialoghi. In essi

Platone ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di

pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stes

so in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca. Almeno in un caso

— l’immortalizzazione personale senza immortalità dell’anima — questi

sviluppi avrebbero incontrato il consenso da parte di Aristotele, che era

interessato a mantenere il privilegio straordinario della forma di vita filo

sofica, la sua capacità di athanatizein, senza per questo modificare la sua

dottrina dell’anima come forma del corpo e da esso inseparabile (De an.

III 4izb5, ss.).

Note

4I3l

ab

ei

i. La maggior parte dei commentatori riconosce senza incertezze in Diotima un

portavoce affidabile del pensiero platonico. Dubbi in proposito, da punti di vista

diversi, sono stati espressi ad esempio da D. Sedley, The Ideal of Godtikeness, in G.

Fine (ed.), Ptato 2: Ethics, folitics, Religion and the Sout, Oxford 1999, p. 130, 11. 2.;

e da D. Nails, Tragedy ofStage, in J. H. Lesher, D. Nails, F. C. C. Sheffield (eds.),

Ptato’s “Symposium’ Issues in Interpretation and Reception, Cambridge (MA)-Lon

don zoo6, pp. 191-3. Si tratta di dubbi legittimi, se si tiene conto delle complesse

strategie di distanziamento dal testo presentate nel prologo del dialogo (catena di

narratori poco attendibili), e del carattere anomalo del personaggio (donna, stra

niera, sacerdotessa). È vero tuttavia che Diotima usa a più riprese, come vedremo,

il linguaggio tecnico della teoria delle idee che appartiene senza dubbio a uno dei

nuclei teorici costanti del pensiero di Platone. Se è vero che nessun personaggio

(comprese le diverse raffigurazioni di Socrate) può essere considerato senza riser

ve come “portavoce” autentico di Platone, non credo dunque che Diotima sia da


278 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 279

considerare meno affidabile ad esempio del Socrate del fedone o della Repubblica,

né che le sue tesi vadano corrette sulla base di quelle espresse altrove da altri per

sonaggi autorevoli. Ma della specificità del personaggio nel contesto dialogico, in

particolare per quanto riguarda la retorica erotica, bisognerà tener conto nel seguito

di questa analisi.

a. Per un importante passo parallelo sulla connessione tra immortalità e felicità cfr.

Timeo 9oc, sul quale dovremo tornare. L’accostamento è segnalato da f. Ferrari, fros,

paideia efilosofia: Socratefra Diotima cAlcibiade, in V. Sorge, L. Palumbo (a cura di),

Eros eputchritudo. Tra antico e moderno, Napoli zoiz, p. 38.

3. Cfr. in questo senso G. R. Lear, PermanentBeauty and3ecomingHappy in Plato’s

“Symposium”, in Lesher, Nails, Sheffield, Plato’s “Symposium”, cit., 3. 109.

Le

.

traduzioni del Simposio citate sono di M. Nucci (Torino 2009), con qualche

modifica.

A. Fossi, Tempo, desiderio, generazione. Diotima

.

e Aristofane nel “Simposio” di

Platone, in “Rivista di storia della filosofia”, i, zoo$, segnala tuttavia che nel caso de

gli uomini anche la riproduzione biologica comporta un aspetto culturale, perché

essa comprende le nozioni di famiglia e di memoria conservata nella discendenza

(pp. 6-7). La differenza tra le due forme di immortalizzazione sembra attenuata, o

negata, dal passo di zo6cI-3, dove si afferma che «tutti gli uomini sono gravidi ccd

ccr& Tà O&[Lu iozì )cc/T& Tipi fUV» (ognuno disporrebbe dunque anche di una via

“spirituale” all’immortalità). Ma il passo deve essere confrontato con zo8ez-3, 6,

zo9ax, dove i due gruppi sono chiaramente contrapposti: «quelli che sono gravidi

secondo il corpo [ol tìv K6.LOVE KuT& r& od4tctTc] [...J Quelli invece che sono

gravidi secondo l’anima [ol è Icccr& Tipi ». Anche il primo passo andrà dun

que interpretato nel senso che tutti sono gravidi, sia (alcuni) nel corpo sia (altri)

nell’anima.

6. Sul tono epico di tutto il passo cfr. D. Susanetti, L’anima, l’amore e ilgrande mare

del bello, introduzione a Platone. Il Simposio, Venezia 1992, p. z. La parvenza dell’e

roe è spesso quella di un “dio immortale”: cfr., per Achille, Iliade XXIV 619 s. Sulle

«strategie di sopravvivenza mondana orientate da una tensione verso l’aldiquà» in

epoca arcaica, che sono « sorrette dall’idea che sia possibile sfuggire all’annullamento

totale realizzando forme di permanenza, oltre la vita, nella vita degli uomini: affidate

alla loro parola, alla loro vista, alla loro memoria», cfr. l’importante saggio 5. Nico

sia, Altre vie per l’immortalita nella cultura greca, in Id., Ephemeris. Scritti efimeri,

Soveria Mannelli (cz) 2013, pp. 407-23 (cit. p. 413).

G. R. E Ferrari, Platonic Love, in R. Kraut (ed.),

.

The Cambridge Companion to

Plato, Cambridge 1992, parla in proposito di un «pious roll of cultural heroes»

(p. Anche in Phaedr. z8c Licurgo e Solone, insieme con Dario, vengono consi

derati «logografi immortali».

8. Un interessante passo delle Leggi compatta la prima e la seconda via all’immor

talità. «In qualche misura il genere umano partecipa per sua natura dell’immorta

lità e di questa ognuno ha un desiderio innato: si tratta del desiderio di diventare

I

celebri [kleinon] senza giacere senza nome una volta morti. In effetti il genere uma

no è in qualche modo connato con la totalità del tempo che lo accompagna e lo

accompagnerà sino al termine ed essendo appunto in questo senso immortale, col

lasciare i figli dei figli restando perennemente identico a se stesso e unico, partecipa

mediante la generazione all’immortalità» (iv 7;1b7-c7). È da notare che mentre

l’immortalità attraverso la fama è strettamente individuale, quella riproduttiva si

sposta chiaramente, come sarebbe accaduto in Aristotele (cfr. PAR. z.i) dagli indi

vidui al genere.

9. Anche in Eth. Nicom. x I179a24, 30 massimamente theophiles il sophos dedito

all’attività teoretica.

io. Cfr. in questo senso ad esempio V. Di Benedetto, Eroslconoscenza in Platone, in

Platone. Simposio, Milano 1985, p. 41; F. Fronterotta, La visione dell’idea del bello.

Conoscenza intuitiva e conoscenza proposizionale, in A. Borges de Araùjo, G. Cornelli,

Il “Simposio”di Platone: un banchetto di interpretazioni, Napoli 2012, p. 99.

ii. Cfr. B. Centrone, Introduzione a Platone. Simposio, trad. e commento a cura di

M. Nucci, Torino 2009, p. XXXIII; Nucci, in Platone. Simposio (Torino 2009) n. 269;

Fronterotta, La visione dell’idea del bello, cit., pp. io6-io.

ia. F. Bearzi, Il contesto noetico del “Simposio”, “Études platoniciennes”, I, 2004,

p. zi, parla di «suprema rigorosità razionale». Che non si tratti di una «mysti

sche Erlebnis», perché non c’è alcuna unio mystica fra soggetto e oggetto, è soste

nuto da K. Sier, Die Rede der Diotima. Untersuchungen zum platonischen Symposion,

Stuttgart-Leipzig 1997, pp. 171-2.

13. Fronterotta,La visione dell’idea del bello, cit., p. 109.

14. Qui tuttavia può trattarsi non tanto di un’incapacità soggettiva quanto dell’in

trinseca difficoltà che la dialettica possa costituirsi come un sapere epistemologica

mente completo e saturo, difficoltà che dipende dalla natura ontologicamente ambi

gua del suo oggetto ultimo, l’idea del buono: cfr. in questo senso M. Vegetti, Glaucon

et les mystères de la dialectique, in M. Dixsaut (éd.), Etudes sur la “Republique”de Pla

ton, vo1. Il, Paris 2005, pp. 25-37.

i. Interessanti considerazioni sul “Socrate giovane” nei dialoghi in F. De Luise, Il

sapere di Diotima e la coscienza di Socrate. Note sul ritratto delfilosofo da giovane, in

Borges deAraùjo, Cornelli,Il “Simposio”di Platone, cit.,pp. 115-38.

i6. Giustamente Ch. Rowe, Il rSimposiodi Platone, Sankt Augustin 1998, sottolinea

che quella erotica è solo una delle vie possibili per la conoscenza filosofica.

17. Cfr. in questo senso Centrone, Introduzione, cit., p. XXXIII; e Nucci, cit., n. z6o.

i8. Così Nails, Tragedy ofStage, cit., pp. 193-4: «the ascent in the Symposium ends

at the summit with exclusive contemplation of the kalon ». Nello stesso senso Bearzi,

Il contesto noetico del “Simposio”, cit., p. 234 (che tuttavia cerca di mostrare una in

diretta compatibilità con la Repubblica). Scrive efficacemente Ferrari, Platonic Love,

cit., pp. 259-60: «far from there being any hint that he [l’iniziato] could transfer his

concern from the Beautiful itselfto the beauty ofvirtue, he is explicitly envisaged as

spending his life in contemplation of the former. In marked contrast to the Lesser


180 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE z8i

Mysteries, what virtue amounts to here is not clearly something other than the vision

of the Beautiful that gives it birth».

19. R. Biondeli, [4/bere Is Socrates on the “Ladder ofLove”?, in Lesher, Nails, Shef

field, Plato’s “Symposium”, pp. i, 176. Mi sembra abbastanza simile la posizione di

F. J. Gonzalez, Interrupted Diatogue: Recent Readings ofthe “Symposium”, in “Plato”,

8, zoo$, S 17. Anche A. W. Price, Love andFriendshzp in Ptato andAristotte, Oxford

1989, ritiene che contemplazione non possa significare inazione e indifferenza alle

altre persone, ma come conferma a questa tesi cita prevalentemente passi della Repub

blica! (p. ai). Se tutte le tesi sostenute da Platone in ogni dialogo fossero immediata

mente trasferibili a tutti gli altri, Platone avrebbe scritto un solo libro: un compendio,

o syngramma, della filosofia platonica, opera che egli stesso dichiara impossibile e il

cui primo esemplare storico sembra sia stato composto dal giovane tiranno siracusano

Dionisio li (Ep. VII 341b-c).

zo. Per questa tensione tra diversi profili della vita filosofica cfr. M. Vegetti, Il regno

filosofico, in Id. (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli zooo, vo1. iv, pp. 362-4.

ai. Cfr. G. Casertano, In cerca dell’anima nel “Simposio”, in Borges de Araùjo, Cor

nelli, Il “Simposio”di Platone, cit., pp. 64-5 (anche nota 49 a p. 67). Nello stesso senso

Lear, PermanentBeauty, p. iii, nota a («nel mondo del Simposio le pratiche cultu

rali durano più a lungo delle anime perché le anime sono mortali. E le scienze sono

ancora più “immortali” perché sono associate a oggetti atemporali»); Ferrari, Eros,

paideia efitosofia, cit., p. 39 (l’eternazione del sapere come unica forma di immortalità

umana); Rowe, Il “Simposio” di Platone, cit., pp. 112-3. Per il Timeo cfr. B. Centrone,

L’immortalitd personale: un ‘altra nobile menzogna?, in M. Migliori, L. Napolitano

Valditara, A. Fermani (a cura di), Interioritc e anima. La psyché in Platone, Milano

2007, p. 42. Per posizioni opposte cfr. nota z.

22.. La vicinanza di Aristotele a Platone su questo tema è stata segnalata e discussa da

H. Arendt, Trapassato efuturo (1961), trad. it. Milano 1991, pp. 70-129.

z. Cfr. in proposito M. Vegetti, Athanatizein. Strategie di immortalitì nel pen

siero greco, in Id., Dialoghi con gli antichi, Sankt Augustin zoo6, pp. i6-6, 174-6,

dove si ricostruisce inoltre la preistoria del tema dello athanatizein (pp. 167-70).

La capacità dei medici seguaci del trace Zalmoxis di “rendere immortali” (apatha

natizein) è ironicamente menzionata in Carmide i56d6. Un percorso che va dalla

immortalizzazione magica dei Traci a quella “epistemica” in Platone e Aristotele

(senza bisogno della sopravvivenza dell’anima individuale) è tracciato da F. Ferrari,

L’incantesimo del Trace: Zalmoxis, la terapia dell’anima e l’immortalitii nel “Car

mide” di Platone, in M. Taufer (a cura di), Sguardi interdisciptinari sulla religiositii

dei Geto-Daci, Freiburg i.B. 2013, pp. 2.1-41. Un accenno all’influsso di Simposio e

Timeo oc su questo passo aristotelico è formulato da Sier, Die Rede derDiotima,

cit., pp. 187-8.

24. La critica ha spesso rilevato il carattere anomalo di questo e del seguente capitolo

rispetto al tono generale del trattato etico: la discussione relativa in M. Vegetti, L’etica

degli antichi (1989), Laterza, Roma ;oio, pp.

z. Cfr. in proposito le puntuali analisi di 5. Gastaldi, Bios hairetotatos. Generi di vita

efelicità in Aristotele, Napoli 2003, pp. 109-31.

z6. Cfr. in questo senso Eth. Nicom. x 8 ii78bz-7.

z. R. Hackforth, Immortality in Plato’s “Symposium”, in “Classical Review”, 64,

1950, pp. 43-5.

z8. Mi sembra che di questo tipo sia l’argomentazione in Centrone, Introduzione,

cit., pp. LIX-LX: «La negazione dell’immortalità personale implicita nelle parole

di Diotima a zo7c-zo8b non può essere in contrasto con la teoria dell’immortalità

dell’anima, cosmica o individuale, di cui Platone è costantemente strenuo e convinto

sostenitore; il mortale di cui si parla è il corpo e probabilmente il composto di anima

e corpo». Un ragionamento simile anche in M. A. Fierro, Symp. 212a2-7: Desirefor

the Truth and Desirefor Death and a God-Like Immortality, in “Methexis”, 14, 20 01,

pp. 23-43, la cui interpretazione del Simposio è interamente derivata dal Fedone. Po

nendosi da un punto di vista “compatibilista” (ad es. tra Fedone e Simposio), Price,

Love and friendshzp, cit., si chiede: «The question becomes how best characterize an

immortality within mortality whose achievement is desirable even for souls that are

themselves fully immortal»; e conclude: «Plato, regrettably, leaves us to speculate

about an answer» (pp. Per un’ampia discussione problematica cfr. Sier, Die

Rede der Diotima, cit., pp. 185-97. Tra l’interpretazione secondo la quale «l’indivi

dualità della persona può perpetuarsi solo per sostituzione, attraverso la “creazione”

spirituale», e quella di una immortalità piena, non vicariante, per l’anima del filoso

fo, Sier propende con molta cautela per la seconda, soprattutto sulla base dell’opina

bile riferimento indicato da O’Brien a Resp. x 6Ize-614a. Il saggio di M. O’Brien,

“Becominglmmortal” in Plato’s “Symposium”, in D. E. Gerber (ed.), Greek Poetry and

Philosophy, Chico (CA) 1984, pp. i8-zo, costituisce probabilmente il migliore sforzo

in senso “compatibilista’ perché non si nasconde le difficoltà di interpolare nel Sim

posio una dottrina dell’immortalità dell’anima senza sovrapporvi altri dialoghi come

il fedone (p. i86), benché egli stesso ricorra poi ripetutamente al libro x della Repub

blica. O’Brien scrive che la topica dell’immortalità è evitata, piuttosto che assenta o

negata, nel discorso di Diotima (p. 192), ma vede nella sua frase finale un riferimen

to alla «immortalità letterale del filosofo in comunione con la Bellezza assoluta»

(pp. 196-7, 197 n. Tuttavia O’Brien si rende conto di due anomalie di questa

interpretazione: che l’immortalità è una prospettiva, un achievement, concesso solo

al filosofo, la cui anima non è immortale per natura ma può diventarlo; ed è presen

tata come un dono divino al filosofo, non come un attributo necessario dell’anima

(pp. 199-lo,). O’Brien spiega queste anomalie come l’effetto della strategia retorica

(psicagogica) di Diotima, ma di fatto esse sembrano caratterizzare l’intero assetto

teorico del discorso sull’immortalità, che per questo probabilmente avrebbe attratto

l’interesse di Aristotele. Credo comunque di aver dimostrato (M. Vegetti, Introduzio

ne al libro x, in Id., a cura di, Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voI. vii, pp. 13-34)

che il libro x della Repubblica, o le parti di cui è composto, non possa essere conside

rato come “l’ultima parola” della filosofia platonica su questo e altri temi.


seppure

il

z8z IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 183

2.9. Th. M. Robinson, Caractères constitut/i du duatisme %me-corps dans te “Corpus

platonicum”, in “Cahiers du Centre d’études sur la pensée antique ‘kairos kai logos’ “,

11, 1997, 2.

z6.

30. Un passo della Lettera Vii (334e3-335e6) conferma sia l’utilità morale della cre

denza nell’immortalità dell’anima sia il suo carattere extrateorico. Premesso che

«nessuno di noi è per natura immortale», e che la questione del bene e del male si

pone solo riguardo all’anima, «che sia congiunta al corpo oppure separata da esso»,

Platone aggiunge: «Bisogna in ogni caso credere davvero [r&iOtoeut ì 6vru cdti

xpJ agli antichi e sacri racconti che ci ammoniscono che la nostra anima è immor

tale, e che, una volta separata dal corpo, può venire giudicata e subire le punizioni

più gravi».

31. Cfr. in proposito Centrone, L’imniortatitd personale, cit., pp. 3 6-7.

32.. Cfr. in questo senso F. Ferrari, L’anamneszs delpassato tra storia e ontotogia. limito

platonico come pharmakon contro utopismo e scetticismo, in Migliori, Napolitano Vai

ditara, Fermani, Interioritd e anima, cit., pp. 80-3. li contatto prenatale può essere in

terpretato come una “interpretazione” mitica della syngeneia (affinità o parentela) fra

l’anima e le idee (Phaed. 79d3, Resp. vi 49ob4) che in linguaggio moderno si direbbe

“condizione trascendentale” della conoscenza (cfr. sul tema F. Aronadio, Procedure e

verita in Platone, Napoli ZOOL, pp.

Per una discussione più ampia in proposito rinvio a M. Vegetti, Quindici lezioni

su Platone, Torino 2.003, pp. 119-3 I.

Il problema è discusso in Centrone, L’immortalita personale, cit., pp. 35-5o; e in

M. Migliori, La prova dell’immortalitd dell’anima (6oc-6r2c), in M. Vegetti (a cura

di), Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voi. VII, pp. 2.73-5.

s. Il punto è stato sottolineato da Di Benedetto, Eros/conoscenza in Platone, cit.,

p. 40. L’assenza nel Simposio deli’Anamnesis-Modellè sottolineata anche da Sier, Die

Rede derDiotima, pp. 147-8, 190.

36. Secondo la nota tesi di Th. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis

in Platons “Phaidon”, Stuttgart 1994, in questo dialogo la reminiscenza appartereb

be più alla dottrina pitagorica che a quella platonica. In senso opposto va la discus

sione di F. Trabattoni, Introduzione, in Id. (a cura di), Platone, fedone, Torino zoii,

pp. XXXIV-XLVIII, con ampi riferimenti alla bibliografia recente.

Ma sulle differenze fra questi due dialoghi cfr. le interessanti osservazioni di

Y. Lafrance, Les puissances cognitives de l’dme: la réminiscence et les formes intetligi

bles dans te “Ménon” (goa-6d) et le “Phe’don” (72e-77a), in “Études platoniciennes’

4, 2.007, 3. 2.39-52..

38. È la tesi di Ch. H. Kahn, Pourquoi la doctrine de la réminiscence est-elle absen

te dans la “Re’publique”?, in Dixsaut (éd.), Études sur la ‘République” de Platon, cit.,

p. ioo. Anche questo autore sembra incorrere in una sorta di petitio princzpii, quan

do riconosce una “struttura profonda” del pensiero di Platone in «ciò che è comune

a Simposio, fedone e alla Repubblica» (p. 98), attribuendo poi le varianti di questa

struttura a ragioni letterarie. Ma perché allora la reminiscenza, assente in Simposio e

Repubblica, non dovrebbe essere attribuita a “ragioni letterarie” nel fedone, anziché

ipotizzare che essa sia “strutturale” sulla base del solo Fedone?

39. Sul ruolo delle matematiche nella Repubblica cfr. E. Catranei, Le matema

tiche al tempo di Platone e la loro riforma, in Platone, La Repubblica, cit., voi. v,

f22. 473-539.

40. Nella stessa Repubblica del resto è presente — in secondo piano — tema

della sublimazione della pulsione erotica come impulso verso la conversione teorica

(cfr. VI 485d6-e,, 49oa$-b8).


l’aggressività

nella

zo o IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 lo I

della propria conservazione. Dunque, se la giustizia è rispetto delle leggi,

e se le leggi sono strumenti del potere, ne consegue, conclude Trasimaco

che la giustizia non è altro che il vantaggio del più forte, tou kreitton05

xympheron.

Partito da un positivismo giuridico largamente condiviso, Trasimaco

dunque ne smaschera l’inganno ideologico leggendo dietro a esso il posi

tivismo del potere (egli passa cioè da un Rechtpositivismus a un Machtposi

tivismus). Platone riassumerà così le sue tesi nelle Leggi (iv 714c-d): «Le

leggi, dicono, le impone sempre nella città la parte più forte [to kratoun].

E credi tu, dicono, che mai democrazia vittoriosa, o altra forza politica, o

anche un tiranno, credi che vorranno dare leggi per altro scopo principale

se non per il vantaggio di mantenere il proprio potere [arche] ?».

La forza teorica di questa prima tesi di Trasimaco è tale, come vedremo,

da non poter essere seriamente confutata da Socrate, e da richiedere, per

una sua reinterpretazione se non per il suo rifiuto, l’intero sviluppo del

dialogo fino al libro ix.

La seconda tesi di Trasimaco (344a-c) deriva dalla prima non per con

seguenza logica ma per un effetto retorico, risulta più debole sul piano teo

rico e meno originale, finendo per avvicinarsi alle posizioni di Callicle (il

cui atteggiamento viene del resto in parte ripreso dal rifiuto di Trasimaco

di continuare la discussione con Socrate verso la fine del libro i).

Secondo la prima tesi, il potere, essendo anteriore alla legge, era per de

finizione esterno alla norma di giustizia. Si stabilisce così una polarità po

tere/giustizia dalla quale, in modo appunto retorico, è possibile derivare

le equazioni potere = ingiustizia, suddito = giusto. Di qui la tesi secondo

cui la giustizia, praticata dai sudditi, è un “bene altrui’ cioè è funzionale

all’interesse dei potenti ingiusti che li opprimono. La figura perfetta del

potere ingiusto torna quindi a essere quella dellapleonexia del tiranno, l’u

nico uomo che sia veramente “libero” in quanto “padrone” di sé e degli

altri: questa immagine di uomo eteutherios perché dispotikos rievoca diret

tamente le nostalgie “eroiche” di Callicle.

Perché Platone attribuisce al personaggio Trasimaco queste due tesi,

che non sono logicamente connesse e rappresentano due livelli di pensie

ro molto diversi? Si può tentare una risposta ipotetica a questa doman

da: forse Platone intendeva suggerire che la seconda tesi costituiva per la

cultura contemporanea la “verità”, non teorica ma psicologica e appunto

retorica, della prima; che cioè il rigore logico di una “teoria critica” come

quella attribuita a Trasimaco finiva inevitabilmente, se essa non veniva

reinterpretata in modo adeguato, per lasciare il campo allapteonexia tiran

nica alla maniera di Callicle, e soprattutto — concretezza storica — di

Crizia e di Alcibiade.

6

Dal canto suo, Glaucone deriva dal paradigma della pleonexia una teoria

critica della giustizia che assume la forma di una genealogia della morale.

Come per Callicle e per Trasimaco, lapulsione primaria e naturale dell’uo

mo è quella di adikein, di esercitare una violenta sopraffazione sugli altri

per conquistare potere, gloria e ricchezza (358e). Ma — e qui sta l’originalità

della tesi di Glaucone, che ne fa uno straordinario precursore di Hobbes e

del pensiero contrattualistico — naturale genera un altrettan

to universale sentimento di paura: non ci sono superuomini alla maniera

di quello evocato da Callicle, ognuno è troppo debole per poter sperare di

esercitare la violenza sugli altri senza doverne subire una ancora maggiore.

Nasce così il patto (syntheke) di giustizia, che consiste in una reciproca ri

nuncia alla violenza e nell’impegno comune a rispettare le leggi. La legge e

la giustizia costituiscono dunque la protezione dei deboli, ma non ci sono,

come pensava ancora arcaicamente Callicle, deboli e forti “per natura”:

la debolezza, e la paura che ne consegue, sono una condizione universale

degli uomini in società, che li costringe a rinunciare alla pulsione primaria,

al basic instinct della violenza.

Almeno in apparenza, perché la rinuncia allapteonexia riguarda solo la

superficie civilizzata e socializzata del cittadino che ha bisogno dell’appro

vazione (eudokimesis) degli altri. Sotto questa superficie, resta la ferocia

originaria del «vero uomo» (359b). La pulsione della pleonexia sceglie

allora la via della segretezza, del complotto, della società segreta (hetairia,

synousia), sotto la protezione pubblica dell’abilità oratoria e dell’esibizio

ne di virtù civiche. Il conflitto pleonectico si sposta dunque dall’atmosfera

“eroica” di un Callicle, dall’evocazione tirannica di Trasimaco, alla realtà

quotidiana della trama segreta, dell’intrigo, della menzogna.

Dietro la tesi di Glaucone sta probabilmente la figura di un “cattivo

maestro” del pensiero e della politica quale fu, verso la fine del v secolo,

l’ateniese Antifonte. Le ricerche papirologiche di Fernanda Decleva Caiz

zi e le analisi storiografiche di Michel Narcy hanno ormai mostrato l’unità


202 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA FLEONEXL4 203

di questa figura, che veniva di solito scissa fra il sofista “democratico’ che

avrebbe contrapposto l’egualitarismo naturale alle gerarchie arbitrarie im

poste dalle convenzioni e dalle leggi, e l’oligarchico golpista di cui testimo

nia Tucidide (viii 66-70). Antifonte aveva in realtà descritto la reciproca

rinuncia all’adikein nella vita pubblica, che costituiva il contratto (homo

logia) su cui si fondano la società e le sue leggi; aveva però denunciato l’in

sopportabile violenza che queste leggi recano alla vera natura dell’uomo,

pretendendo di regolarne il comportamento i desideri (epithymiai), per

sino i gesti e le funzioni del corpo. Egli aveva quindi rivendicato l’utilità

della violazione segreta (tathra) delle leggi in nome del ristabilimento dei

diritti di natura (DK B fr. iA). Nella vita politica, come ci informa Tu

cidide, egli aveva organizzato grazie alla sua intelligenza e protetto dalla

sua deinotes oratoria, il colpo di stato dei Quattrocento, preparato dalle

società segrete e portato a termine grazie a una alternanza di intimidazio

ne e di violenza. È probabile che Platone si riferisse proprio ad Antifonte

quando denunciava nelle Leggi quei cattivi maestri che insegnano ai giova

ni che «in verità» la cosa più giusta è «vincere commettendo violenza»,

e promuovono staseis al fine di vivere « una vita corretta secondo natura»,

che consiste nel dominare gli altri e non servirli come vorrebbe la legge

(x 8$9e s.).

Crizia per un verso, Antifonte per l’altro, sembrano dunque essere

stati i maestri di pensiero e di azione della pteonexia, sullo sfondo storico

dell’imperialismo ateniese, della stasis nelle città, della rivolta oligarchica

contro la legge egualitaria della democrazia.

Platone ne elabora le posizioni teoriche, sovente, credo, le rende sul

piano filosofico più rigorose di quanto fossero in origine, ne produce di

verse versioni, che articolano tutto il ventaglio di possibilità di pensiero

che era implicito nel paradigma della pteonexia, e le porta sulla scena del

suo teatro filosofico attraverso la voce di grandi personaggi dialogici come

Callicle, Trasimaco e Glaucone.

lutto ciò rappresenta una formidabile sfida per la confutazione socra

tica: una sfida dalla quale, occorre dirlo subito, il personaggio Socrate, al

del Gorgia e dei primi due

quella

meno nella sua configurazione iniziale —

perdente.

esce

libri della Repubblica

La confutazione socratica fallisce a più riprese. fallisce di fronte al si

lenzio di Callicle, che oppone la forza di una scelta di vita a quella degli

argomenti e costringe Socrate a un monologo che si conclude con il mito

del giudizio delle anime: un mito, appunto, e non una teoria, del tipo di

quelli cui Adimanto gli proibirà di fare ricorso nel libro ii della Repubblica

(36 5d-3 66b).

La confutazione fallisce a più riprese anche di fronte a Trasimaco,

come Socrate riconosce apertamente alla fine del libro i della Repubblica.

Qui il fallimento è dovuto soprattutto all’impotenza del paradigma delle

technai, cui Socrate fa come al solito ricorso, a dire qualcosa intorno alla

logica del potere: il medico e il pastore non sono buoni esempi per con

futare il rapporto fra kratos, arche e nornos, e del resto Trasimaco non ha

difficoltà a svelare l’interesse pleonectico che sta anche dietro le maschere

di questi buoni artigiani (e l’usurpatore Gige della favola di Glaucone era

lui stesso un pastore).

Ed è proprio Socrate, nel libro 11, a dichiararsi incapace di “portare aiu

to” alla giustizia di fronte all’attacco sferrato da quei “figli di Trasimaco”

che sono secondo lui, sul piano intellettuale se non su quello morale, i

fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto. Non ne è capace, se non a condi

zione di abbandonare il livello della morale individuale che gli era consue

to e di accettare la sfida dellapteonexia sul terreno che le è proprio, quello

antropologico e quindi politico.

