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Mario Vegetti
Il potere della verità
Saggi platonici
Carocci editore
Frecce
i
Indice
Introduzione 9
Parte prima
Controversie
i. Cronache platoniche zi
i. «Solo Platone non c’era» 41
3. Come, e perché, la Repubblica è diventata impolitica? 6i
i edizione, maggio zoi8
© copyright zoi8 by Carocci editore S.p.A., Roma
Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino
Parte seconda
Teorie
4. Megiston mathema. L’idea del “buono” e le sue funzioni $5
Finito di stampare nel maggio zoi8
TO agathon: buono a che cosa? Il conflitto
da Eurolit, Roma delle interpretazioni sull’idea del buono nella Repubblica 113
.
ISBN 978-88-430-9145-1
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge ai aprile 1941, n. 6)
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Parte terza
L’utopia
6. Beltista eiper dynata. Lo statuto dell’utopia nella Repubblica
.
il tempo, la storia, l’utopia 171
una
non
8 IL POTERE DELLA VERITÀ
8. Antropologie dellapteonexia.
Callicle, Trasimaco e Glaucone in Platone 195
Intro uzione
Parte quarta
La verità
Nell’ombra di Theuth. Dinamiche della scrittura in Platone
iii
io. Glaucone e i misteri della dialettica 2.37
I
ii. Sfida sofistica e progetti di verità in Platone 151 Un regime di brezze moderate e costanti sembra dominare negli ultimi
anni le acque degli studi platonici. Le rotte sono ben tracciate, la naviga
Immortalità personale senza anima immortale:
zione sicura anche se forse non troppo emozionante (posso chiamare a
Diotima e Aristotele 3 testimoni in questo senso i Simposi platonici internazionali di Pisa, 2013,
e Brasilia, zoi6).
Ma le cose non sono sempre andate così. Nell’arco dei circa vent’anni
in cui intervengono i saggi raccolti in questo volume, quelle acque sono
state agitate da tempeste violente, foriere di naufragi, di arenamenti, di
derive senza meta.
La prima tempesta, iniziata negli anni Sessanta e rafforzatasi nei due
decenni successivi soprattutto in Germania (Thbin_gen) e in Italia (Mi
lano, Università Cattolica), è andata sotto il nome di “nuovo paradigma
ermeneutico” (oralistico-esoterico). Per essere estremamente concisi, si
trattava della miscela esplosiva risulta da una rivisitazione delle criti
che platoniche alla capacità della scrittura di esprimere e comunicare «le
cose più importanti della filosofia» (fedro, Lettera vii), e dalla concomi
tante rivalutazione delle testimonianze di Aristotele circa l’esistenza di
cosiddette “dottrine non scritte” dovute a Platone. Il contenuto di que
ste dottrine consisteva principalmente nella teoria della generazione dei
diversi livelli della realtà a opera di due principi, quello di unità e quello
di rnolteplicità. La conseguenza era devastante per le consuete letture di
Platone. La sua vera filosofia — “metafisica dei principi” — era mai
stata scritta, bensì solo trasmessa per via orale ai discepoli dell’Accademia;
il solo accesso di cui disponiamo a queste dottrine sono le scarne testi
monianze aristoteliche e poche altre. Viceversa, l’immensa ricchezza di
discorsi, ricerche, problemi presente nei dialoghi è ridotta, se non proprio
e
Io
r
IL POTERE DELLA VERITÀ
INTRODUZIONE
I’
allo stato di chiacchiera filosofica, almeno a quello della propedeutica a
una filosofia che non può esporre né comunicare le sue più vere dottrine
in forma scritta. Detto molto in breve, dunque, il rischio che la tempesta
ermeneutica ci ha costretto ad affrontare è stato quello di trovarci con un
Platone arricchito di “metafisica ma amputato dei dialoghi.
Fortunatamente nel corso degli anni Novanta la tempesta andò final
mente placandosi, con il contributo, va detto, di studiosi di entrambe le
tendenze: gli oralisti vennero ammettendo che i dialoghi costituivano
nonostante tutto una parte integrante e imprescindibile della filosofia
di Platone, e i loro avversari si convinsero che in essa anche gli esperi
menti esoterici di filosofia dei principi attestati da Aristotele dovevano
aver giocato un certo ruolo. Si esauriva così la carica eversiva cui mirava
il nuovo paradigma ermeneutico e si tornava alla normalità dei progetti
di ricerca.
z
Quasi si trattasse di un moto opposto, suscitato dallo scampato pericolo,
a partire dagli anni Novanta si formò, soprattutto in ambito angloso
ne, una grande ondata di studi che andavano nella direzione di una for
te rivalutazione dell’efficacia della forma letteraria dialogica ai fini della
configurazione della filosofia di Platone. Più che un dottrinario, Platone
appariva ora soprattutto uno scrittore filosofico: la costruzione dei singoli
dialoghi, il contesto, I personaggi, il gioco delle metafore, delle allusioni
ironiche, degli sforzi persuasivi diventavano il centro dell’attenzione er
meneutica, rimodellando gli stessi sviluppi teorici. Tutto ciò aveva senza
dubbio effetti positivi, come l’invito a dedicare maggiore attenzione alla
dimensione letteraria dei dialoghi — vista come indispensabile anche alla
comprensione dei loro contenuti dottrinali —, i forti dubbi suscitati in
torno alla possibilità di concepire Platone come pensatore sistematico, e i
dialoghi come veicoli di questo sistema filosofico.
L’ondata dialogica rischiava però (e forse ancora rischia) di far arenare
le ricerche platoniche su secche non meno pericolose degli scogli “orali
sti” perché meno visibili. Sottolineare 11 carattere letterario della scrittura
dialogica a scapito del tessuto dottrinale ha portato qualcuno a ritenere
che in realtà nei dialoghi non sia riconoscibile alcuna formazione teorica,
alcuna enunciazione di tesi filosofiche, alcuna pretesa di verità: saremmo
insomma di fronte a una grandiosa “conversazione” intellettuale alla ma
niera di Rorty. Mi preme mettere in luce un corollario importante di que
sto atteggiamento: la negazione di qualsiasi carattere politico a testi come
la Repubblica, in cui tutto il discorrere apparentemente politico avrebbe
nient’altro che una funzione metaforica rispetto ai problemi di moralità
personale, che costituirebbero il vero centro del dialogo; nessun progetto,
dunque, nessuna utopia, nessuna critica sociale, ma, ancora una volta, me
tafore e dispositivi retorici di persuasione.
Dopo un Platone metafisico ma senza dialoghi, avremmo invece ora
un Platone ricco di scrittura dialogica ma privo di filosofia e di progetti
di verità.
Poiché la tendenza dialogica, nonostante questi esiti estremi, mantiene
a mio avviso acquisizioni metodiche importanti, credo sia il caso di venire
in chiaro su qualche suo aspetto che mi pare centrale. Io condivido le tesi
dell’autonomia dei singoli dialoghi, e dell’autcnomia dei loro personaggi.
Occorre però fare subito qualche precisazione. Autonomia dei dialoghi
non significa che ognuno di essi sia un’isola senza rapporti con le altre,
quasi non fossero opere di uno stesso autore. E autonomia dei personaggi
non significa che essi parlino in proprio, come quelli delle opere di storia. I
dialoghi mantengono forti interrelazioni teoriche tra loro, talvolta esplici
te, più spesso implicite; i personaggi interpretano il copione d’autore — ma
questo copione è per lo più costruito attribuendo ai personaggi convinzio
ni coerenti, scelte di vita consapevoli, argomenti efficaci.
Autonomia dei dialoghi significherà allora che essi non possono in
nessun caso venir concepiti come capitoli di un trattato filosofico, i cui
risultati si depositano nel testo in modo cumulativo; di conseguenza, in
linea di principio nessun dialogo dovrebbe venire interpretato a partire
dalle acquisizioni di un altro dialogo, o interpolandovi le conclusioni di
questo. Un esempio basterà a chiarire il senso di questa autonomia. La Re
pubblica e il Simposio non fanno alcun cenno alla reminiscenza come via
di accesso alla conoscenza delle idee; essa è invece centrale negli argomenti
del fedone e del ìvlenone. Ora, sostenere su questa base che la reminiscenza
deve essere implicitamente ammessa anche nei primi due dialoghi, visto
che è argomentata nei secondi, sembra del tutto inaccettabile. La diver
genza platonica andrà semmai interpretata, ma non brutalmente annullata
attribuendo una supremazia immotivata di un dialogo su un altro, o sup
ponendo una inesistente cumulatività dottrinale.
Dal canto suo, autonomia dei personaggi significa valutare atten
sempre
I’ IL POTERE DELLA VERITÀ INTRODUZIONE ‘3
tamente le ragioni che Platone attribuisce loro, in qualche caso forse
ispirate dalle loro posizioni storiche, in altri puro frutto della creatività
filosofica dell’autore. Un esempio sarà sufficiente anche a questo pro
posito. Gli interpreti che si affrettano a esultare per la confutazione di
Trasimaco condotta nel libro i della Repubblica (peraltro fallita), ben
difficilmente riusciranno a comprendere la profondìtà e la forza della tesi
del sofista, che indica nel potere la fonte primaria della legittimazione e
quindi della stessa giustizia; tesi che certamente non appartiene al Trasi
maco storico ma che Platone ha creduto di attribuirgli — facendone così
un personaggio che gioca un ruolo cruciale in tutto lo sviluppo teorico
del dialogo.
Quando si tratta di Platone, però, nessun criterio di metodo può es
sere considerato definitivo ed esclusivo. Cercando di comprendere il
ruolo della scrittura nella filosofia platonica, mi è parso necessario uscire
dall’angustia del dilemma sì o no, ed evadere dall’effetto “gabbia di crice
to” prodotto dal consueto andirivieni tra Fedro e Lettera vii. Un esame
trasversale di tutti i passi in cui Platone discute della scrittura ha permes
so di delinearne un quadro più ricco e complesso, dal ruolo di modello
di un sapere degli clementi fino alla decisiva funzione vicariante che essa
svolge nell’assenza della voce del maestro, nella filosofia, e del re, nella
politica. In questo caso, dunque, una violazione del principio dell’auto
nomia di dialoghi e personaggi si è provata proficua, e nulla esclude che
i due approcci possano interagire fruttuosamente anche per altri proble
mi — però alla condizione di esser consapevoli di stare praticando
un’anomalia metodologica.
3
Concludere che tutto ciò si sedimenta, alla fine, nell’esigenza di una stre
nua e puntigliosa fedeltà ai testi può sembrare un esito alquanto asfittico.
Questa impressione dovrebbe risultare attenuata se si considera la plura
lità di livelli ai quali si dovrebbe esplicare la fedeltà ai testi. C’è in primo
luogo l’indagine semantica, troppo spesso trascurata negli ultimi decenni.
È fin troppo noto il caso di to agathon, che vale originariamente, e socrati
camente, “ben fatto”, “utile”, “buono a.. .‘ È immediatamente visibile come
la traduzione corrente con “il bene” abbia spianato la via a ogni sorta di
speculazione metafisica (il Bene è l’Uno, l’Essere, e così via). Non c’è dub
bio che il libro VI della Repubblica, con le sue vertiginose elaborazioni
teoriche di to agathon, possa venir chiamato a giustificare queste specu
lazioni; ma è altrettanto certo che esso vada a sua volta interpretato senza
dimenticare il valore semantico originario del termine, che contribuisce a
qualificare la supremazia ontologica ed epistemologica del “buono” come
legittimazione e fondamento del potere giusto e come garanzia di felicità
collettiva.
Ma ci sono casi meno evidenti e perciò forse ancora più significativi.
Che la prima parola della Repubblica sia il verbo katabainein non può non
alludere, dietro la discesa di Socrate al Pireo, a un’altra discesa ben presen
te nella cultura arcaica dei Greci, appunto la katabasis nel mondo degli
inferi, in cui il futuro sapiente riceve le sue rivelazioni veritative; il nuovo
sapiente, nel nuovo mondo del porto, maturerà allora un’iniziazione che
rispetto a quelle arcaiche conserva una discendenza almeno allusiva, ma
i cui contenuti saranno radicalmente nuovi
— quelli della politica e della
giustizia nel mondo dellapolis.