7

A dire il vero, anche su questo terreno Socrate va incontro inizialmente a

uno scacco, che è talvolta sfuggito all’attenzione degli interpreti. Socrate

apre il suo passaggio alla dimensione politica con la proposta di un’altra

antropologia, che non confuta quella pleonectica ma la sostituisce. Si tratta

di un’antropologia collaborativa, secondo la quale gli uomini sono spinti a

unirsi in società dalla necessità di soddisfare i loro bisogni primari (chreia).

Ci sono probabilmente riflessi democritei in questa nuova antropologia

socratica, da cui si origina una società prevalentemente economica, basata

sul principio della collaborazione produttiva, della divisione del lavoro,

dello scambio paritario di beni e servizi. Una società semplice, sana, a suo

giusta. Come

al livello di un’economia elementare —

cioè

anche

modo —

è noto, questa ipotesi antropologica di Socrate e il modello di società che

ne deriva vengono liquidati da Glaucone con una secca battuta: si tratte

rebbe, egli dice, di «una società di porci» (37zd), dove il termine non va

inteso naturalmente in senso morale ma in quello dell’eccessiva semplici

tà, dell’ignoranza e della stupidità. Ma perché Socrate ritiene che questa


— che

204 IL POTERE DELLA VERITÀ

battuta sia sufficiente a fargli abbandonare il suo primo modello sociale?

Quello di Glaucone non è evidentemente un argomento ma ha, ancora

una volta, la forza della testimonianza di una scelta di vita: e in questo caso

chi la propone è troppo importante perché il suo dissenso possa venire

ignorato. Il ceto che Glaucone rappresenta — quello stesso al quale vie

ne indirizzato l’intero sforzo persuasivo della Repubblica — non potrebbe

mai accettare un mondo primitivo e regressivo come quello delineato da

Socrate, che non soddisfa le sue esigenze urbane, i suoi ideali di una vita

colta, raffinata, abbellita dalle arti e premiata con il prestigio di un potere

politico e militare giusto, certo, ma accompagnato dalla time, dal ricono

scimento sociale cui quel ceto “signorile” si sente destinato.

Di fronte all’opposizione radicale di Glaucone, il primo progetto so

cratico di un’antropologia e di una società non pleonectiche è dunque

destinato ad abortire. È allora necessario intraprendere una via più lun

ga, che accetti come dati primari della condizione umana il bisogno del

lusso, la tryphe, dunque quella pleonexia dalla quale si origina la guerra

fra le città. La necessità della guerra produce a sua volta la formazione

di un ceto politico-militare che era assente nel primo modello. È la ri

educazione di questo ceto, che affonda le sue radici nella tryphe e nella

pteonexia, che porterà finalmente alla formazione della città giusta, nella

quale il conflitto pleonectico sarà superato da una struttura sociale ge

rarchizzata e governata da un potere razionale (tutto questo almeno nel

togos; nel tempo storico questa rieducazione potrebbe configurarsi — se

condo le prospettive formulate nei libri V e VI — come la conversione

di dynastai politici e militari ad opera di un piccolo gruppo di autentici

filosofi-legislatori).

8

Un conflitto superato e governato, ma non certo estinto. Al contrario, il

libro IV della Repubblica offre una potente fondazione psicologica all’an

tropologia della pleonexia. Per la prima volta, la concezione della “natura

umana” che essa evocava viene giustificata da una teoria dell’anima, che

mostra come il conflitto pleonectico sia radicato nell’apparato psichico

di ogni uomo in modo tale che ogni sforzo di governarlo non può che

risultare precario.

ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 205

Bisogna qui premettere un’osservazione di metodo che troppo spesso

è trascurata dai commentatori. La tripartizione del corpo sociale su cui si

fonda l’equilibrio della città giusta è, nel testo platonico, un progetto deli

neato dal logos, un modello normativo affidato ai fondatori e ai legislatori

della kattzotis, filosofi o dynastai che essi siano. Per contro, la tripartizione

dell’anima è il risultato di una descrizione dell’effettiva realtà psichica, di

una fenomenologia dei processi decisionali e delle fonti motivazionali da

cui essi dipendono (il “conflitto tragico” gioca un ruolo importante nel

sapere psicologico che sta alla base di questa fenomenologia). Questa dif

ferenza di punti di vista (il dover essere sociale da una parte, la realtà psi

cologica dall’altra) spiega molte delle difficoltà nella costruzione di una

perfetta omologia fra le due tripartizioni, che Bernard Williams ha analiz

zato in modo magistrale.

La fenomenologia dell’anima rivela che in essa sono presenti due com

ponenti, due masse energetiche destinate a riprodurre senza sosta l’insor

gere della pulsione pleonectica: lo thymos, il desiderio di autoaffermazione,

l’aggressività rivolta allo spirito di vendetta, alla gloria e al potere; e lo

epithymetikon, la fonte dei desideri di piacere e di ricchezza. Lo thymos

può, grazie a una strategia educativa complessa, venire indotto ad allearsi

con la parte razionale dell’anima, convincendosi che solo nel governo del

la ragione esso può trovare l’autentica realizzazione dei suoi bisogni (ma

anche in questo caso si tratta di un’alleanza precaria ed esposta al pericolo

di una stasis psichica). Al contrario lo epithymetikon è una irriducibile mi

naccia per il potere della ragione. Scrive Platone:

queste due parti [logos e thymos], così allevate e veramente educate in modo da

apprendere ciò che è loro proprio, prenderanno il controllo di quella desiderante

è la più grande nell’anima di ciascuno e per sua natura la più insaziabile di

ricchezze. Essa va sorvegliata per evitare che, diventata grande e forte gonfiandosi

dei cosiddetti piaceri connessi al corpo, cessi di svolgere la propria funzione e tenti

di ridurre in servitù e sotto il suo potere le altre parti, ciò che non le si addice per la

sua origine, sovvertendo così l’intero modo di vita di ognuno (442a-b).

Lapleonexia non è dunque una concezione antropologica arbitraria, con

cepita da qualche storico, sofista e oligarca impressionato dalla lezione

di quel «maestro violento» che era stata la guerra del Peloponneso, alla

quale contrapporre, come faceva Socrate nel libro Il, un’antropologia col

laborativa del lavoro e dello scambio. Si tratta piuttosto, secondo Platone,


non

è

zo6 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 107

di una realtà psicologica insuperabile, che può essere controllata, ma non

soppressa, da un tenace sforzo di condizionamento educativo dell’anima

e della città.

Uno sforzo, tuttavia, i cui successi non possono essere che parziali e

precari. Questa è la lezione di quel paradossale rovesciamento di pro

spettiva che Platone opera nei libri viii e ix della Repubblica. Secondo

i teorici della pteonexia, all’origine stava uno stato di natura, appunto

pleonectico, che l’inganno delle leggi e della giustizia cercava in qualche

modo di reprimere e di celare, a protezione dei deboli. Secondo Platone,

invece, la “natura” che sta al principio — una natura che costituisce evi

dentemente un concetto non descrittivo ma normativo, e un inizio che

non è storico o cronologico, ma per così dire fenomenologico — la città

giusta, la katliolis. Essa subisce un inevitabile processo di deformazione

e decadenza sotto la pressione delle pulsioni pleonectiche, quella timica

prima, quella epithymetica in seguito. È dunque il tempo storico, non

la natura delle origini, che costituisce il luogo fenomenologico di realiz

zazione della pleonexia. Ma il risultato non cambia: esso si conclude, in

una paradossale “fine” antiteleologica, nella tirannia, la forma di vita e di

potere che Platone aborriva e che costituiva invece l’oggetto del deside

rio di Callicle e di Trasimaco, la segreta aspirazione di ogni “vero uomo”

secondo Glaucone.

Le leggi storiche — quelle dell’oligarchia, della democrazia, natural

mente della tirannide — sono allora secondo Platone freni per lapleo

nexia ma suoi strumenti. Trasimaco (e soprattutto il Trasimaco della sua

prima tesi) aveva dunque ragione. La realtà inevitabile della storia delle

società umane consiste nel trionfo, in forme diverse, della violenza e della

sopraffazione reciproca, nell’asservimento dei poveri da parte dei ricchi, o

dei ricchi da parte dei poveri, fino all’assoggettamento universale rappre

sentato dalla tirannide.

Se questa è, ancora una volta, la “verità delle cose’ Platone non ha che

una sola risposta, e una sola proposta. È necessario accettare, con Trasi

maco, la centralità della questione del potere, to archon. Si può tuttavia

tentare di costruire un gruppo di potere non trasimacheo, cioè relati

vamente immune dallo spirito di pleonexia, mediante un’operazione di

chirurgia politico-morale che ne estirpi le radici, cioè la proprietà, la fa

miglia, la privatezza del patrimonio e degli affetti (come Platone avrebbe

ricordato nelle Leggi, si tratta insomma di far sì che «con ogni mezzo

tutto ciò che si definisce privato venga da ogni parte sradicato dalla vita

dell’uomo», V 739c): tutto ciò insomma che altrimenti trasforma inevi

tabilmente il cane da guardia in un feroce predatore come il lupo (il pe

ricolo evocato nel terzo libro della Repubblica). Questo gruppo di potere

dovrebbe subire una indelebile tintura educativa, al tempo stesso etica e

intellettuale, capace di garantire che il suo sia un potere di servizio e non

di oppressione. Esso dovrebbe infine venir dotato della forza necessaria

grazie all’alleanza con un ceto guerriero le cui aspirazioni all’autoaffer

mazione possano venire sublimate in direzione della ricerca della felicità

universale del corpo sociale, compresa come unica possibile garanzia an

che per una vera felicità delle sue singole componenti: una finalità eu

daimonistica, dunque, che non si contrappone alla deontologia ma ne è

strettamente implicata.

A questo punto, tutto funzionerebbe secondo lo schema di Trasimaco:

è vero che le leggi saranno in ultima istanza strumento della conservazione

del potere di questo gruppo, to archon, ma è anche vero che esso lavorerà

per la felicità dell’intero corpo sociale anziché per la sua spoliazione. La

questione del potere, di “chi comanda’ resta dunque primaria e centrale:

ma è possibile pensare che la destinazione del potere stesso cambi di senso,

si orienti verso il bene comune, facendo diventare la giustizia un “bene

proprio” anziché altrui.

Trasimaco non è allora confutato ma almeno corretto. Tuttavia anche

questa correzione risulta, come si è visto, provvisoria e instabile. L’im

menso sforzo di ricondizionamento intellettuale e morale dellapleonexia,

ispirato dal “paradigma in cielo” della giustizia, dà luogo a una costru

zione artificiale, che si appoggia su di un terrain vague. La realtà psichica

dell’uomo, la mutevolezza delle circostanze storiche, il conflitto sempre

riprodotto dalle condizioni stesse della vita sociale, determinano una

malattia perpetua, una aezatheia del genere umano, che è appunto la

pleonexia. Vale la pena di combatterla, come dicono le righe finali del

la Repubblica, per «star bene» (eu prattein), in questo e magari anche

nell’altro mondo, in un viaggio che può durare mille anni. Ma la guarigio

ne dell’anima e della città, la loro salute, non sono stati che si possano mai

considerare stabili e acquisiti per sempre. Per sempre, c’è solo la “verità”

della pteonexia.

Il peggior torto che si possa allora fare a Platone è di considerarlo un

pensatore edificante, affrancandolo da quel lato oscuro del suo pensiero

cui danno voce personaggi come Callicle, Trasimaco e Glaucone, e che

costituisce una parte non piccola della sua “verità”


2.0$ IL POTERE DELLA VERITÀ

Riferimenti bibliografici

Sul ruolo dei personaggi dialogici cfr. G. A. Press (ed.), Who Speaksfor Plato?, Lanham

zooo (che comprende il citato saggio di E. Ostenfeld); cfr. anche M. Vegetti,

Societri diatogica e strategie argomentative nella “Repubblica” (e contro la ‘Repubblica”),

in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogoplatonico, Napoli zooo, pp. 74-85

Su Callicle cfr. 5. Gastaldi, La giustizia e laforza. Le tesi di Catlicte nel “Gorgia”

di Platone, in “Quaderni di storia”, z, zooo, pp. 85-105. Per Trasimaco cfr. M. Veget

ti, in Platone, La Repubblica, trad. e commento, vo1. i, Napoli 199$, 133-56; su

Glaucone ivi, vo1. il, pp. 151-71.

Per Antifonte cfr. F. Decleva Caizzi, “Hysteron Proteron”: la nature de la toi seton

Ptaton etAntzphon, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, xci, 1986, 191-310;

M. Narcy, Les interprétations de tapenséepolitique d%lntiphon au xxsiècle, in “Revue

Franaise d’Histoire des Idées politiques’ III, 1996, pp. 3i-45; su Tucidide e il dibat

tito sofistico intorno apteonexia cfr. anche G. Giorgini, Idoni di Pandora, Bologna

1001, capp. I, VII.

Sulla teoria della giustizia e l’omologia anima-città nel Iv libro della Repubblica

si è fatto riferimento a B. Williams, The Anatogy of City and Soul in Ptato’s ‘Repu

blic”, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exegesis andArgument,

Assen 1973, pp. 196-lo 6. Sulla questione cfr. anche Vegetti, Platone, La Repubblica,

cit., vo1. III, pp. 11-45.

Interessanti osservazioni critiche sulle tesi discusse in questo saggio sono state

formulate da F. Decleva Caizzi, Glaucone, Socrate e t’antropologia della pteonexia, in

“Elenchos”, XXIV, 1, 2003, pp. 361-73.

Parte quarta

La verità


Socrate

che

il

9

Nell’ombra di Theuth.

Dinamiche della scrittura in Platone*

La prima e maggiore ambiguità del corpus filosofico di Platone sta nella sua

stessa esistenza. Si tratta di un insieme di scritti teorici senza precedenti,

per dimensione e qualità, nell’esperienza culturale greca — che però ven

gono presentati come progetto mimetico di trascrizione della parola di un

filosofo — aveva sempre rifiutato la scrittura. Non solo: questi

scritti contengono anche elementi di una teoria sistematica del rifiuto della

scrittura nei suoi valori comunicativi (fedro), legislativi (Politico), conosci

tivi (Lettera vii). L’ambiguità rischia di paralizzare sul nascere un’indagine

sulle forme e le dinamiche della scrittura in Platone. Se si privilegia il dato

di fatto dell’esistenza del corpus platonico, si può vedere in Platone — con

tro le sue stesse parole — l’artefice di una rivoluzione scritturale, lo scopri

tore delle virtualità concettuali insite nella messa per iscritto del pensiero:

è la proposta, fondamentale ma anche paradossale, avanzata da Havelock’.

Se ci si tiene, all’opposto, alla lettera dei passi ora ricordati, leggendovi i

luoghi forti della costituzione di una teoria unificata della negatività della

scrittura, occorre declassare l’intero corpus allo statuto di un gioco lettera

rio, non più che propedeutico rispetto all’esercizio della vera filosofia, le

cui tracce andranno allora cercate in direzione delle dottrine non scritte: è

questa la via su cui si sono mossi, con un rilevante sforzo argomentativo, gli

interpreti della scuola di Thbingen, Gaiser e Kràmer in particolare.

Per sfuggire alla trappola che Platone ha teso al suo lettore — cui senso,

tuttavia, andrà interpretato — si è scelto qui di muoversi a monte rispetto

alle strettoie di questa alternativa. Si tenterà cioè di seguire, in modo esten

sivo3, i numerosi segmenti di interrogazione platonica sulla scrittura, nelle

loro direzioni disperse e anche divergenti: una tortuosa linea di crinale fra

l’impatto arcaico dell’esperienza grafica e le mature teorie della lingua e

Questo capitolo è già stato pubblicato in Ivi. Detienne (a cura di), Sapere e scrittura in

Grecta, Laterza, Roma-Bari 1989.


una

a

appunto

elementare

al

2.12. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “3

del testo proprie del iv secolo. Se ne potranno definire alcuni profili locali:

il mito ambiguo delle origini della scrittura, la sua assunzione metaforica

nella figura di un sapere elementare che rinvia a un possibile sapere degli

elementi, la costruzione di un modello di conoscenza analitico-sintetica

messo alla prova innanzitutto sulla phone, lo strumento di una circola

zione culturale e di una pratica legislativa che si tratta di controllare e di

governare, infine il problema del testo filosofico. Altrettanti elementi che

rendono la riflessione platonica sulla scrittura — monte della sua eventua

le chiusura teorica — produttiva, nella sua autonomia, di nuove forme di

sapere possibile, di nuove esplorazioni intellettuali.

L’invenzione della scrittura

Platone toglie agli dei e agli eroi della tradizione greca, come Prometeo

o Palamede, la responsabilità preoccupante dell’invenzione di un ritrovato

ambiguo come la scrittura. Essa viene piuttosto collocata nell’antichità im

memorabile dell’Egitto dei re, dei sacerdoti e dei templi: qui si sviluppa una

scrittura sacra (hiera grammata) e capace di conservare una memoria on

nicomprensiva (paniagegrammena) (Tim l3a-d). All’opposto del vecchio

Egitto, barbaro6 a suo modo per eccesso di antichità e di civilizzazione, si

situano i barbari privi digrammata, legati alla tradizione orale delle leggi dei

padri, il cui prototipo sono i Ciclopi omerici (Leg. III 68ob). Nello spazio

intermedio tra questa barbarie “orientale” e “occidentale’ segnata rispettiva

mente dall’abuso e dal difetto della scrittura, si collocano i Greci: sottoposti

come sono alla vicenda delle catastrofi alluvionali, essi ciclicamente scopro

no e riperdono i grammata, avvicinandosi di volta in volta alla condizione

egizia e a quella “ciclopica’ costretti comunque a una memoria lacunosa e

intermittente, e a un rapporto difficile con la scrittura (Tim. za SS.; Leg.

iii 6$oa), in qualche modo indicativo dello stesso atteggiamento platonico.

Com’è ben noto, l’inventore della scrittura che Platone sostituisce a

Prometeo e Palamede è un dio egiziano, Theuth, che sottopone il suo heu

rema al re Thamus e ne viene rimproverato, perché esso è nocivo alla me

moria e al vero sapere (?haedr. za ss.). La capacità inventiva di Theuth

è coerente ma ambigua. I suoi ritrovati — variante platonica della lista

altrove attribuita a Palamede — si possono disporre in due serie; la prima,

“alta”, comprende aritmetica, geometria, astronomia — le discipli

ne che la Repubblica indica come essenziali per la formazione del filosofo;

a essa ne segue una “bassa”, che include la dama (petteiai), i dadi (kybeiai)

e appunto le lettere scritte, igrammata (Phaedr. z74d). La coerenza fra le

due serie sta nel fatto che tutte le discipline comprese si basano su elementi

semplici (numeri, figure, solidi nel primo caso, pedine, dadi, lettere nel

secondo), e ne utilizzano le proprietà combinatorie. Quanto all’ambigui

tà dell’invenzione della scrittura, essa risulta evidente se si riscrivono le

due serie in ordine di crescente complessità conoscitiva7: otterremo allora

la sequenza di dama, dadi, grammata, aritmetica, geometria, astronomia.

Nel campo generale delle invenzioni elementari-combinatorie, la scrittura

si colloca dunque al limite tra la serie dei giochi, di cui fa parte, e quella dei

saperi produttivi di verità, ai quali prelude.

L’invenzione di Theuth non è del resto abbandonata alla condanna del

re Thamus. Nella sua collocazione mitica, essa anticipa la produttività co

noscitiva dell’impiego metaforico e paradigmatico dei grammata, precisa

mente nell’esplorazione della possibilità di costruire una forma generale di

sapere elementare-combinatorio.

Sapere elementare, sapere degli elementi

Impiego metaforico e paradigmatico, si è detto. In sé stessa, la tecnica della

scrittura (e quella connessa della lettura) non rappresenta più per Platone

un fenomeno culturale emergente e innovativo, e neppure un formatore

dell’immaginario scientifico, come poteva accadere ancora per gli atomi

sti. Scrittura e lettura costituiscono certo un sapere, che ha i suoi specia

listi, i grammatistai. Senza questo sapere noi avremmo la pura percezione

della figura e del colore delle lettere ma non le conosceremmo, come udia

mo il suono della phone dei barbari senza comprenderla (Theaet. i63b)8.

Ma si tratta di un sapere di grado minimo, ovvio e declassato

— pari dei

suoi specialisti —, nel senso che è il primo cui i ragazzi accedo

no e di conseguenza il più diffuso. Il grammatistes occupa sempre il primo

posto nelle sequenze di insegnanti elementari formulate da Platone, che

gli affianca nell’ordine kitharistes e paidotribes (cfr. ad es. Prot. 3izb); il

primo apprendimento dei ragazzi consiste nel passare dalla comprensio

ne della voce a quella dei grammata (Prot. 325e), ed è a loro che spesso i

genitori affidano il compito minimo di leggere o scrivere qualcosa (Lys.


214

rispecchia probabil

ignorano ancora?

IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THIUTH 215

zo9a-b). Platone non fa che registrare questa situazione quando prescrive

nelle Leggi che i futuri cittadini debbano apprendere “con precisione” i

grammata fra i io e i i anni di età (Leg. vii 809c ss.).

Capacità minima e diffusa, e come tale agevolmente fruibile a un livello

metaforico elementare, la scrittura gode tuttavia di una serie di proprietà

interessanti. È ripetibile a piacere (Rpp. mi. 366c), ha capacità referenzialj

(quando un ragazzo scrive o legge un nome altrui «non fa le cose pro

prie», Charm. i6id-e). li segno grafico rimane identico anche nel variare

delle sue dimensioni (Resp. ii 36$d); forma un piccolo gruppo di stoichefa

che restano riconoscibili in tutte le combinazioni in cui vengono a tro

varsi (peripheromena) (Resp. iii 401a). Il gramma è dunque stoicheion, ele

mento primo, semplice e invariante della scrittura; stoichelon esso stesso,

può venir assunto a paradigma estensibile a qualsiasi elemento cui pos

sano venir ridotte, e da cui possano venir derivate, strutture complesse’°.

Sapere elementare, la lettura può quindi a sua volta essere concepita come

il paradigma universale di una conoscenza degli elementi. Un passo del

Potitico (277e-z78b) offre la chiave di questa estensione paradigmatica del

gramma/stoicheton e della scrittura/lettura:

Noi in qualche modo sappiamo che i fanciulli, appena sono divenuti esperti delle

lettere [grammata] {...] discernono bene ciascun elemento [stoicheton] quando

si trova nelle sillabe più brevi e più semplici, e sono capaci di esprimerli corret

tamente [...]. Ma in altre sillabe non li distinguono più chiaramente e allora su

di essi le loro opinioni e i loro discorsi sono falsi [...]. E non credi allora che sarà

facilissimo ed efficacissimo questo modo per guidarli alla conoscenza di ciò che

[trnagein] prima davanti a quelle sillabe

Quale?

in cui essi li riconoscevano correttamente, poi porre questi di fronte a quelli non

Riportarli

che

secondo

stesso.

è in gioco un pensiero degli elementi. A chiunque si debba la teoria, essa

mette in opera, secondo Platone, il paradigma dei grammata/stoicheia e

tn dei Megarici, posizioni comunque non estranee all’orizzonte socratico

se non certo esenti da un’eco atomistica, come sempre, del resto, quando

ticolazione teorica del discorso platonico è troppo complessa perché sia

qui possibile ricostruirla analiticamente; altrettanto difficile è il problema

storiografico di identificare i sostenitori di questa dottrina, cui Platone al

platonico, forse condivise problematicamente dallo stesso Platone, anche

mdc molto vagament&. Si tratta secondo alcuni di Antistene, secondo al

za basata sulla riduzione delle strutture complesse agli elementi semplici

enunciati o dei nomi nominando gli stoicheia onde essi sono generati. L’ar

che le compongono; in particolare, di ottenere la definizione (logos) degli

Il primo di questi esperimenti, condotto nel Teeteto, è di ordine episte

mologico. In questione è la possibilità di ottenere una forma di conoscen

menti. La produttività teorica di questo paradigma viene messa alla prova

definizione del modello scrittorio come possibile infrastruttura teorica di

una episteme analitico-combinatoria: invarianza degli elementi primi, ri

da Platone, con una serie di esperimenti concettuali, in direzioni diverse e

ducibilità a essi dei composti, regole di derivazione dei composti dagli ele

funzione vocalica e del sapere grammaticale. Ma intanto, si è completata la

allora il problema di individuare gli equivalenti metaforici generali della

nazione di lettere sarebbe possibile; e la grammatica rappresenta il sapere

specifico relativo a questo campo di combinazioni (Soph. 253a). Si apre

che regolino le combinazioni possibili. Alcune lettere, infatti, possono dar

le vocali, in particolare, fungono da legame senza il quale nessuna combi

solo per quanto riguarda la riducibilità delle strutture complesse ai loro

elementi primi, ma anche in vista della produzione di criteri di selezione

luogo a mescolanze perché si accordano (synarmottei) fra loro, altre no;

significherà conoscere qualsiasi testo possibile; il possesso di questo sapere

Più seriamente, il paradigma dei grammata può venire utilizzato non

un nome qualsiasi significa immediatamente diventare più esperto in tutta

il quale, poiché ogni testo è composto da grammata, conoscere le lettere

quanta la tecnica (grammatikoteros, i8c-d). Su questa via, non è difficile

primario riduce qualsiasi ulteriore conoscenza a un semplice riconosci

mente una sorpresa più arcaica di fronte all’esperienza scrittoria —

per il sofista Eutidemo giungere al paradosso —

con risultati contrastanti.

mento (Euth. ziia)”.

ancora conosciuti, e finalmente comparando i primi ai secondi mostrare che in

entrambe le serie di combinazioni {symptokai] sono presenti elementi simili e del

la stessa natura, fino a che accanto a tutti quelli ignorati siano posti e mostrati gli

elementi corrispondenti da loro interpretati correttamente, e questi elementi, una

volta mostrati così e divenendo quindi modelli [paradergmata], diano modo di

denominare ogni elemento in ogni sillaba, quando è diverso, come diverso dagli

altri, quando identico, come identico sempre dallo stesso punto di vista con se

A prima vista, la proprietà più sorprendente della conoscenza per elementi

fondata sul paradigma del gramma è la sua indefinita ripetibilità e quindi

estensibilità. Il Politico osserva che riconoscere le lettere di cui è formato


con

come

zx6 IL POTERE DELLA VERITÀ I

NELL’OMBRA DI THEUTH 217

della loro relazione con le sillabe: queste hanno un logos, una definibilità

che consiste precisamente nella risoluzione nelle lettere che le compongo..

no; il processo si arresta qui, perché gli stoicheta non sono ulteriormente

definibili (atoga) ma solo nominabili con il loro suono o classificabifi se

condo i tipi’3. Lo stoicheion non è dunque conoscibile (gnoston) in sé stes

so: come lo sarà allora la sillaba se la sua conoscenza dovrebbe risultare

dalla scomposizione in lettere e dalla enumerazione/nominazione di que

ste ultime? D’altra parte, se si dovesse inferire (tekmairesthai) dal modello

addotto per lo sviluppo della teoria, le lettere-elementi dovrebbero posse

dere una conoscibilità più evidente e sicura delle sillabe che ne derivano.

La conclusione, come è noto, è dubitativa e aporetica: chi non combina le

lettere nelle sillabe non ha conoscenza, ma anche scrivendo ordinatamen

te tutti gli stoicheia del nome “Teeteto” se ne otterrà una retta opinione

basata su un logos definitorio, ma non ancora una conoscenza scientifica,

una episteme (Theaet. zoie-zo8a).

Per quanto ci interessa più da vicino, i dubbi epistemologici tematizzati

da Platone

— molta cautela e anche rispetto per la teoria discussa —

sembrano essere di due tipi. Il primo riguarda la legittimità conoscitiva

generale di un metodo “elementaristico”, analitico-scompositivo, che non

è rifiutato tout-court ma che sembra incapace di comprendere l’originalità

formale del composto rispetto ai suoi elementi (cfr. soprattutto zo3e)’4, o

la sua referenzialità, come nel caso del nome “Teeteto” (zo8b). Il secondo

riguarda più da vicino la legittimità del,gramma a fungere da metafora del

lo stoicheton: in quanto non definibile in sé, ma solo nominabile, ilgramma

sembra mancare della trasparenza conoscitiva, della ricchezza di significa

zione che un elemento dovrebbe possedere perché le sue combinazioni sia

no suscettibili di conoscenza ulteriore e più elevata. Le possibilità offerte

in questo senso dal gramma verranno ulteriormente esplorate nel Cratito.

Ma il tema viene ripreso in modo diretto nel Timeo, dove Platone si chiede

esplicitamente con quali caratteri sia scritto il libro del mondo. Quelli che

una lunga tradizione considera “elementi”, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco,

non solo non vanno considerati stoicheia, ma neppure sillabe dell’alfabeto

cosmologico (Tim. 4$b-c). La piramide, ad esempio, è lo stoicheion del

fuoco, ma essa — ogni altro solido — risulta a sua volta una “sillaba”, il

composto (systasis) dei veri elementi, i triangoli rettangoli scaleni ed equi

lateri (56b-57c).

Come si vede, il Timeo non rifiuta affatto il modello analitico-com

binatorio, ma sostituisce la suggestione metaforica del gramma con il ri

ferimento almeno parzialmente non metaforico alle figure geometriche

“prime” come costituenti elementari del mondo. Rispetto ai grammata,

i triangoli presentano per Platone l’incommensurabile vantaggio episte

mologico di una totale definibilità, di una trasparenza senza residui alla

visione conoscitiva, quindi la capacità di fondare un edificio conoscitivo

sempre più complesso ma sempre linearmente riducibile alle proprietà dei

suoi elementi primi.