Un altro esempio mi sta particolarmente a cuore. Nel libro ix della
Repubblica Platone scrive che “in cielo” è posto un paradigma della città
giusta, quello tracciato nei discorsi filosofici; chi voglia vederlo, sulla sua
base può heauton katoikizein. La traduzione standard, che risale all’auto
revole Adam, suona “rifondare sé stesso”, “fondare una città in sé stesso’
Ecco dunque sancito l’abbandono dell’esteriorità politica e il passaggio
alla morale personale, rispetto alla quale tutto il discorso politico ha al più
un valore metaforico o protrettico.
Si dà il caso, però, che in greco, e in Platone, katoikizein + accusativo
non ha mai questo valore. Il sintagma significa piuttosto, come credo di
avere ampiamente dimostrato, “insediare qualcuno in un luogo”, “trasfe
rirlo da un luogo a un altro” (detto tipicamente dell’ insediamento di colo
nie). Non si tratta quindi di passaggio dall’esteriorità politica all’interio
rità dell’anima, ma di dislocazione delle finalità dell’azione politica (ove
essa sia possibile): dalla città storica, per la quale il filosofo non agirà affat
to, all’orizzonte della città utopica, alla cui creazione egli dedicherà le sue
energie. Tutto questo va naturalmente compreso nel quadro del problema
della natura dell’utopia platonica; in ogni caso, l’indagine semantica qui è
indispensabile a rimuovere un ostacolo tradizionale alla soluzione di quel
problema.
La fedeltà ai testi ha naturalmente altri aspetti, al di là di quelli lingui
stici. Mi preme soprattutto sottolineare l’esigenza di non integrare i testi,
in
‘4 IL POTERE DELLA VERITÀ
INTRODUZIONE
‘5
supplendo a quello che non dicono, e di non correggere o ignorare quello
che invece dicono esplicitamente; si tratterà piuttosto, nel primo caso, di
interpretare le ragioni di silenzi e omissioni (ne farò presto un esempio),
nel secondo di interpretare tesi magari inaccettabili per il lettore (non è
detto che lo studioso di Platone debba condividere tutto quello che Plato
ne dice: questa identificazione patologica è il principio e la ragione di tan
te forzature dei testi che mirano a far loro dire ciò che vorremmo dicessero
per poter essere d’accordo. Amicus Plato...).
Senza intenzioni polemiche, vorrei fare l’esempio di un tipo di ragio
namento, alquanto diffuso, che combina integrazioni e selezioni ai testi;
un ragionamento che ha conseguenze importanti sull’interpretazione
complessiva del pensiero di Platone. Esso si articola più o meno così, i. La
città giusta (kattipotis) è possibile solo grazie al governo di una élite che
conosce le idee e il buono, cioè il sistema di norme universali che devono
reggere la vita individuale e collettiva (Repubblica v-vi). a. Ma una siffatta
élite non può esistere, perché nessun uomo durante la sua vita terrena può
raggiungere la conoscenza delle idee, giacché ne è impedito dalla corpo
reità. Questa conoscenza è possibile solo nella vita oltreterrena dell’anima
(fedone). Perciò, in altri termini, non esistono sapienti, ma solo filosofi,
che amano la sapienza senza possederla. 3. Dunque, la realizzazione della
kattipolis è impossibile nel mondo storico, che non potrà non limitarsi a
una certa tensione verso di essa. Se la premessa a. deriva dall’interpretazio
ne standard del fedone, oggi piuttosto discussa, della conclusione 3. non
c’è alcuna traccia nella Repubblica, e sia il Politico sia le Leggi adducono
ragioni del tutto diverse per l’impossibilità della politeia perfetta. L’argo
mento sembra dunque aggiungere ai testi platonici una protesi che è loro
estranea, e che sembra inaccettabile.
Secondo i lineamenti dell’indagine sviluppata nei saggi contenuti in
questo volume, la questione dell’utopia sembra invece porsi — secondo i
testi — questi termini. i. Un disegno utopico che non indichi le proprie
condizioni di possibilità è degno del ridicolo, come i sogni del paese di
Cuccagna. Al tempo stesso, qualsiasi realizzazione del progetto sarà me
vitabilmente imperfetta e solo approssimata al modello ideale. 2. La con
dizione di possibilità consiste in un mutamento al vertice del potere che
veda l’unificazione di potere politico e filosofia; in altri termini, l’accesso
diretto al governo da parte dei filosofi, o la conversione alla filosofia di un
detentore del potere (dynastes). Filosofia significa la conoscenza (perfetta
mente conseguibile in vita) dell’orizzonte normativo delle idee, potere po
litico la disponibilità dei mezzi per trasformare la vita pubblica secondo la
sua prospettiva. 3. Questa condizione è difficile, per la carenza di autentici
filosofi e di potenti disponibili alla filosofia; ma non impossibile. Che gli
uni o gli altri siano reperibili, e sommino le loro energie, dipende da una
“sorte divina’ una congiuntura eccezionalmente fortunata di cui non sono
prevedibili luoghi e tempi. 4. Comunque, se il filosofo agirà politicamente
nella città storica, lo farà solo in vista della realizzazione di quella ideale, e
anche perché questa azione sia possibile occorrono circostanze straordina
riamente favorevoli.
Fin qui, ma non oltre, ci portano in modo esplicito i testi della Repub
blica. Questo dialogo non dice altro, come non dice — dopo la sequenza
degenerativa che vede il susseguirsi di timocrazia, oligarchia, democrazia
e tirannide — che cosa venga dopo l’esecrabile potere tirannico. Da que
sti testi si può solo trarre la conclusione che l’avvento della kallipolis non
JiTipossibile, ma non appartiene al corso “normale” della storia, e resta
comunque un punto di riferimento per qualsiasi eventuale riforma eticopolitica.
Tuttavia, l’insistenza sul dynastes, o su un suo figlio, disponibili a
convertirsi alla filosofia (o a seguire l’insegnamento dei filosofi), già ben
presente nella Repubblica, suggerisce la possibilità di integrare i suoi silenzi
con altri testi. Si tratta del libro IV delle Leggi e della Lettera vii, che sono
liberi di rendere esplicito ciò che nella “ateniese”, dunque tirannofobica
Repubblica non poteva venir detto.
La figura storicamente indefinita del dynastes viene ora trasformata
.
in quella ben più identificabile del tiranno. Il tiranno è dotato del potere
assoluto, quindi del massimo di rapidità decisionale ed efficacia politica;
nessunogio di un buon tiranno disposto a seguire leindicaziom
tel 1gislatore-filosofo, può garantire la trasformazione della vita sociale.
Certo, perché un tale tiranno compaia sulla scena storica occorre ancora
una volta una “sorte divina”; proprio quella buona sorte che secondo la
Lettera vii avrebbe segnato la comparsa (deludente) di Dionisio il gio
vane sulla scena della tirannide di Siracusa. Da questa speranza Plato
ne sarebbe stato indotto a tentare i suoi interventi diretti nella politica
siracusana.
Quest’ultimo passo, dalla teoria all’azione politica, appartiene più alle
urgenze psicologiche di Platone che alla teoria (anche se il nesso non è
certamente casuale). Ma la proiezione della realizzabilità del disegno uto
pico verso le figure di un filosofo-tiranno, o di un tiranno-filosofo, o della
collaborazione tra filosofo e tiranno, è giustificata sul piano della teoria
la
i6 IL POTERE DELLA VERITÀ INTRODUZIONE ‘7
dell’estraneità del modello utopico al corso ordinario della storia, al suo
carattere in senso forte “rivoluzionario”
4
Si potrà essere più brevi intorno alle altre due grandi questioni trattate
dai saggi raccolti in questo volume, quella dell’idea del buono e q!Iella
della verità. i. 11 problema dell’idea del buono si pone nel libro VI del
la Repubblica perché essa non è considerata solo causa dell’esser buone
(cioè vantaggiose e utili per una buona vita) di idee e di cose, ma anche
di conoscenza e verità (questo può ancora venir spiegato perché l’idea del
buono, rendendo buona, cioè desiderabile, la verità, attiva l’intenzionalità
conoscitiva), e soprattutto di “essere ed essenza” (einai/ousia) per le idee.
L’idea del buono trasmette così proprietà che non fanno parte della sua
essenza. z. Inoltre, l’idea del buono non è essenza maèsuperiore all’essere
eaWousraper efficacia opptenza (4ynamis). Questo significa che l’idea
del buono non è conoscibile come le altre idee (definizione di essenza), ma
può essere compresa a partire dai suoi efftti (non che cos’è, ma che cosa
fa). 3. Tutto questo pone difficili problemi di ordine tanto ontologico (la
collocazione dell’idea del buono come esterna o interna all’essere), quanto
epistemologico (la sua conoscibilità, che costituisce il traguardo estremo
d4poeto della dialettica). .. Occorre tener presente che questa estrema
eccedenza dell’idea del buono viene teorizzata solo nella Repubblica. Essa
andrà dunque in primo luogo interpretata in vista delle esigenze primariamente
etico-politiche del dialogo. . Questo può spiegare intanto il fatto
che l’idea del buono sia la causa dell’essere e dell’essenza delle altre idee. Se
si considera che le idee esistono in guanto norme, la dipendenza dal buono
fonderà appunto il ruolo normativo delle idee in relazione al buon ordine
della vita pubblica e privata, come il libro VI ribadisce a più riprese. La
conoscenza delle idee garantirà inoltre il diritto/dovere dei filosofi a go
vernare, perché sulla loro base normativa essi soltanto possono riformare
la costituzione della polis. 6. L’eccedenza dell’idea del bijono sia rispetto
alla verità sia rispetto all’essere (di cui è causa) comporta insomma — come
é1hiesto ne[ contesto del dialogo sulla politeia — preminenza del ver
tice etico su quelli epistemologico e ontologico del triangolo costitutivo
della filosofia platonica (in altri contesti, il primato sarà invece detenuto
dal vertice ontologico, come nel Sofista, o da quello epistemologico, come
nel Teeteto). 7. Dopo la Repubblica, Platone ha adottato strategie diverse
nei riguardi dell’idea del buono (abbandonata anche in dialoghi politici
come il Politico e le Leggi, profondamente ridimensionata nel filebo), ma
certamente la discussione sui problemi sollevati nella Repubblica è conti
nuata in ambito accademico, soprattutto con l’identificazione buono-uno
come principio d’ordine del mondo.
La questione della verità, e della possibilità di accedervi, va considerata
sullo sfondo dell’insieme dei dialoghi. I tratti emergenti possono venire
così schematizzati. i. La verità —
cioè essenzialmente la conoscenza del
le idee e delle relazioni fra loro e con il mondo empirico —è in linea di
principio attingibile durante la vita terrena (nonostante alcune afferma
zioni contrarie del Fedone, che perciò andranno interpretate). All’inizio
del libro VI della Repubblica Platone definisce simili ai ciechi coloro che
«sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, che non hanno nell’ani
ma nessun chiaro modello e non possono [...] rivolgere lo sguardo verso
ciò che vi è di più vero»; a questi viene contrapposta la conoscenza di
coloro (i filosofi) che sono in grado di vedere il modello ideale «in modo
da istituire anche quaggiù le norme intorno alle cose belle e giuste e buo
ne»: a loro andrà dunque affidata la guida della polis. E anche possibile,
benché più difficile, acquisire la conoscenza eccezionale delle idee somme
come il buono (Repubblica) e il bello (Simposio); a questo proposito, è dif
ficile dire se si tratti di una conoscenza discorsivo-proposizionale oppure
intuitiva ed extrahnguisnca z Non e pero p ilcuisire un sistema
chiusoecompleto della verità, alla maniera dei neoplatonici (perciò i filo
sofi restano tali, cioè amanti del sapere ma non sapienti che lo possiedano
compiutamente). Non lo è in linea di principio, prché alla verità si può
pervenire solo nell’interazione dialogico-dialettica, che procede per ipo
tesi, confutazioni, nuove ipotesi, fino a pervenire a tesi che possano con
siderarsi inconfutabili e condivise. Queste “verità” sono inevitabilmente
priiali, legate ai problemi, ai personaggi, ai punti di vista di volta in volta
adottati nell’interazione dialogica. Segmenti di verità, dunque, anche del
la massima importanza, ma sempre dipendenti dal contesto dialogico in
cui prendono forma (si pensi alla diversa configurazione dell’idea del bene
nella Repubblica e del Filebo). 3. Proprio per questo, Platone sembra inte
ressato a costruire, più che compagini teorematiche concluse, procedure
di avvicinamento alla verità, dispositivi per la produzione di enunciati veri.
Si pensi ad esempio allaj ira astrattivo-idealizzante della dialetti-
appunto
epistemologicamente
i8
IL POTERE DELLA VERITÀ
Ca nella Repubblica, con la sua forte interazione con i saperi matematici,
al metodo diaiitico del fedro, al grande disegno dicotomico del Sga.
Parte orima
Si possono
.
insomma costruire progetti e regimi di verità, in gtai Controversie
dare risposte oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e deIlara
xis etico-politica, il modo in cui queste ripostevengpno generate produce
segrniprzialidiverità —
ed eticamente decisivi —
che hanno un orizzonte intenzionale di integrazione conoscitiya. Questo
orizzonte non sembra saturabile — in modo da pervenire a un sistema di
verità chiuso e definitivo — in ragione della natura locale e parzia
le dei progetti di verità via via perseguiti, che non si configurano come un
procedimento derivativo e teorematico.
Avvertenza Quando non diversamente specificato, le traduzioni dei testi in lingua origi
nale sono da intendersi dell’autore.
o
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IL POTERE DELLA VERITÀ
CRONACHE
PLATONICHE
13
tere dialqgi diversi, ma per far questo occorre per così dire sterilizzare il
senso sistematico di quella struttura secondo Szlezk, che la fa culminare
nell’insegnamento orale dei principi assoluti). D’altraparte, i problemi in
dagati dagli interpti non s1stmici appaiono agli altri privi dimteresse
pichéssisbrano kr già risolti in modo tanto soddisfacente da non
risultare neppure problemi (è qesto il caso, per fare un esempio illustre,
dell’idea del bene nella Repubblica, sul quale ritornerò più avanti).
SmptpiDrri sono anche i tentativi di mediazione qqi tentati
tempo addietro da Enrico Berti e più recentementefael_Ferber (che
riconosce l’esistenza di dottrine non scritte di Platone, ma nega loro il carat
tere più essenziale, quello della chiusura sistematica)!. Scarso è persino il con
fronto polemico (dopo alcuni memorabili scontri, come quello tra Wolfgang
Wieland e HansJ. Kriimer)3 : fa qui eccezione la strenua confutazione critica
della interpretazione sistematica condotta da Margherita Isnardi Parente.
Questa situazione di relativa jncornunjcabijitàsi riflette anche nei
manuah scolastici nelle loro edizioni piu recenti a un esposizione piu o
meno tradizionale del pensiero platonico fa seguito, di solito con un cer
to impaccio, ul rafo dedicato alle cosiddette “dottrine non scritte”
(lpenaaccettazionejponebbe mv tiiìpmpLetariscrittura del
capitolo platonico, come accade inveropr i testi di Giovanni Reale). Si
tratta di un imbarazzo non solo italiano, come attesta ad esempio l’ampio
e rite r anuale in lingua francese di Lambros Couloubaritsis.
In questa situazione può essere di qualche utilità e di qualche interes
se, soprattutto per gli studiosi che, pur non essendo specialisti di vicende
platoniche, non intendono ignorare del tutto quanto avviene in questi
territori della ricerca, il tentativo di tracciare una mappa sommaria
— cri
tica ma non polemica
— delle posizioni sulle quali si è attestata la scuola
di Thbingen-Milano. E il modo forse più agevole e perspicuo per farlo è
quello di considerare queste posizioni come un sistema teorico compiuto,
o — seguendo del resto le indicazioni più volte ribadite da Reale — come
un paradigma ermeneutico inteso nel senso dell ‘epistemologia kuhniana.
Si tratterà allora di ividuare brevemente la storia ha ndoito
alla formazione del paradigrna, i problemi che essoè chiamato a risolvere,
la sua struttura teorica, la “metafisica influente”? Altrimenti andrebbero
forniti che vi agisce, la sua dimensione pragmatica, e infine i paradossi che
si trova ad affrontare. Da ultimo, tutq1 otrà venir messo aflaprova
di una case histoy piuttosto sigpificativa, quella, come si è già accenna
to, dell’idea del bene nella Repubblica.
i
La storia, dunque. Gli studiosi della scuola di Thbingen indicano di soli
to, come loro più diretto antecedente, il libro di Julius Stenzel Zaht und
Gestatt bei Plato und Aristoteles (1914), jn cui si affrontava sistematica
mente per la prima volta la questioJJ testimonianze aristoteliche a
prppptlladpttrina acdemica delle iderneiLedLuoLpresup
posti platonici (a quello di Stenzel gli studiosi francesi e italiani amano
accostare i libri consimili di Léon Robin, del 190$, e di Marino Gentile,
del 1930). E in effetti i problemi dell’ontologia matematica costituiscono
il nucleo dell’opera fondamentale di Konrad Gaiser, Ptatons ungeschrie
bene Lehre, pubblicata nel 1963. Ma per quanto riguarda l’interpretazjQ
ne rnetaso sten1 ca sviluppata in particolare da Kràmcr, che qui
soprattutto ci interessa anche perché è quella che ha ricevuto in Italia la
maggiore attenzione da parte del ghippo di Milai:io ipuo probabilmente
indicare un altro antecedente stenzeliano, che del resto precedeva l’opera
sulle idee-numero; si tratta degli Studien zurEntwick1ungpishii.
Dialektik von Sokrates zu Aristoteles del 1917. In quest’opera, in cui com
piva un cauto distacco dal_neokantismo di Natorp, Stenzel individuava
k1.e ttutturapiranidale, 4a geìe
supremo deU’esserefino allsingo1eeindiisibili idee: un avvio, 4ii.nque,
verso l’interpretazione siemaj:ia di Platone fondata su una tpriaonto
logica dei principi. È qui il caso di rilevare che Stenzel appoggiava que
sta s idea su quella che spuò tranquillamente considerare una lettura
impropna del Sofista Egli scriveva infatti che Platone usava la <anesis
pgptirii catena ininterrotta che condu 4al generalissimo Essere
fino alla “idea atomica”»6. Ma in Platone non esiste, né può esistere, una
dicotomia che parta all’essere toeneremassimo,_questo non è
suscetjhile di divisione come lo sono le idee complesse (ad esempio “ani
male ) allo stesso modo in cui non sono suscettib;h di divisione gh altri
giìn
i1 diverso i identico la qiiete la stasi (divisioni che par
tono dall’essere furono in effetti proposte nell’ambito del neoplatonismo,
che traduceva l’essere categoriale di Platone nel contenitore ontologico
della totalità degli enti).
Comunque sia, Stenzel sta all’origine della storia remota,e dichiarata,
ikll’interpretazionetùbingia. Ma c’è forse un altro filone, più vicino e
meno ovvio, che ha stimolato la sua formazione. Mi riferisco agli sforzi
...di interpretaziq rnetafisico-sisternicl esierodiAristotele, con-
24 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 25
dotti in modi diversi daJoseph Owens il ii e da Philippe Merlan nel
1953 (poi seguiti da altri autori, come Reale, nel 1961, e Klaus Oehler nel
I967). L’essenziale di questa interpretazione consisteva nell’attribuire ad
Aristotele una ontologjderivativa1 cioè uno sviluppo continuo dell’essere
a partire dal principio teologico fino-agli enti naturali: in questo modo
Aristotele poteva venire convenientemente inserito in una linea che, per
citare il titolo dell’importante libro di Merlan, andava «dal platonismo al
neoplatonismo » 8. testi aristotelici opponevano certo. unaforte resisten
za a questa riduzione
tuttavia essi erano per così
dire prdiposLg, im’interpretazione sistematica ad opera di una secolare
tradizione scolastica, sempre molto autorevole soprattutto in ambiente
cattolico. Piuttosto, il programma di Merlan presentava una vistosa debo
lezza proprio al principio della catena metafisica proposta. Se la si poteva
far risalire dal neoplatonismo fino ad Aristotele, prima di lui sembrava che
ci si dovesse limitare a una incerta “metafisica accademica” ascritta a Se
nocrate e Speusippo; ma i testi platonici, e le loro letture dominanti fino
agli anni Sessanta, sembravano irriducibili a una collocazione metafisicosistematica
che li ponesse, come doveva essere, all’inizio di quella catena,
e nel luogo del suo fondamento. Non mi sembra azzardato ipotizzare che
l’opera inaugurale della scuola di Thbingen, la krameriana Areté bei Ptaton
unti Aristotetes. Zum Wesen unti zum Geschichte tier platonischen Ontolo
gie, del 1959, mirasse proprio a colmare questa lacuna; una volta riletto Pia
tone alla luce delle nuoyejstaflze m fik-si&tematjche, Kriimerpoteva
pojnidporiprcorrere in tu si urezza il cammino che da Platone
conduceva a Plotino, transitando per l’AccademiaIeeIofacva
nel grande libro Der Ursprung der Geistmetaphysik. Untersuchungen zur
Geschichte ties Platonismus zuischen ?taton unti Plotin del 1964 (avendo
nel frattempo trovato il sostegno offertogli da Gaisr nel suo Ptatons unge
schriebene Lehre, un’opera destinata del resto a rimanere piuttosto isolata
negli sviluppi dell’interpretazione tùbingiana, per i suoi interessi più ma
tematici che metafisico-ontologici).
Si aprivano così, agli inizi degli anni Sessanta, due controveisiparai
lele,ma scarsamente interagenti: quella sull’interpretazione di Aristote
osti gli studiosi non-sistematici, come Wieiand,
Dunng Owen aIye sistematici neoscolastici e ai nuovi sistematici
neopLaonjzzanti; e quella platonica, doveperò non era tanto in questione
la lettura di testi noti, bensì l’accettazione o il rifiuto di un Platone nuovo
di zecca, quello delle dottrine non scr,tt.
3
Se questa è sommariamente la storia dell’interpretazione del paradigma
tùbingiano, si tratta ora di capire quali problemi tradizionali la nuova teo
ria si proponeva di risolvere in un modo più soddisfacente di quelli fino ad
allora sperimentati. Ci sono naturalmente, in primo luogo, alcuni celebri
testi platonici. Nel fedro (274b-178c) Platone nega che la scrittura possa
sostituire, nella trasmissione della verità filosofica, il «discorso vivente ed
animato», quello che coinvolge direttamente le anime; il discorso scritto
non è in grado di «aiutare» (cioè di fondare e giustificare) sé stesso, e chi
conduce seriamente la ricerca filosofica non accetterà mai di affidare a esso
anziché alla comunicazione diretta tra le anime, «le cose più importanti»
(timiotera) che ha elaborato. Queste cose vanno indirizzate a chi è in grado
di comprenderle, per natura ed educazione, mentre la scrittura è struttu
ralmente incapace di selezionare i suoi destinatari.
A questo testo va accostato un passo della Lettera vii (della quale natural
mente gli interpreti esoterico-sistematici accettano l’autenticità, già sostenu
ta da Stenzel). Qui Platone, disconoscendo un compendio delle sue dottrine
scritto dal tiranno siracusano Dionisio, afferma che sui contenuti seri dei
suo pensiero non esiste né mai esisterà un suo scritto (syngramma): si tratta
di conoscenze che non sono in alcun modo «esprimibili» (rheton) come
le altre, ma possono venir comunicate, a quei pochi che ne sono degni, solo
nel contesto di una vita e di una ricerca in comune, di uno « sfregamento
fra anime» in cui si accende all’improvviso la luce della verità (34ob-34le).
Intorno a questi due testi se ne possono addensare alcuni altri, che sem
brano parimenti rinviare a una dimensione non scritta e tuttavia fondante
del pensiero e dell’insegnamento di Platone. Qui basterà tuttavia richiamare
l’attenzione su un paio di rompicapi, dalla cui soluzione dipende la possibi
lità di un’ interpretazione oralistica ed esoterica delle testimonianze del fetiro
e della Lettera VII. Si tratta dei controversi termini syngramma e rheton.
Se al primo si assegna il valore di “trattato” (Isnardi Parente), allora la
critica di Platone alla scrittura non coinvolge i dialoghi, che sono mimesi
scritta dell’incontro fra anime e non esposizioni monologiche di dottrine.