Quanto al Sofista, Platone vi sperimenta, come è noto, un particolare

metodo scompositivo e quindi definitorio degli aggregati ideali complessi,

quello dicotomico. Qui gli elementi in cui si conclude la scomposizione

non sono grammata e neppure triangoli, bensì forme semplici e indivisibi

li, gli atoma eide (Soph. ;;9d). A parte l’andamento generale del metodo,

sembra interessante rilevare la formazione di nuovi nomi corrispondenti a

livelli intermedi di realtà, che la dicotomia mette in luce e che sono restati

finora anonimi (z67d).

L’onomaturgia platonica procede utilizzando le parole del linguaggio

comune come stoicheia dalla cui composizione risultano i nuovi termini;

reciprocamente, la definizione di questi ultimi consisterà nella somma del

le definizioni dei termini elementari in cui possono venire scomposti (si

pensi a parole di conio platonico come zootherike,pezotherikon, anthropo

theria, mathematopolike ecc.: Soph. zzoa ss.).

Anche qui, come per altri aspetti nel Timeo, il paradigma analitico

combinatorio dell’episteme scrittoria resta attivo e produttivo, nonostante

le aporie del Teeteto e la negazione al gramma della dignità di stoicheion

universale.

Ma è naturalmente sul terreno della lingua, del rapporto phone

gramma, che le potenzialità conoscitive della scrittura possono venire spe

rimentate più a fondo’.

Decisiva è in questo senso l’analisi del Fitebo (17a-b, i8b-d). L’emissione

vocale costituisce un continuum, unitario per un certo aspetto, e per un al

tro anche indefinitamente molteplice (apeiron). L’unico modo per gover

nare conoscitivamente questo continuo paradossale sono appunto le lettere

dell’alfabeto, i ,grammata: esse rappresentano uno strumento analizzatore

che mediante i grafemi scompone la voce nei suoni-fonemi elementari che

la costituiscono. 11 gramma è dunque il termine medio tra la voce, una e

indefinita, e l’insieme discreto e numerabile dei suoni che la compongo

no. Mediante questa analisi, Platone elabora al tempo stesso una conquista

concettuale e un modello epistemologico. La prima consiste nel compiuto


219

NELL’OMBRA DI THEUTH

risponderanno così al flusso e al movimento, delta e tau alla immobilità e

alla quiete (426c SS., 434C ss.). Ma che cosa significa questa corrisponden

za? La prima possibilità esplorata in questa direzione da Platone consiste

nel far corrispondere a ogni fonema-grafema un semantema, cioè a ogni

elemento della scrittura fonetica un radicale semantico immediatamente

referenziale rispetto alla struttura fine della realtà stessa. L’aggregazione di

questi radicali nei nomi primi, e di essi nei nomi composti, darebbe final

mente luogo a un linguaggio “naturale” o normale, cioè adeguato alla sua

funzione di strumento di simulazione/rivelazione delle cose stesse.

Questa prima possibilità semantica di adeguazione del linguaggio al

mondo è esemplificata da Platone con i nomi delle lettere: per quanto

compositi, essi devono sempre contenere la dynamis della cosa-lettera si

gnificata, come è ad esempio B nel nome beta (393e). Il nome corretto

si appropria dunque della “potenza” della cosa, e la significa. C’è indub

biamente un sapore arcaico in questo nesso elementare di significazione

tra parola e cosa; Platone lo esemplifica tuttavia, almeno nel suo versante

compositivo, che va dal semplice al complesso, con un sapere relativamen

te “moderno” qual è quello dei metrici orhythmikoi del V secolo. Essi sono

in grado di riconoscere e quantificare la dynamis degli stoicheia risalendo

da questi alle sillabe e poi al ritmo nel suo insieme (424c: con le stesse pa

role era definito il sapere di Ippia, maestro della dynamis di lettere, sillabe,

ritmi e armonie, in Hzpp. ma. i85d)’7.

Ma che cosa può garantire che la dynamis della cosa sia davvero cattura

ta dal segno fonico-grafico, e che il nome ce la restituisca, ce la “manifesti”

grazie alla sua potenza semantica? Platone è sistematicamente consapevo

le, attraverso tutto il Cratito, dell’arbitrarietà del nesso semantico che si

presume immediato tra sistema degli stoicheia, dei nomi primi e dei nomi

composti da un lato, e l’essenza delle cose, lo stato del mondo dall’altro.

Tanto è vero che egli produce due differenti analisi dei “radicali semantici”

IL POTERI DELLA VERITÀ

iis

riconoscimento della struttura e della funzione dell’alfabeto fonetico: la

cui invenzione è attribuita a «un dio o un uomo divino», Theuth secondo

la leggenda egiziana (lo sfondo egiziano, dunque semi-ideografico, appare

qui incongruo al ritrovato alfabetico, ma, come si vedrà, l’insistenza su di

esso non è priva di senso in rapporto ad alcuni sviluppi del Cratito).

Per quanto a suo modo definitiva, la teoria della scrittura fonetica inte

ressa qui a Platone per la sua fruibilità come modello; e precisamente per

una forma di sapere che

una volta —

ancora

a

la sua capacità di alludere —

non si smarrisca sterilmente nella polarità uno-infinito, ma che sia in gra

do, attraverso il processo analitico di elementazione e numerazione degli

stoicheia, e quello ricompositivo di aggregazione ordinata degli stoicheia

stessi, di muoversi nello spazio intermedio fra quella polarità, di passare

da una concezione indifferenziata a una articolata e composita dell’unità

via dell’esemplarità scritturale— si

la

quella

che rinviano a due opposte visioni del mondo, una delle quali —

sicuramente errata.

“eraclitea”, centrata sul dominio del movimento —

Di fronte all’esaustione e allo scacco di questo primo esperimento in

è

tellettuale, Platone imbocca, se pure meno sistematicamente, un’altra via,

quella suggerita dal grafismo della tradizione atomistica’8. In questa nuova

prospettiva il segno grafico, sciolto dalla connessione organica con il fone

ma, conta per la sua forma materiale e visibile. Il nome corretto sarà quello

che contiene ed esibisce, nei segni che lo compongono, il “typos della cosa”,

il suo sigillo, la sua impronta: un marchio di riconoscimento ridotto all’es

(fhit. i8a-b). Anche per questa via —

giunge al “parmenicidio”, si ricostruisce uno spazio discorsivo pur sempre

epistemologicamente controllabile e collocato tra la tautologia eleatica e il

suo orrore per la molteplicità indefinita: il sapere della dialettica viene così

strettamente metaforizzato da quello della grammatike (i$d).

Ma è certo nel Cratito che Platone compie l’esperimento intellettuale

più radicale e più esaustivo sulle possibilità conoscitive della scrittura in

quanto tale, fonetica e no.

Come è ben noto, il problema del Cratito consiste nel saggiare la tenuta

del legame fra linguaggio e realtà, la consistenza del rapporto fra i nomi e

le cosel6. Si tratta in altri termini di verificare se sia possibile, e pensabile,

una “normalità” corretta del linguaggio tale da stabilire una sequenza tra

l’essenza della cosa stessa (ousia toupragmatos), la forma del «nome per

natura» (onomaphysei), e la trascrizione di quest’ultimo in elementi (stoi

cheia) fonetico-grafici, quindi in grammata e sillabe. Se questa sequenza

fosse possibile, essa sarebbe allora ripercorribile all’inverso: lettere e silla

be, con i nomi che ne risultano, sarebbero leggibili come simulazione (mi

mesis), o meglio ancora come rivelazione (detoma) della ousia della cosa

stessa (Crat. 39od, 393d, 423e, 433b).

Questo nesso immediato fra il nome e la cosa non può venir rivelato

al livello dei nomi composti o aggregati. Un primo passo analitico dovrà

ridurli ai loro componenti primi, ai nomi-stoichela, quali possono essere,

nel contesto di un pensiero del movimento di tipo eracliteo, rhoe, flusso,

o ienai, andare (Crat. 4zza, 424a). Ma un secondo passo è in grado di

ridurre questi nomi ai loro radicali alfabetici: lettere come rho e iota cor


— con

il

per

12.0 IL POTERE DELLA VERITÀ

NELL’OMBRA DI THEUTH 12.1

senziale ma ben visibile (Crat. 431e). Torna in questo nuovo contesto, e

non a caso, l’esempio dei nomi delle lettere; solo che ora il nome beta non

è tanto il veicolo semantico della dynamis di B, quanto il suo rappresentan

te figurale, perché ne racchiude in sé la forma. Gli stoicheta dei nomi primi

dovranno dunque essere non significativi, ma riproduttivi della cosa, do

vranno essere homoia (uguali o simili) a essa, proprio come i colori della

pittura stanno alla cosa raffigurata (434a).

È difficile interpretare il senso di questo secondo esperimento plato

nico, direttamente centrato sul segno grafico, se non riportandosi, al di là

degli stessi stoicheia dell’atomismo, in direzione di un immaginario ideo

grafico. In una drastica quanto provvisoria rinuncia all’orizzonte della

scrittura fonetica elaborato nel fitebo, il geroglifico egiziano sembra di

ventare ora il modello possibile dello stoicheton del nome primo “corretto”

E questo può gettare nuova luce sull’insistenza platonica circa le origini

della scrittura in terra d’Egitto.

Rinuncia tuttavia provvisoria, si diceva. Anche l’esperimento di sosti

tuzione dei radicali semantici con radicali (ideo-)grafici per garantire la

consistenza del nesso fra il nome e la cosa viene portato rapidamente al suo

scacco. Il controesempio immediatamente evocato è quello dei nomi dei

numeri, altrettanto primi quanto quelli delle lettere ma incapaci di esibire

nella loro configurazione il typos della cosa (435c ss.).

Di fronte a questo duplice fallimento, non resta a Platone che proporre

un rincrescimento che non è soltanto ironico — ritorno a un crite

rio più “grossolano” (phortikon), e soprattutto più debole, di garanzia del

rapporto fra linguaggio e stato del mondo: quello della convenzione se

mantica tra i parlanti. Si apre così la via per il ripiegamento, al di là dell’in

chiesta sul linguaggio e sulla sua infrastruttura grafica, verso la riflessione

diretta sulle “cose stesse’

Che cosa rimane di quell’inchiesta? In negativo, la rinuncia alla pretesa

arcaica di catturare nel segno grafico, per una via o per l’altra, l’essenza e la

potenza delle cose. In positivo, ancora una volta, un paradigma “gramma

ticale” che costituisce il modello forte di un sapere analitico-combinatorio

non senza rapporti, come si è visto, con lo stesso programma dell’impresa

dialettica; e ancora, una mossa potente in direzione della costituzione di

una nuova scienza, la linguistica, che nasce nello spazio del rapporto fra

voce e scrittura, con la consapevolezza della capacità di quest’ultima di

oggettivare, articolare, dominare la voce parlata, e dell’autonomia — per

quanto malvolentieri accettata — della lingua rispetto alla realtà’.

i

Dalla scrittura al libro

Accanto alle sue potenzialità come paradigma teorico, c’è sicuramente un

incentivo esterno che spinge Platone alla sua riflessione intorno alla scrit

tura. Non più certamente l’arcano di una techne da poco inventata, com’e

ra accaduto in tempi ormai lontani; ma una vera e recente “rivoluzione

culturale’ la diffusione del libro e la sua generale accessibilitàbo. Questo

fenomeno appare a Platone capace di alterare profondamente i modi, i

contenuti e i destinatari della comunicazione culturale.

Come l’esperienza del v secolo aveva dimostrato, la scrittura è uno

strumento flessibile e accessibile a molti (mentre la forma orale della co

municazione richiede la preliminare credibilità del parlante, la sua capaci

tà di attirare e dominare un uditorio). Il libro consente inoltre una libertà

pressoché illimitata di discorso, non sottoposta alla censura immediata da

parte dell’uditorio; e, soprattutto, esso si offre a una fruizione non selet

tiva, né per quanto riguarda la cerchia dei lettori né per le circostanze e le

ragioni della letturahl. In questo modo, il libro da un lato “democratizza” la

circolazione culturale, dall’altro la rende anche a-sociale — chi punti a

un modello di socialità chiuso e coeso — perché isola il suo lettore dal con

testo e dal controllo del corpo sociale cui appartiene’. Per tutte queste ra

gioni, la circolazione dei libri appare a Platone eversiva in rapporto al suo

progetto di ricostruzione di una città fondata sull’educazione collettiva e

sulla coesione culturale che le è necessaria; una potenzialità dei libri con

fermata, come vedremo, dai loro effettivi contenuti, spesso irresponsabili,

talvolta decisamente pericolosi nei riguardi dei temi centrali del progetto

platonico: la vera filosofia, le giuste leggi, le credenze sugli dei.

Il fenomeno è preoccupante anche perché ormai radicato e diffuso in

modo irreversibile: gli ateniesi sono abbastanza esperti di g?ammata per

poter leggere il libro di Anassagora sugli astri (Apot. z6d). Sullo stesso

Socrate, che pure rifiuta tenacemente la scrittura, il libro agisce irresisti

bilmente come un’esca sugli animali (Phaedr. z3od): non gli basta sentir

leggere i libri di Anassagora, ma li acquista e li legge avidamente, con la

maggior rapidità possibile (Phaed. 98b). La diffusione e la fascinazione

del libro richiedono allora uno sforzo rivolto non a una impossibile ri

mozione, ma a limitarne, controllarne, governarne l’impatto per renderlo

compatibile con le strategie di fondo del programma platonico.

I dialoghi offrono intanto, sia pure in modo sporadico, un censimento

degli scaffali di quella che potremmo definire la “biblioteca d’Atene”.


2,2,2. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’ OMBRA DI THEUTH “3

afferma

Platone introducendo il problema della Scrit

«Nelle poteis» —

«ci

tura delle leggi —

sono opere scritte e discorsi scritti che sono opera di

molti autori» (Leg. Ix 858c). Questa biblioteca comprende libri comun

que “profani’ ma che possono spingersi fino alla profanazione, all’empietà

e all’ateismo.

Ci sono innanzitutto «opere scritte, senza metro o col metro, di poe

ti e quanti altri hanno voluto deporre nella memoria il loro parere sulla

vita», da Omero e Tirteo a Licurgo e Solone (Leg. ix 88d-e). Ci sono poi

opere poetiche scritte ma non musicate, in versi o in prosa, e syngrammata

antologici tratti da esse, che i giovani devono imparare a memoria: sphale..

ragrammata, scritti pericolosi, dice Platone, per l’irresponsabilità dei loro

autori e la inattendibilità dei contenuti (Leg. vii 8iob-8iib). Ci sono i libri

dei retori, come quello di Lisia, altrettanto irresponsabili e per giunta ca

paci di uccidere la memoria, secondo il rimprovero mosso dal re Thamus

a Theuth. Fedro tenta infatti di apprendere a memoria il discorso di Lisia,

ma poi abbandona questo sforzo “arcaico” di memorizzazione della comu

nicazione bocca-orecchio e si impadronisce del libro, che desidera recitare

a memoria; alla fine, premuto da Socrate, rinuncia anche a questo esercizio

e si arrende alla lettura (Phaedr ,,8a-e): un preambolo ironico, che prelu

de appunto alla grande discussione del Fedro tra l’inventore della scrittura

e il suo re in terra d’ Egitto.

Nella biblioteca d’Atene sono poi numerosi i manuali delle arti, della

retorica in primo luogo (?haedr. 66d), genere letterario che si immagi

na inaugurato da Nestore e Odisseo durante gli ozi sotto le mura di Troia

(zCib), e inoltre di medicina (z68c): manuali naturalmente incapaci ditta

sformare i loro lettori in buoni retori o in buoni medici, perché contengo

no tutt’al più le sole premesse dell’arte (z68a ss.).

Più futili ancora i libri dei sofisti come l’elogio di Eracle, dovuto a Prodico,

o quello del sale (Symp. i77b). Ma questi scritti diventano grotteschi

e pericolosi quando sfiorano i grandi temi della verità filosofica e religiosa.

Grotteschi, come l’Atétheia di Protagora che profetizza dall’adyton non di

un tempio, ma di un libro oscuro (Theaet. i6za); o come le formule enig

matiche (ainittontai) degli autori di scritti «sulla natura e sul tutto» alla

maniera di Empedocle (Lys. zi4b-d). Ma soprattutto pericolosi, come la

biblioteca ateniese dell’ateismo, prodotto di una «ignoranza tanto più

espongono la nascita degli dei e

grave in quanto pare essere il massimo dell’intelligenza» (Leg. x $86b).

«Ci sono da noi discorsi scritti nei libri, alcuni in versi, altri in prosa

che parlano degli dei. I più antichi narrano come in principio fu la prima

natura del cielo e delle altre cose, [...]

come venuti all’essere gli dei ebbero rapporti fra di loro» x (Leg. 886c).

Questi scritti non sono nè lodevoli nè utili né tantomeno veritieri, anche

se meritano una qualche indulgenza per la loro antichità. «Ma lasciamo e

diciamo addio a ciò che riguarda queste cose antiche [...] Noi ora dobbia

mo accusare le opere dei nostri moderni sapienti quanto sono e in causa

dei mali» (Leg. x 8$ Cd): questi libri negano, noto, divinità come è la degli

astri e l’esistenza di una qualsiasi provvidenza divina.

Tutto ciò che esiste negli scaffali della potis, tutto ciò che la scrittura

offre a una circolazione culturale diffusa e indiscriminata, risulta dunque

inutile o nocivo: questi libri indeboliscono la memoria, offrono al consu

mo giochi intellettuali futili, danno alloro lettore l’illusione non ma la re

altà del sapere, minano le credenze tradizionali poterle sostituire senza con

altre più vere. Quando si pone la questione libro cruciale del filosofico — il

chiarisce come la cattiva qualità

libro per eccellenza della verità —

Platone

della biblioteca d’Atene non dipenda soltanto irresponsabilità dalla teo

rica e morale a un tempo dei autori, più intrinsecamente suoi bensì dalla

stessa forma-libro, dal guasto che la scrittura opera contenuti.

sui suoi

Tre opere possono rappresentare la tipologia libro del filosofico par (a

te gli scritti sofistici di cui si è già detto). un libro Anas

A estremo, c’è il di

sagora, vero best seller dell’ateismo nella presentazione Platone

che ne fa

(Apot. 6d, Phaed. 97b ss.).

Accanto a esso, un libro non ignobile, dovuto a un autore “serio” (spou

daios) come Zenone di Elea: questi sente tuttavia giustificarne

il dovere di

sia la pubblicazione

— il libro gli è stato rubato prima potesse decidere

che

se «dario alla luce» o meno — sia la composizione: stato scritto, effet

è in

ti, per offrire «un qualche aiuto» Parmenide (boetheia) al logos di (Parm.

iz8c-d). Giustificazione invero insufficiente alla luce del passo del Fedro,

dove è semmai il libro, muto e impotente mani tutti, nelle di ad aver bi

sogno dell’ «aiuto del padre»-autore (Phaedr. z75e). E infine, all’estremo

opposto, c’è il «libro di Platone»: opera tuttavia, significativamente, non

del filosofo ma del tiranno siracusano Dionisio, impadronisce con

che si

un atto di forza dei logos del maestro propria e lo irrigidisce scrittu

nella

ra vii (Ep. 34ib). Ma Platone resiste a questa imposizione tirannica della

forma-libro al suo pensiero: egli non lo ridurrà mai a syngramma, perché

la filosofia non è comunicabile (rheton) come le altre discipline, ma si ac

cende d’improvviso nell’anima dopo dialettica

il travaglio della synousia

341c); nè in questo campo syngrammata possono i valere — come accade


di

di

può

può

può

da

2.2.4

IL POTERE DELLA VERITÀ

NELL’OMBRA DI THEUTH

2.2.5

per gli altri saperi e come il fedro aveva concesso (Phaedr. ;75d)

pro

memoria, hypomnemata, perché ciò che davvero è importante in filosofia

non si dimentica più una volta che abbia lasciato la sua traccia nell’anima

(Ep. vii 344d). Se anche accade che un autore “serio” consegni qualcosa

alla scrittura, non si tratterà certo delle sue cose più serie: ritorna il tema

della scrittura per “gioco” (paidia), come tesoro di ricordi destinati innan

zitutto a sé stessi, rimedio contro l’oblio della vecchiaia, di cui aveva par

lato ilfedro (z76d).

Se i manuali delle technai hanno dunque una qualche legittimità, pur

non bastando a generare il sapere, il manuale filosofico non ne ha alcuna,

non può e non deve esistere: quando ciò accade, esso è inevitabilmente

ateo o “tirannico”. Si pone altrettanto inevitabilmente, a questo punto, il

problema della scrittura filosofica di Platone. Il fedro, e ancor più la Lette

ra vii, escludono che essa possa venir presa “sul serio”: la vera filosofia non

accade se non nel «discorso vivente e animato», «scritto con la scienza

nell’anima», di cui quello scritto nel libro è tutt’al più un fratello, o me

glio un eidolon (Phaedr. z76a)’4.

Questo discorso vivente è capace di selezionare i suoi legittimi interlo

cutori — fronte alla anonimia volgare dei lettori di libri —, difendersi

e insegnare — fronte all’opaco mutismo dell’altro’ —, infine deter

minare la cruciale conversione, in cui si gioca l’essenza del platonismo, dal

la parola dialettica alla visione ontologica, dal logos all’eidos. Se tutto ciò

può apparire scontato, alta è tuttavia la posta in palio nello scontro delle

interpretazioni. Non prendere “sul serio” la scrittura di Platone può signi

ficare il rinvio, al di là di essa, a un corpus dottrinale “serio”, dunque chiuso

sistematicamente, dunque ancora metafisico, il cui punto di riferimento

esplicito andrà cercato, più o meno, nel neoplatonismo; oppure — secondo

una prospettiva neokantiana —, significare, all’opposto, una consape

volezza platonica dei limiti del testo scritto, delle sue condizioni d’uso nei

contesti della comunicazione, infine dell’impossibilità di chiusura di qual

siasi sistema filosofico’6. È in gioco, come si vede, il senso del platonismo:

un gioco probabilmente senza fine, di cui si intesse la tradizione filosofica

occidentale, e la cui indecidibilità ermeneutica dice molto circa l’ambigui

tà originaria del platonismo stesso.

A ben guardare, infatti, la Lettera vii non segnala soltanto l’inadegua

tezza della scrittura rispetto al discorso vivente della filosofia, ma insiste

soprattutto sul limite assoluto della parola filosofica, scritta o parlata che

essa sia: un limite connesso al carattere non esprimibile discorsivamente

(rheton) ma solo intuitivamente visibile della verità stessa. C ‘è dunque,

se mai, una doppia sostituzione, che è anche decadenza: della visione con

la parola (e questo fa radicalmente dubitare che Platone possa aver consi

derato le “dottrine orali” come espressione adeguata della verità)’Z; e del

dialogo parlato con la sua trascrizione. Entrambe le sostituzioni sembrano

compensare la loro inadeguatezza con una pari necessità: di rappresenta

zione mimetica del livello superiore’8, e di preparazione educativa a esso.

Su questo si tornerà più avanti; per ora, come si era avvertito, preferiamo

muoverci all’interno del labirinto offerto dalle esplicite dichiarazioni pla

toniche. Leggeremo dunque nel preambolo del Teeteto la regola (ironica)

e il senso della non serietà della scrittura dei dialoghi.

Come viene fabbricato un dialogo platonico, secondo la versione del

narratore del Teeteto, Euclide? A monte del dialogo scritto c’è, beninteso,

un dialogo parlato e “vivente”, quello fra Socrate e Teeteto, che si suppone

accaduto trent’anni prima, e che Euclide non può riferire a viva voce (apo

stomatos), non avendovi assistito. Ma già udendo il primo racconto di So

crate egli aveva scritto appunti, hypomnemata; poi con calma aveva steso

tutto quel che ricordava, chiedendo via via a Socrate di colmare le lacune,

sicché alla fine «tutto il discorso era stato scritto» (Theaet. 143a). Ma non

è in questa forma, nella forma del racconto di Socrate, che il ragazzo leg

gerà il libro dove è depositato il dialogo (ormai divenuto, come di regola

in Platone, un dialogo dei morti). Euclide ha scelto di presentare Socrate

dialogante (diategomenon) con gli altri personaggi: ha cioè eliminato le

parti narrative e utilizzato il solo discorso diretto. Dopo questo complesso

percorso intermedio, la scrittura, originata dalla voce di Socrate, cede di

nuovo il posto a una voce, quella del ragazzo lettore (Theaet. ;43b-c).

Tecnicamente, non c’è dubbio che Euclide-Platone faccia qui riferimen

to esplicito al modello della scrittura teatrale, che è definito con gli stessi

termini nella Repubblica: «Quando si sopprimono le parole intercalate dal

poeta tra un discorso e l’altro e si lasciano i dialoghi [...] si ha la tragedia»

(Resp. III 394b)’9. Ma soprattutto teatrale è l’intera sequenza di genera

zione del dialogo: l’evento originario, il dialogo, situato in un passato non

lontano ma segnato nella sua chiusura dalla morte dei protagonisti; il rac

conto, ossia propriamente il “mito”; la composizione del dialogo scritto;

infine la messa in scena che si attua nella lettura, e riconsegna il dialogo alla

voce (il Teeteto produce anzi un effetto di “teatro nel teatro’ perché i due

protagonisti del primo dialogo, che si suppone parlato, Euclide e Terpsio

ne, sono poi gli spettatori del secondo, di cui Euclide è anche l’autore).


di

della

e

propria,

zz6 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “7

Che il dialogo si definisca nella dimensione teatrale, sia trasformando

i lettori in spettatori-ascoltatori, sia mirando a porsi come la “vera tra

gedia” capace di sostituire quelle della tradizione, è del resto detto più

volte dal vecchio Platone (Criti. io8b; Leg. vii 817b-c). Il suo rapporto

con la verità serve certamente a mettere il dialogo filosofico al riparo dalla

censura che colpisce le altre forme teatrali°. Ma non può nasconderne

altri due aspetti, che esso condivide con l’intera dimensione teatrale cui

appartiene. Il primo è la presenza ineliminabile, costitutiva, della scrittura

come registrazione (immaginaria), supporto, regola della voce dialogante.

Se è impossibile e illegittimo scrivere il manuale filosofico, sarà dunque al

contrario legittimo e possibile scrivere teatro filosofico, che può simulare,

cioè rappresentare, i modi della veritiera comunicazione tra anime. Certo

resta difficile capire come questo teatro possa sottrarsi alla censura psico

logica che la Repubblica muove alla tragedia: un dispositivo che cancella

l’autore, frantuma e pluralizza l’unità sia del narratore sia del soggetto

ascoltatore, inducendo incontrollabili dinamiche di identificazione (Resp.

III 395 ss.).

Il secondo aspetto dà invece conto della necessità, della ragione segreta

di questo teatro filosofico: secondo l’analisi del Gorgia, «nei teatri i poeti

fanno retorica [...] che ha per spettatore tutto il popolo» (Gorg 5ozc-d).

Dal teatro, la replica filosofica spera quindi di derivare efficacia retorica,

capacità persuasiva universale posta al servizio di un progetto di rifonda

zione della città’.

Tanto più che essa è in grado, a differenza della tragedia, di “mettere

sulla scena” lo spettatore che vuole convincere, di farne un protagonista

dell’azione rappresentando e controllando, quindi, non solo lo sforzo del

la persuasione, ma anche i progressivi effetti che esso determina sul suo

destinatario: il i libro della Repubblica è in questo senso il più spettacolare,

ma non certo l’unico esempio di convocazione di “tutto il popolo” sulla

scena del dialogo, di trasformazione del lettore/spettatore in personaggio

dell’azione scenica32.

Scrivere filosofia è necessario per rappresentare persuasivamente la filo

sofia e la sua pretesa al comando; scriverla nella forma del teatro è l’unico

modo possibile per coniugare il massimo di efficacia retorica, nel contesto

della “teatrocrazia” ateniese (Leg. iii 7oIa), con il massimo di negazione

di una presenza tanto inevitabile quanto imbarazzante come quella della

scrittura. L’ambiguità del ricorso platonico alla scrittura filosofica, pur nel

rifiuto esplicito — matrice socratica — possibilità di un libro filoso

fico, ripete dunque l’ambiguità della stessa esperienza teatrale. Questo

non risolve certo i problemi ermeneutici di cui si è detto, ma propone for

se una dimensione diversa per ripensarli.

In ogni caso, l’ironico gioco di specchi tra voce e testo offre a Platone

una via d’uscita per poter scrivere ciò che non si dovrebbe scrivere. Ma la

questione si pone in modo ancora più acuto intorno a un problema decisi

vo come quello della scrittura delle leggi.

Scrivere le leggi?

La biblioteca della città colloca, nel suo posto d’onore, un genere parti

colare di scrittura, quella delle leggi e dei decreti. Gli stessi uomini più

potenti e illustri nelle poteis, che si vergognano di comporre e di lasciare

discorsi scritti perché temono di esser scambiati per sofisti, cioè per autori

e venditori di discorsi per conto d’altri, amano però questa particolare

forma di logografia: i loro syngrammata consistono appunto nelle leggi,

una scrittura in virtù della quale figure come Licurgo, Solone, Dario han

no ottenuto onore eterno (Phaedr. 157d-2.58c). La diffusa approvazione

sociale per la scrittura legislativa, il syngramma potitikon, non la sottrae

tuttavia alla critica del Fedro: essa non possiede né stabilità (bebaiotes) né

certezza (sapheneia), ed è piuttosto motivo di vergogna per il suo autore

perché ha i contorni vaghi del sogno laddove, intorno alle questioni del

giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, occorrerebbe il rigore della veri

tà dialettica (z77d-178a).

È compito del Politico la ripresa e l’approfondimento di questa critica

alla scrittura delle leggi. Ci sono due tipi di legislazione: quella orale, basa

ta sulle tradizioni dei padri — come sappiamo dalle Leggi, dei pri

mitivi e dei barbari — quella costituita da leggi scritte. Rigide, inadattabili

al mutare delle situazioni, ostili per la loro stessa natura a ogni mutamento

verso il meglio, queste ultime sono tali da determinare la sclerosi della vita

sociale, la distruzione delle technai, la paralisi del progresso (PoI. 296a ss.).

Esse sono, al più, un sostituto, un rimedio per l’assenza del vero politico

e legislatore: proprio come un medico, partendo, può lasciare ai pazienti

un promemoria scritto della terapia da seguire, ma appena tornato lo ab

bandona e si adatta alla nuova situazione (195c ss.). La legge scritta non

è che imitazione della verità, laddove, in presenza della techne regia, del

dialettico re, il mimema perde ogni senso e deve lasciar spazio alla piena


su

12.8 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH 12.9

verità della politica, capace di governare le situazioni sempre mutevoli in

rapporto a uno stabile possesso della episteme (300c-e).

C’è tuttavia, nel Politico, una importante concessione rispetto alla rigi

da critica del fedro. Nell’assenza, o nell’attesa, del vero re e della sua scien

za, il meglio è che ogni potiteta si attenga a un rigoroso rispetto della legge

scritta, che può almeno preservarla dall’arbitrio tirannico. Lo spazio della

legge scritta si estende tra il potere del re-filosofo e quello del tiranno, che

ne costituisce la contraffazione (PoI. 300e-3oIc).

Un ulteriore passo in questa direzione è compiuto nel dialogo sulle

Leggi, dove Platone sembra per certi aspetti compiere una confutazione

precisa e puntuale delle tesi estreme del fedro. Le leggi sono i migliori e i

più belli di tutti igrammata esistenti nelle città. Essi dovranno apparire ai

cittadini come padri e madri amorose (è appena il caso di notare che men

tre nel fedro la scrittura aveva bisogno di un padre, qui è padre essa stessa),

non come un tiranno che affigga ai muri i suoi editti dispotici; e per questo

dovranno esser precedute da ampi proemi che persuadano i cittadini e li

educhino all’obbedienza (Leg. ix 858c La funzione delle tradizioni

orali e patrie è qui ridotta a quella di tessuto connettivo, di avvolgimento

protettivo a garanzia del corpus delle leggi vere e proprie, che devono esse

re scritte (vii 793a-b). Le disposizioni scritte delle leggi, in grado in ogni

tempo di dar conto (etenchos) di sé, godono di una stabilità totale (pantos

eremei) (x 891a): anche qui non è difficile misurare la distanza dal fedro,

dove la scrittura, muta e incapace di difendersi, mancava precisamente di

stabilità e certezza. Ma c’è di più: igrammata del legislatore saranno una

sicura pietra di paragone (basanos sapbes) di tutti gli altri discorsi; i giudici

dovranno conservarli in sé come antidoto, alexiha?7nakon, che li proteg

ga dal rumoreggiare delle voci della città (XII 957d).

La scrittura della legge, rifiutata nel fedro, appena tollerata nel Politico

come rimedio all’assenza del re, trionfa dunque nell’ultimo Platone come

regola fondamentale della vita della città, come canone di ogni possibile

discorso. E la città delle Leggi è affollata di scrittura: si scrivono, oltre alle

leggi e ai loro proemi, le tavolette per l’elezione dei magistrati (v 753c), le

loro eventuali condanne (VI 755a), i titoli di proprietà della terra — me

moria scritta per il futuro — (V 741c), i testamenti (xi 913c). È notevole

che la scrittura accompagni nelle Leggi proprio momenti della vita sociale

ignorati o banditi dalla Repubblica, come i meccanismi elettorali e soprat

tutto la proprietà patrimoniale dell’oikos. Ma è ancora più notevole che

questa scrittura delle Leggi può consumare i suoi fasti soltanto al prezzo di

un ritorno alle sue originarie modalità “egizie”• è scrittura del potere e del

sacerdozio, conservata sugli altari e nei templi (741c, 753c, 856a).

Platone sembra dunque recuperare, da ultimo, una piena legittimità

sociale della scrittura ma con una serie di condizioni pesanti, che la se

questrano alla libera circolazione culturale: il controllo della sua produ

zione, affidato al legislatore, dei suoi contenuti, che dovranno consistere

nel comando, nella norma e nell’educazione all’obbedienza, infine degli

spazi della sua pubblicazione. Questa scrittura normalizzata e normativa

pare destinata a riassorbire, nelle Leggi, anche l’ambiguo teatro filosofico,

e costituire essa stessa la “vera tragedia”37. Quanto agli altri libri, che non

possono venir banditi come quelli degli atei — cioè i promemoria delle

arti, le compilazioni poetiche e così via —, di essi pesano la diffidenza

del legislatore, il discredito che colpisce gli autori, l’incertezza della pub

blicazione e della diffusione (basta ricordare il libro “rubato” a Zenone,

quello di Lisia che Fedro nasconde sotto il mantello, l’esecrabile manuale

del tiranno Dionisio).

Ma una valutazione complessiva della presenza e delle dinamiche della

scrittura in Platone non può certamente fermarsi alle Leggi, e alla loro ri

gida codificazione della parola scritta.

Il sistema vicariante

L’analisi fin qui condotta consente, secondo un piano di lettura trasversale

al testo platonico, di ricomporre elementi diversi in un profilo sistematico

del luogo e delle funzioni della scrittura. Un sistema di prossimità e diffe

renze, articolato in una lunga serie di coppie solo in apparenza polari.

Gramma/stoicheion: la lettera non è l’elemento, ma pure la scrittura al

fabetica costituisce il modello del sapere degli elementi.

Scrittura/matematica: un sapere basso e uno alto, che hanno tuttavia la

stessa origine e la stessa forma combinatoria.

Gramma/phone: dove il primato appartiene alla voce, al “discorso vi

vente’ che però tocca alla capacità analitica della scrittura di articolare e

trasformare in “Iingua”

Scrittura/filosofia: il libro filosofico non può esistere ma a sua volta il

discorso della filosofia non può che essere trascritto.

Scrittura/legge: la vera legge è la viva voce del vero re, ma nel suo silen

zio occorre scrivere le leggi.


legate,

a

2.30 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH

2.31

Scrittura/memoria: la scrittura danneggia la memoria individuale n-

al tempo stesso produce e conserva quella sociale.

Scrittura/anima: la scrittura si colloca all’opposto dell’anima, che tut

tavia può esser metaforizzata come un libro scritto da quel grammateus

interiore che sono la nostra memoria e le nostre sensazioni (Phit. 38e-39a)

Sembra dunque che la scrittura tenda punto a punto a riempire gli spazi

lasciati (provvisoriamente?) liberi dall’assenza del vero sapere, della vera

memoria, della vera voce, del vero re. Un sistema provvisorio e vicarian

te, un’ombra, o meglio un “doppio’ del quale va tenuta sotto controllo la

pretesa di sostituire definitivamente l’altra polarità, alta e solare. Recipro

camente, sono l’assenza, il sempre rinviato avvento di quest’altra polarità

a segnare il carattere precario, limitato, umbratile della dimensione della

scrittura, tuttavia insostituibile (proprio come, nella Repubblica, la distan

za siderale dell’idea del bene rendeva insieme provvisorio e indispensabile

il lavoro della dialettica, le sue metafore, i suoi miti). Nell’attesa della tra

sparenza del nome, dell’illuminazione dell’anima, dell’ascesa al potere del

re filosofico, la dimensione della scrittura genera paradigmi di conoscenza,

progetti di sapere, forme di coesione politica, oggetti intellettuali.

Platone elabora una irripetibile fusione di arcaismo e profezia di un

nuovo mondo. Dal punto di vista storico, tuttavia, egli non sfugge a una

collocazione precisa: la sua interrogazione sulla scrittura, la sua pratica di

trascrizione delle parole dei morti (ma di morti recenti, come quasi tutti i

personaggi dei dialoghi), si colloca sul sottile crinale tra due epoche, quella

di Socrate e quella di Aristotele — rispettivamente, al privilegio della

parola e a quello del testo. Un breve intervallo, una condensazione di pos

sibilità aperte: destinate a costituire un miraggio ricorrente per la filosofia,

ma un punto di svolta irreversibile per la storia culturale della scrittura in

Occidente. E anche a consolidare un carattere specifico dell’antico: quello

di essere una civiltà permeata di scrittura che non è tuttavia mai stata una

civiltà del Libro e neppure dei libri’.

Note

i. E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà detta scrittura. Da Omero a Platone (1963),

trad. it. Roma-Bari I983. Per una messa a punto delle discussioni suscitate da

quest’opera cfr. G. Cern, Ilpassaggio dalla cultura orale atta cultura di comunicazione

scritta nell’età di Platone, in “Quaderni Urbinati”, 8, 1969, pp. 119-33.

.. Basti qui rinviare all’ampio bilancio di questa tendenza interpretativa tracciato

da H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti delta metafisica, Milano 1982 (sul quale cfr.

M. Isnardi Parente, Recensione, in “Gnomon”, 1985,

, pp. 120-7). Cfr. ora anche

G. Reale, Platone, Milano 1986. Più problematico e sfumato K. Gaiser, Platone come

scrittorefitosofico. Saggi sutt’ermeneutica dei dialoghiplatonici, Napoli 1984. Molti sag

gi rilevanti di questa tendenza sono raccolti in I. Wippern (Hrsg.), Das Probtem der

ungeschriebenen Lehre Ptatons, Darmstadt 1972. Un quadro dei presupposti culturali

di questa posizione in F. franco Repellini, Gli agrapha dogmata di Platone: la loro

recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme’ I, 1973, pp. 51-84.

Per un bilancio complessivo, cfr. qui CAP.I.

3. Questa analisi si basa in effetti su uno spoglio globale dei passi di Platone relativi

ai diversi aspetti di scrittura e lettura, e i luoghi citati possono costituirne un indice

pressoché completo. È rilevante avvertire che si è considerata autentica la Lettera vii

(per questa opzione basterà qui rinviare a M. Isnardi Parente, filosofia e politica nette

lettere di Platone, Napoli 1970). Occorre anche avvertire che il taglio di lettura segui

to comporta inevitabilmente l’isolamento della scrittura dalle sequenze metafoniche

in cui essa è inserita, e che includono molto spesso l’aritmetica, la musica e altre forme

di apprendimento “elementare”.

4. Quel «certo [tis] Prometeo» di cui parla il filebo (i6c) non è l’inventore della

scrittura ma dell’analisi dei rapporti fra uno e molteplice. Anche in questo dialogo

l’invenzione delle lettere dell’alfabeto è attribuita — secondo «una leggenda egiziana»

— Theuth, o,più vagamente, a «un dio o un uomo divino» (isb). Sulle origini

egiziane della leggenda cfr. R. Eisler, Ptaton und das àgyptische Alpha bet, in “Archiv

ftir Geschichte der Philosophie’ 27, 1912, pp. 3-13.

Primi storici, i sacerdoti egiziani sono anche i primi traduttori. Attraverso la ritra

.

duzione di Solone, i loro grammata avrebbero raggiunto i Crizia (nonno e nipote),

quindi lo stesso ambiente familiare di Platone (Criti., I,3a-b). La scrittura egizia si

fa qui il veicolo della continuità di una storia di casta che salda la remota antichità

dell’Atene dei tempi di Atlantide con il legislatore e il tiranno dell’Atene storica e

con il filosofo che ne progetta la rifondazione. Cfr. in proposito L. Brisson, Platon, tes

mots et tes mythes, Paris 1982, pp. 32-49.

6. Anche gli Egiziani sono infatti barbari: cfr. Resp. IV 435 5.

La prima serie è costruita naturalmente in analogia alla seconda, quale risulta dal

.

libro vi della Repubblica.

8. In quanto sapere specialistico, si può essere agathoi (Prot. 345a) oppure phautoi

(Phaedr. z4zc) nella scrittura; è rilevante ad esempio la rapidità nello scrivere igram

mata (Charm. 159c). A un livello superiore, è da supporre che l’insegnamento della

scrittura si integrasse con quello “metrico”: Ippia è definito maestro della dynamis

dei grammata, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie (Hzpp. mai. z85d). È il caso di

sottolineare, a proposito del passo del Teeteto e altri simili, che gramma oscilla in Pla

tone tra un significato grafico e uno fonetico: cfr. D. Gallop, Plato and the Atphabet,

in “Philosophical Review”, 72, 1963, pp. 3 64-76, che replica a G. Ryle, Letters and

Syllables in Ptato, in “Philosophical Review”, 69, 1960, pp. 431-51.

Sulla condizione sociale del grammatistes, cfr. M. A. Manacorda, Scuola e inse

.


2.32

IL POTERE DELLA VERITÀ

NELL’OMBRA DI THEUTH

2.33

gnanti, in M. Vegetti (a cura di), Oratità scrittura spettacolo, Torino 1983. Per il valore

filosofico in Platone di questa figura, cfr. H. Joly, Platon entre te maitre d’écote et Ief

briquant de mots. Remarques sur lesgrimmata, in Philosophie du langage etgrammaire

dans t’antiquité, Bruxelles 1986, pp. 105-36.

io. Sulla questione del rapporto fra gramma e stoicheton è fondamentale W. Schwa

be, ‘Mischung” und “Etement” im griechischen bis Ptaton, in “Archiv fUr Begriffge

schichte”, Supplementheft 3, 1980, pp. 83, ii6 ss. Cfr. anche T. A. Druart, La stoichéio

logie dePtaton, in “Revue Philosophique de Louvain”, 1975, pp. 143-62..

il paradosso è riecheggiato in Theaet. 198e.

i;. Sulla questione cfr. Schwabe, ‘liischung” und “Element”, cit., pp. 151 ss. Per un

avvicinamento della teoria allo stesso Platone propende M. Burnyeat, The ÌVlaterjal

andSources offlato’sDream, in “Phronesis”, 15, 1970, pp. 1cl-i;.

13. Una classificazione dei grammata secondo il suono (consonanti sonore, conso

nanti afone, vocali) in Theaet. ;o3b; cfr. Phil. ;8b.

14. Per lo sfondo scrittorio di questo problema, cfr. le ricerche sulla scrittura attica di

R. Herder, Die Meisterung der Schrft durch die Griechen (i;), in G. Pfhol (Hrsg.),

DasAlphabet, Darmstadt 1968, pp. 169-9; («Jeder Buchstabe steht als Individuum

fur sich, die Atomisierung ist bis zu letzter Abstraktheit getrieben, die Einheit des

Ganzen beruht nur noch in dem Koordinatentennetz des System», p. z8i); anche

Rottenschrft, in ivi, pp. 311-80 (in particolare pp. 379-80).

i. Le considerazioni che seguono devono molto al contributo presentato al collo

quio sulla scrittura (Parigi 1988) da Gian Arturo Ferrari.

i6. Nell’ambito della vasta bibliografia sul Cratito, occorre rinviare almeno ai saggi

fondamentali: V. Goldschmidt, Essai sur te Cratyle, Paris 1940; A. Pagliaro, Nuovi

saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956; M. Buccellato, Linguaggio e socie

tu alle origini del pensiero greco, in “Rivista critica di storia della filosofia’ 16, 1961,

3J3. 159-77; K. Lorenz, J. Mittelstrass, On RationalPhilosophy ofLanguage: The Pro

gramme in Plato’s Cratylus Reconsidered, in “Mmd”, 75, 1966, pp. i-;; R. Robinson,

Essays in Greek Philosophy, Oxford 1969; J. Derbolav, Platons Sprachphilosophie im

Kratylos und in den spàteren Schrften, Darmstadt 197;; C. H. Kahn, Language and

Ontology in the Cratylus, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exe

gesis and Argument, Assen 1973, pp. 151-76; K. Gaiser, Name und Sache in Platons

Kratylos, Heidelberg 1974; G. Genette, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris 1976;

e i saggi di M. Schofield, B. Williams,J. Annas, in M. Schofield, M. Nussbaum (eds.),

LanguageandLogos, Cambridge 1981, rispettivamente pp. 6i-8i, 83-9 3, 95-114.

17. Cfr. in proposito Schwabe, ‘Mischung” und “Element”, cit., pp. 114 Ss.

i8. Sulla natura “grafica” degli atomi democritei cfr. H. Wismann, Réalité et mature

dans latomisme démocritéen, e G. A. Ferrari, La scritturafine della realttì, in F. Roma

no (a cura di), Democrito e l’atomismo antico, Catania 1980, rispettivamente pp. 6 1-74

e 75-90.

19. Cfr. in proposito analisi e bibliografia di W. Leszl, Linguaggio e discorso, in M. Vegetti

(a cura di), Il sapere degli antichi, Torino 1985, pp. 13-44.

lo. Sulle dimensioni storico-culturali del fenomeno basta qui rinviare a E. G. Tur

ner, Ilibri netl4tene del ve iv secolo a.C. (195;), trad. it. in G. Cavallo (a cura di),

Libri, editori epubblico nel mondo antico, Roma-Bari 1975, pp. s-;; D. Lanza, Lingua

e discorso nell4tene delle professioni, Roma-Bari 1975, pp. 52-87; per la filosofia H.

Cherniss, Ancient forms ofPhilosophic Discourse, in Id., Setected Papers, Leiden 1977,

pp. 14-3; cfr. ancheJ. Goody, I. Watt, The Consequencies ofLiteracy, inJ. Goody (ed.),

Literacy in Traditional Societies, Cambridge 196$, pp. 2.7-68, in particolare pp. 49

Cfr. da ultimo M. Erler, Platons Schrftkritik im historischen Kontext, in “Altsprachli

cher Unterricht”, 2.8,4, 1985, pp. 17-41; G. F. Nieddu, Testo, scrittura, libro nella Grecia

arcaica e classica: note e osservazioni sullaprosa scientfrco-filosofica, in “Scrittura e civil

tà”, 8, 1984, pp. 113-61, in particolare per Zenone e Anassagora pp. 249 SS.

Anche se non esplicitamente nominata, la scrittura è probabilmente responsabile

di quella volgarizzazione (anaphandon) delle dottrine filosofiche sul movimento, un

tempo celate dagli antichi sptto il velo della poesia, che i moderni sapienti mettono a

disposizione anche dei calzolai (Theaet. i8od).

i;. Cfr. in questo senso Herder,DieZvleisterung, cit.,p. 2.91.

23. La controversia del iv secolo sul carattere orale o scritto della retorica costitui

sce certamente uno degli sfondi della riflessione platonica: cfr. P. Friedlànder, Plato

(191$), trad. ingl. New York 1958, voi. ,, pp. III Ss.; 5. Gastaldi, La retorica del wsecolo

tra oralita e scrittura, in “Quaderni di storia”, 14, 1981, pp. 189-116.

2.4. Sul problema si possono consultare le equilibrate considerazioni di H. Joly,

Le renversementplatonicien. Logos, episteme, polis, Paris 1974, pp. xii ss. Cfr. anche

J. Derrida, Lapharmacie dePlaton, in Id., La dissemination, Paris 197;; dilettantesche

le osservazioni di J. M. Charrue, Lecture et écriture dans la civilisation hellénique, in

“Revue de Synthèse”, 83-84, 1976, pp. 119-49; su Platone 131 ss.

;. Sull’incapacità del libro di «interrogare e rispondere», sulla sua costrizione a

«ripetere sempre la stessa cosa», cfr., oltre a Phaedr. z75d, Prot. 3292..

z6. Esemplare in questo senso la posizione recente di W. Wieland, Ptaton und die

formen des Wissens, Gòttingen 19$;, pp. 13 55., 53 55.

27. Mi sembrano ancora valide, in questo senso, le osservazioni di H. Cherniss, The

Riddle oftheEarlyAcademy, New York 1961, p. ii. Secondo Gaiser, Name undSache,

cit., pp. 47-8, principi basilari secondo Platone non sono «del tutto ineffabili. Essi

si possono anzi formulare molto bene verbalmente»: a quanto pare, questo è riusci

to molto meglio alla scuola di Thbingen che allo stesso Platone. Che ci sia qualcosa

che «non può esser trasmesso dalle parole», che non si possa eliminare il «sudden

flash of insight», è concesso anche da T. A. Szlezàk, The Acquiring ofPhilosophical

Knowledge According to Plato’s Seventh Letter, in G. W. Bowersock, W. Burkert, M.

C. J. Putnam (eds.), Arktouros. Hellenic Studies presented to 3. MKnox, Berlin

pp. 354-63, p. 363. È certo, piuttosto, che la soglia dell’ineffabilità viene costantemen

te messa alla prova dal lavoro (anzi, dalla “battaglia”, cfr. Resp. VII 534c) del discorso

dialettico, che ritesse continuamente la sua proposta di senso in attesa, o in luogo,

della visione ultimativa del fondamento.

;$. Come la scrittura è eidolon del logos vivente (Phaedr. 2762.), così il dialogo lo è del

la verità stessa (cfr. ad es. Resp. vii 5332.). Scrittura e dialogo stanno dunque rispetto a


2.34 IL POTERE DELLA VERITÀ

. NELL’OMBRA DI THEUTH ‘35

voce e verità nella posizione dell’eidoton di Elena a Troia, secondo la versione stesjco

rea del mito valorizzata dallo stesso Platone (Resp. Ix 86c). Come la guerra di Troia,

il lavoro filosofico sembra dunque svolgersi attorno al simulacro di ciò che è assente.

Il discorso può assumere una curvatura imprevista se si suppone, come fa E. A. Have

lock, Dike. La nascita detta coscienza (1978), trad. it. Roma-Bari 1981, che il primato

della visione sia un « riflesso della crescente, per quanto inconscia preponderanza del

la parola scritta su quella parlata, della parola vista su quella ascoltata» (pp. 405-6).

L’estremo inferiore della scala determinerebbe così quello superiore. Ma è possibile

attribuire proprio a Platone una tale inconsapevolezza di fronte alla scrittura?

29. Un’analisi delle parti narrative dei dialoghi può dimostrare che in molti casi esse

forniscono all’ascoltatore/spettatore informazioni di tipo “scenico” (cfr. J. Andrieu,

Le diatogue antique, Paris 1954, pp. 306-7, 3,8-9). Su Platone scrittore di tragedie è

appena il caso di ricordare il famoso aneddoto di Diogene Laerzio, 3.5; secondo Tra

sub, Platone avrebbe inoltre pubblicato i dialoghi per tetralogie al modo dei tragici

(DL 3.50). La teatralità dei dialoghi non andrà comunque pensata nel senso che la

loro “pubblicazione” (un problema ancora aperto) avvenisse mediante la recitazione

ai Giochi, con Platone nella parte di Socrate, secondo l’improbabile tesi di G. Ryle,

Ptato’s Progress, Cambridge 1966, pp. 21-54.

30. Cfr. su questo le ampie (ma non del tutto convincenti) osservazioni dij. Labor

derie, Le diatogueptatonicien de la maturité, Paris 1978, pp. 9, ss. (in particolare sul

Teeteto, pp. 395 ss.).

31. Su questi temi occorre rinviare ad alcuni scritti in qualche modo “classici”: R.

Hirzel, Der Diatog, i, Leipzig 1895 (che definisce la forma drammaturgica di Plato

ne «ein Tribut an den herrschenden Zeitgeist», p. zo); Friedlànder, Plato, cit., i,

pp.

121 Ss.; H. G. Gadamer, Platone e i poeti trad. it. in Id., Studi platonici i,

Casale Monferrato 1983, pp. i8-zi; H. Kuhn, The True Tragedy: On the Retationshtp

between Greek Tragedy and Ptato, in “Harvard Studies in Classical Phibology”, sa,

1941, pp. 1-40; 53, 1942,

pp. 37-8 8. Cfr. anche Havelock, Dike, cit., pp. 401 Ss.; e, sul

carattere tragikos del libro viii della Repubblica (545d), ‘W. Janke, Atethestdte tragodia,

in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, 47, 1965, pp. zi-6o. Cfr. da ultimo M. C.

Nussbaum, The fragitity of Goodness, Cambridge 1986 (Plato’s Anti-Tragic Theater,

pJ. 122-35).

32.. Sul tema nietszcheano dello “spettatore sulla scena” in Euripide, cfr. D. Lanza, Lo

spettatore sulla scena, in D. Lanza et al., L’ideologia delta citt,i, Napoli 1977, pp. 57-78;

sulla “messa in scena” della Repubblica cfr. J. Laborderie, Le dialogue platonicien,

pp. 402 Ss.; più in generale sulla città nei dialoghi, P. Vidal-Naquet, La sociétéplato

nicienne des dialogues, in Aux ortgines de t’hellénisme. Hommage ì H. Van Efenterre,

Paris 1984, pp. 273-93. Giuste in questo senso (anche senza che sia necessario accettare

ipotesi “esoteriche”) le osservazioni di T. A. Szlezalc, Dialogform und Esoterik, in “Mu

seum Helveticum”, I, 1978, pp. 18-32: l’autore Platone si addossa anche la responsabilità

dell’interpretazione del suo testo, secondo una modalità arcaica che quest’epoca di cri

nale fra privilegio dell’oralità e dominio della scrittura tende a rendere anacronistica.

3. Cfr. su questo l’importante saggio di Ch. Segal, Tragédie, oratité, écriture, in

“Poétique”, 50, 1982, pp. 131-54.

La traccia che le leggi offrono alla vita della città è paragonata nel Protagora

(3z6d) a quella che i maestri incidono con lo stilo sulla tavoletta per insegnare la scrit

tura ai ragazzi: un’ulteriore connessione metaforica tra legge e scrittura.

il disprezzo della logografia, per il suo aspetto mercenario, è certamente diffu

so nella società ateniese fra v e IV secolo. Platone lo generalizza in un rifiuto della

scrittura politica, che rappresenta tuttavia un problema più complesso: se Pericle non

scrive discorsi, scrivono tuttavia oligarchi come Ctizia e l’autore della Costituzione

degli ateniesi.

36. Platone riformula qui senza dubbio un’esperienza ateniese: i lunghi decreti del

v e IV secolo sono preceduti da un’ampia sintesi del discorso del proponente. Sulla

funzione dei proemi alle leggi, cfr. 5. Gastaldi, Legge e retorica. Iproemi dette “Leggi”

di Platone, in “Quaderni di storia”, 20, 1984, pp. 6 9-109.

37. C’è qui (Leg. VII 8i ie) l’ansia tutta pedagogica di «non lasciar fuggire » il discor

so filosofico sulle leggi, di consegnarbo al circuito della scrittura educativa, quasi che

l’assenza (del maestro-Socrate, della verità, del re legislatore) non sia più sopportabi

le. Prescrive Platone che i nomophylakes e i paideutai, se si imbattono in discorsi non

scritti come quelli messi in scena nelle Leggi, «non se li lascino sfuggire in nessun

modo ma li scrivano [me methienai (...) grophesthai de] » e obblighino i didaskatoi

a impararli e a insegnarli. Cfr, in proposito Gaiser, Name und Sache, cit., pp. 107 SS.

38. Cfr. in questo senso le importanti osservazioni diJ.-P, Vernant, Divinazione e ra

zionatitì (i,7), trad. it. Torino 1982, pp. 15 Ss.


Io

Glaucone e i misteri della dialettica*

L’intervento di Glaucone nel libro VII della Repubblica (532cl-e) svolge,

come spesso accade nel dialogo, un ruolo strategico in rapporto al suo svi

luppo teorico. Glaucone ha ascoltato da Socrate le sue indicazioni sulla

dialettica, e in particolare la stretta connessione con il “buono”, che le asse

gna come ambito specifico il “luogo” più elevato del campo noctico-ideale.

Egli apre il suo intervento rilevando la persistente mancanza di homotogia,

di consenso dialogico sulle argomentazioni di Socrate: «mi paiono cose

estremamente difficili ad ammettersi» (53zd3: cù.rir& v &roxtect),

benché ne ammetta d’altro canto la persuasività («difficili a non ammet

tersi»). Questa assenza di homotogia impone, secondo Glaucone, la ne

cessità di un rinvio a ulteriori e ripetute discussioni, che possano eventual

mente condurre a un più solido livello di consenso: «non se ne deve sentir

parlare solo in questa occasione [53id4 5.: i-v tci trv Trapàvtt]’ ma occorrerà

tornarvi sopra più volte». Per il momento, Glaucone è disposto ad accet

tare le tesi socratiche solo a titolo di ipotesi (53zd6: TcLiiTc 8vrt itrv

-v&v )kyrrai). Ma per sviluppare la discussione, e andar oltre le rapsodiche

indicazioni socratiche sui caratteri, i compiti e i privilegi della dialettica,

Glaucone ha una richiesta precisa da fare, che egli formula con il rigore

concettuale che gli è consueto. Ci siamo finora limitati al “proemio” del

discorso, egli sostiene, e occorre ora entrare nel vero e proprio nomos della

dialettica (53zd6 s.): la metafora musicale rinvia al pieno dispiegamento

argomentativo dell’analisi, alla saturazione metodica dello spazio teorico

che Socrate ha dischiuso.

Glaucone esige dunque che Socrate illustri, a proposito della dynamis

dialettica: a) quale ne sia la modalità specifica (il tropos); b) in quali forme

(eide) si distingua; c) quali ne siano le procedure (bodoi: 531d$-eI). Ciò che

Questo capitolo è già stato pubblicato in f. L. Lisi (ed.), The Ascent to the Good,

Academia Verlag Gmbh, Sankt Augustin 2007.


— destinato

— al

un

si

23$ IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 239

viene richiesto, dunque, è una definizione formale, teoricamente compiu

ta, del metodo dialettico, che ne chiarisca lo statuto epistemologico, allo

stesso modo in cui nel libro VI Adimanto aveva domandato una defini

zione concettualmente precisa dell’idea del buono; anche in questo caso,

l’esigenza di Glaucone è determinata dalla novità della proposta socratica,

e dalla conseguente incertezza dei suoi contenuti, che rendono impossibile

la concessione di un immediato consenso da parte degli interlocutori.