Se invece syngramma viene inteso come testo scritto in generale (Szlezalc),
allora la critica investe anche i dialoghi, la cui rilevanza filosofica viene quin
di ridotta a vantaggio di una comunicazione non scritta della teoria platoni
ca. Quanto a rheton, il problema nasce dalla sua collocazione nel contesto.
Platone afferma che la teoria filosofica non è esprimibile al modo in cui lo
che
risulta
z6 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 27
sono gli altri mathemata: ciò significa, secondo l’interpretazione oralistico
esoterica, che, a differenza degli altri saperi, quello filosofico può venire co
municato, ai suoi livelli più alti, solo dalla viva voce del maestro. Ma si può
osservare che Platone nel fedro sostiene ampiamente che neppure la retori
ca e la medicina possono venire apprese soltanto dai libri (z66d-z68c), e che
è comunque necessaria un’esperienza personale, diretta, “viva” della pratica
di queste discipline. La differenza tra la filosofia e gli altri saperi non consi
sterà allora nel fatto che il carattere intuitivo dei fondamenti della filosofia
ne esclude l’esprimibilità linguistica in generale, tanto scritta quanto orale ?
A parte questi dubbi, resta comunque vero che la critica platonica
alla scrittura pone il problema dello statuto dei dialoghi in rapporto alla
comunicazione delle supreme verità filosofiche: un problema che il pa
radigma tùbingiano ritiene di poter risolvere in modo più soddisfacen
te attribuendo a Platone un’attività di insegnamento orale, esoterico nel
senso che esso viene indirizzato a pochi allievi selezionati in base alle loro
qualità intellettuali e morali. Una qualche forma di insegnamento orale di
Platone è attestata dalla tradizione, come la sua celebre lezione sui bene:
ma qui non c’è nulla di sorprendente, perché qualsiasi professore affianca
lezioni orali alla scrittura dei suoi testi, e perché si trattava comunque di
una conferenza pubblica. L’esoterismo significa invece una partizione di
campi: i dialoghi avrebbero svolto una funzione protrettica alla filosofia,
in particolare nel campo etico-politico (così può venir spiegata ad esempio
l’esplicita esortazione di Platone a trascrivere i buoni dialoghi sulle leggi
in Leggi VII 8iie); i principi maggiori e fondanti del sapere filosofico sa
rebbero invece stati affidati a una trasmissione soltanto orale, che avrebbe
accompagnato l’intero corso del pensiero platonico e non soltanto la sua
ultima fase, come invece sosteneva Robin seguito da molti altri interpreti.
Un secondo gruppo di problemi
— hanno a che fare piuttosto con i
contenuti teorici che con la forma dell’insegnamento platonico — è posto
da alcune testimonianze aristoteliche, le quali sembrano potersi porre in
rapporto con certi oscuri passaggi di Platone stesso. Si è visto che egli allude
talvolta a un ordine fondazionale (la boetheia), presumibilmente costitui
to da quelle nozioni di maggior dignità (timiotera) che il filosofo si rifiuta
saggiamente di mettere per iscritto. La natura di queste nozioni viene forse
accennata in un passo del Timeo: «del principio, o dei principi che con
cernono tutte le cose, o comunque si pensi intorno ad essi, non si deve ora
parlare [rheteon], per nessun’altra ragione se non perché è difficile chiarire
quel che ne pensiamo secondo il presente metodo di trattazione» (4$c: vedremo
più avanti un’espressione analoga a proposito del bene nella Repub
blica). Poiché secondo gli interpreti oralisti non si tratta qui di una ritrosia
teorica da parte di Platone, bensì di una riserva esoterica, abbiamo una spia
del contenuto appunto dell’insegnamento esoterico: esso doveva trattare in
particolare di uno o più “principi” (archai) universali. Ecco trovato allora
l’anello di congiunzione con le celebri ma enigmatiche testimonianze ari
stoteliche. In fisica 4.2 Aristotele menziona alcuni problemi metafisici che
Platone aveva trattato nelle cosiddette “dottrine non scritte” In Metafisica
i.6, 9$7b, i8 ss., Aristotele scrive: «Poiché ie idee sono cause delle altre cose,
Platone riteneva che gli elementi [stoichela] delle idee fossero gli elementi
di tutti gli enti. Dal punto di vista materiale pensava che il grande e il pic
colo fossero principi, da quello essenziale l’uno: dal grande e dal piccolo,
per partecipazione all’uno, si costituiscono le idee [e i numeri]» (il testo
è molto controverso: cfr. 11 commento di Viano ad loc.). L’ Uno e la coppia
grande/piccolo (posteriormente attestata anche come “Diade indefinita”)
sarebbero dunque i principi/elementi da cui derivano fe idee e, mediante
esse, i numeri e gli enti. Come trattare queste testimonianze aristoteliche,
ed altre contenute soprattutto nei libri 13 e 14 della Metafisica, poi riprese
dai commentatori di Aristotele già a partire da Teofrasto (Met. cb, ii ss.)?
La celebre tesi di Harold Cherniss (14., 1945)
— che impura ad Ari
stotele e forse ai suoi compagni accademici un radicale fraintendimento
del pensiero platonico, esposto integralmente nei dialoghi — troppo
debole secondo gli interpreti esoterici. Avremmo qui invece una precisa
testimonianza di un sistema metafisico derivativo-generativo, contenuto
nell’insegnamento non scritto di Platone, e quindi ben noto a un grande
allievo come Aristotele, che non c’è più motivo di contestare una volta
ammessa la dimensione esoterica della filosofia platonica.
Il paradigma tùbingiano si mostra così in grado di risolvere in un colpo
solo due tradizionali rompicapi dell’interpretazione di Platone: la critica
alla scrittura da un lato, le testimonianze aristoteliche dall’altro. forma e
contenuto dell’insegnamento di Platone si trovano a venire simultanea
mente chiariti.
4
A questo punto, tutti i materiali necessari alla costruzione della teoria ese
getica sono disponibili. Esoterismo e metafisica sistematica dei principi si
l’arcinemico
dalle
z8 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE ‘9
implicano strettamente. Non esiste alcuno sviluppo del pensiero di Plato
ne: egli ha sempre avuto in mente l’insieme del suo sistema, come provano
i rinvii “fondazionali” reperibili fino nei primi dialoghi, ma non l’ha vo
luto affidare alla pubblicazione dei dialoghi scritti. Occorre notare che si
dà in questo modo per scontato che i dialoghi fossero “pubblicati’ mentre
di fatto non sappiamo nulla sul tipo di circolazione dei dialoghi né sul
loro pubblico. Perché Platone, in ogni caso, avrebbe rifiutato questa pub
blicazione? Gli ermeneuti tùbingiani e milanesi non intendono attribuire
a Platone un esoterismo di tipo pitagorico o gnostico (anche se è chiaro
che queste suggestioni restano implicitamente efficaci), ma le loro risposte
in proposito non sono univoche. La prima, e più debole, è che Platone
avrebbe temuto il ridicolo inerente a dottrine così complesse, come attesta
la derisione degli ascoltatori i quali avrebbero abbandonato in massa la
sala udendolo dire, nella famosa lezione sul bene, che questo non consiste
nella ricchezza o nella felicità ma nell’ Uno. E tuttavia Platone è perfetta
mente consapevole del ridicolo cui egli si espone quando preconizza, nella
Repubblica, il potere dei filosofi, la parità delle donne e la loro nudità nelle
palestre; ma la certezza della pubblica derisione non gli impedisce di soste
nere queste tesi assai più sconcertanti per l’ateniese medio della metafisica
dei principi. La seconda risposta è che gli ascoltatori/lettori non sono in
genere preparati, intellettualmente e moralmente, a recepire le supreme
verità filosofiche: ma perché allora il vecchio Platone avrebbe tenuto una
lezione pubblica sull’identificazione del bene con l’Uno? La terza e più
efficace risposta è che la scrittura è incapace di esprimere, nelle sue formule
statiche, ciò che assume il suo senso solo nell’esercizio dialettico. Questa
risposta è solidamente fondata sul fedro: si può solo osservare che a questo
dialogo viene così concesso lo stesso privilegio che gli aveva riconosciuto
Schleiermacher
— del nuovo paradigma ermeneutico.
Comunque sia, all’insegnamento orale-esoterico di Platone sarebbe
stata affidata la sua metafisica sistematica. Al vertice di essa stanno due
principi (archai): l’Uno e la Diade indefinita.
Il sistema derivativo che se ne genera consiste in una dinamica di suc
cessive pluralizzazioni indotte dall’azione del secondo sul primo principio
(secondo un modello che è inequivocabilmente neoplatonico, a parte la
duplicità dei principi, estranea al neoplatonismo). La prima generazione
è quella delle idee-numeri, la seconda quella delle idee, la terza quella de
gli enti matematici; sotto a essi sta la pluralità degli oggetti fisici dispersi
nella distesa spazio-temporale. Il processo della conoscenza consiste natu
talmente in un movimento riduttivo, dal molteplice ai principi, che riper
corre in senso inverso quello derivativo. Come si era anticipato, il pensiero
platonico si trova così convenientemente collocato al principio della linea
che appunto da Platone, tramite Aristotele, conduce infine senza scosse al
neoplatonismo.
Ci sono, a mio avviso, difficoltà teoriche di comprensione di questo
sistema, al di là del problema della sua verosimiglianza storiografica: e si
tratta di difficoltà che derivano tanto dall’ambiguità delle testimonianze
aristoteliche su cui esso si basa, quanto — come vedremo —
“metafisi
che influenti” che hanno operato nella costruzione del paradigma.
Ne indicherò qui sommariamente qualcuna. Come devono essere
concepiti i “principi” e in particolare la loro funzione generativa? Si può
pensarli come enti dotati di una capacità generativa ontologica, che come
tali restano separati e trascendenti rispetto al generato. Ma in questo caso
è difficile non concepirli rispettivamente come una divinità e una anti
divinità, attribuendo così a Platone una teologia di tipo neoplatonico o
piuttosto gnostico. In questo caso si stabilirebbe una distanza incolma
bile fra i principi e ogni genere di enti. Al contrario, si può insistere sulla
loro presenza negli enti in quanto “elementi” della loro struttura (come
sembrerebbe indicare Aristotele identificando principi e stoicheia). Ma
certamente essi non sono “elementi” nel senso in cui lo sono aria, acqua,
terra e fuoco, di cui le cose sono composte. Si tratterebbe allora di dimen
sioni essenziali di ogni singolo ente, alla maniera in cui lo sono piuttosto
le “cause” aristoteliche (forma, materia e così via). Ma allora l’unificabilità
dei “principi” sarebbe soltanto di tipo analogico (com’è appunto quella
delle cause), oppure categoriale (ogni ente può venir compreso in quanto
insieme uno e molteplice). fra queste due concezioni c’è uno scarto teo
ricamente ingovernabile, né esso sembra colmato da una terza concezione
dei principi come “enti generalissimi” alla maniera dell’essere scolastico.
Essi sarebbero in tal caso inclusivi degli altri enti, ma includere non è ge
nerare, e si può includere alla maniera dell’estensione di un concetto o di
una categoria, oppure in quella di un riferimento paronimico sul modello
dell’essere aristotelico (molte difficoltà dell’interpretazione di quest’ulti
mo si rifletterebbero allora sui principi platonici), o ancora alla maniera di
un contenitore ontologico. Confesso che non sono riuscito a comprende
re con chiarezza verso quale di queste soluzioni — ognuna delle quali, come
è facile vedere, è gravida di conseguenze teoriche anche contrastanti fra
loro — propendano gli interpreti sistematici; non è neppure da escludere
30 IL POTERE DELLA VERITÀ
r
CRONACHE PLATONICHE
31
che vi siano state fra loro anche divergenze e oscillazioni, mai però rese
esplicite.
Altri problemi riguardano lo statuto della Diade. Ma di questi si dirà
meglio discutendo la questione del bene.
5
Nell’opera inaugurale del nuovo paradigma, l’Areté del 1959, Kràmer non
aveva dubbi nell’indicare il referente filosofico della sua reinterpretazione
di Platone: si trattava dell’ontologia heideggeriana. L’approccio del secon
do Heidegger ai modi della comunicazione filosofica aveva probabilmente
creato un alone di simpatia anche nei confronti dell’esoterismo e della sua
trasposizione a Platone; ma il riferimento più diretto è senza dubbio da
vedersi nella Dottrina platonica delta verita e nella funzione che vi veniva
riconosciuta al bene, grazie al quale «il Seiende è mantenuto e “salvato”
nell’essere»’°. Così per Kramer «ogni ente, nella misura in cui è, è sempre
al tempo stesso già buono e conoscibile. Ogni ente d’altra parte è nella
misura in cui si avvicina al modo d’essere dell’Uno, del fondamento»; la
UeberseiendheitdesEinen appariva così a Kràmer come «l’antico anatogon
della “differenza ontologica” » di Heidegger”.