La risposta di Socrate risulta in questo caso (assai più che nella discus

sione sui “buono”) sorprendente per la sua reticenza che assume un tono

quasi aggressivo nel contesto dialogico. Mentre nel caso del “buono” So

crate aveva tentato di evitare una risposta a Glaucone adducendo la propria

inadeguatezza, egli ora addebita in primo luogo questa inadeguatezza pro

prio al suo interlocutore: «non sarai più [...} in grado di seguirmi (015K -r’

[...] oto r’io &Ko)ouOttv), per quanto io non trascurerà certo ogni sforzo

[prothymia]» (VII 533I s.). Nella discussione sull’idea del buono, lo sfor

zo, laprothymia, erano quelli che Socrate si dichiarava disposto a impegna

re nella ricerca, per quanto la sua incapacità (o15 olo r’iooat) rischiasse

di esporlo al ridicolo (VI 5o6d7 s.). Ora invece questo sforzo non è quello

del ricercatore incerto, bensì quello del maestro che ha di fronte un allie

vo inadeguato: una situazione invero assai poco “socratica”, che rovescia

quella in cui Socrate si era trovato di fronte a Diotima nel Simposio. Qui

era la sacerdotessa a temere l’incapacità di Socrate (015K ot’tL oio r’iv Eiv,

zioaz) a seguirla sulla via dell’iniziazione ai misteri dell’eros, nonostante

fosse disposta a impegnarsi con tutta la suaprothymia.

Ma Socrate attenua immediatamente questa posizione “magistrale’

questa violenza dialogica nei confronti del suo interlocutore, introducen

do una seconda ragione della sua reticenza, che questa volta, in modo più

consueto, riguarda la natura stessa del suo sapere: «non scorgeresti più

un’immagine di ciò di cui parliamo, ma la verità stessa [&vtà tà &)O],

almeno come essa mi appare [ -yt & ot ccdvt-ri]. Se è realmente così op

pure no, non è ora il caso di affermarlo recisamente [diischyrizesthai] »

(VII 5333 s.). La condizione del sapere socratico sulla dialettica è dunque

quella stessa, doxastica, che caratterizzava anche le sue vedute sul “buo

no” (T& oIcofrvrc, VI 509c3). Questo può spiegare il tono aggressivo ini

zialmente adottato da Socrate nei riguardi di Glaucone: la sua richiesta è

“impertinente” perché eccede i limiti del contesto dialogico già chiariti in

quella occasione.

Glaucone risulta dunque probabilmente incapace di seguire Socrate su

una via che questi è sì in grado di indicare, ma non di percorrere con il ri

gore epistemico richiesto dalla domanda strategica intorno ai metodi, agli

eide e al tropos della dialettica. Ma perché questa doppia inadeguatezza?

Una compiuta risposta alla domanda di Glaucone appare formulata nel

fedro, senza che la forma della scrittura in quanto tale imponga di per sé

alcuna reticenza. Da un punto di vista “tecnico”, la dynamis dei discorsi

presenta due eide, quelli delle divisioni e delle sintesi (tcv ttpo-tc Kcd

ou’iccyorycsv, ;65c9, z66b4): «qualora io ritenga qualcun altro capace di

indirizzare lo sguardo verso un’unità che sia anche per natura divisibile in

molteplicità, questo io seguo [...] E proprio quelli che sono capaci di fare

ciò, li denomino, e se l’espressione è corretta o no lo sa dio, li chiamo, fino

ad oggi, dialettici» (z66b).

Ricorrere a un diverso contesto dialogico per rispondere a una doman

da formulata nella Repubblica può apparire scorretto, e in effetti lo sarebbe

se anche nel nostro dialogo non fosse chiaramente accennata una conce

zione della dialettica simile a quella più ampiamente sviluppata nel fedro.

In un passo che precede la problematica comparsa dell’idea del buono, il

diategesthai autentico è distinto dall’argomentazione eristica per la sua ca

pacità metodica di operare divisioni, diareseis (V 454a6: r6 [...] t315coOu..t

1cccr’si& tctpo152E-vot tà ).r 6iti,oii 7rtoIco7rE.iv). Una concezione della dia

lettica come tecnica diairetica è dunque già presente nella Repubblica, e an

che il suo secondo eidos, quello sintetico, è in qualche misura implicato dal

carattere sinottico (synopsis, VII 537Cl s.) che le viene assegnato nel dialogo.

Perché dunque Socrate non si inoltra su questo terreno rassicurante

a essere esplorato in forme solidamente epistemiclie nel So

fista — e preferisce arroccarsi in una reticenza attribuita all’inadeguatez

za dapprima riferita aggressivamente a Glaucone e poi anche alle proprie

convinzioni? La risposta a questa domanda non può che rinviare alla pe

culiare architettura teorica della Repubblica. Il sapere dialettico intrattiene

qui — a differenza che in altri dialoghi, come appunto il fedro e il Sofi

sta — rapporto costitutivo con quella enigmatica idea del buono, che ne

costituisce il tetos, l’oggetto privilegiato e al tempo stesso la ragion d’essere

in quanto sapete destinato e legittimato al potere. Se il “buono” è il fonda

mento della supremazia della dialettica, il suo ambiguo statuto ontologico

limite dell’essere e al di là della ousia noetico-ideale — riverbera sullo

statuto epistemologico della dialettica stessa, assicurandone la supremazia

come “fastigio” dell’edificio delle scienze e insieme rendendo incerto il suo

profilo metodico.


benché appaia del tutto ragionevole, risulta a sua volta eccedente rispetto

ai limiti che già la discussione sul “buono” aveva nettamente indicato. Pri

ma ancora che Glaucone la formulasse, Socrate aveva sostenuto che nella

canto che la dialettica esegue» (532a1 5.: OTO &9 cirr6 oriv 6 &v rà

dunque nella Repubblica

la sua discorsività “proemiale”, con l’istanza criti

esigenze di Glaucone —

ne nega

etenchos “socratico” —

te “positiva”: non si tratterà in questo caso di un vero e proprio logos tes

(Resp. VII 534b9: top(ovwOcu rc )6y). Questa operazione non significa

ne della sua ineffabilità ma nella sua “delimitazione” nel discorso razionale

propriamente una “definizione” nel senso aristotelico, bensì appunto in

una delimitazione rispetto alle altre idee, che da un lato nega la possibi

lità di identificazioni del tipo “il buono è la giustizia, la verità” e così via,

dall’altro, e di conseguenza, apre la via a una sua descrizione razionalmen

l’identificabilità senza residui con qualsiasi stato dell’essere, sottolinean

Glaucone e Adimanto. Nel libro IV si perviene a una descrizione, a un

Z40 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 2.41

lagos, dell’essenza (ousia) della giustizia (dikaiosyne) oggetto della ricerca,

In altri termini, l’eccedenza della dialettica fa sì che l’insieme delle episte

mai e delle technai, benché riformate e rifondate, non costituisca altro che

un “proemio”, un preludio al “canto”, al nomos che la dialettica deve final

mente eseguire (53id8). Ma la richiesta di Glaucone, di passare finalmente

all’esecuzione di questo nomos dopo la lunga analisi del proemio (3zd6 s.),

«capacità di dare e ricevere ragione» (532e4 s.) consisteva già «proprio il

ta)yro-Ocu 7rtpal-vE1). 11 nomos, il “canto” epistemico della dialettica coincide

differenza che in altri dialoghi e a dispetto delle

con

a

co-fondativa che essa rappresenta nei confronti delle assunzioni “ipotetiche”

tanto nell’ambito dei saperi matematici quanto in quello etico-politico, li

riferimento costitutivo a un oggetto collocato “al di là della ousia” determina

quindi il carattere “insaturo” del sapere dialettico, la sua strutturale apertura

proemiale di cui è impossibile pretendere il compimento nel nomos.

L’unica risposta possibile alla domanda di Glaucone consisterà dunque

nel descrivere il lavoro che costituisce il compito della dialettica, in cui si

esplica la sua efficacia, la sua dynamis, che corrisponde, nella discorsivi

tà umana, a quella dynamis in cui consisteva la supremazia causativa del

“buono” in campo ontologico ed epistemico. E allora questa descrizione,

in luogo di una impossibile definizione di tropos, badai ed eide, che Socrate

proporrà a Glaucone nel contesto del dialogo.

La dialettica inizia dunque il suo lavoro con un approccio critico-ne

gativo, “togliendo le ipotesi” (533c8), mostrandone cioè l’infondatezza e

muovendo dal loro livello in direzione del principio fondativo (vi ii b5).

Questa confutazione delle ipotesi avviene però —

e

qui è stata segnalata

la soglia della separazione fra la dialettica della Repubblica e il consueto

secondo la doxa bensì secondo la ousia (VII

non

534CZ s.): in effetti il movimento della confutazione delle ipotesi appro

da non all’incertezza, all’aporia, bensì alla comprensione (lambanein)

del lagos capace di descrivere la ousia relativa a ogni oggetto di discussio

ne (534b3 s.). I primi quattro libri della Repubblica costituiscono, si può

dire, un esempio dispiegato di questo percorso della dialettica. Nei libri

che la definisce come “il fare le cose proprie”. Questo livello appare ormai

I e ii vengono sottoposte a etenchos le “ipotesi” doxastiche sulla giustizia

proposte da Cefalo, Polemarco, Trasimaco e dalla cultura cui danno voce

non-ipotetico perché inconfutabile da ogni elenchos, vat)tyc6rarov nel

linguaggio del Fedone (85c9).

L’ulteriore e più specifico lavoro della dialettica intorno al “buono”

consta di tre movimenti, che si possono isolare all’interno di una lunga

e a dire il vero troppo condensata battuta di Socrate, per giunta esposta

in forma negativa, cioè con l’intento di descrivere in primo luogo ciò che

non fa chi non è veramente dialettico (534b8 ss.). Il primo movimento è

quello consueto consistente nel “togliere”, mediante l’elenchos, le ipotesi

infondate sui “buono”. È quanto Socrate ha fatto, anche se in modo un

po’ sommario, nel libro VI confutando le identificazioni del “buono” con

il piacere e l’intelligenza. Questo elenchos deve però venir condotto dal

punto di vista della ousia, e nel caso del “buono” non ci si può fermare qui,

perché come è noto esso non è esauribile nel piano noetico-ideale delle

siai. Occorre dunque un secondo e più specifico movimento, che consiste

nell”isolare”, nel separare il “buono” da tutte le altre idee (534b9 s.: &rà

rrv &À)w ir&rcw &pXcivrrot &ycL8o Anche questa operazione

è stata condotta nel contesto della metafora solare del libro VI (5o8e ss.),

allorché il “buono” era stato separato e distinto da scienza, verità ed essen

za. Che cosa significhi esattamente questa “separazione” del “buono” può

venir chiarito confrontandola con l’esortazione, apparentemente simile,

17, 3$: dDE 7r&vrcI.). Plotino intende negare tutte

le determinazioni del Bene-Uno per costruire una teologia negativa del

di Plotino (Enneadì V 3

Principio assolutamente trascendente e quindi ineffabile. Platone chiede

invece di separare il “buono” da tutte le altre idee per rilevarne la diffe

renza, l’ulteriorità, la non riducibilità all’ambito dell’esistente, empirico

o ideale che sia. Questo necessario aphairein del “buono” —

che

done la posizione estrema di causa e tetos —

non nella dichiarazio

culmina


14Z IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA ‘43

ousias, in ragione del carattere iperessenziale del “buono”, quanto di un’a

nalisi della sua dynamis causale, della sua efficacia (se di definizione si vuoi

parlare, essa non dirà dunque “che cosa è il buono”, bensì “che cosa fa il

buono”). È qui il caso di riconsiderare il passo di vi 5o$e3-4, che può veni

re interpretato in questo senso: “ritieni che l’idea del buono è conosciuta

poiché essa è causa di scienza e verità”: la conoscenza del “buono” è dun

que ottenuta non in sé stessa ma attraverso la sua funzione causale, i suoi

effetti epistemico-veritativi.

Il terzo movimento della dialettica è infine quello discendente. Si tratta

qui, dopo aver conosciuto il “buono stesso”, di vedere le “altre cose buone”,

il “resto del buono” (VII 534c5: &)o cycO&v). Questo significa istituire i

corretti rapporti di partecipazione/predicazione, che consentano ad esem

pio di dire secondo verità che “il giusto è buono”, o magari anche — per ri

prendere le hypotheseis confutate nel libro VI —‘ che, se è falso asserire che

“il buono è il piacere”, o “il buono è l’intelligenza”, è invece corretto, a certe

condizioni, dire che “il piacere è buono” o “l’intelligenza è buona”. La co

noscenza dell’idea del buono, ottenuta per via critico-negativa mediante

un processo di separazione/distinzione dal resto dell’esistente, consente

dunque, nel versante discendente/positivo della dialettica, di “fondare” le

ipotesi, di pronunciare, nel campo dello stesso esistente, corretti giudizi

di valore che riconoscano l’eventuale partecipazione al buono (in quanto

causati da esso) di enti ideali o stati di cose.

Fin qui dunque la risposta di Socrate, che pur nella sua concitazione e

l’iniziale reticen

dopo

nella sua forma negativa ha comunque fornito —

za — qualche importante informazione sui tropos e sugli bodoi della dialet

tica (se non proprio sui suoi eide). A essa Glaucone concede, per la prima

volta, un suo energico (sphodra) assenso (534d;).

Eppure, noi possiamo riformulare, per suo conto e dal suo punto di

cioè proseguire l’interro

possiamo

vista, qualche ulteriore domanda —

gazione dialettica che viene qui provvisoriamente sospesa, raccogliendo

quella ingiunzione a “tornarci sopra” che proprio Glaucone aveva rivolto

a Socrate. Le domande riguardano ancora una volta le modaliti della co

noscenza dialettica e una più precisa determinazione dell’oggettoprincipale

di questa conoscenza.

Per quanto riguarda la prima, essa viene descritta a più riprese come una

comprensione (haptesthai, lambanein) ottenuta attraverso un atto noetico

(noesis, cfr. ad es. 53zbi). D’altro canto, essa viene parimenti descritta come

un’operazione logico-discorsiva (“interrogare e rispondere”, togon didonai,

top[ozw9at zc)6y; cfr. ad es. 534b4 s., b9). Molti interpreti hanno indi

viduato in queste due forme di descrizione della conoscenza dialettica una

tensione, o anche un’oscillazione, tra una polarità discorsivo-argomen

tativa (forse riportabile a una matrice “socratica”), e un’altra culminante

in un’intuizione noetico-eidetica, in una Evidenzerlebnis richiesta dalla

natura extralinguistica degli oggetti ideali e/o del loro “principio’ Altri

hanno sostenuto che, al di là di certe suggestioni derivate dagli usi unguistici,

la conoscenza dialettica deve venire concepita come una Ideenbe

stimmung di carattere interamente definitorio-proposizionale. Una linea

di compromesso è stata individuata nell’assegnare alla conclusione noetica

del percorso dialettico il carattere di uno state ofunderstanding stabile cui

si perviene dopo un lungo lavoro critico-confutatorio attuato nell’ambito

dell’argomentazione discorsiva.

È tuttavia necessario tracciare una netta distinzione fra i due diversi

livelli che la conoscenza dialettica è in grado di raggiungere. 11 primo è

quello degli enti ideali: qui la “visione” eidetica dell’essenza è interamente

solidale con la loro Bestimmung definitoria, il logos tes ousias nel linguag

gio platonico, rispetto al quale la prima si presenta come l’acquisita

tezza della inconfutabilità della hypothesis finale perché essa è riferita al

carattere invariante e alla autoidentità dell’idea. Si tratta di una situazione

certo rara ma non assente nei contesti dialogici: si pensi alla “definizione”

rigorosa della giustizia nel libro IV 443c-444a. Tuttavia, questa stessa ra

rità di simili acquisizioni teoriche segnala un doppio ordine di difficoltà.

Difficoltà innanzitutto interne a questo primo livello: la comprensione

definitoria delle essenze ideali risulta nei dialoghi per lo più problemati

ca e precaria in assenza di un preciso metodo di “mappatura” del campo

noetico, di individuazione delle relazioni, delle affinità e delle differenze

che articolano i rapporti fra idee, del tipo di quello che verrà per la prima

volta delineato sia pure in forma ipotetica nel Sofista. Esperimenti di que

sto tipo, ma privi di una solida infrastruttura metodica, vengono in effetti

a più riprese tentati nei dialoghi (si pensi ad esempio alla discussione sul

kalon nell’Ippia maggiore), dando luogo a risultati non del tutto negativi

ma parzialmente aporetici. Resta dunque per lo più senza risposta (salvo il

caso specifico della giustizia) l’ingiunzione che Trasimaco rivolgeva a So

crate nel libro i della Repubblica: «attento a non dirmi che il giusto è l’op

portuno oil giovevole oil vantaggioso o il profittevole o l’utile; ma dimmi

con chiarezza e precisione quello che intendi [oucJ ot iccd cpt)yit

(336cI1 ss.).

&rt&v)yrj]»


sulle

2.44 IL POTERE DELLA VERITÀ

GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA

‘45

Ma il secondo e maggiore ordine di difficoltà è esterno a questo primo

livello, e consiste nella necessità del rinvio a un’ulteriore fondazione di

verità e di valore delle stesse idee alla cui definizione fosse eventualmente

pervenuta la dialettica, come nel caso della giustizia. Questo rinvio com

porta il passaggio al secondo livello della conoscenza dialettica, quello ap

punto del principio ultimo di fondazione. In questo ambito, la domanda

sulle modalità conoscitive proprie della dialettica si intreccia strettamente

con quella relativa alla precisa determinazione del suo oggetto principale;

lo statuto di questo non può che reagire — secondo un nesso tipicamente

platonico — forme della sua comprensione.

Sappiamo che, al di là delle idee, la dialettica culmina (perainei) nel

tetos del suo percorso di conoscenza, che viene inizialmente caratterizza

to come “principio del tutto” (vi 5iib7), che può venire concepito come

univoco oppure, distributivamente, come relativo al problema in esame.

A seconda dell’alternativa esegetica scelta, l’universalità della dialettica

risulta configurata nel primo caso come “intensiva” (perché perviene alla

comprensione del singolo principio dell’universo e/o delle idee), nel se

condo come “estensiva” (perché assume di volta in volta un punto di vista

unitario sull’insieme dei saperi e dei problemi in discussione).

La questione si complica ulteriormente se si accetta di riconoscere nel

“principio del tutto” l’idea del buono, come il testo platonico sembra sug

gerire in modo inequivocabile pur senza dichiararlo in modo esplicito. Ma

anche questa omissione non può essere sorvolata come non problematica.

Se infatti il “principio del tutto” è il “buono’ esso sembra limitare l’univer

salità della dialettica in entrambe le accezioni che ora si sono considerate.

Il “buono” non può costituire, da un lato, il punto più alto cui perviene

il movimento sintetico-sinottico della dialettica nel senso teorizzato dal

fedro della oua’coy tic tiv iccv, perché esso non può in nessun modo

venir considerato un surnmum genus inclusivo delle differenze specifiche.

D’altro lato, è difficile pensare che il “buono” possa costituire il “princi

pio” dell’universo, perché la sua azione sembra circoscritta alla causazione

delle idee come nuclei essenziali di verità e di valore. E anche per quanto

riguarda lo stesso campo noetico-ideale, di cui il “buono” è certamente

causa e fondamento, appare difficile capire come la dialettica, assumendo

lo a “principio’ possa derivarne, nel suo movimento discendente, la fon

dazione dei teoremi propri di saperi, come quelli matematici, che esulano

dall’ambito etico-politico in cui propriamente l’idea del buono svolge il

suo ruolo fondativo.

La decisione platonica di lasciare almeno esplicitamente anonimo il

“principio del tutto” cui perviene la dialettica potrebbe dunque compor

tare una implicita apertura teorica verso due opzioni compossibili sulla

natura della sua conoscenza: a) un sapere sinottico in grado di assumere

un punto di vista d’insieme sui diversi mathemata e sui loro campi argo

mentativi; b) un sapere del “buono” in quanto fondamento del campo

etico-politico. Il livello di sintesi fra queste due opzioni potrebbe consi

stere nel concepire la dialettìca come c) un sapere in grado di comprendere

(logori lambanein), di valutare (logori didonai) e di utilizzare le conoscenze

in ordine all’orientamento etico-politico delle condotte individuali e pub

bliche, insomma un sapere “regio” e di governo.

In ogni caso, se il “principio del tutto’ come suggerisce la dinamica del

testo al di là del suo iniziale, e probabilmente intenzionale, anonimato, va

identificato con l’idea del buono che riempie di un contenuto la formalità

della sua prima apparizione, da questo derivano importanti conseguenze

per la natura della conoscenza dialettica, su cui è ora il caso di tornare a

interrogarsi.

E certamente da escluderne una forma proposizionale-definitoria che

si concluda con l’enunciazione del logos tes ousias: questo è reso impossi

bile, come si è detto, dallo statuto non essenziale/sostanziale del “buono”.

È altrettanto da escludere una ineffabile visione intuitiva, in ragione del

costitutivo assetto intersoggettivo e discorsivo del dialegesthai. Si deve

dunque supporre che il tipo di conoscenza che fa dialettica può acqui

sire intorno al “buono” sia per l’essenziale quello delineato nel vi e nel

vii libro della Repubblica, oppure, da un altro punto di vista, nel filebo:

l’inserimento, per contiguità e differenze, in una rete di idee affini, nella

quale quella del buono costituisce per così dire un “nodo” (verità, scienza,

essenza, e per altri aspetti bello, limite); una o più descrizioni metaforiche,

come l’analogia solare; infine, e soprattutto, la comprensione dell’efficacia

causale, della sua dynamis specifica.

In questo quadro, i movimenti della dialettica nella Repubblica danno

un’ immagine abbastanza precisa del suo lavoro in progress (per quanto è

possibile, cioè non abbastanza per soddisfare le esigenze epistemiche di

Glaucone). C’è un primo versante critico-negativo, elenctico, che consiste

nel dire ciò che il “buono” non è: dunque nel rifiuto degli pseudo-valori

e della sua identificabilità con qualsiasi “stato delle cose’ nell’asserzione

della sua ulteriorità fondativa persino rispetto al piano epistemico-ideale.

Questo versante non può tuttavia restare isolato pena la trasformazione


come

della

in

il

2.46 IL POTERE DELLA

GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA

2.47

VERITÀ

della dialettica in una sorta di nichilismo eristico. Esso deve venire inte

grato da un lavoro fondativo, che consiste in primo luogo nella valorizza

zione — cioè nel trasferimento di utilità, desiderabilità, quindi di intenzio

nalità conoscitiva — del campo delle idee in quanto tali, della verità e della

scienza.

Ed è verso quest’ultimo ambito che si rivolge il movimento conclusivo

della dialettica: essa è in grado di governare la vita degli individui e della

città perché è in grado tanto di criticarne gli scopi falsi e infondati, quanto

di delineare un orientamento della praxis etico-politica fondato su di un

principio incontrovertibile di verità del valore, e di valore della verità.

In questa saldatura del versante onto-epistemologico e di quello eticopolitico

consiste la natura della dynamis della dialettica, che costituisce

allora come si è detto il rappresentante intersoggettivo — nella discorsivi

tà argomentativa fra gli uomini — dynamis causale del “buono” Ciò

che la dialettica è propriamente chiamata a fondare, a partire da questa

dynamis, è il flesso imprescindibile tra verità e valore. C’è qui senza dub

bio una sorta di eccedenza del compito della dialettica, che corrisponde

alla eccedenza ontologica del suo “principio” di fondazione: l’assunzione

programmatica di questa doppia eccedenza rende inevitabilmente parziale

ogni sforzo di realizzazione, e confina dunque sempre di nuovo il sapere

dialettico — temeva Glaucone — una condizione proemiale, incoa

tiva, alla soglia di una compiuta esecuzione di quel nomos destinato a resta

re un orizzonte insaturo. Nel contesto della Repubblica, la tensione verso

questo compimento — cioè verso la realizzazione di un sapere dialettico

stabile e totale — è altrettanto essenziale quanto il suo inevitabile arresto

alla condizione di preludio: un preludio tuttavia non sterile, perché carico

di energia intellettuale ed etica, di una dynamis efficace nei saperi e nella

vita.

Nel grande tentativo logico-ontologico di rispondere a Glaucone ela

borato nel Sofista — che comportava la teoria della dicotomia, l’introdu

zione dei cinque generi massimi, la teoria della comunicazione fra idee

come fondamento per la distinzione fra enunciati veri e falsi — lavoro del

dialettico veniva chiamato a ripercorrere le scansioni fra livelli noetici e

relazioni fra idee. Doveva essere in grado di

riconoscere adeguatamente [i.] un’unica idea estesa in ogni direzione fra molte

altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata; [;.] e molte idee, diverse

fra loro, comprese dall’esterno da una sola idea, [a.] che dal canto suo permane

nell’unità benché estesa fra molti insiemi di idee, [4.1 C molte idee che sono se

parate in quanto completamente distinte. Questo significa saper distinguere per

generi, cioè come essi possono comunicare oppure no (z53d).

il caso i. sembra riferirsi alle idee dei “generi massimi” come essere, iden

tico, diverso; i casi 2.. e 3. alle idee-classi, come “tecnica” o “animale’ e a

quelle che esse includono, come “pescatore con la lenza” o “uomo”, o anche

alle idee “partecipate”, come “buono”, e a quelle che ne partecipano, come

“giusto”; il caso ., infine, sembra costituire piuttosto il risultato o l’esito

del lavoro dialettico, l’individuazione di idee semplici in quanto essenze

delimitate come singoli “nodi” della rete di rapporti di comunicazione e di

differenza che le costituiscono.

C’è ora da chiedersi quali fossero i costi e i guadagni teorici di questa

nuova configurazione della dialettica rispetto a quella che era stata propo

sta nella Repubblica. Come “grammatica generale” dell’essere e del pensie

ro, essa non rinunciava alla supremazia e all’universalità nell’ambito dei

saperi che la Repubblica le aveva assegnati. Veniva tuttavia meno la verti

calizzazione del movimento della dialettica verso un “principio del tutto”

contrassegnato dalla priorità in termini di verità e di valore, e con essa la

pretesa della dialettica di detenere il controllo del livello critico e norma

tivo rispetto sia alle scienze sia alle condotte etico-politiche. Con questo,

come si è detto, la dialettica rinunciava a costituire direttamente la “scien

za regale”, in quanto sapere teorico-pratico relativo al senso delle scienze e

ai fini della vita (anche se, come mostrava il Politico, si poteva continuare a

pensare che essa costituisse la forma di sapere in grado di definire chi fosse

il “vero politico”, cioè l”uomo regale”).

In compenso, il nuovo assetto della dialettica era meglio in grado di

rispondere alle esigenze che Glaucone aveva formulato nella Repubblica,

cioè di mettere in chiaro le proprie modalità procedurali (condizioni di

possibilità della comunicazione fra idee, descrizione delle relazioni seletti

ve fra di esse mediante l’analisi dicotomica, discriminazione fra enunciati

veri e falsi). Un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epi

stemico peculiare della forma del pensiero dialettico, dunque. Che forse

non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e

propria scienza, per diverse buone ragioni.

Faceva da ostacolo, in primo luogo, il permanere del carattere appunto

dialettico, cioè dialogico, intersoggettivo, di questo pensiero. Il procedi

mento dicotomico comportava a ogni passo una decisione, convenuta fra


— ma

solo

cioè

che

come

“il

Z48 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA

‘49

gli interlocutori partecipanti alla ricerca, circa l’insieme o il sottoinsjeme

nel quale fosse via via da collocare l’oggetto indagato (nel caso del “sofista”,

esso veniva di volta in volta assegnato a sette “generi” diversi). Ma c’era

anche un ostacolo più cogente sul piano teorico. La dialettica dicotomica

avrebbe potuto costituirsi come una scienza sul modello della geometria

al livello di universalità che le era proprio — a condizione che

fosse risultato possibile costruire un solo albero dicotomico capace di di

videre il “genere” essere nella pluralità di tutte le sue articolazioni

in

grado di costruire una sorta di atlante tassonomico di tutta la realtà. Ciò

era tuttavia impossibile perché “essere” non è, a differenza ad esempio di

“tecnica” o “animale’ un’idea-classe suddivisibile in specie, bensì rappre

senta una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Non c’è dunque

una dicotomia dell’essere, e di conseguenza non può esistere una tasso

nomia dicotomica universale (come avrebbe invece tentato di costruire il

neoplatonico Porfirio). Questo vale naturalmente anche, a maggior ragio

ne, per gli altri “generi massimi” come il non essere o il diverso, l’identico,

il movimento e l’immobilità. La dialettica dicotomica restava dunque un

procedimento euristico, che muoveva da un problema determinato, la for

mulazione del “togos della cosa” relativo al particolare oggetto indagato, lo

individuava come un nodo della rete mobile di relazioni fra idee al cui in

terno si collocava, e forniva così una griglia utile a distinguere gli enunciati

veri che potevano venire formulati intorno a esso da quelli falsi. Quanto

alle idee, esse continuavano a fungere in questo procedimento come unità

stabili di significato capaci — nelle loro relazioni reciproche — di rappre

sentare riferimenti ordinativi per la comprensione della realtà (empirica

o noetica che fosse); esse non costituivano cioè ancora — come sarebbe

accaduto con Aristotele — forme di una legalità immanente alla natura,

ma certamente la loro “separazione” rispetto al mondo della pluralità e del

divenire risultava fortemente indebolita e ridotta.