Il riferimento a Heidegger verso la fine degli anni Cinquanta aveva
certo il pregio di inserire la nuova interpretazione esoterico-metafisica di
Platone all’interno di un forte quadro filosofico, e anche, perché no, di
indicarne la collocazione politico-culturale. Esso suscitava però anche im
plicitamente serie difficoltà teoriche, di cui abbiamo già discusso qualche
riflesso a proposito delle aporie della dottrina dei principi. Intanto, non è
chiaro come l’ontologia heideggeriana potesse conciliarsi con la duplici
tà dei principi supremi attribuiti alla metafisica platonica. Ma soprattut
to l’aura heideggeriana comportava una netta tendenza a ridurre l’Uno
all’essere, poco compatibile sia con le testimonianze aristoteliche sia con la
rilettura neoplatonizzante di Platone, e più vicina semmai alla metafisica
aristotelico-scolastica (anche se, come è ben noto, il neoplatonismo era
uno dei protagonisti occulti della filosofia heideggeriana).
Che fosse per questi imbarazzi teorici, o in virtù di quello che egli un
po’ pomposamente chiama «il mutato spirito dell’epoca»”, nell’opera
del 1981 su Platone e ifondamenti detta metafisica Kràmer dichiarava ob
soleto il riferimento heideggeriano e annunciava un nuovo interesse per
il neohegelismo e la filosofia analitica. Questo secondo campo risulta in
effetti abbastanza estraneo allo spirito esoterico-metafisico del nuovo pa
radigma; ma quanto al primo è indubbio che l’influenza di Gadamer, con
tutta la sua autorevolezza nel panorama culturale tedesco, sia divenuta
sempre più avvertibile.
L’esplicito progetto di Gadamer, a livello storiografico, è quello di
ricostruire la grande tradizione della filosofia occidentale attorno all’as
se Aristotele-Hegel; ciò comporta una accentuata aristotelicizzazione di
Platone, che richiede in primo luogo una decisa riduzione del carattere
trascendente del bene-Uno quale esso compare nella Repubblica e viene
confermato dal neoplatonismo. In questo quadro il Filebo (dove «l’esse
re, quello del bene come quello di ogni essenza [...] si rivela direttamente
nell’ente») è chiamato ad assolvere un ruolo centrale. Gadamer è cauto
nei confronti dell’esoterismo delle dottrine non scritte (anche perché non
facilmente maneggiabile all’interno di un’ermeneutica storiografica della
parola scritta), ma è disposto a riconoscere l’identità del bene con l’U
no in quanto limite, misura, ordine dell’ente: garanzia insieme ontologi
ca, estetica e di valore dell’ordine del mondo’. L’influenza gadameriana
pare dunque giocare in favore della concezione elementare-categoriale dei
principi, a scapito di quella generativo-derivativa, e quindi alimentare la
tensione teorica cui sopra si accennava. Più in generale, appare chiaro che
le recenti simpatie neohegeliane di Kràmer sembrano alludere a una collo
cazione del nuovo paradigma nell’ambito della “filosofia dello spirito” più
che in quello metafisico-ontologico del neoplatonismo, o comunque pre
mere verso una reinterpretazione spiritualistica di quest’ultimo, in modo
non distante del resto dalle posizioni di Beierwaltes’.
Queste oscillazioni, fra una concezione trascendente dei principi da un
lato e una legittimazione ontologica degli enti dall’altro, avranno — come
vedremo — qualche conseguenza nella dimensione pragmatica del nuovo
paradigma tùbingiano-milanese. Ma la natura stessa della dottrina dei
principi, come viene ricavata dalle testimonianze indirette, e la sua aura
neoplatonico-gnostica continuano a restarvi prevalenti.
6
Molte delle difficoltà teoriche e storiografiche sono state per così dire mes
se in sordina dall’enorme sforzo compiuto, specie in Italia, per la diffu
31 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 33
sione e l’egemonia del nuovo paradigma: una vera e propria «strategia di
appropriazione»’5 dell’interpretazione platonica che non ha risparmiato
né energie di ricerca né investimenti editoriali né lavoro di propaganda, e
alla cui testa ha agito come un motore instancabile Giovanni Reale. Reale
sembra aver tradotto la dottrina dei principi attribuita a Platone nella di
mensione pragmatica di una ideologia “henologica’ cui pare venir destina
toil senso dello sforzo di cui si diceva. È il caso di citare alcune sue parole in
proposito: «L’uomo di oggi tende a dividere tutto [...]. Non solo a livello
politico (classi, partiti, correnti ecc.), ma proprio a livello etico: divisione
della famiglia con il divorzio, lotte fra i sessi (maschio e femmina), divisio
ne fra genitori e figli, e così via»’6. L’insistenza platonica sulla necessaria
unità della polis viene così interpretata come la conseguenza etica della
metafisica dell’Uno, e a sua volta riproiettata nella concezione organicisti
ca e integralistica di una comunità sociale liberata da pluralismi, diversità
e conflitti. In esergo al suo opus maius su Platone, Reale ha in effetti cita
to il motto di Leibniz: «se qualcuno riducesse Platone a sistema, costui
renderebbe un grande servizio al genere umano». Non sono abbastanza
esperto delle posizioni di Comunione e Liberazione o dell’Opus Dei per
sapere se questo “servizio” possa consistere nel trovare in Platone una loro
conferma. È chiaro per contro che l’accentuazione “henologica” compiuta
da Reale nell’ambito della dottrina dei principi attribuita a Platone va nel
senso di sostituire, nell’ambito del complesso arcipelago della “filosofia
cristiana’ una concezione appunto platonica-neoplatonica alla tradizio
nale metafisica aristotelico-tomista che aveva dominato nelle università
cattoliche da Lovanio a Milano. 11 tollerante pluralismo della dialettica
aristotelica viene così rimpiazzato con l’esoterismo sistematico, l’analo
gia entis con il riferimento univoco al principio dell’Uno-bene. E, quel
che più conta, l’accentuazione della positività etico-ontologica dell’Uno
impone per contro una comprensione del principio opposto, la Dualità
plurale, come male e non essere. Della minacciosa comparsa di questo
dualismo gnosticheggiante diremo più oltre, discutendo dei problemi re
lativi all’idea del bene; ma è certo che l’identificazione della pluralità con
il male può comportare conseguenze pragmatiche di un qualche rilievo.
Su questo terreno, del resto, non sembra che né Gadamer (che si richiama
alla «moderna coscienza cristiana e liberale») né il recente Kràmer se
guano le posizioni di Reale, preferendo piuttosto attestarsi sulla rivaluta
zione dell’etica aristotelica perseguita dalla “filosofia pratica” di ambiente
tedescot7.
7
Prima di giungere all’esempio conclusivo, vorrei brevemente soffermarmi
su alcuni paradossi prodotti dal nuovo paradigma, con la sua doppia as
sunzione secondo cui Platone ha posseduto una dottrina sistematica dei
principi l’Uno e la Diade, e non l’ha voluta esporre nei dialoghi scritti.
Questi paradossi consistono nella scrittura platonica del non-scritto (e
“non scrivibile”). Esistono in altri termini, nei dialoghi platonici, espe
rimenti teorici assai simili alla dottrina dei principi; esperimenti che, se
condo molti autori a partire da Cherniss, contengono in effetti tutto ciò
che Platone ha potuto pensare intorno a questa dottrina, che risulterebbe
di conseguenza né esoterica né sistematica. Se ne può indicare un catalo
go sommario. Il Filebo (su cui insiste, come si è visto, Gadamer) enuncia
due principi/elementi strutturali degli enti, il limite (peras), dotato di va
lore anche etico, e l’illimitato (apeiron), che non sono molto lontani da
una delle possibili interpretazioni dell’Uno e della Diade indeterminata
(si parla anzi esplicitamente di una derivazione degli enti dall’Uno e dal
molteplice, i6c). 11 Sofista discute una teoria dei cinque generi supremi,
il primo dei quali è l’essere, e ne deriva una complessa concezione tanto
logico-categoriale quanto ontologica del mondo noetico e degli enunciati
che vi si riferiscono (da qui, come si è detto, prendeva le mosse Stenzel). Il
Farmenide discute, in tutti i possibili aspetti logici e ontologici, il rapporto
fra Uno e molteplice, arrivando a livelli davvero vertiginosi di rarefazione
teorica, quali sembrerebbe difficile attendersi da uno scritto protrettico e
divulgativo. La Repubblica, infine, attribuisce all’idea del bene un ruolo
generativo e valorizzante rispetto alle altre idee assai simile a quello che le
dottrine non scritte riferirebbero esotericamente all’Uno.
Molti ritengono, a buon diritto, che questo insieme teorico rappresenti
uno dei vertici non soio del pensiero di Platone, ma della tradizione fi
losofica in generale, e che certamente esso forzi i limiti che il Fedro e la
Lettera vii assegnerebbero alla scrittura. Ed è difficile resistere all’impres
sione che il lavoro concettuale che vi viene prodotto sia immensamente
più ricco, anche perché più problematico, delle scarne formule in cui può
ridursi la formulazione delle dottrine non scritte. Ma, agli occhi del nuovo
paradigma, questi ed altri esperimenti intellettuali di Platone soffrono di
un doppio e imperdonabile difetto. Sono affidati alla scrittura, quindi alla
circolazione e alla discussione pubblica; e non sono sistematici: pongono
insomma problemi e domande là dove è assai più confortante disporre di
34 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 35
soluzioni e risposte, per di più non controvertibili. La scuola di Reale si è
recentemente impegnata su questo difficile terreno, nel doppio tentativo
di “salvare i dialoghi” per il loro valore filosofico, e insieme di mostrarne
il carattere solo problematico-preliminare rispetto alle risposte sistema
tiche offerte dalle dottrine non scritte. Così Maurizio Migliori definisce
ad esempio l’esito, nell’ambito di questo programma, della sua lettura del
Parmenide: si tratta di
una grandiosa riflessione filosofica, che, in senso tecnico, non dimostra nulla, ma
che risulta tutt’altro che criptica o inutile, perché offre molte e decisive afferma
zioni in negativo, varie importanti indicazioni storiografiche, alcune tracce filoso
fiche meritevoli di ulteriori sviluppi, squarci di discorsi che lanciano una serie di
ponti verso la Protologia, anche se la loro fondazione risulta sempre insufficiente
e incompleta, come deve essere nello scritto8.
È difficile non riconoscere in un’affermazione di questo genere la tenden
za ad applicare il “paradigma” più che a verificarlo (l’importanza del Far
menide venendo fatta dipendere solo dal suo rapporto con la dottrina dei
principi che gli è presupposta), a riconoscere più che a comprendere. Va
dato atto, comunque, dell’ammirevole tenacia intellettuale con la quale la
scuola di Reale persegue il suo programma di confronto con questi difficili
testi platonici.
8
Veniamo da ultimo al nostro esempio, certamente illustre: la questione
dell’idea del bene nella Repubb1ica’. È noto che nell’introdurre la discus
sione, di vitale importanza perché si tratta del meghiston rnathema per i
futuri governanti della potis filosofica, Platone formula una riserva enig
matica: «che cosa sia il bene in se stesso lasciamo per ora stare; mi sem
bra superiore al nostro attuale impulso il giungere all’opinione che ora ne
ho»; in luogo di una definizione esplicita, Socrate si impegna a fornirne
una descrizione metaforica, centrata sui sole (5o6d-e). Gli interpreti tra
dizionali hanno visto in questa esitazione il segno di una impasse teorica,
sperabilmente provvisoria, oppure l’indicazione ironica dell’impossibilità
di principio di definire il bene alla maniera delle altre idee. Gli ermeneuti
righe Platone a) sapeva benissimo in che cosa consistesse la definizione del
bene, cioè nella sua identificazione con l’Uno, b) ma non la volesse dire
esoterico-sistematici, invece, non hanno dubbi che mentre scriveva queste
per la nota inadeguatezza della scrittura a rivelare la dottrina dei principi.
Si tratta senza dubbio di una risposta forte, e a prima vista più convincen
te di quelle tradizionali. Tuttavia questa risposta comporta una riduzione
in qualche modo “violenta” delle successive difficoltà teoriche che il testo
presenta e che ne fanno un luogo di straordinario interesse filosofico. La
prima consiste nel nesso fra posizione epistemica e statuto ontologico del
bene. Platone insiste su una caratteristica comune a questi due aspetti: il
bene è causa di conoscenza e verità, ma è diverso da entrambe e superiore
a esse per valore; il bene è origine dell’essere e della ousia, cioè di esistenza
e determinazione essenziale, ma è collocato oltre (epekeina) l’ousia ed è
superiore a essa per dignità e potenza (dynamis) (5o8e-5o9a).
Il bene non appartiene dunque alla popolazione del campo epistemico
(le idee); poiché non è ousia, non è suscettibile per principio di una defi
nizione d’essenza, appunto il togos tes ousias. Tutto questo sembra inequi
vocabilmente indicare la non-oggettualità del bene, una sua collocazione
metaontologica che è anche immediatamente metaepistemica. Ne deriva
una difficoltà della conoscenza del bene che non ha niente a che fare con i
limiti della scrittura, ma che riguarda il suo peculiare statuto epistemico
ontologico che lo differenzia dalle altre idee e implica probabilmente una
forma diversa di conoscibilitàbo, forse intuitiva ed extralinguistica. Su que
sto non è qui il caso di insistere: ma è chiaro che la traduzione secca del
bene nell’Uno fa giustizia sommaria “gordiana” di questo nodo proble
e
matico, rendendo il principio definibile sistematicamente maneggiabile.
e
Una decisione in proposito comporta conseguenze di rilievo. Se si accetta
la non-oggettualità del bene, diventa teoricamente illegittima la domanda
sul “che cosa è’ e si deve invece prendere sul serio la “potenza” che Pla
tone gli attribuisce chiedendosi piuttosto “che cosa fa’ quali sono i suoi
effetti, la sua Wirkung. La traduzione del bene nell’Uno comporta invece
il declassamento del linguaggio della Repubblica a uno statuto mitico-me
taforico, preconcettuale, proprio della natura protrettica di questo dialogo
che andrebbe allora reinterpretato alla luce della più sobria concettualiz
zazione del Filebo, come vuole Gadamer, o delle dottrine non scritte come
preferiscono Kràmer e Reale. La seconda conseguenza riguarda il modo
di intendere la generazione delle idee dal bene (un paradosso teorico in
sé stesso, visto che le idee sono per definizione enti ingenerati, al quale
Plotino avrebbe dedicato uno dei suoi maggiori impegni concettuali). In
36 IL POTERE DELLA VERITÀ CRONACHE PLATONICHE 37
questo caso si ha un curioso effetto di chiasma: qui gli interpreti esoteri
co-sistematici sono disposti a prendere Platone alla lettera, concependo il
bene (s’intende in quanto Uno)’ come un generatore ontologico posto al
vertice di un sistema derivazionale dell’essere (Seinsabteitung). Viceversa
un loro avversario ante Iitteram come Ernst Cassirer scriveva nel 1915 che,
se si concepisce il rapporto fra bene e mondo come «un rapporto cau
sale, pensando il derivato come scaturiente dall’origine, così certamente
non parliamo più il linguaggio della conoscenza pura ma il linguaggio del
mito». Cassirer, e con lui tutti gli interpreti legati più o meno diretta
mente alla tradizione neokantiana, preferiscono pensare il piano delle idee
come quello delle norme, del senso, del tetos etico-politico; dunque la loro
derivazione dal bene significa la dipendenza non ontologica da una condi
zione ultima di possibilità delle norme, del senso, del tétos, quale è appunto
un principio di valore come il bene.
questo nodo come un nucleo
gio —
È difficile qui decidere dove sta il mito e dove la teoria; forse è più sag
e anche più platonico considerare —
problematico impregiudicato in entrambi i sensi, e dunque bon à penser,
come in effetti lo è stato per tutta la tradizione filosofica occidentale —
finché, s’intende, non è sopraggiunto chi è convinto di possedere le ri
sposte definitive. Da ultimo, l’aspetto etico: che non è e non può essere
considerato irrilevante dal momento che Platone ha deciso di dare nella
Repubblica al suo “principio” il nome e la finzione di un valore, quale è
appunto il bene.
Qui le conseguenze delle diverse opzioni interpretative sembrano po
ter venire delineate con precisione. Il bene può venire inteso a) secondo la
lettera del testo platonico, come un principio di valore privo di oggettua
lità, cioè metaontologico e di conseguenza metaepistemico. Si segnala così
una “assenza del bene” dal campo dell’esistente che lo colloca nel ruolo di
un orientamento trascendentale dellapraxis, in tutta una gamma di signi
ficati che possono andare dal kantismo alla fenomenologia. Nella prospet
tiva esoterica di riduzione del bene all’Uno, si aprono altre due possibilità:
bi) l’accentuazione neoplatonica della trascendenza dell’ Uno, nella figura
evidentemente con il male ontologico ed esistenziale: quel dovere si con
quindi di una divinità generatrice ma estranea rispetto all’essere; b2) l’e
quivalenza tra Uno ed essere, che porta quindi a una equiestensione di
valore ed esistenza.
Nel caso bi), l’etica viene ridotta drasticamente a una teologia, su cui
si fonda il dovere del ritorno all’unità originaria, con l’ulteriore compli
figura a questo punto come una mistica dell’unità e una fuga dal mondo
irreparabilmente contaminato dalla pluralità. Nel caso b2), l’etica viene
sull’ontologia, secondo principio kràmeriano secondo
schiacciata il il
quale ogni ente è buono misura Questo atteggiamento nella in cui è. è
cazione dell’esistenza di un secondo principio plurale, da identificare ora
visibilmente più aristotelico che platonico, visto che la filosofia di Plato
ne è intesa in modo strenuo legittimità etico-politica per
a negare la e
sino ontologica meno da considerarsi
dell’esistente; a che l’esistenza sia
inversamente proporzionale al livello di pluralità da cui è strutturata, ma
in questo caso da un ottimismo ontologico si regredirebbe al pessimismo
neoplatonicognostico di tu), con una oscillazione teorica invero allar
mante. Premuta fra teologia e ontologia, l’etica non sembra comunque
trovare molto spazio autonomo proprio a partire da quella supremazia del
bene sulla quale Platone intendeva fondarla. A questa impasse si deve forse
il ritorno di interesse per Aristotele e la sua filosofia pratica di qualche in
terprete esoterico. In ogni sembra campo queste letture
caso, mi che nel di
platoniche manchi ancora un confronto con conseguenze cam
serio le in
po etico della riduzione del bene della Repubblica all’ Uno delle dottrine
non scritte.
9
Vorrei, in conclusione, fugare un possibile equivoco. Queste sommarie
considerazioni non esauriscono neppure lontanamente la ricchezza di
analisi e anche di acquisizioni storiografiche studiosi
che il lavoro degli
legati al nuovo paradigma ha qui prodotto non
sin (come del resto
riscono le critiche che sono state loro rivolte). Un dissenso anche radicale
non può quindi esimere dall’impegno di prendere sul serio questo lavoro,
e di studiarlo a fondo. Esso ha certamente merito mettere avuto il di in
luce una serie di esperimenti teorici Platone ha condotto margine
che in
o come supplemento scrittura questi esperimenti de
della sua filosofica, e
vono venire considerati come parte integrante della nostra attuale com
parte a
le discutibili “applicazioni teoria campo etico-politico
—
intese” della in è
a proposito della pretesa attribuire Platone un’intenzione esoterica
di a
prensione di Platone. Là dove il dissenso diventa più profondo —
totale, di tipo postpitagorico o pregnostico, e il possesso incrollabile di un
sistema dottrinale di verità sottratto per principio alla discussione pub
38 IL POTERE DELLA VERITÀ
buca, e consistente in una metafisica derivazionale dei principi. Sul piano
storiografico questi due presupposti sembrano aprire, come si è visto, più
problemi di quanti ne risolvano. Sul piano filosofico, è davvero dubbio
se questo sistema dottrinale rappresenti uno stadio più avanzato rispetto
alla problematica che Platone instancabilmente affronta nei dialoghi. E,
infine, un’osservazione che penso valga tanto per il lettore non specialista
di Platone, cui è dedicata questa nota, quanto per i suoi studiosi: è davve
ro possibile comprendere Platone ritenendo solo preliminari e marginali
il suo «filosofare diatektikòs»’, lo spirito socratico dell’elenchos fatto di
congetture e confutazioni, l’ironia che significa disponibilità a riprendere
sempre di nuovo, nel dialogo, il confronto aperto degli argomenti?
Note
i. Per non appesantire questa nota con eccessivi riferimenti bibliografici, rinvio
sull’insieme dei problemi alle ampie bibliografie contenute in J. Wippern (Hrsg.),
Das Probtem der ungeschriebenen Lehre Platons, Darmstadt 1972; H. J. Kràmer, Plato
ne e ifondamenti detta metafisica, Milano 1982 (con una raccolta delle testimonianze
dirette e indirette); G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 1984
(io ed., Milano ii). Cfr. inoltre l’importante saggio di F. Franco Repellini, Gli
agrapha dogmata di Platone: la toro recente ricostruzione e i suoi presupposti storicofilosofici,
in “Acme”, XXVI, 1973, pp. 51-84.
a. Per la posizione di E. Berti, che tende a collocare le dottrine non scritte nel perio
do tardo del pensiero platonico, e non vede traccia di una teoria dualistica nella Re
pubblica, rinvio al suo Strategie di interpretazione deifitosofi antichi. Platone eAristote
te, in “Elenchos”, X, 1989, pp. 289-315. DiR. Ferber cfr., dopo l’importante Platos Idee
des Guten, Sankt Augustin 1984 (a’ ed. 1989), Die Unwissenheit des Philosopben, oder,
J’Varum hatPtato die “ungeschriebeneLehre”nichtgeschrieben?, Sankt Augustin
3. Le critiche di W. Wieland sono nell’introduzione a Platon und die formen des
Wissens, Gòttingen 1982; l’acre risposta di Krmer si trova in Platone, cit., pp. 323 Ss.
Fra
.
i vari interventi di M. Isnardi Parente mi limito a rinviare a Ilproblema detta
«dottrina non scritta» di Platone, in “La parola del passato’ cCxxvi, 1986, pp. 5-30, e
a Platone e il discorso scritto, in “Rivista di storia della filosofia’ XLVI, 1991, pp. 437-61.
.
L. Couloubaritsis, Aux origines de la philosopbie européenne, Bruxelles 1992 (alle
dottrine orali sono dedicate le pp. 190-a, a Platone le pp. 177-334).
6. Cfr. le pp. 135-6 della traduzione ingleseJ. Stenzel, Ptato’s Method ofDiatectic, ed.
D.J. Mlan, New York 1964.
CRONACHE PLATONICHE 39
.
Ho discusso queste interpretazioni in Tre tesi sull’unità detta «Ivietafisica» aristo
telica, in “Rivista di filosofia’ LXI, 1970, pp. 345-83. Su Merlan cfr. in particolare G.
Cambiano, Merlan:fltotogia efilosofla, in “Rivista di filosofia”, LXIX, 197$, pp. $9- 9$.
8. In questo modo si riproduce sempre di nuovo quell’emarginazione dei sistemi cilenistici
dalla linea portante della tradizione greco-occidentale, che è propria di molta
parte delta filosofia tedesca, come ha mostrato benissimo G. Cambiano, Il ritorno
degli antichi, Roma-Bari 198$.
Ho discusso alcuni di questi problemi in Dans t’ombre de Thoth. Dynamiques de
.
t’écriture chez ?taton, in M. Detienne (dir.), Les savoirs de t’écriture en Grece ancienne,
Lille 1988, pp. 387-419. La posizione di T. A. Szlezk sembra essere variata dal saggio
The Acquiring ofPhitosophicatKnowtedgeAccording to Ptato’s Seventh Letter, in G. W.