Si poteva dunque ancora pensare che la dialettica — come aveva pre

scritto la Repubblica — si muovesse solo nel campo delle idee; e si poteva

inoltre ritenere che il suo statuto epistemico risultasse ora meglio precisa

to, in risposta alle esigenze di Glaucone (che rispecchiavano probabilmen

te la discussione accademica). La dialettica non rinunciava comunque alla

sua originaria natura di indagine mobile e aperta condotta nel confronto

tra soggetti dialogici diversi; se riduceva le sue aspirazioni immediate alla

“regalità” etico-politica, non si trasformava tuttavia in un astratto sistema

di “scienza universale” o di metafisica dell’essere o dell’uno. Il Parmeni

I

i

de sembra appunto destinato a mostrare l’impossibilità di principio della

chiusura della dialettica, la natura inesauribile del suo compito di analisi

critico-confutatoria delle “ipotesi” Qui, come nel Sofista, il vecchio Plato

ne sembra voler mostrare agli accademici che tanto la pretesa di Glaucone

di una compiuta esecuzione del nomos della dialettica, quanto la tendenza

degli “amici delle idee’ e del “giovanissimo” Socrate, verso la costruzione

di un sistema metafisico delle idee, sono estranee alle potenzialità teoriche

della dialettica.

Semmai, il nomos richiesto da Glaucone viene eseguito — giorno se

guente” alla narrazione della Repubblica — nel Timeo, dove si racconta ap

punto la generazione del mondo a partire da un “principio del tutto” che

è buono, anche se non è il “buono” Questo nomos però — è proprio

della tradizione letteraria

— ha il carattere dell’inno che espone le gesta e

le aretai di una divinità. Esso assume cioè le forme di una grande narra

zione mitico-metaforica, che drammatizza il rapporto fra idee e mondo

incentrandolo sull’opera di una dynamis, di una potenza “buona” quale è

il demiurgo. Ma certamente Glaucone

— infatti qui esce di scena

— non

avrebbe riconosciuto in questo nomos quei metodi, quelle forme e quei

modi del procedimento dialettico, la cui definizione egli aveva reclamato

nella conversazione notturna in casa di Cefalo.

Note

i. Glaucone ripete qui, per rinviare il suo assenso, le stesse formule di reticenza

che Socrate aveva usato nella discussione sul “buono”: ‘rò vfrv, T]V 7rcpofcc àp.ov

(o6ea), v T& 7rcpàrL (5o9c9 s.). Per una formula simile cfr. anche Tim. 48c5.

a. A[’r[cv 8’i7rtTi.o Kc1t )Os(, c yt uoico.Lvv$ .tìv &ccvoo. 5. R. Slings,

Criticat Notes on Ptato’s “Potiteia” vi, in “Mnemosyne”, LIV, 1001, pp. 158-81, ha so

stenuto che il genitivo dipende da hos + dianoou (“verbo di pensiero”), e va dunque

riferito non a atetheias bensì all’idea del buono.

3. Cfr. ad es. vii 53zbi 5.: il dialettico non deve arrestarsi «prima di aver afferrato con

il puro pensiero l’essenza del buono».

Nella

.

formula “teologica” diii 38oc8 s., “il dio” è causa non di “tutto” ma solo dei

“beni”.


fino

I’

Sfida sofistica e progetti di verità in ?latone*

I

Barbara Cassin ha scritto, con buone ragioni, che la sofistica è un’inven

zione di Platone. A parte Gorgia, sui quale disponiamo di testimonianze

indipendenti, ma che è anch’egli protagonista di un importante dialogo

platonico, quasi tutto quello che sappiamo dell’antropologia di Protagora

ci viene dal dialogo a lui intitolato, e la sua epistemologia è interpretata e

discussa nel Teeteto. Altri sofisti importanti, come Callicle (Gorgia) e Tra

simaco (Repubblica) sono in larga misura creazioni di Platone, che non

molto avranno in comune con il personaggio storico che reca quel nome.

E soprattutto, in ogni caso, Platone interpreta le tesi dei sofisti, spesso le

rigorizza, le estende, le unifica concettualmente — a dedicare un dia

logo tardo, com’è appunto il Sofista, composto verso il 360, a interrogarsi

ancora una volta su “che cosa sia veramente il sofista”. Un’interrogazione

dunque ricorrente e sempre aperta, se si pensa che a quell’epoca Protagora

era ormai morto da sessant’anni, Gorgia da una ventina; ma con sofisti

come Antifonte Platone avrebbe continuato a discutere fin nel suo ultimo

dialogo, le Leggi.

Sembra dunque di poter dire che Platone abbia dedicato alla sofisti

ca una buona parte del suo cammino filosofico: un rivale da combattere,

una sfida da comprendere, forse un incubo da esorcizzare, in ogni caso una

presenza tanto prossima da risultare inquietante. Rovesciando l’assunto

iniziale, potremmo allora persino dire che la filosofia platonica è un effetto

della sofistica, cioè lo straordinario sforzo di rispondere a un pensiero che

secondo Platone minacciava la possibilità stessa della filosofia nel momen

*

Questo capitolo, inedito, è l’intervento presentato alla conferenza conclusiva del col

loquio della Sezione mediterranea della International Plato Society, tenutosi a Aix-en

Provence nell’ottobre zoi.


Eppure

e

2.52. IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 253

to della sua formazione, e peggio ancora rischiava di confondersi con essa

contraffacendone i tratti.

La prossimità inquietante del sofista al filosofo si ha prima di tutto sul

terreno del discorso — cioè di quella confutazione dialogico-dialettica,

l’etenchos, che era l’emblema del socratismo —, poi anche su quello del

la concezione e dell’esercizio del potere. Una vicinanza che somiglia, in

entrambi i casi, a quella fra il cane e il lupo, che condividono, su versanti

diversi, gli stessi territori agonali.

Parlando nel Sofista della tecnica della confutazione, l’elenchos di me

quivocabile matrice socratica, lo Straniero eleate che conduce il discorso

afferma:

Che nome daremo a coloro che posseggono questa tecnica? Ho qualche esitazio

ne a pronunciare la parola “sofisti”. — [replica Teeteto] è il nostro ragiona

mento che ci ha portato a qualcosa di simile. — [risponde lo Straniero] ma anche

il lupo è simile al cane, la bestia più selvaggia all’animale più domestico. Ch vuoi

essere sicuro deve stare in guardia dalle somiglianze: è un campo su cui è facile

scivolare (z31a).

Il Trasimaco ideologo della tirannide nel libro i della Repubblica è a sua

volta presentato come un “lupo” Ed è anche sul terreno del potere che

la vicinanza fra il cane “filosofico’ protettore del suo gregge, e il temibile

predatore, risulta inquietante, tanto da indurre il Socrate legislatore della

Repubblica a temere una pericolosa metamorfosi dei suoi futuri filosofi-re:

La cosa più terribile e vergognosa per dei pastori è di allevare cani da guardia dei

greggi in modo tale che, per indole ribelle, per fame o per qualche altra cattiva abi

tudine, i cani stessi si spingano a far del male alle pecore finendo per comportarsi

da lupi invece che da cani [...] Non dobbiamo dunque sorvegliare in ogni modo

perché le nostre guardie non facciano altrettanto con i cittadini, dal momento

che sono più forti di loro, finendo per trasformarsi da benevoli alleati in selvaggi

padroni? (III 416a-b)

Per evitare la metamorfosi del buon governante in tiranno (che secondo

Trasimaco è inevitabile in ogni forma di potere), Platone si vedrà costretto

a proporre due dei maggiori “scandali” della Repubblica, l’abolizione della

proprietà privata e della famiglia per i membri del gruppo dirigente (i cani

da guardia di cui si paventa la trasformazione in lupi se avessero interessi

privati da perseguire).

J

La minaccia sofistica investiva dunque, secondo Platone, l’ambito del lin

guaggio, della verità e dei valori, e di qui si riverberava fino al campo della

politica e dell’esercizio legittimo del potere.

Vediamone i tratti (così come Platone probabilmente li comprendeva),

a partire da Gorgia.

Il grande sofista siciliano sembra essere stato il primo a fondare teorica

mente l’autonomia della dimensione retorica, persuasiva, dunque performa

tiva del linguaggio, rispetto al suo tradizionale (e parmenideo) riferimento

alla verità dell’essere. Gorgia avrebbe sostenuto, secondo il resoconto dello

scettico Sesto Empirico, queste tre tesi: i. «Nulla esiste» in senso oggettivo

e assoluto; 2.. « se anche qualcosa esistesse, non sarebbe afferrabile dalla co

noscenza umana», cioè resterebbe totalmente estraneo all’esperienza sog

gettiva; non c’è rapporto fra essere e pensare, altrimenti esisterebbe qualsiasi

cosa pensata, come un uomo che vola; 3. «se infine qualcosa esistesse e fosse

comprensibile, esso non sarebbe comunicabile ad altri», perché la “cosa”

esistente è radicalmente altra rispetto alla “parola” comunicativa (Dx B ).

Dunque il linguaggio della comunicazione umana non fa presa sul

mondo oggettivo; esso non possiede veritd se per questa si intende una

fedele descrizione dell’essere in sé, né i discorsi possono venire valutati in

termini di vero/falso. Restano allora al discorso l’efficacia, la capacità per

suasiva, la potenza produttiva di credenze e condotte, insomma, appunto,

]

la dimensione pragmatica.

Sulle rovine delle pretese veritative del discorso, Gorgia poteva cele

brare il trionfo dei suoi effetti retorici. In un esercizio di scuola mirante a

ottenere l’assoluzione postuma di Elena dall’accusa di tradimento per aver

seguito Paride a Troia, diceva Gorgia che se Elena fu convinta a parole non

la si deve ritenere colpevole, perché

i

i

2

la parola è un grande padrone [...J Può infatti far cessare la paura, sopprimere il

dolore, infondere gioia, suscitare compassione [...J Che poi la persuasione, quan

do si aggiunge al discorso, lasci nell’anima l’impronta che vuole, bisogna capir

lo considerando in primo luogo i discorsi dei naturalisti dediti alle cose celesti,

che sostituiscono un’opinione all’altra eliminando questa e sostenendo quella,

in modo che agli occhi dell’opinione vengano a manifestarsi cose incredibili e

oscure; in secondo luogo le cogenti argomentazioni giudiziarie, nelle quali un

solo discorso, scritto secondo i dettami della tecnica retorica, non detto secondo

verità, diverte e convince una grande folla; infine, le dispute dei discorsi filosofici,


secondo

‘54 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE

‘55

in cui si mostra anche la rapidità della mente, capace com’è di rendere instabile e

mutevole la credenza in ogni opinione (DK B si).

Ciò che discrimina fra loro i discorsi della scienza, della morale, della giu

stizia, della politica e della stessa filosofia non è dunque la rispettiva verità

ma la loro efficacia retorica che si esercita in contesti agonali, come quelli

della politica, dei tribunali, delle dispute scientifiche e filosofiche. La parola

persuasiva può indurci a credere, e a fare, qualsiasi cosa essa desideri. Quan

to alle finalità etiche della persuasione, esse sono affidate, secondo il Gorgia

dell’omonimo dialogo platonico, al senso di responsabilità del retore.

Il secondo grande sofista, Protagora di Abdera, non sembra essere sta

to teoricamente altrettanto radicale di Gorgia, ma certo capace di un’in

fluenza intellettuale secondo Platone ancora più pericolosa. A parte le in

terpretazioni platoniche, di lui ci restano soltanto poche righe, fra le quali

compare quella che sembra essere stata la sua tesi principale: «l’uomo è

la misura di tutte le cose, di quelle che sono per il modo in cui sono, di

quelle che non sono per il modo in cui non sono» (DK B ;). Il senso di

questa enigmatica affermazione può forse venire così interpretato (anche

sulla base dell’analisi che Platone ne proponeva nel Teeteto): c’è un mondo

esterno, ma ogni soggetto è giudice inappellabile delle qualità delle cose

che ne fanno parte, secondo come a lui appaiono (dolci o amare, belle o

brutte, giuste o ingiuste); da lui dipende il giudizio se una cosa è X o

oppure non èXo Y. Si tratta, in altre parole, del principio dell’ermeneutica

contemporanea secondo il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni.

Da questo principio seguono alcune importanti conseguenze di ordine

epistemologico, e soprattutto etico-politico. Per quanto riguarda le pri

me, ogni affermazione, in quanto descrive una percezione o valutazione

soggettiva, è “vera”, poiché non si può porre la questione della verità del

discorso come sua corrispondenza allo stato delle cose. Sul piano etico

politico, I”uomo-misura” si trasforma in un’identità collettiva: abbiamo

allora un soggetto plurale, il “noi” della città o della sua maggioranza as

sembleare, come criterio definitivo dei valori pubblici. Perciò, « quello che

ogni città decide sia giusto e bello, tale in effetti è anche per essa, finché

lo consideri così (Theaet. 167c); e commentava Platone che le dottrine di

Protagora «per le cose giuste e ingiuste, morali e immorali, vogliono soste

nere che nessuna di esse possiede in realtà una propria essenza oggettiva,

ma che diventa vero ciò che è sancito dall’opinione collettiva allorché vie

ne opinato e per tutto il tempo in cui è opinato» (Theaet. i7zb). Protagora

non si fermava però a questo esito di relativismo estremo della verità e dei

valori; anche in lui, la dimensione pragmatica del linguaggio giocava un

ruolo centrale. Non è possibile discriminare le opinioni in “vere” o “false”,

bensì in “utili” e “dannose” per l’individuo e per la comunità, in ordine ai

loro interessi individuali e collettivi, ed è a questo miglioramento prag

matico, non veritativo, delle opinioni, che può mirare la convinzione del

retore sofista ( Theaet. 167a-c).

Nichilismo gorgiano e relativismo protagoreo delineavano così, per Pla

tone, una formidabile sfida intellettuale. Sul piano della conoscenza, essi

convergevano nel sostenere l’impossibilità di un sapere universalmente

e oggettivamente valido, capace di descrivere secondo verità lo stato del

mondo al di là delle credenze soggettive. Sul piano etico-politico, essi ab

bandonavano le norme di giustizia all’arbitrio delle decisioni conflittuali di

individui e gruppi, negando l’esistenza di criteri autonomi di riferimento

che consentissero di valutare la giustezza di queste decisioni. Nel libro i del

la Repubblica, Platone fa sostenere al sofista Trasimaco una tesi radicalmen

te relativistica: il “giusto” consiste nella conformità alla legge; ma la legge

è imposta da chi ha il potere per farlo, ed essa è perciò sempre strumentale

alla conservazione del potere; la giustizia, dunque, consiste nell’utile di chi

detiene la forza, e, viceversa, nell’oppressione dei sudditi (I 338c-339a).

Il lavoro filosofico di Platone consistette in buona parte nel tentativo

di rispondere a questa sfida, per ricostituire le condizioni della verita del

sapere e dell’oggettiviti dei criteri di giudizio etico-politico.

3

Per rispondere alla sfida sofistica occorreva secondo Platone in primo luo

go consolidare il linguaggio, ripristinando il suo riferimento alla realtà,

e con questo garantire le condizioni di possibilità del discorso vero, al di

là del fluttuare delle opinioni abbandonate agli effetti retorici della per

suasione. Come ha scritto Hannah Arendt, per Platone «la persuasione

non è l’opposto del dominio mediante la violenza, ma ne è solo un’altra

forma»; meglio allora sostituirla con quella che la stessa Arendt ha chia

mato «la tirannia del vero». Ma per questo era necessario niente meno

che costruire una nuova concezione della realtà, cioè una nuova ontologia,

antieraclitea (quindi fondata sulla stabilità dell’essere anziché sui flussi del

mutamento), e perciò — la decisiva connessione stabilita nel Teete


sia

256 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 257

to fra mobilismo eracliteo ed epistemologia di Protagora — antiprotagorea

e antirelativistica.

L’esigenza di consolidare il riferimento del linguaggio alla realtà, e

quindi di ripristinare una dimensione veritativa del linguaggio stesso,

è particolarmente acuta nel campo dei valori pubblici e privati, come il

bello, il buono, il giusto (dunque dell’etica e della politica), che era stato

il terreno di elezione del relativismo protagoreo. È il caso di leggere per

esteso a questo proposito un memorabile passo del Cratito (439c-440c):

SOCRATE Possiamo dire che sia qualcosa il bello considerato in se stesso; e così

il buono, e ogni singola cosa? O non possiamo?

CRATILO A me pare di sì, Socrate.

SOCRATE A questo dunque teniamo ben ferma la nostra attenzione; intendo

dire, non ad un volto o a qualcosa dcl genere, se ci appaiono belli, e se abbiamo

l’impressione che tutte queste cose trascorrano in un perenne fluire. Perché il bel

lo, diciamo, in sé, non è sempre tale quale è?

CRATILO Necessariamente.

SOCRATE Ma sarà mai possibile assegnargli un nome veramente giusto, se con

tinuamente ci si sottrae nel suo essere e nelle sue qualità? O non è invece neces

sario che, mentre ne stiamo parlando, esso divenga subito qualche altra cosa, e ci

sfugga, e non sia più quale era prima? [...1 Ma neppure potrebbe essere conosciuto

da nessuno. Non appena infatti ci avvicinassimo per conoscerlo, diventerebbe su

bito altro e diverso, né più lo potremmo conoscere, né per ciò che è, né quanto alle

modalità del suo essere. Nessuna conoscenza infatti conosce ciò che conosce, se

questo non è in alcun modo stabile nel suo essere. [... Ma neppure è possibile che

vi sia conoscenza, Cratilo, se tutto trapassa da uno stato all’altro e nulla permane

stabilmente t...] Se invece esiste ciò che conosce, esiste ciò che è conosciuto, esiste

il bello, esiste il buono, esiste ogni singolo ente in sé, allora mi pare che queste

cose di cui stiamo parlando non abbiano niente a che fare con il flusso o con il

movimento.

Se linguaggio e conoscenza devono essere Stabili e veritieri (dunque sal

vati dalle sabbie mobili di nichilismo e relativismo), occorre che esista un

riferimento reale altrettanto stabile e immutabile (cioè posto al riparo dal

mobilismo eracliteo). Scriveva infatti Platone nel Timeo (29b-c):

I discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò

che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e

solidi, e, nella misura in cui, per i discorsi, è possibile e conveniente essere incon

futabili e invincibili, di nulla devono mancare [...] L’essere è rispetto al divenire

nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza.

È precisamente su questo terreno problematico che nasce l’ontologia delle

idee, destinata ad assumere diverse configurazioni nei contesti dialogici

ma costante nell’intenzione di garantire al linguaggio e alla conoscenza

un riferimento oggettivo stabile e invariante. I predicati universali del tipo

“giusto”, “bello’ “grande”, o anche (sebbene questo sia un caso particolar

mente problematico), “uomo’ “cavallo” e così via, costituiscono nuclei di

signqicato unitari e invarianti che possono venire riferiti a una pluralità

mutevole e instabile di soggetti e di circostanze.

Se tuttavia il loro contenuto potesse variare a seconda delle opinioni

soggettive, non si sarebbe ancora superata, secondo Platone, la minaccia

del relativismo sofistico. Questi predicati devono dunque venire pensati

come descrizioni di un referente primario, che possiede in modo ogget

tivo, assoluto e invariante la proprietà che essi enunciano. La referenza di

“giusto” è un oggetto che Platone chiamava “il giusto in sé’ “la giustizia

stessa”, insomma l’idea (oforma) di giustizia che ha con le singole cose di

cui si può predicare la giustizia lo stesso rapporto che il triangolo ideale dei

matematici presenta con i singoli triangoli di volta in volta disegnati sulla

carta o realizzati con il legno.

Non c’è dubbio che l’ontologia di Platone, almeno nella sua forma

“classica” (tra fedone e Repubblica) — diverso può essere il caso della pro

spettiva “dinamica” delineata nel Sofista — un’ontologia a modello geo

metrico. Quale che sia lo statuto ontologico degli enti matematici (un

problema del resto che appartiene piuttosto alla scolastica platonica), essi

costituiscono l’esempio evidente di oggetti dotati delle proprietà dell’in

varianza, dell’autoidentità, della convertibilità fra nome e definizione,

proprietà che Platone traferisce alle idee come loro tratto distintivo. Esse

fanno degli enti matematici oggetti veri, quindi in grado di trasferire questa

caratteristica ai discorsi che li descrivono. Su questo aspetto, che a sua vol

ta viene trasferito alle idee, si fonda la stretta unità platonica fra ontologia

ed epistemologia, secondo il principio, stabilito nella Repubblica (477a),

della connessione inscindibile frapantetos on epantelòsgnoston.

Anche al livello del metodo, del resto, le potenzialità veritative dei pro

cedimenti delle matematiche forniscono senza dubbio un modello per

quelli dialettici. È vero che, secondo la ben nota critica del libro VI della

Repubblica, l’inferiorità epistemica delle matematiche rispetto alla dialetti

ca consiste nel loro assetto assiomatico-deduttivo, che richiede di assume

re per consenso convenzionale (homotogia) hypotheseis non ulteriormente

fondate e nel dedurne i teoremi conseguenti (ioc-d). La dialettica, al con-


ed

che,

158

IL POTERI DELLA VERITÀ

T

SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE

259

trario, dovrebbe partire da queste hypotheseis e risalire fino a un principio

non ipotetico, anhypotheton. Tuttavia, anche nell’ indagine dialettica un in

dicatore di verità è costituito dalla homotogia conseguita fra i partecipanti

al dialogo; e, come risulta dal fedone (iooa-b), le idee stesse possono venire

considerate come “ipotesi’ bensì difficilmente confutabili (dysexelenchota

toi, 89c-d) ma non del tutto an-ipotetiche. Homotogia e hypotheseis sembra

no dunque avvicinare le procedure dialettiche e matematiche più di quanto

Platone non sembri disposto a riconoscere in modo esplicito.

C’è poi un altro aspetto decisivo nel rapporto fra metodo matematico e

pensiero dialettico. 11 libro vii della Repubblica mostra chiaramente che il

processo astrattivo-idealizzante proposto dai saperi matematici costituisce

la condizione necessaria e sufficiente per l’accesso dialettico alla conoscen

za eidetico-noetica. Esso consente di superare il paradosso gnoseologico

della conoscenza di enti immateriali da parte di un soggetto incorporato,

paradosso che aveva suggerito il regresso anamnestico a una conoscenza

precorporea delle idee. La via matematica alle idee sembra invece costitui

re un’alternativa non mitologica alla reminiscenza, che potrebbe allora ve

nire considerata come la rappresentazione metaforica della comprensione

delle idee come a priori trascendentale di ogni conoscenza possibile.

4

Tutto questo aveva conseguenze decisive anche nell’ambito del governo

della vita pubblica e privata. Dall’ontologia delle idee conseguiva che i “va

lori” (il bene, il giusto, il bello) esistono in modo invariante e indipenden

te dalla mutevolezza delle opinioni, dall’arbitrio delle maggioranze, dal

potere della persuasione retorica. Essi sono l’oggetto di una conoscenza

vera — è proprio questa conoscenza a fondare la differenza tra i filosofi e

i sofisti “filo-dossi’ cioè legati al mondo dell’opinare (doxa).

Questa conoscenza valoriale garantisce la possibilità di pensare, parla

re e agire in vista di scopi universalmente validi, di ciò che è davvero bene

per l’insieme della comunità politica e della personalità individuale. L’e

sistenza di un ordine di valori ideali e la possibilità di una loro conoscenza

sono dunque per Platone la fonte di legittimazione dell’aspirazione dei

filosofi al regno, che viene formulata nella celebre “terza ondata” del li

bro v della Repubblica. Scriveva infatti Platone in questo grande dialogo

(vi 484c-d):

5

Dal momento che fliosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che

resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si

limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà

essere guida della città? [...J Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o

un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa [...J Ti sembra allora

che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della co

noscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e

non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero,

sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in

modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?

Con questa ultima mossa, Platone poteva celebrare la sua vittoria teorica sui

rivali sofisti

— come si diceva all’inizio, egli aveva in qualche modo inte

riorizzato, assorbito nel suo stesso pensiero, fino a farne una sorta di ossessio

ne filosofica e politica. Questa vittoria aveva comportato un complesso siste

ma fondazionale che andava dal linguaggio all’ontologia e all’epistemologia,

e da esse tornava all’uso pragmatico, etico e politico, del linguaggio stesso.

Come ha scritto Main Badiou, questo sistema teorico di protezione

dalla sfida sofistica aveva talvolta effetti “iperbolici’ che andavano persino

oltre lo spirito autentico del platonismo: in sé stesso una filosofia aperta,

critica, dialogica, insomma una filosofia socratica. il timore per il mobi

lismo eracliteo e il relativismo protagoreo rischiava invece di dare luogo

a risultati che potremmo definire di tipo “egizio” nella cultura e nella

politica, cioè a un desiderio di immobilità nelle forme della musica, del

teatro, della costituzione della città. Parallelamente, contro l’individua

lismo dell”uomo misura” si producevano in Platone forme eccessive di

organicismo sociale, di annullamento dell’individuo nella totalità comu

nitaria, come avrebbe denunciato Aristotele nel libro Il della Politica. Se vi

sono ombre di totalitarismo nella filosofia di Platone (e per scorgerle non

è necessario cadere nelle esagerazioni proprie di Karl Popper), risultano

anch’esse un effetto della sofistica, alla maniera delle reazioni immunitarie

il cui eccesso può risultare patologico.

Insomma, sconfiggere la sofistica presentava per la stessa filosofia di

Platone un prezzo molto elevato. Ma il senso, e la grandezza intellettuale,

di questa filosofia, stanno nella sua eccezionale capacità di configurare un

avversario di straordinaria levatura teorica, e di confrontarsi con esso in


260 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE

una discussione tenace e coraggiosa, nella quale noi possiamo riconoscere

l’atto di nascita della tradizione filosofica occidentale.

6

Del resto, il rischio di una reazione “iperbolica” alla sofistica è soltanto

sfiorato da Platone, che se ne tiene lontano per un aspetto essenziale. Cer

tamente, egli insiste sulla necessità, e la possibilità, di acquisire la verità,

come gli indicava il modello delle matematiche. Ma rispetto a questo

modello la sua filosofia presenta una differenza importante. La geometria

lavorava a costruire, fino al compimento con Euclide, un sistema teorema

tico, assiomatico-deduttivo, delle sue verità. E una tendenza a costruire

sistemi di tipo elementare-derivativo è certamente presente anche in Pla

tone: basti pensare alla cosmogonia del Timeo o alle dottrine non scritte

dei principi. Sembra però che la tendenza principale della filosofia plato

nica, come si esprime nei dialoghi, consista nel non chiudere mai il sistema

della verità: il suo sforzo consiste piuttosto nel delineare progetti e regimi

di verità, procedure per la costruzione di discorsi veri.

Questo vale anche per la Repubblica, dove pure la verità è considerata

come l’effetto della descrizione di “oggetti veri’ nell’enunciazione del logos

tes ousias degli enti noetici, in cui consiste il compito assegnato alla dialettica.

Della dialettica però Platone dice più “che cosa fa’ che non “che cosa sa”, la

descrive insomma più come una procedura che come un deposito di verità.

La prima designazione della dialettica è infatti quella di una tecnica, il

dialegesthai, dotata di una sua dynamis, una capacità efficace e in grado di

produrre effetti. C’è poi un’ulteriore e ribadita descrizione che presenta la

dialettica come un “cammino”, un “viaggio” (poreia: 53zb4), cioè un pro

cedimento di ricerca metodicamente organizzato (methodos: 533b3, c7).

La dialettica è presentata inoltre, in modo più forte, come una “scien

za” (episteme). Questo riconoscimento della scientificità del procedimen

to dialettico è formulato per la prima volta da Glaucone (iic), ma esso

viene in seguito confermato da qualche accenno socratico. Si tratta infatti

della capacità di «interrogare e rispondere nel modo più scientifico» (epi

stemonestata, 534d9 s.), che si vale della «incrollabile forza del discorso

razionale» (&7r-rcrtTc)6’yw, 534c3) e che perviene, al suo termine, a quella

“saldezza” (bebaiosetai, 533c7) che è appunto propria dei saperi scientifi

ci. Ma questo consolidamento non è definitivo, e deve venire ogni volta

riconquistato nella « battaglia » (mache, 534c) che il dialettico affronta

nel confronto delle reciproche confutazioni. Lo spazio della dialettica ne

risulta perciò radicalmente configurato come intersoggettivo: il dialettico

ha sempre di fronte a sé altri uomini, altre doxai, di fronte ai quali «dare

e ricevere ragione» (53xe4 5.: &f.vcd TE ICal & cwOct )àyo), e la sua

formazione deve mirare in primo luogo a fargli acquisire questa capacità.

E qui sta la radicale differenza tra dialettica e metodo delle matematiche,

che si configura piuttosto come un monologo teorematico. Il consolida

mento scientifico delle verità dialettiche (la conquista del logos tes ousias)

è possibile e necessario, ma non dà luogo a un sistema chiuso e stabile di

definizioni, piuttosto, come diceva il fedone, a “ipotesi difficilmente con

trovertibili” (è questo ad esempio il caso della definizione della giustizia

nel libro Iv della Repubblica, perfettamente valida nell’ambito politico,

ma che viene rimessa in discussione nel “percorso più lungo”, nzakrotera

periodos, del libro vi).

Nel Sofista la forma della verità non consiste più tanto nella produzio

ne del togos tes ousias di oggetti noetici “veri”, quanto nella costruzione di

enunciati che dicano “le cose che sono come sono’ cioè corrispondano allo

stato delle relazioni reali degli enti noetici tra loro o con gli oggetti empiri

ci. La verità si colloca dunque nell’unione di soggetto e predicato, quando

essa renda conto dell’oggettiva connessione fra i termini reali cui essi si ri

feriscono. La produzione di questo tipo di enunciati è consentita, almeno

a livello degli enti noetici, dalla procedura dicotomica, in grado di reperire

la trama di relazioni di comunicazione che connettono, o separano, i ge

neri ideali fra loro. In linea di principio, la procedura dicotomica sembre

rebbe rappresentare un programma di ricostruzione completa dell’intera

mappa delle relazioni fra generi, e perciò costituire un dispositivo in grado

di produrre tutti i discorsi veri riguardanti la realtà intellegibile.