Bowersock, W. Burkert, M. C. J. Putnam (eds.), Arktouros. Hellenic Studies Presented
iv B. M. Knox, Bertin 1979, pp. 354-63 (dove egti ammetteva il carattere extralinguisti
co della conoscenza filosofica suprema), alle posizioni intransigentemente oralistiche,
comunque molto interessanti, di Platon und die Schrfltichkeit der Fhilosopbie, Berlin
1985, trad. ir. di G. Reale con il titolo Platone e la scrittura dettafitosofla, Milano 198$.
io. Cito da M. Heidegger, Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Milano 1987, p. 184.
ii. Le citazioni sono da H. J. Krmer, Areté bei Platon und Aristotetes, Heidelberg
1959,p. 555, nota 4; Id.,DieptatonischeAkademie unddasProbtem einersystematischer
Interpretation derPhilosophiePtatons, in “Kantstudien’ LV, 1964, pp. 86-7; Id.,Epekei
na tes ousias. Zu Ptaton Potiteia 5093, in “Archiv fiir Geschichte der Philosophie”, LI,
1969, p. 19. Di Kràmer cfr. anche Uber den Zusammenhang von Prinzipientebre und
Diatektik bei Ptaton. ZurDefinition des Dialektikers (Potiteia 534B-c) , in “Philologus”,
cx, 1966, pp. 3 5-70. Questo saggio, importante come quello precedente per l’inter
pretazione dell’idea del bene nella Repubblica, è stato tradotto e introdotto da G.
Reale con il titolo Dialettica e definizione del Bene in Platone, Milano 1989.
iz. Krmer, Platone, cit., p. 320.
13. H. G. Gadamer, Die Idee des Guten zwischen Ptato und Aristotetes, Heidelberg
1978, trad. it. di G. Moretto con il titolo Studi ptatomci 2, Casale Monferrato 1984,
pp. ii-z6i (la citazione è alle pp. 229-30; cfr. p. z6i).
14. Di W. Beierwaites cfr. il classico Ptatonismus und Ideatismus, Frankfurt a.M. 1972,
trad. it. di E. Marmiroli con il titolo Platonismo e idealismo, Bologna 1987; e Den
ken des finen. Studien zur neuptatonische Phitosophie und ibrer Virkungsgescbichte,
Frankfurt a.M. 1985, trad. it. di M. L. Gatti con il titolo Pensare t’Uno, Milano
15. L’espressione è di Berti, Strategie di interpretazione, cit., p. 289.
i6. G. Reale, L’benotogia netta Repubblica di Platone: suoipresupposti e sue conseguen
ze, in V. Meichiorre (a cura di), L’uno e i molti, Milano 1990, pp. 113-53 (la citazione
è ap.
17. H. G. Gadamer, L’anima atte soglie delpensiero nellafilosofia greca, Napoli 1988,
p. 64; per Krmer cfr. In quale misura la concezione aristotelica dell’etica è ancor oggi
attuate?, in “Museum Patavinum”, IV, 1987, pp. 23 5-49.
i8. Cfr. M. Migliori, Dialettica e Verità, Milano j99o,p.
19. Ho trattato più ampiamente del problema in L’idea del bene nella Repubblica di
Platone, in “Discipline filosofiche”, I, 1993, pp. 207-30.
zo. Sul problema della conoscibilità dei bene è interessante segnalare un piccolo ma
significativo ritocco al testo apportato da R. Radice nella sua traduzione della Re-
costituisca
40 IL POTERE DELLA VERITÀ
pubblica compresa nel volume Platone. Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Milano
1991. A 5o$e Radice traduce: «ed essendo essa [l’idea del bene] causa di conoscenza e
verità, ritienila conoscibile», il che presume un accusativo ho’sgigno’skomenèn. li testo
di Burnet, che viene seguito nella traduzione, reca invece il genitivo Jsgznòskomene’s,
che va riferito ad aletheias («causa di conoscenza e di verità in quanto conosciuta»:
cfr. la traduzione di Shorey «oftruth in so far as known»). La correzione dei testo
non è segnalata da Radice e non pare giustificata dalle varianti in apparato, quanto
piuttosto dalla preoccupazione di far dire a Platone che l’idea del bene è positiva
mente conoscibile.
ai. A proposito dell’identificazione del bene con l’Uno la testimonianza aristoteli
ca viene invece sottovalutata. In Etica Nicomachea 1.4 Aristotele discute, e respinge,
la concezione del bene come essa è proposta nella Repubblica, attribuendo invece il
rapporto bene-Uno ai pitagorici e a Speusippo (Io96A 5-7). L’identificazione bene-
Uno è attribuita nell’Eudemia a una tesi (accademica) attuale (nun) (i.8 iai$a 17 ss.),
mentre in precedenza Aristotele ha confutato le posizioni platoniche del bene-idea
sostenute nellaRepubblica. Nonostante i saggi diJ. Brunschwige dii. Berti in P. Mo
raux, D. Harffinger (Hrsg.), Untersuchungen zur Eudemischen Ethik, Berlin 1971, il
problema attende ancora forse un compiuto chiarimento.
za. Cito da E. Cassirer, Die Philosophie der Griechen von den Anfrngen bis Ptaton, in
M. Dessoir (Hrsg.), Die Geschichte derPhitosophie, voi. i, Berlin ‘9z, trad. it. di G. A.
De Toni con il titolo Da Thlete a Platone, Roma-Bari 1984, p..
23. Sul tema (e in particolare sui filebo) cfr. G. Casertano, Filosofare dialektikòs in
Platone: ilfilebo, in “Elenchos”, X, 1989, pp. 6j-,oz. Ringrazio Franco Ferrari per le
sue utili osservazioni a proposito di questo articolo, una cui prima stesura ho avuto
modo di discutere in un seminario tenuto presso l’Università di Torino nel maggio
1993, su invito di Carlo A. Viano. Quando questa nota era già in bozze, sono venuto
a conoscenza della fedele ricostruzione del pensiero di Reale, destinata all’ Università
cattolica di Lovanio, di L. Rizzerio, Ptaton, t’écote de Thbingen et Giovanni Reale, in
“Revue philosophique de Louvain”, XCI, 1993, pp. 90-110, e della relazione, di note
vole spessore critico, presentata da L. Brisson (Gli orientamenti recenti della ricerca su
Platone) al convegno su Platone dell’ARIFS, tenuto a Firenze nel novembre 1993, poi
pubblicata in “Elenchos”, XV, 1994, pp. 255-85. È comparso nel frattempo il commento
al filebo di M. Migliori, con il titolo L’uomofra piacere, inteizenza e bene, Milano
1993. Un ponte fra fa nuova interpretazione di Platone e le sue precedenti ricerche
aristoteliche, verso le quali si riattiva ora l’interesse, è stato gettato da G. Reale nelle
sue recentissime riedizioni del Concetto difilosofia prima e l’unita della A’fetafisica di
Aristotele, Milano 1993 (“ ed.), e della cosiddetta “edizione maggiore” del commento
alla Ivletafisica, 3 volI., Milano 1993.
«Solo Platone non c’era» *
Racconta Luciano di Samosata, nella Storia vera, di un suo fantastico viag
gio nelle «Isole dei Beati», dove aveva incontrato ie anime di tutti i filo
sofi, salvo uno: «Solo Platone non c’era: secondo voci che circolavano,
abitava nella città che si era inventata, dove viveva secondo la costituzione
e le leggi che aveva scritto» (ii 17). Ma l’assenza di Platone da questa sorta
di “paradiso” filosofico non è l’unica, né la più clamorosa. Nei suoi dialo
ghi, egli menziona solo una volta il proprio nome (a parte l’Apologia, dove
Socrate lo cita fra coloro che sono disposti a pagare una sua eventuale pena
pecuniaria): e lo fa nel fedone, per segnalare appunto la propria assenza,
per un’indisposizione, dalla cella dove Socrate tenne la sua ultima conver
sazione e bevve alla fine la cicuta (59b).
Si può dire che l’assenza di Platone dai dialoghi — cioè l’anonimato
d’autore, come accade nei testi teatrali — da un fato un’ovvietà,
dall’altro un paradosso storiografico: l’autore del primo grande corpus di
scritti filosofici dell’antichità che ci sia pervenuto per intero non si attri
buisce nessuna delle teorie che vi vengono argomentate. L’aver preso sul
serio questo paradosso, almeno alla stregua di un rompicapo ermeneutico,
costituisce, si può dire, la novità più rilevante della storiografia platonica
negli ultimi decenni del secolo scorso. Platone, è vero, parla in prima per
sona nelle Lettere che vanno sotto il suo nome. Esse sono però tutte senza
dubbio falsificazioni tardive, con la sola possibile eccezione della Lette
ra vii. Se autentica (ciò che non è affatto sicuro), essa contiene interessanti
informazioni sull’autobiografia politica di Platone, tesi etico-politiche che
rispecchiano da vicino quelle contenute nel dialogo sulla Repubblica, e un
Questo capitolo è già stato pubblicato in “?aradigmi. Rivista di critica filosofica”, XXI,
Ci, 0.5., 2003, pp. 161-77.
— com’è
noi
dalla
di
la
42. IL POTERE DELLA VERITÀ «SOLO PLATONE NON C’ERA» 43
excursus propriamente filosofico che tuttavia non corrisponde a nulla di
quanto è scritto nei dialoghi; il che costringe l’interprete all’alternativa
di considerare questi ultimi come estranei al pensiero di Platone, oppure
più verosimile — considerare almeno l’excursus come un’inter
polazione tardiva (probabilmente medio-platonica).
i
2.I
Poiché l’anonimia d’autore nei dialoghi platonici costituisce, come si è
detto, oltre che un paradosso anche un’ovvietà, la tradizione ha proposto
una gamma di soluzioni, che solo di recente sono state rimesse radical
mente in discussione. La prima e più intuitiva di esse consisteva nel fare
del Socrate dialogico il “portavoce” autentico di Platone. Alla naturale
obiezione che Socrate non compare affatto in un dialogo (le Leggi), e
ha una posizione del tutto secondaria in altri (come il Politico, il Sofista,
e anche il Timeo e il Parmenide) la risposta tradizionale — formulata ad
esempio da Diogene Laerzio (iii 52) — era che il “portavoce” di Platone
fosse comunque da ravvisare nel protagonista del dialogo (di volta in volta
lo “straniero di Elea’ Timeo, lo stesso Parmenide). Già Galeno, tuttavia,
aveva formulato dei dubbi in proposito, ipotizzando che Platone avesse
attribuito al solo Socrate le sue dottrine più autentiche, riservando ad altri
come Timeo quelle non «scientifiche» ma piuttosto «retoriche» (De
ptacitis IX 7). Alla sensibilità stilistica di Galeno non sfuggiva del resto che
Platone attribuisce ai suoi protagonisti linguaggi appropriati e ben diffe
renziati: e — potremmo aggiungere — lingua del Tirneo o delle Leggi
ha ben poco a che fare con quella del Simposio o della Repubblica.
Ma c’è molto di più. Il personaggio Socrate, e a maggior ragione gli al
tri protagonisti dialogici, non rappresentano nei diversi dialoghi posizioni
filosofiche che possano in alcun modo venire considerate omogenee e cu
mulative, come potrebbero esserlo i capitoli di un trattato ad esempio di
stile aristotelico. Ci sono clamorose alterazioni tanto nello stilefilosofico del
personaggio — celebre professione di “non sapere” propria dei dialoghi
detti “aporetici” all’esposizione dottrinale assertiva della Repubblica o del
filebo —‘ quanto nei teoremi filosofici sostenuti (basti pensare alla dottrina
pitagorizzante dell’anima nel fedone per contrasto a quella tripartita della
Repubblica o alla psico-fisiologia del Timeo). Ci sono ripetizioni dottrinali
non rese esplicite (ad esempio la dottrina del coraggio nel Lachete, ripresa
senza autocitazioni nella Repubblica), oppure autocitazioni insufficienti e
anche deliberatamente deformanti (è il caso del “sommario” della Repub
blica offerto nel prologo del Timeo), o ancora dottrine che in certi testi
paiono genuinamente socratiche e che in altri invece vengono attribuite a
personaggi diversi e confutate dallo stesso Socrate (è il caso delle definizio
ni di sophrosyne proposte da Crizia nel Carmide). In qualche caso, in un
dialogo Socrate si dichiara incapace di trattare un argomento complesso
che invece affronta con sicurezza in altri (è il caso del “buono” e della dialet
tica nella Repubblica, discussi in modo molto più positivo rispettivamente
nel filebo e nel Fedro, oltre che dallo “straniero di Elea” nel Sofista). Infine, è
fuori di dubbio che l’autore manifesti a volte, attraverso altri personaggi, il
suo distacco ironico e critico da quello di Socrate (basti pensare al ruolo di
Glaucone nella Repubblica e a quello di Parmenide nel dialogo omonimo).