Questo non è tuttavia il vero progetto della dicotomia così come Plato

ne lo costruisce nel Sofista.

La dicotomia non intende certamente generare un progetto di tasso

nomia universale, una sorta di atlante ontologico di tutta la realtà, come

sembra suggerire qualche sua interpretazione neoplatonica (ad esempio il

celebre “albero” di Porfirio). Questo intento è escluso per principio dall’im

possibilità di dividere il megiston genos dell”essere”, che non costituisce

un’idea-classe inclusiva di un insieme ordinato di enti, come è ad esempio

“animale’ bensì una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Se

l’essere fosse divisibile in specie, dovrebbero esserlo anche gli altri megista


e

epistemologicamente

che

z6z

IL POTERE DELLA VERITÀ

i

gene, come I’ “identico’ il “diverso”, il “movimento” o 1’ “immobilità”, il che

evidentemente è assurdo.

A ciò si aggiunge il divieto di dividere il campo dicotomico “di sinistra”,

che esclude in linea di principio la possibilità di saturare una tassonomia

dicotomica universale.

Ma va soprattutto sottolineato che il campo da dividere è assunto

per ipotesi — per effetto di una homologia fra gli interlocutori (cfr. ad es.

zzzb) — non costituisce il genere aristotelico esistente in natura. Si pensi

ad esempio all’ “arte di condurre animali al pascolo” del Politico, e soprat

tutto ai sei o sette ambiti generali in cui viene via via incluso il “sofista” nel

dialogo omonimo, da cui risultano per via dicotomica altrettante defini

zioni diverse. Il fatto che la validità dei risultati raggiunti dipenda dall’ac

cordo fra gli interlocutori, sia sul punto di partenza sia sull’esito del pro

cesso di divisione, sottolinea il carattere dialettico-dialogico, quindi non

sistematico-tassonomico, dell’intera procedura.

Per Platone la verità è necessaria, e possibile. Questa possibilità è fon

data sul presupposto di una affinità (syngeneia) tra l’anima e l’essere (co

munque poi questa affinità possa venire interpretata, ad esempio nel sen

so aristotelico della passività del nous di fronte ai noeta, oppure in quello

idealistico della produttività del conoscere). La verità può venire acquisita

sia mediante la descrizione di oggetti veri sia mediante la produzione di

enunciati corrispondenti alle relazioni oggettive che organizzano il mon

do. Nell’uno e nell’altro senso, possono venire costruite procedure razio

nali per l’acquisizione della verità, e grazie a esse il relativismo sofistico

può venire sconfitto. Ma né l’eredità di Socrate né la sfida dello stesso sofi

sta possono venire davvero del tutto rimossi.

Si possono costruire progetti e regimi di verità, in grado di dare rispo

ste oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e della praxis eticopolitica.

Il modo in cui queste risposte vengono generate produce segmenti

parziali di verità — ed eticamente decisivi — han

no un orizzonte intenzionale di integrazione conoscitiva. Questo orizzon

te non sembra saturabile — in modo da pervenire a un sistema di verità

chiuso e definitivo — appunto in ragione della natura locale e parziale dei

progetti di verità via via perseguiti, che non si configurano come un pro

cedimento derivativo e teorematico. Se è necessario superare, insieme con

il relativismo sofistico, anche il non sapere socratico, resta il terreno dialet

tico e intersoggettivo in cui si formano e si compiono i progetti di verità.

Confutare Protagora non comporta dunque per Platone precorrere Proclo.

Il

Immortalità personale senza anima immortale:

Diotima e Aristotele*

I

Diotima’ sostiene con molta chiarezza la tesi che il desiderio di possedere

«ciò che è buono» (tagatha) è motivato dall’altro e dominante deside

rio di «essere felici» (tcLt[.u.w urct, 2o4e6 ss.). Eros è dunque rivolto a

«possedere il bene per sempre» (zo6a8-9), e con esso, s’intende, la felici

tà che ne consegue. Questa aspirazione a un possesso perpetuo di bene e

di felicità dà necessariamente luogo a un desiderio erotico di immortalità

(&Gco(c à ctoì tGu.tt!v, 2o6e9 s.)’.

Diotima indica tre percorsi che possono venire seguiti in vista della

soddisfazione di questo desiderio di immortalità.

1.1

La prima via verso l’immortalità riguarda ogni vivente mortale, uomo

o animale che sia (zo7b), e consiste nella procreazione biologica di un

individuo simile al genitore, poiché «in ogni vivente che è mortale vi

è qualcosa di immortale», la gravidanza e la generazione (zo6c6-8):

«la procreazione è ciò che di eterno e immortale spetta a un mortale»

(zo6e8)4.

Infatti, conclude su questo punto Diotima, «la natura mortale cerca

per quanto le è possibile [kata to dynaton] di essere sempre e di essere im

mortale. Ma può farlo solo in questo modo, attraverso la procreazione»

(zo7dx-3).

Questo capitolo è già stato pubblicato in The International Plato Society, x Sympo

sium Platonicum, The Symposium, Proceedings i, Pisa i5th-zoth July zo13, Dipartimento

di Filologia, Letteratura e Linguistica, Università di Pisa, Pisa 1013.


di

a

264

IL POTERE DELLA VERITÀ

IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE

z6

Si tratta in particolare della via seguita da quegli uomini che sono

«gravidi secondo il corpo»: essi si rivolgono alla riproduzione sessuale

«procurandosi attraverso la procreazione di figli immortalità e ricordo e

felicità [&8cnco(wv KcCI n’nyv Kì r q.tov(co] [...] per tutto il tempo a

venire» (zo8e).

1.2

Accanto alla via biologica verso l’immortalità, Diotima ne riconosce al

tre due, queste specificamente umane, che potremmo definire di tipo

“culturale”.

La prima di esse riguarda un tipo d’uomo il cui profilo antropologico è

diverso da quello dedito alla riproduzione biologica. È l’uomo ambizioso,

motivato dalla philotimia, il cui desiderio di immortalità prende la for

ma dell’aspirazione

chiara memoria omerica6 —

un kteos athanaton

(1o8c5 s.), che assicuri «l’immortale memoria» delle loro gesta e della

loro areté: «è per una virtù immortale e una fama gloriosa che tutti fanno

tutto, e tanto più quanto migliori essi siano: infatti amano l’immortale»

(1o8d5-ez).

È nell’ambito di questo tipo antropologico che la tensione verso un’im

mortalità culturale si sviluppa, dopo la primitiva ricerca del kteos eroico

dell’epica, in direzione di un lascito eterno di opere memorabili, tanto

nell’ambito della creazione poetica quanto in quello della storia politica.

La vecchia areté eroica lascia ora il passo a un nuovo quadro di virtù che si

inscrivono nello spazio dell’intelligenza, laphronesis (p6vo&v TE ccd rp

&)yv &pEr]v, 2o9a4): quelle virtù, sophrosyne e dikaiosyne, che per Plato

ne sono essenzialmente “politiche” (cfr. Resp. IV 43odi), e che Aristotele

avrebbe preferito chiamare “etiche” Gli eroi eponimi di queste nuove virtù

sono ora i poeti e gli artisti “creativi”, come Omero ed Esiodo, ma ancor

di più coloro che si distinguono nel garantire il buon ordine (diakosmesis)

delle case e delle città, come i protolegislatori Licurgo e Solone. È grazie

alle loro opere nel dominio della cultura e della politica che essi acquista

no, come i vecchi eroi, fama (kleos) e memoria immortali (zo9d)8.

Fin qui, secondo Diotima, il giovane Socrate è in grado di seguire il

percorso dell’iniziazione erotica. La sacerdotessa dubita però che egli sia

in grado di seguirla oltre la soglia dei cosiddetti misteri maggiori, che apre

la via all’iniziazione epoptica, nonostante che si dichiari disposta a dedi

care al discepolo tutto il suo impegno (oic oi’€ oi6 T&v E’ [...] yc

iccì 7rpo6v.LCa oàv &‘it6XEtc,J, zIoaz-4). Torneremo più avanti sul senso

di questa presunta incapacità di Socrate di seguire Diotima nel percor

so iniziatico. Si tratta ora invece di vedere che cosa sta oltre la soglia dei

“grandi misteri’ È certo comunque che a superarla non potrà essere il tipo

antropologico dell’uomo “fi1otimico’ ma una figura umana diversa: evi

dentemente, è il caso di anticipare, quella del filosofo.

1.3

La terza via verso l’immortalità è anch’essa, come la seconda, di ambito

culturale e non biologico, ma sia il suo approccio sia il suo esito sono di

qualità intellettuale del tutto superiore a quelli della via “filotimica Chi

dunque procede correttamente (orthos) per questa via passerà dall’eros ri

volto alla bellezza di un corpo a quello per tutti i corpi che partecipano del

tratto della bellezza, poi a quello rivolto alla superiore bellezza delle ani

me e dei loro prodotti: comportamenti (epitedeumata), leggi, conoscenze

(episternai) (zioa-c). Questo eros riorientato lo metterà di fronte allo spet

tacolo del «vasto mare del bello», la cui contemplazione gli ispirerà la ge

nerazione di «discorsi [logoi] belli e magnifici», nonché di nobili pensieri

(dianoemata) filosofici, il cui orizzonte è la conoscenza unitaria e per così

dire intensiva (mia episteme) del bello (ziod).

A questo punto, giunto ormai al tetos della contemplazione delle cose

belle, l’iniziato perverrà alla visione istantanea ((v 1cwr6fETctt) del

«bello per natura» (lIoe4-6). Tutto ciò suscita naturalmente parecchie

domande, ma importa qui in primo luogo vedere le conseguenze di que

sta visione del bello in sé. Ch la consegue genera non più simulacri di

areté — tali vanno ormai evidentemente considerate tanto le virtù “eroi

che” quanto quelle etico-politiche — ma la «virtù vera» (21224-6), la

cui natura deve essere dunque considerata soltanto contemplativa. A ch

l’ha conseguita spetta di diventare theophites, evidentemente nel doppio

senso di colui che è “caro agli dei” e che è a loro devoto. Certo anche

a questo tipo di uomo toccherebbe di diventare immortale, athanatos,

se mai ciò potesse accadere a un uomo, e nella misura in cui questo per

un uomo è possibile (21za7-8). Questa è la terza e più elevata forma di

immortalità perseguibile dagli uomini, dopo quella biologica e quella

poetica e politica.


z66

IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE

267

1.4

Tutto questo, si diceva, suscita molte domande. Che cosa esattamente co

nosce l’iniziato quando “vede” il bello? Che forma epistemica assume que

sta conoscenza? Perché essa dovrebbe risultare quasi inaccessibile al So

crate allievo di Diotima? C’è continuità o discontinuità fra i diversi passi

verso l’immortalità, e i tipi d’uomo che a essi corrispondono? Che cosa

accade all’iniziato dopo la visione del bello? Infine quella che è per noi la

domanda più importante: di che tipo è l’immortalità acquisita grazie alla

conoscenza del bello?

‘.4.’

il linguaggio con cui Platone descrive il “bello” oggetto della visione epopti

canon lascia dubbi: si tratta dell’idea o forma del bello, cui vengono riferiti

i tratti ricorrenti in quella che si può definire la teoria standard delle idee’°.

È sufficiente leggerne due passi confrontandoli rispettivamente con quelli

paralleli in Repubblica e fedane. Il bello del Simposio « sempre è e non nasce

né muore, non cresce né diminuisce, [...] non è in parte bello e in parte

brutto, né a volte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto ri

spetto a un’altra » (z,Ia,-4). E si veda Repubblica, dove si polemizza contro

il filodosso che «non ritiene esservi il bello in sé né alcuna idea della bellez

za in sé che permanga sempre invariante nella sua identità», e gli si obietta

che delle molteplici cose belle «non ve n’è una che non possa apparire an

che brutta [...], e che le stesse cose appaiono, da diversi punti di vista, ora

belle ora brutte», a differenza dell’identità invariante dell’idea (v 479a1-8).

Ancora, il bello del Simposio si trova « esso stesso tctà iccO ‘T6] in se stes

so, con se stesso, in un’unica forma [monoeides] , eterno, mentre tutte le altre

cose belle partecipano [metechonta] di esso» (z,ibi-3). Il confronto qui è

con il fedone, dove dell’ «uguale in sé, del bello in sé, e di ciascuna cosa che

è in sé» si dice che «ciascuna di queste cose che sono, essendo uniformi

[monoeides] in sé e per sé [a&rò icaO ‘ct6] e nella medesima condizione, in

nessun momento, in nessun luogo ammette alcun mutamento» (78d3-$).

Non c’è dubbio, quindi, che l’oggetto della visione iniziatica possa de

finirsi tecnicamente come l’idea del bello. Il fatto che il contatto con essa

(designato con il verbo haptesthai) rappresenti il culmine e il compimento

del percorso erotico (tetos, zIoe4) può suggerire un’analogia, almeno di

posizione, con l’idea del buono nella Repubblica, collocata anch’esso al

culmine (telos) del mondo ideale, e oggetto di un’apprensione noetica (VII

53zbi s.), che può a sua volta venire indicata con il verbo haptesthai (vi

5xIb6). Ma si tratta di un’analogia che è appunto solo di posizione, per

ché mentre nella Repubblica il primato del buono rispetto alle altre idee è

argomentato con forza, nel Simposio il bello appare come tetos nel quadro

dominante della sublimazione erotica, né è mai in questione il suo rappor

to con le altre forme del dominio eidetico.

1.4.2

Pochi dubbi possono esservi anche circa il modo di apprensione dell’i

dea del bello nel Simposio. 11 linguaggio platonico rinvia inequivocabil

mente all’immediatezza dell’atto intuitivo, che si configura come visio

ne o contatto (exarphnes, kathoran, haptesthai: zioe, z,,b8). Si aggiunge

esplicitamente che in questo atto l’apparizione del bello non prende la

forma né di un logos né di una episteme (zi;a8), è dunque estranea rispet

to all’ambito della conoscenza linguistico-proposizionale”. È persuasivo

il confronto con l’approccio della dialettica all’idea del buono nella Re

pubblica. Benché anche qui non siano assenti accenni a una conoscenza

di tipo intuitivo, l’accento cade sulla definizione discorsiva (top(oOcu

-rc)6yc), sull’etenchos (vii 534b8-c,), sul logos tes ousias, sul logon didonai

(VII 534b3-5). Confesso di non trovare appassionante la discussione in

torno al carattere irrazionale, mistico, oppure razionale e addirittura iper

razionale” di atti conoscitivi extralinguistici. Linguistico/proposizionale

e razionale non sono evidentemente termini sovrapponibili e convertibili,

e la storia dell’idea di Wesenschau nella filosofia del Novecento è lì a dimo

strarlo. Più interessante è la questione, sollevata da Fronterotta’3, se l’atto

di conoscenza intuitiva individualmente sperimentato sia linguisticamen

te trasponibile, comunicabile e universalizzabile: a me pare che, a differen

za della Repubblica, la questione non sia tematizzata nel Simposio e debba

quindi essere lasciata aperta, anche se una risposta positiva potrebbe, con

molta incertezza, venire suggerita dal rapporto maestro-discepolo che reg

ge l’intero percorso iniziatico.

Va piuttosto notato che la piena visione dell’idea del bello è perfet

tamente accessibile in questa vita, e non richiede — a differenza che nel

Fedone — alcuna separazione dell’anima dal corpo, anzi è possibile solo

al termine di un processo di sublimazione nel quale l’attrazione verso la

bellezza corporea è il punto di partenza imprescindibile. Ma su questo do

vremo tornare da un diverso punto di vista.


anche

non

chiede

appunto

che

z68 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 169

‘.4.3

Che cosa significa dunque l’incapacità di seguirla nel viaggio iniziatico che

Diotima attribuisce a Socrate? In essa si è potuto leggere il segno della insu

perabile minorità del filosofo, costretto, almeno in questa vita, ad amare la

sapienza senza poterla conseguire, e dunque confinato nella zona epistemica

dell’ “opinione vera Questa interpretazione sembra tuttavia smentita da un

passo molto simile della Repubblica, dove è però Socrate, una volta giun

to sulla soglia della piena comprensione della dialettica e del suo oggetto

terminale, l’idea del buono, ad attribuire a Glaucone un’analoga incapacità

di procedere oltre’. Socrate usa qui quasi le stesse parole che Diotima gli

aveva indirizzato nel Simposio: «mio caro Glaucone, non sarai più in grado

[oiucé-rt (...) oi6 -r’io-] di seguirmi, per quanto io non trascurerà certo ogni

sforzo Lprothymia] » (VII 533I s.). Il cambio di posizione fra Socrate e Dio

tima può allora far pensare che l’incapacità di Socrate nel Simposio sia dovu

ta alla sua giovinezza’5, superata nella Repubblica quando un Socrate maturo

avrebbe ormai assunto l’atteggiamento del maestro. Anche questa ipotesi

sembra tuttavia messa in dubbio da un confronto con il Parmenide. Qui

il vecchio maestro eleate riconosce come propria del giovanissimo Socrate

una procedura filosofica consistente nel riconoscere tratti comuni a diversi

enti (è il primo passo nella costruzione della teoria delle idee, cioè il ricono

scimento dell’unità oltre la molteplicità, dello ben epipottois, da cui inizia

anche l’ascesa del Simposio, zlob3 s.), e nel separare (choris) questi tratti da

gli enti che ne partecipano, facendone così eide esistenti in sé stessi: «questo

ragionamento vale anche per realtà quali la forma in sé e per sé [rIo c&rà

icO ‘cir6] del giusto, del bello, del buono» (i3obz-9, cfr. 13oe5-131a1).

Quello insomma che il giovanissimo Socrate fa secondo Parmenide è

la costruzione di una forma standard della teoria delle idee mediante una

semplice procedura logico-ontologica che non richiede né iparaphernatia

dell’iniziazione ai misteri erotici propri del Simposio’6, né alcuna visione

oltreterrena delle idee.

Non sembra dunque che la ragione della difficoltà attribuita da Diotima a

Socrate consista nell’aspetto cognitivo dell’accesso all’idea del bello. Ciò che

viene in questo modo enfatizzato e solennizzato è la difficoltà di una scelta

di vita più che di un orientamento epistemico: la scelta di vita che condurrà

a una forma di immortalizzazione individuale diversa sia da quella biologica

sia da quella politica e poetica, e che dunque richiede una piena maturità

morale oltre che intellettuale da parte di chi si avvia in quella direzione.

‘.4.4

Sembra di poter escludere che vi sia una continuità fra i diversi percor

si verso l’immortalità, e che essi possano venir disposti in una sequenza

progressiva’7: quello erotico-filosofico va intrapreso «fin da giovane»

(zioa6), e a esso corrisponde un tipo d’uomo — il filosofo — an

tropologicamente diverso sia da quello dedito alla procreazione biologica

sia dal phitotimos. La scelta del filosofo comporta una forma di vita che gli

è peculiare: «questa è la dimensione della vita che, se mai altra, un uomo

deve vivere [biòton]: contemplando il bello in sé» (z;idi-3).

Il Simposio — a differenza dalla Repubblica — sembra prevedere alcu

na discesa del filosofo una volta raggiunto lo stadio contemplativo’8. È vero

che giunto alla visione del bello, e al tipo di vita che le consegue, il filosofo

ha ancora un’attività generativa, consistente nel «partorire non simulacri

[eidola] di virtù, ma virtù vera, visto che afferra il vero» (z;1a4-6). Questa

areté, proprio in quanto è “vera”, sarà perciò diversa dalle virtù poetiche e

politiche: se possiamo anticipare un linguaggio aristotelico, essa sarà una

virtù dianoetica e non etica, che configura una forma di vita dedicata alla

verità e non alla politica o alla creazione poetica.

B1ondell’ ritiene inevitabile una discesa: «poiché il filosofo non può

esistere permanentemente nella contemplazione delle forme», «il Socra

te temporaneamente solipsistico tornerà presto fra i suoi compagni mor

tali». Questo può essere certamente vero per il filosofo della Repubblica, e

forse anche per il nostro senso comune. Ma è meno vero per la figura del fi

losofo che Platone delinea nel celebre excursus del Teeteto, con la sua esclu

siva dedizione alla pura teoresi (i73d-i75b), per non parlare dell’ascesi del

fedonebo. Del resto, non c’è nulla di impensabile in una vita interamente

dedicata alla comprensione delle strutture del mondo noetico, se si pensa

a esercizi teorici come quelli programmati nel Sofista e nel Parmenide. Che

il bios theoretikos possa costituire una forma di vita pervasiva, lo avrebbe in

dicato con chiarezza Aristotele — se certamente in lui l’oggetto della

contemplazione risulta assai dilatato rispetto a quello platonico.

1.4.5

Queste considerazioni rendono più agevole la risposta alla domanda per

noi più importante, circa il tipo di immortalità personale che consegue

alla visione dell’idea del bello (e per estensione, è lecito supporre, del mon

do delle forme nel suo insieme). «Non trovi — Diotima — a chi


non

270 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 271

partorisce e alleva virtù vera spetta di diventare caro agli dèi [theophites], e

se mai a un uomo toccasse di diventare immortale, dovrebbe toccare anche

a lui?» (112a7 s.). Il senso di questo passo, in cui Platone indica la terza e

più elevata via verso l’immortalità personale, viene chiarito dal confronto

con un più esplicito testo parallelo del Timeo, il cui linguaggio presenta

forti affinità con quello del Simposio:

colui il quale si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto

questa parte di sé ha esercitato, è assotutamente necessario che, quando attinge

alla verità [à)ìiOrtc i4à7rT1rct1, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella

misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’ immortalità, non ne

trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice (9ob6-c6, trad. Fronterotta

leggermente modificata).

il passo del Timeo conferma ciò che risulta già con molta chiarezza nel Sim

posio. Per individui mortali, l’immortalità personale ottenuta mediante l’ac

quisizione, il consolidamento, la trasmissione educativa della conoscenza — al

pari di quella perseguita mediante la prole o la memoria — richiede e non

presume l’immortalità dell’anima individuale. Come ha scritto Casertano,

« ogni singolo uomo è mortale, in suo corpo e sua anima, ma ha la possibili

tà, nella sua vita mortale, di attingere una forma di immortalità, che consiste

precisamente nell’innalzarsi al mondo immortale della conoscenza»21.

Il senso dell’assenza nel Simposio di una teoria dell’immortalità dell’a

nima individuale, in rapporto all’insieme del pensiero platonico, andrà

discusso più avanti.

È ora il caso di considerare una posterità importante, e in qualche mi

sura sorprendente, delle tesi sull’immortalità insegnate da Diotima; reci

procamente, questa posterità servirà a comprendere meglio il senso e la

portata delle osservazioni che abbiamo svolto fin qui.

2.

1.1

C’è una straordinaria somiglianza fra la via riproduttiva all’immortalità in

dicata da Diotima e il modo in cui Aristotele spiega la finalità della riprodu

zione biologica tanto nel De anima quanto nel Degeneratione animatium:

La funzione più naturale [physikòtaton] degli esseri viventi [...] è di produrre un

altro individuo simile a sé: l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per

partecipare [metecho’sin], nella misura del possibile, dell’eterno e del divino. In

effetti è a questo che tutti gli esseri tendono [oregetai] [...] Poiché dunque questi

esseri non possono partecipare con continuità dell’eterno e del divino, in quanto

nessun essere corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di numero,

ciascuno ne partecipa per quanto gli è possibile, chi più e ch meno, e sopravvive

non in se stesso, ma in un individuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella

specie [eidei]» (De an. ii 4 415a25-b7, trad. Movia).

Più brevemente ribadiva Aristotele nel Degeneratione: «poiché non è pos

sibile che la natura del genere degli animali sia eterna, ciò che nasce è eter

no nel modo che gli è dato. Individualmente gli è dunque impossibile [...]

secondo la specie gli è invece possibile. Perciò vi è sempre un genere di uo

mini, di animali e dipiante» (Degen. anim. Il i 731b31-731a1, trad. Lanza).

Aristotele non fa così che generalizzare, estendendola all’intero mondo

vivente, dagli uomini alle piante, la tesi di Diotima sull’immortalità ripro

duttiva. L’estensione comporta però due conseguenze. La prima è una certa

de-psicologizzazione del discorso di Diotima, che sostituisce l’eros con una

pulsione “naturalissima”; resta vero anche per Aristotele che l’aspirazione

(orexis) verso l’eternità divina costituisce una sorta di programma genetico

del vivente, che può però agire in modo del tutto inconsapevole. La secon

da conseguenza è che la scena dell’immortalizzazione riproduttiva si sposta

decisamente dagli individui alla specie, che ne è l’unico ambito possibile.

Aristotele non riprende in modo esplicito la seconda via verso l’immortalità

personale, quella perseguita dal tipo d’uomo “filotimico’ Non c’è dubbio

però che egli delinei questa forma di vita e la sua connessione con la virtù e la

felicità, anche se non direttamente con l’immortalità mediante la memoria.

Si tratta dell’ambito delle virtù che Aristotele chiama etiche, distinguendolo

da quelle “teoriche” definite, com’è noto, “dianoetiche” Le virtù etiche non

sono le prime anche se godono di una loro eccellenza: «L’agire politico e le

azioni di guerra eccellono tra le azioni secondo virtù»; ne derivano «potere

e onori [timas] , e comunque la felicità [eudaimonia] per se stesso e per i pro

pri concittadini» (EE X 7, ii77bi3-i7, trad. Natali modificata). Tuttavia la

felicità conseguente a questa forma di virtù è imperfetta e di secondo rango,


272 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE

perché condizionata da circostanze esterne e indipendenti dall’individuo

agente, al quale viene richiesto un impegno oneroso e dall’esito incerto.

2.3

Inequivocabile invece la ripresa aristotelica della terza via verso l’immor

talità personale, quella filosofica: essa è manifestata in un passo dell’Etica

Nicomachea dal forte rilievo retorico, centrato sul verbo athanatizein, un

hapax nel corpo aristotelico. Nel celebre capitolo del libro x’4, Ari

stotele decreta il primato della vita teoretica, in quanto attività secondo

la migliore virtù umana, quella esercitata dal nous nella conoscenza delle

cose «belle e divine», da cui consegue la sua capacità di pervenire alla

«felicità perfetta» (teleia eudamonia) (;177a;z-;7). Questa vita consi

ste nell’attività dell’elemento divino inerente alla vita umana, appunto il

pensiero. Per questo, aggiunge Aristotele, «non si deve, essendo uomini,

limitarsi a pensare a cose umane, né essendo mortali pensare solo a cose

mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali fin

quanto è possibile [c’ 6oov rrai ctOwvar(Erv] e fare di tutto per vi

vere secondo la parte migliore che è in noi. Anche se è di peso [onchos]

minuscolo, per potere e per onore essa supera di gran lunga tutto il resto »

(1177b31-117$aI). La più alta forma di immortalità personale possibile per

l’essere umano mortale, la virtù più vera, la perfetta felicità: riecheggiano

con molta forza, in questo passo aristotelico, i tratti decisivi riconosciuti

da Diotima alla contemplazione filosofica dell’idea del bello — certo estesa

da Aristotele a tutto il campo dei possibili oggetti del pensiero speculativo.

Sembra dunque certo che Aristotele abbia trovato nel Simposio elemen

ti decisivi per pensare la questione del desiderio di immortalità individuale

da parte di viventi mortali, e dei diversi livelli ai quali questo desiderio può

venire soddisfatto: dall’eternazione riproduttiva fino all’assimilazione

parziale con l’immortalità divina consentito dalla forma di vita teoretica.

2.4

L’elaborazione e l’espansione aristotelica delle prospettive indicate da

Diotima forniscono dal canto loro preziosi chiarimenti che possono veni

re impiegati retroattivamente per l’interpretazione dei problemi cruciali

sollevati da quelle prospettive.

In primo luogo. Considerata dal punto di vista aristotelico, la questio

ne se il percorso “politico” e quello speculativo verso l’immortalizzazio

ne personale vadano considerati come posti in sequenza o piuttosto in

alternativa può venire chiaramente risolta nel secondo senso. La forma

di vita politica e quella teoretica sono nettamente distinte e contrappo

ste da Aristotele’; a esse corrispondono tipi d’uomo diversi, e diverse

virtù gerarchicamente distinte (quella dianoetica e quelle etiche, anche

se naturalmente l’esercizio della virtù maggiore non esclude il possesso

di quelle etiche, richieste dall’interazione quotidiana fra gli uomini)26.

Aristotele considera l’attività politica come un impedimento e un impac

cio per quella speculativa, cui va dedicata per quanto è possibile la vita

intera — anche se essa concerne un’esigua minoranza di uomini, come

del resto presumibilmente accadeva per la perfetta iniziazione erotica del

Simposio.

Questa opposizione tra virtù, forme di vita e tipi umani contiene in sé

anche la risposta che il punto di vista aristotelico offre al secondo quesito

suscitato dal Simposio, circa l’eventuale “discesa” nelle occupazioni uma

ne dopo l’evento della contemplazione dell’idea del bello. Come si era

anticipato, questa risposta non può che essere negativa. A differenza del

ritorno nella caverna dei filosofi della Repubblica, il filosofo aristotelico

rifiuterà il coinvolgimento politico, decidendo di «vivere da straniero»

nella città (Poi. VII a 1324116). La stessa permanenza perpetua nella sfera

dell’attività teoretica sarà dunque da attribuire al filosofo contemplatore

del Simposio.

Ma veniamo alla terza e più importante questione. L’idea di un acces

so biologico all’eternità della specie, e di una conquista culturale dell’im

mortalità personale che non comporta e non richiede alcuna concezione

dell’immortalità dell’anima individuale, si accorda perfettamente con la

psicologia e l’etica perfettamente “mondane” di Aristotele. Reciproca

mente, il fatto che egli possa accogliere senza riserve queste prospettive

sull’immortalizzazione formulate nel Simposio significa che nella lettu

ra aristotelica esse non comportavano alcun impegno nei riguardi delle

convinzioni altrove formulate da Platone circa l’immortalità dell’anima

individuale, convinzioni che Aristotele non avrebbe potuto affatto con

dividere. Aristotele conferma dunque l’assenza nel Simposio di ogni rife

rimento a questo complesso di dottrine e delle loro ricadute sia morali sia

gnoseologiche.


possano

del

‘74 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 175

3

Un’assenza, questa, che non può venire spiegata con ipotesi di tipo evolu

tivo, vista la prossimità del Simposio a dialoghi, come il fedone e il fedro,

dove il pensiero dell’immortalità dell’anima gioca un ruolo centrale. Sem

bra anche piuttosto arbitrario pensare a uno «scetticismo temporaneo»

di Platone intorno a questa convinzione, come ha fatto HackfortW. Ma

neppure sembrano accettabili “spiegazioni” (nel senso inglese di exptain

away) che implicano unapetitioprinciii, di questo tipo: Platone ha sempre

sostenuto la teoria dell’immortalità dell’anima; dunque essa non può risul

tare assente nel Simposio, anche se il testo sembra confermarl&8.

In realtà, anche l’eclissi dell’immortalità dell’anima individuale deve

a mio avviso venire interpretata secondo il criterio prudente e plausibile

formulato da Thomas Robinson:

Il rifiuto manifesto, da parte di Platone, di ridurre a una sembianza d’ordine artifi

ciale una serie di concezioni dell’anima che, intrinsecamente, sono probabilmente

inconciliabili [...J va compreso come un segno della sua potenza filosofica [...] Esso

può venire attribuito a una sua ferma decisione di lasciare una pluralità di opzioni

aperte in caso di dubbio, decisione di un uomo che lungo tutta la sua vita, e fino

alla fine, ha scelto di esprimersi sempre, su ogni argomento, nella forma di un

dialogo aperto e non in quella di un trattato dogmatic&9.

È del resto ben noto quanto sia problematica e tormentata in Platone la

questione dell’immortalità dell’anima individuale, in ragione delle stesse

esigenze cui essa è chiamata a rispondere. C’è da un lato la necessità di

ordine morale di incentivare la condotta giusta in questa vita mediante

un dispositivo di premi e punizioni previsti per l’anima nell’aldilà, che

possono risarcire il giusto per le sue sofferenze mondane e sanzionare

l’ingiusto per le sue prevaricazioni30, dispositivo ampiamente descrit

to nei miti escatologici del Gorgia e del libro x della Repubblica’. C’è

dall’altro lato l’esigenza gnoseologica di spiegare la possibilità di cono

scenza di enti incorporei come le idee da parte di un’anima vincolata agli

organi di senso: essa può essere più facilmente pensata come un contatto

prenatale fra le idee e un’anima non ancora incorporata, secondo la tesi

del Fedone3z.

Le due esigenze tuttavia confliggono su un punto decisivo, che resta

irrisolto in Platone. Una qualche forma di ricordo dell’esperienza conoscitiva

prenatale deve essere conservato nella vita corporea, perché su di

esso si fonda la via anamnestica per il riconoscimento delle idee anche

in questa vita. Al contrario, l’istanza etica esige la cancellazione di ogni

ricordo delle esperienze prenatali, come indica il mito di Er, perché altri

menti non si avrebbero più in questa vita decisioni morali responsabili,

bensì un semplice calcolo di costi e benefici, in base al quale la condotta

giusta verrebbe presumibilmente scelta in vista dei premi decuplicati con

cui essa è remunerata nell’aldilà, e viceversa sarebbe evitata la condotta

ingiusta per timore delle analoghe punizioni. La memoria, necessaria per

la conoscenza delle idee, renderebbe dunque impossibile la scelta morale.

Una contraddizione questa che Platone non risolve e neppure tematizza,

lasciando che i due tipi di discorso si svolgano su piani diversi e non co

municanti.

Considerazioni simili si possono svolgere intorno alla questione

dell’immortalità dell’anima nella sua singolare individualità. L’esigenza

di ordine morale richiede che la vicenda oltreterrena dell’anima la riguardi

nella sua interezza personale (si parlerà dunque dell’anima di Achille o di

Socrate): premi e punizioni non possono che riguardare tutta l’anima che

porta meriti e colpe della vita dell’individuo clii è appartenuta. Ma d’altro

canto è difficile pensare che le parti dell’anima più strettamente legate alla

corporeità, come lo thymoeides e l’epithymetikon — resto esplicitamente

designate come “mortali” nel Timeo — godere della stessa immor

talità che spetta all’elemento divino che è in noi, cioè il principio razionale

che è tuttavia per sua natura impersonale.

Anche questi problemi non trovano in Platone soluzioni univoche, né

vengono esplicitamente tematizzati.

Se si tiene conto di questo quadro complesso e frastagliato, si può dun

que accettare senza eccessiva sorpresa che il Simposio non prenda affatto

in considerazione l’immortalità dell’anima, e proponga di pensare una via

all’ immortalizzazione personale che ne prescinde completamente: questo

va considerato come uno dei molti esperimenti intellettuali di Platone, la

cui importanza è eccezionalmente confermata dalla sua attenta rivisitazio

ne da parte di Aristotele.

È però il caso di mettere in rilievo una conseguenza importante di que

sto esperimento, alla quale non sempre si è dedicata una sufficiente atten

zione: si tratta della rinuncia alla funzione gnoseologica (oltre che a quella

morale) attribuita all’immortalità dell’anima.


che

dai

176 IL POTERI DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 277

4

Fare a meno dell’ immortalità dell’anima significa nel Simposio rinun

ciare alla reminiscenza (anamnesis) come modalità di recupero di una

conoscenza del mondo eidetico ottenuta dall’anima nella sua vita extra

corporea35. L’accesso all’idea del bello in questo dialogo avviene grazie a

un percorso di sublimazione della pulsione erotica che non richiede

fatto la separazione dell’anima dal corpo, anzi ha nel corpo — come sog

getto e oggetto del desiderio di bellezza — il suo imprescindibile punto di

partenza, e l’indispensabile riserva di energie psichiche da investire nella

conversione verso l’idea. Non c’è dubbio, dunque, che secondo il Simposio

una conoscenza delle idee (che qui sembra di tipo prevalentemente

itivo) è possibile anche senza il ricorso all’immortalità dell’anima e alla

relativa reminiscenza.

È indubbiamente vero che in molti dialoghi — dal Fedone6 al Menone37,

per certi aspetti al Fedro — la compiuta visione del mondo eidetico

è fatta dipendere da un’esperienza cognitiva possibile solo per l’anima

disincarnata, che ne conserva una qualche memoria anche dopo la rein

carnazione.

È altrettanto vero, però, che in altri dialoghi non meno importanti,

oltre che nello stesso Simposio, la conoscenza delle idee risulta possibile

anche senza reminiscenza.

Nel Parmenide, il giovane Socrate sembra impiegare con una certa

disinvoltura il metodo — Aristotele avrebbe chiamato ekthesis — con

sistente nell’isolare un tratto predicativo comune a più realtà empiriche

facendone un’entità noetica “separata” e invariante, insomma un’idea. Un

metodo di trattazione delle idee, naturalmente, che non ha nulla a che fare

con l’immortalità e con la reminiscenza.

Ma ciò che più conta è l’assenza della reminiscenza nella Repubbli

ca, che pure offre nel libro VII il più elaborato programma di accesso al

mondo eidetico che Platone abbia mai formulato. È ben poco plausibile

il tentativo di ridurre la portata di questa assenza riconducendola a ragio

ni «essenzialmente letterarie e drammatiche», perché stonerebbe con la

prospettiva unificante della visione del bene’. Al contrario, la conoscenza

delle idee, e al di là di esse dell’idea del buono, è preparata — a partire

dai paradossi dell’esperienza sensibile — processi astrattivo-idealizzanti

delle matematiche, poi dal lavoro critico-costruttivo della dialettica. An

che qui, e forse qui più che altrove, Platone non sembra avvertire alcuna

af

intu

necessità di ricorrere all’ipotesi di una conoscenza prenatale delle idee e

della sua reminiscenza in questa vita.

Il Simposio non è dunque l’unico testimone del fatto che Platone

bia esplorato soluzioni gnoseologiche diverse per l’accesso al mondo

detico°. Ci sono alternative alla rammemorazione anamnestica, e, nel

loro ambito, ci sono modalità differenziate di approccio alla conoscenza

delle idee (nel Simposio l’accento è posto sull’immediatezza della visio

ne, nella Repubblica sul lavoro dialettico, nel Farmenide sulla ekthesis

dell’unità dal molteplice). Le differenze fra queste prospettive non con

sentono di essere spiegate mediante ipotesi evolutive, e possono proba

bilmente venire considerate non incompatibili nel quadro del pensiero

platonico. Non è però accettabile scegliere una di queste prospettive

come dominante o “strutturale”, facendone un letto di Procuste in cui

annullare la ricchezza di esperimenti teorici presenti nei dialoghi. In essi

Platone ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di

pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stes

so in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca. Almeno in un caso

— l’immortalizzazione personale senza immortalità dell’anima — questi

sviluppi avrebbero incontrato il consenso da parte di Aristotele, che era

interessato a mantenere il privilegio straordinario della forma di vita filo

sofica, la sua capacità di athanatizein, senza per questo modificare la sua

dottrina dell’anima come forma del corpo e da esso inseparabile (De an.

III 4izb5, ss.).

Note

4I3l

ab

ei

i. La maggior parte dei commentatori riconosce senza incertezze in Diotima un

portavoce affidabile del pensiero platonico. Dubbi in proposito, da punti di vista

diversi, sono stati espressi ad esempio da D. Sedley, The Ideal of Godtikeness, in G.

Fine (ed.), Ptato 2: Ethics, folitics, Religion and the Sout, Oxford 1999, p. 130, 11. 2.;

e da D. Nails, Tragedy ofStage, in J. H. Lesher, D. Nails, F. C. C. Sheffield (eds.),

Ptato’s “Symposium’ Issues in Interpretation and Reception, Cambridge (MA)-Lon

don zoo6, pp. 191-3. Si tratta di dubbi legittimi, se si tiene conto delle complesse

strategie di distanziamento dal testo presentate nel prologo del dialogo (catena di

narratori poco attendibili), e del carattere anomalo del personaggio (donna, stra

niera, sacerdotessa). È vero tuttavia che Diotima usa a più riprese, come vedremo,

il linguaggio tecnico della teoria delle idee che appartiene senza dubbio a uno dei

nuclei teorici costanti del pensiero di Platone. Se è vero che nessun personaggio

(comprese le diverse raffigurazioni di Socrate) può essere considerato senza riser

ve come “portavoce” autentico di Platone, non credo dunque che Diotima sia da


278 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 279

considerare meno affidabile ad esempio del Socrate del fedone o della Repubblica,

né che le sue tesi vadano corrette sulla base di quelle espresse altrove da altri per

sonaggi autorevoli. Ma della specificità del personaggio nel contesto dialogico, in

particolare per quanto riguarda la retorica erotica, bisognerà tener conto nel seguito

di questa analisi.

a. Per un importante passo parallelo sulla connessione tra immortalità e felicità cfr.

Timeo 9oc, sul quale dovremo tornare. L’accostamento è segnalato da f. Ferrari, fros,

paideia efilosofia: Socratefra Diotima cAlcibiade, in V. Sorge, L. Palumbo (a cura di),

Eros eputchritudo. Tra antico e moderno, Napoli zoiz, p. 38.

3. Cfr. in questo senso G. R. Lear, PermanentBeauty and3ecomingHappy in Plato’s

“Symposium”, in Lesher, Nails, Sheffield, Plato’s “Symposium”, cit., 3. 109.

Le

.

traduzioni del Simposio citate sono di M. Nucci (Torino 2009), con qualche

modifica.

A. Fossi, Tempo, desiderio, generazione. Diotima

.

e Aristofane nel “Simposio” di

Platone, in “Rivista di storia della filosofia”, i, zoo$, segnala tuttavia che nel caso de

gli uomini anche la riproduzione biologica comporta un aspetto culturale, perché

essa comprende le nozioni di famiglia e di memoria conservata nella discendenza

(pp. 6-7). La differenza tra le due forme di immortalizzazione sembra attenuata, o

negata, dal passo di zo6cI-3, dove si afferma che «tutti gli uomini sono gravidi ccd

ccr& Tà O&[Lu iozì )cc/T& Tipi fUV» (ognuno disporrebbe dunque anche di una via

“spirituale” all’immortalità). Ma il passo deve essere confrontato con zo8ez-3, 6,

zo9ax, dove i due gruppi sono chiaramente contrapposti: «quelli che sono gravidi

secondo il corpo [ol tìv K6.LOVE KuT& r& od4tctTc] [...J Quelli invece che sono

gravidi secondo l’anima [ol è Icccr& Tipi ». Anche il primo passo andrà dun

que interpretato nel senso che tutti sono gravidi, sia (alcuni) nel corpo sia (altri)

nell’anima.

6. Sul tono epico di tutto il passo cfr. D. Susanetti, L’anima, l’amore e ilgrande mare

del bello, introduzione a Platone. Il Simposio, Venezia 1992, p. z. La parvenza dell’e

roe è spesso quella di un “dio immortale”: cfr., per Achille, Iliade XXIV 619 s. Sulle

«strategie di sopravvivenza mondana orientate da una tensione verso l’aldiquà» in

epoca arcaica, che sono « sorrette dall’idea che sia possibile sfuggire all’annullamento

totale realizzando forme di permanenza, oltre la vita, nella vita degli uomini: affidate

alla loro parola, alla loro vista, alla loro memoria», cfr. l’importante saggio 5. Nico

sia, Altre vie per l’immortalita nella cultura greca, in Id., Ephemeris. Scritti efimeri,

Soveria Mannelli (cz) 2013, pp. 407-23 (cit. p. 413).

G. R. E Ferrari, Platonic Love, in R. Kraut (ed.),

.

The Cambridge Companion to

Plato, Cambridge 1992, parla in proposito di un «pious roll of cultural heroes»

(p. Anche in Phaedr. z8c Licurgo e Solone, insieme con Dario, vengono consi

derati «logografi immortali».

8. Un interessante passo delle Leggi compatta la prima e la seconda via all’immor

talità. «In qualche misura il genere umano partecipa per sua natura dell’immorta

lità e di questa ognuno ha un desiderio innato: si tratta del desiderio di diventare

I

celebri [kleinon] senza giacere senza nome una volta morti. In effetti il genere uma

no è in qualche modo connato con la totalità del tempo che lo accompagna e lo

accompagnerà sino al termine ed essendo appunto in questo senso immortale, col

lasciare i figli dei figli restando perennemente identico a se stesso e unico, partecipa

mediante la generazione all’immortalità» (iv 7;1b7-c7). È da notare che mentre

l’immortalità attraverso la fama è strettamente individuale, quella riproduttiva si

sposta chiaramente, come sarebbe accaduto in Aristotele (cfr. PAR. z.i) dagli indi

vidui al genere.

9. Anche in Eth. Nicom. x I179a24, 30 massimamente theophiles il sophos dedito

all’attività teoretica.

io. Cfr. in questo senso ad esempio V. Di Benedetto, Eroslconoscenza in Platone, in

Platone. Simposio, Milano 1985, p. 41; F. Fronterotta, La visione dell’idea del bello.

Conoscenza intuitiva e conoscenza proposizionale, in A. Borges de Araùjo, G. Cornelli,

Il “Simposio”di Platone: un banchetto di interpretazioni, Napoli 2012, p. 99.

ii. Cfr. B. Centrone, Introduzione a Platone. Simposio, trad. e commento a cura di

M. Nucci, Torino 2009, p. XXXIII; Nucci, in Platone. Simposio (Torino 2009) n. 269;

Fronterotta, La visione dell’idea del bello, cit., pp. io6-io.

ia. F. Bearzi, Il contesto noetico del “Simposio”, “Études platoniciennes”, I, 2004,

p. zi, parla di «suprema rigorosità razionale». Che non si tratti di una «mysti

sche Erlebnis», perché non c’è alcuna unio mystica fra soggetto e oggetto, è soste

nuto da K. Sier, Die Rede der Diotima. Untersuchungen zum platonischen Symposion,

Stuttgart-Leipzig 1997, pp. 171-2.

13. Fronterotta,La visione dell’idea del bello, cit., p. 109.

14. Qui tuttavia può trattarsi non tanto di un’incapacità soggettiva quanto dell’in

trinseca difficoltà che la dialettica possa costituirsi come un sapere epistemologica

mente completo e saturo, difficoltà che dipende dalla natura ontologicamente ambi

gua del suo oggetto ultimo, l’idea del buono: cfr. in questo senso M. Vegetti, Glaucon

et les mystères de la dialectique, in M. Dixsaut (éd.), Etudes sur la “Republique”de Pla

ton, vo1. Il, Paris 2005, pp. 25-37.

i. Interessanti considerazioni sul “Socrate giovane” nei dialoghi in F. De Luise, Il

sapere di Diotima e la coscienza di Socrate. Note sul ritratto delfilosofo da giovane, in

Borges deAraùjo, Cornelli,Il “Simposio”di Platone, cit.,pp. 115-38.

i6. Giustamente Ch. Rowe, Il rSimposiodi Platone, Sankt Augustin 1998, sottolinea

che quella erotica è solo una delle vie possibili per la conoscenza filosofica.

17. Cfr. in questo senso Centrone, Introduzione, cit., p. XXXIII; e Nucci, cit., n. z6o.

i8. Così Nails, Tragedy ofStage, cit., pp. 193-4: «the ascent in the Symposium ends

at the summit with exclusive contemplation of the kalon ». Nello stesso senso Bearzi,

Il contesto noetico del “Simposio”, cit., p. 234 (che tuttavia cerca di mostrare una in

diretta compatibilità con la Repubblica). Scrive efficacemente Ferrari, Platonic Love,

cit., pp. 259-60: «far from there being any hint that he [l’iniziato] could transfer his

concern from the Beautiful itselfto the beauty ofvirtue, he is explicitly envisaged as

spending his life in contemplation of the former. In marked contrast to the Lesser


180 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE z8i

Mysteries, what virtue amounts to here is not clearly something other than the vision

of the Beautiful that gives it birth».

19. R. Biondeli, [4/bere Is Socrates on the “Ladder ofLove”?, in Lesher, Nails, Shef

field, Plato’s “Symposium”, pp. i, 176. Mi sembra abbastanza simile la posizione di

F. J. Gonzalez, Interrupted Diatogue: Recent Readings ofthe “Symposium”, in “Plato”,

8, zoo$, S 17. Anche A. W. Price, Love andFriendshzp in Ptato andAristotte, Oxford

1989, ritiene che contemplazione non possa significare inazione e indifferenza alle

altre persone, ma come conferma a questa tesi cita prevalentemente passi della Repub

blica! (p. ai). Se tutte le tesi sostenute da Platone in ogni dialogo fossero immediata

mente trasferibili a tutti gli altri, Platone avrebbe scritto un solo libro: un compendio,

o syngramma, della filosofia platonica, opera che egli stesso dichiara impossibile e il

cui primo esemplare storico sembra sia stato composto dal giovane tiranno siracusano

Dionisio li (Ep. VII 341b-c).

zo. Per questa tensione tra diversi profili della vita filosofica cfr. M. Vegetti, Il regno

filosofico, in Id. (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli zooo, vo1. iv, pp. 362-4.

ai. Cfr. G. Casertano, In cerca dell’anima nel “Simposio”, in Borges de Araùjo, Cor

nelli, Il “Simposio”di Platone, cit., pp. 64-5 (anche nota 49 a p. 67). Nello stesso senso

Lear, PermanentBeauty, p. iii, nota a («nel mondo del Simposio le pratiche cultu

rali durano più a lungo delle anime perché le anime sono mortali. E le scienze sono

ancora più “immortali” perché sono associate a oggetti atemporali»); Ferrari, Eros,

paideia efitosofia, cit., p. 39 (l’eternazione del sapere come unica forma di immortalità

umana); Rowe, Il “Simposio” di Platone, cit., pp. 112-3. Per il Timeo cfr. B. Centrone,

L’immortalitd personale: un ‘altra nobile menzogna?, in M. Migliori, L. Napolitano

Valditara, A. Fermani (a cura di), Interioritc e anima. La psyché in Platone, Milano

2007, p. 42. Per posizioni opposte cfr. nota z.

22.. La vicinanza di Aristotele a Platone su questo tema è stata segnalata e discussa da

H. Arendt, Trapassato efuturo (1961), trad. it. Milano 1991, pp. 70-129.

z. Cfr. in proposito M. Vegetti, Athanatizein. Strategie di immortalitì nel pen

siero greco, in Id., Dialoghi con gli antichi, Sankt Augustin zoo6, pp. i6-6, 174-6,

dove si ricostruisce inoltre la preistoria del tema dello athanatizein (pp. 167-70).

La capacità dei medici seguaci del trace Zalmoxis di “rendere immortali” (apatha

natizein) è ironicamente menzionata in Carmide i56d6. Un percorso che va dalla

immortalizzazione magica dei Traci a quella “epistemica” in Platone e Aristotele

(senza bisogno della sopravvivenza dell’anima individuale) è tracciato da F. Ferrari,

L’incantesimo del Trace: Zalmoxis, la terapia dell’anima e l’immortalitii nel “Car

mide” di Platone, in M. Taufer (a cura di), Sguardi interdisciptinari sulla religiositii

dei Geto-Daci, Freiburg i.B. 2013, pp. 2.1-41. Un accenno all’influsso di Simposio e

Timeo oc su questo passo aristotelico è formulato da Sier, Die Rede derDiotima,

cit., pp. 187-8.

24. La critica ha spesso rilevato il carattere anomalo di questo e del seguente capitolo

rispetto al tono generale del trattato etico: la discussione relativa in M. Vegetti, L’etica

degli antichi (1989), Laterza, Roma ;oio, pp.

z. Cfr. in proposito le puntuali analisi di 5. Gastaldi, Bios hairetotatos. Generi di vita

efelicità in Aristotele, Napoli 2003, pp. 109-31.

z6. Cfr. in questo senso Eth. Nicom. x 8 ii78bz-7.

z. R. Hackforth, Immortality in Plato’s “Symposium”, in “Classical Review”, 64,

1950, pp. 43-5.

z8. Mi sembra che di questo tipo sia l’argomentazione in Centrone, Introduzione,

cit., pp. LIX-LX: «La negazione dell’immortalità personale implicita nelle parole

di Diotima a zo7c-zo8b non può essere in contrasto con la teoria dell’immortalità

dell’anima, cosmica o individuale, di cui Platone è costantemente strenuo e convinto

sostenitore; il mortale di cui si parla è il corpo e probabilmente il composto di anima

e corpo». Un ragionamento simile anche in M. A. Fierro, Symp. 212a2-7: Desirefor

the Truth and Desirefor Death and a God-Like Immortality, in “Methexis”, 14, 20 01,

pp. 23-43, la cui interpretazione del Simposio è interamente derivata dal Fedone. Po

nendosi da un punto di vista “compatibilista” (ad es. tra Fedone e Simposio), Price,

Love and friendshzp, cit., si chiede: «The question becomes how best characterize an

immortality within mortality whose achievement is desirable even for souls that are

themselves fully immortal»; e conclude: «Plato, regrettably, leaves us to speculate

about an answer» (pp. Per un’ampia discussione problematica cfr. Sier, Die

Rede der Diotima, cit., pp. 185-97. Tra l’interpretazione secondo la quale «l’indivi

dualità della persona può perpetuarsi solo per sostituzione, attraverso la “creazione”

spirituale», e quella di una immortalità piena, non vicariante, per l’anima del filoso

fo, Sier propende con molta cautela per la seconda, soprattutto sulla base dell’opina

bile riferimento indicato da O’Brien a Resp. x 6Ize-614a. Il saggio di M. O’Brien,

“Becominglmmortal” in Plato’s “Symposium”, in D. E. Gerber (ed.), Greek Poetry and

Philosophy, Chico (CA) 1984, pp. i8-zo, costituisce probabilmente il migliore sforzo

in senso “compatibilista’ perché non si nasconde le difficoltà di interpolare nel Sim

posio una dottrina dell’immortalità dell’anima senza sovrapporvi altri dialoghi come

il fedone (p. i86), benché egli stesso ricorra poi ripetutamente al libro x della Repub

blica. O’Brien scrive che la topica dell’immortalità è evitata, piuttosto che assenta o

negata, nel discorso di Diotima (p. 192), ma vede nella sua frase finale un riferimen

to alla «immortalità letterale del filosofo in comunione con la Bellezza assoluta»

(pp. 196-7, 197 n. Tuttavia O’Brien si rende conto di due anomalie di questa

interpretazione: che l’immortalità è una prospettiva, un achievement, concesso solo

al filosofo, la cui anima non è immortale per natura ma può diventarlo; ed è presen

tata come un dono divino al filosofo, non come un attributo necessario dell’anima

(pp. 199-lo,). O’Brien spiega queste anomalie come l’effetto della strategia retorica

(psicagogica) di Diotima, ma di fatto esse sembrano caratterizzare l’intero assetto

teorico del discorso sull’immortalità, che per questo probabilmente avrebbe attratto

l’interesse di Aristotele. Credo comunque di aver dimostrato (M. Vegetti, Introduzio

ne al libro x, in Id., a cura di, Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voI. vii, pp. 13-34)

che il libro x della Repubblica, o le parti di cui è composto, non possa essere conside

rato come “l’ultima parola” della filosofia platonica su questo e altri temi.


seppure

il

z8z IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 183

2.9. Th. M. Robinson, Caractères constitut/i du duatisme %me-corps dans te “Corpus

platonicum”, in “Cahiers du Centre d’études sur la pensée antique ‘kairos kai logos’ “,

11, 1997, 2.

z6.

30. Un passo della Lettera Vii (334e3-335e6) conferma sia l’utilità morale della cre

denza nell’immortalità dell’anima sia il suo carattere extrateorico. Premesso che

«nessuno di noi è per natura immortale», e che la questione del bene e del male si

pone solo riguardo all’anima, «che sia congiunta al corpo oppure separata da esso»,

Platone aggiunge: «Bisogna in ogni caso credere davvero [r&iOtoeut ì 6vru cdti

xpJ agli antichi e sacri racconti che ci ammoniscono che la nostra anima è immor

tale, e che, una volta separata dal corpo, può venire giudicata e subire le punizioni

più gravi».

31. Cfr. in proposito Centrone, L’imniortatitd personale, cit., pp. 3 6-7.

32.. Cfr. in questo senso F. Ferrari, L’anamneszs delpassato tra storia e ontotogia. limito

platonico come pharmakon contro utopismo e scetticismo, in Migliori, Napolitano Vai

ditara, Fermani, Interioritd e anima, cit., pp. 80-3. li contatto prenatale può essere in

terpretato come una “interpretazione” mitica della syngeneia (affinità o parentela) fra

l’anima e le idee (Phaed. 79d3, Resp. vi 49ob4) che in linguaggio moderno si direbbe

“condizione trascendentale” della conoscenza (cfr. sul tema F. Aronadio, Procedure e

verita in Platone, Napoli ZOOL, pp.

Per una discussione più ampia in proposito rinvio a M. Vegetti, Quindici lezioni

su Platone, Torino 2.003, pp. 119-3 I.

Il problema è discusso in Centrone, L’immortalita personale, cit., pp. 35-5o; e in

M. Migliori, La prova dell’immortalitd dell’anima (6oc-6r2c), in M. Vegetti (a cura

di), Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voi. VII, pp. 2.73-5.

s. Il punto è stato sottolineato da Di Benedetto, Eros/conoscenza in Platone, cit.,

p. 40. L’assenza nel Simposio deli’Anamnesis-Modellè sottolineata anche da Sier, Die

Rede derDiotima, pp. 147-8, 190.

36. Secondo la nota tesi di Th. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis

in Platons “Phaidon”, Stuttgart 1994, in questo dialogo la reminiscenza appartereb

be più alla dottrina pitagorica che a quella platonica. In senso opposto va la discus

sione di F. Trabattoni, Introduzione, in Id. (a cura di), Platone, fedone, Torino zoii,

pp. XXXIV-XLVIII, con ampi riferimenti alla bibliografia recente.

Ma sulle differenze fra questi due dialoghi cfr. le interessanti osservazioni di

Y. Lafrance, Les puissances cognitives de l’dme: la réminiscence et les formes intetligi

bles dans te “Ménon” (goa-6d) et le “Phe’don” (72e-77a), in “Études platoniciennes’

4, 2.007, 3. 2.39-52..

38. È la tesi di Ch. H. Kahn, Pourquoi la doctrine de la réminiscence est-elle absen

te dans la “Re’publique”?, in Dixsaut (éd.), Études sur la ‘République” de Platon, cit.,

p. ioo. Anche questo autore sembra incorrere in una sorta di petitio princzpii, quan

do riconosce una “struttura profonda” del pensiero di Platone in «ciò che è comune

a Simposio, fedone e alla Repubblica» (p. 98), attribuendo poi le varianti di questa

struttura a ragioni letterarie. Ma perché allora la reminiscenza, assente in Simposio e

Repubblica, non dovrebbe essere attribuita a “ragioni letterarie” nel fedone, anziché

ipotizzare che essa sia “strutturale” sulla base del solo Fedone?

39. Sul ruolo delle matematiche nella Repubblica cfr. E. Catranei, Le matema

tiche al tempo di Platone e la loro riforma, in Platone, La Repubblica, cit., voi. v,

f22. 473-539.

40. Nella stessa Repubblica del resto è presente — in secondo piano — tema

della sublimazione della pulsione erotica come impulso verso la conversione teorica

(cfr. VI 485d6-e,, 49oa$-b8).

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