2.2
La risposta tradizionale a questi problemi consiste nello spiegare discrepanze
dottrinali e differenze nello stile filosofico dei dialoghi ricorrendo all’ipotesi
di una evoluzione nel pensiero di Platone. Secondo la sua versione standard,
esso avrebbe attraversato tre fasi: quella giovanile, “socratica” (corrisponden
te all’incirca ai dialoghi “aporetici’), quella della maturità (al cui centro sta
la Repubblica), e quetia di revisione critica nella vecchiezza. Occorre subito
dire che c’è molto di ragionevole in questa ipotesi: per ogni filosofo di cui
ci sia esattamente nota la cronologia delle opere è possibile ravvisare mu
tamenti di prospettive teoriche, differenze di temi e di approcci. Nel caso
di Platone, tuttavia, l’ipotesi evolutiva non appare dotata di sicure capaci
tà euristiche. In primo luogo, la cronologia dei dialoghi è inevitabilmente
incerta. Le indagini stilometriche (che prendono a testo-campione quello
che è sicuramente l’ultimo dialogo di Platone, le Leggi, e situano cronolo
gicamente gli altri secondo una scala crescente di differenze stilistiche) non
sembrano poter andare oltre tre grandi raggruppamenti: i. tutti i dialoghi
salvo z. fedro, Repubblica, Pannenide, Teeteto, e 3. Sofista, Politico, filebo,
Timeo/Crizia, Leggi. Anche questi raggruppamenti non appaiono del
sto incontrovertibili, per almeno due ragioni di principio. La prima è che il
ap
re
unito
come
— quindi
tra
di
dunque
intorno
tra
44 IL POTERE DELLA VERITÀ «SOLO PLATONE NON C’ERA» 45
dialogo-campione, le Leggi, è stato lasciato incompiuto da Platone e redatto
nella forma che noi leggiamo da Filippo di Opunte, il che lascia qualche
dubbio sui suo carattere “platonico’ almeno dal punto di vista stilistico; la
seconda, più importante, è che per i dialoghi — come e più che per ogni altra
opera non stampata — non esiste una vera e propria “data di pubblicazione’
e che ne sono circolate senza dubbio diverse versioni (sappiamo ad esem
pio che Platone nell’ultimo giorno della sua vita era intento a rielaborare
l’inizio della Repubblica), il che rende incerta qualsiasi collocazione crono
logica. Ma, quel che più conta, discrepanze teoriche sono presenti anche in
dialoghi appartenenti allo stesso gruppo: la teoria dell’anima del fedone è
molto diversa, per non dire contraddittoria, rispetto a quella esposta nella
quasi coeva Repubblica, e quest’ultima è invece più vicina al tardivo Timeo;
la teoria delle idee sostenuta nella Repubblica è seriamente criticata nel quasi
contemporaneo Parmenide. Gli esempi di questo tipo si potrebbero molti
plicare, tanto che l’efficacia esplicativa dell’ipotesi evolutiva ne risulta seria
mente indebolita, anche se non — si diceva — del tutto invalidata.
Ancor meno percorribile è la via dell’ordinamento dei dialoghi se
condo la data “drammatica cioè quella in cui viene ambientata la scena
dialogica. Per moltissimi dialoghi, esistono difficoltà insuperabili per una
datazione di questo tipo; del resto, il primo dialogo nell’ordine della da
tazione drammatica sarebbe il Parmenide, dove compare un Socrate “gio
vanissimo” che critica una teoria delle idee formulata nel fedone, l’ultimo
in quest’ordine.
3
3.1
Questo insieme di problemi — a una crescente attenzione per la for
ma letteraria dei testi filosofici — ha condotto negli ultimi decenni a un
radicale ripensamento di alcuni dati di fatto tanto evidenti quanto spesso
trascurati dalla tradizione esegetica: l’anonimia d’autore, l’assetto dialogi
co dei testi platonici, e infine un secondo paradosso ermeneutico. Il primo
grande corpus di testi filosofici della tradizione occidentale include, nel
fedro, una critica radicale alla possibilità che la scrittura esprima le più
elevate verità teoriche, che dovrebbero invece venire affidate alla comu
nicazione viva e diretta — orale — le anime di chi persegue il
sapere. La rinnovata consapevolezza di questo orizzonte problematico, e
degli enigmi che esso propone, ha tuttavia dato luogo a esiti interpretativi
profondamente differenziati, a seconda delle diverse tradizioni filosofiche
e dei diversi ambienti culturali in cui essa è venuta proponendosi.
Una tendenza che ha svolto negli ultimi decenni un ruolo di rilievo,
soprattutto in Germania e in Italia (molto meno in ambiente anglosasso
ne) è quella oralistico-esoterica rappresentata dalla “scuola di Tùbingen’
e, da noi, dall’ Università Cattolica di Milano. Questa tendenza, motivata
dall’intenzione di ristabilire l’unità della “metafisica classica” da Platone
al neoplatonismo attraverso Aristotele, e non esente almeno all’inizio da
influenze heideggeriane, prendeva le mosse da tre elementi problematici
interagenti. 11 primo è il carattere palesemente incompiuto, dal punto di
vista di una filosofia sistematica, degli sviluppi teorici presentati dai dia
loghi, e inoltre la presenza in essi — a nodi cruciali come il bene,
la dialettica, l’uno — reticenze, omissioni, rinvii non saturati a ulteriori
discussioni. Il secondo è la critica del Fedro alla capacità della scrittura in
generale (compresi, quindi, gli stessi dialoghi platonici) di esprimere le
maggiori “verità” filosofiche: questa inadeguatezza di principio del testo
scritto spiegherebbe dunque la deliberata insufficienza dei dialoghi in ter
mini di filosofia sistematica. Il terzo elemento consiste nella presenza in
Aristotele (soprattutto nella Aìletafisica e nella Fisica), di alcune testimo
nianze relative a “dottrine non scritte” (agrapha dogmata) professate da
Platone e/o dagli Accademici: queste dottrine sarebbero imperniate su di
una “teoria dei principi” — l’Uno e la Diade indefinita, principio dunque
di unità il primo, identificato con il bene, di molteplicità il secondo — dai
quali deriverebbe metafisicamente l’intera realtà, disposta secondo diversi
livelli di pluralizzazione, dai principi stessi alle idee e ai numeri fino alle
cose empiriche.
Dall’interazione di questi tre elementi ha preso forma quello che è sta
to definito il nuovo paradigma nell’interpretazione di Platone. I dialoghi
scritti avrebbero il ruolo di esercizi preparatori e propedeutici all’autenti
ca riflessione filosofica, che non può avvenire se non nel rapporto diretto
orale — maestro e discepoli: un rapporto in un certo senso
“esoterico’ perché consente, a differenza della scrittura, una selezione di
interlocutori intellettualmente e moralmente adeguati, i membri della
“scuola”. I risultati di questa riflessione filosofica sarebbero quelli attestati
nelle testimonianze aristoteliche, e cioè un sistema metafisico dei principi
46 «SOLO PLATONE NON C’ERA» 47
i
IL POTERE DELLA VERITÀ
e della derivazione dei gradi dell’essere che in qualche misura anticipa i
posteriori esiti del neoplatonismo.
Al nuovo paradigma oralistico-esoterico sono state opposte numero
se obiezioni, di diverso peso teorico e portata storiografica. Si è insistito,
in primo luogo, sulla vaghezza delle testimonianze aristoteliche, che non
consentono di spingersi così in là nella delineazione di un sistema metafi
sico compiuto, e che sembrano comunque riferirsi più agli Accademici che
allo stesso Platone. Si è inoltre, in modi diversi, messo in dubbio che la cri
tica alla scrittura del fedro debba venir riferita agli stessi dialoghi platonici
invece che al suo bersaglio esplicito, la trattatistica retorica e anche (stando
alla Lettera vri) filosofica. D’altro lato, si è mostrato come elementi di una
“dottrina dei principi” sono presenti anche nei dialoghi, dalla Repubblica
(priorità ontologica del bene) al fitebo (teoria del limite e dell’illimitato),
al Farmenide (problematica logico-ontologica dell’uno): ciò dimostrereb
be dunque che è possibile scriverne, attenuando così la distanza fra scrit
tura e oralità. Si riapre dunque la domanda sul perché Platone non abbia
scritto le “dottrine non scritte”: a essa si potrebbe rispondere che ciò non è
dovuto tanto all’inadeguatezza della scrittura quanto al carattere ipoteti
co e “sperimentale” di quelle dottrine, non ancora sufficientemente elabo
rate e condivise per poter venire trasferite nella scrittura dialogica. Altre
obiezioni hanno un carattere più marcatamente teorico. Si è osservato che,
a voler prendere sul serio l’excursus filosofico della Lettera vii (oltre che
numerose asserzioni nei dialoghi sulla dialettica), secondo Platone è im
possibile per principio costruire un sistema chiuso e uhimativo della verità
filosofica, sempre aperta per contro all’indagine dialettica e al confronto
dialogico: in questo sarebbe da ravvisare la perdurante fedeltà di Platone
allo spirito del magistero socratico. Da questo punto di vista, si è anche
messa in rilievo fa “povertà” teorica del sistema metafisico dei principi ri
spetto all’immensa ricchezza di analisi filosofiche presenti nei dialoghi.
Più specificamente, si è rilevato che l’identificazione dell’uno con il bene
complementare identificazione
una logica polare —
secondo
comporta —
della Diade con il male, il che farebbe del mondo il teatro di una lotta fra
la
due principi assiologicamente opposti, secondo una dinamica che appare
assai più vicina allo gnosticismo che allo stesso neoplatonismo.
acceso in alcuni momenti di
Va detto che questo confronto —
aver dato luogo negli ultimi anni a
tematizzata nella testualità scritta dei dialoghi, e il loro riferimento alle
assai
sembra
contrapposizione radicale —
qualche forma di riavvicinamento fra le due tendenze. Alcuni studiosi di
“dottrine non scritte” tende a diventare sempre più mediato, in termini di
integrazione e non Dall’altra parte,
di alternativa a quella filosofia. si va af
fermando la tendenza a non rifiutare in toto le testimonianze aristoteliche,
e ad accettare l’idea che Platone abbia effettivamente tentato esperimenti
di pensiero in direzione di una dottrina dei principi, che si affianchereb
bero però alle teorie dei dialoghi senza sostituirle o renderle per principio
inadeguate.
Tutto questo riapre però il problema che il paradigma oralistico
esoterico sembrava aver drasticamente risolto. Alla domanda “Dov’è, nei
dialoghi la filosofia di Platone?” esso aveva risposto che questa filosofia
non era affatto reperibile nei dialoghi ma fuori di essi. L’indebolimento
una parte e dall’altra —
questa risposta troppo perentoria ripropone
— da
di
la domanda, sia pure integrata dalla necessità di non sottovalutare anche le
testimonianze indirette.
3.2.
Per garantire la coesistenza fra la problematicità aperta dei dialoghi e un
non
nucleo teorico direttamente ascrivibile alla filosofia di Platone
—
orientamento oralistico-esoterico hanno riaperto l’indagine sulla filosofia
più
state recentemente ten
sono
cercata però all’esterno dci dialoghi stessi
—
tate altre due vie.
La prima è consistita nell’accettare la dipendenza dei singoli sviluppi
dialogici dagli interlocutori coinvolti e dai temi trattati, cioè dal contesto
dialettico (secondo il principio del dialectical requirement o della Kon
textbezogenheit) e tuttavia nel supporre che questi sviluppi presumano
comunque il riferimento a un nucleo dottrinale stabile, sia esso da reperire
in un particolare insieme teorico (ad esempio quello etico-psicologico)
oppure in un determinato testo (ad esempio la Repubblica). I dialoghi
rappresenterebbero allora, nel primo caso, una strategia retorica di per
suasione dei diversi interlocutori, adattata ai loro livelli di credenza e di
preparazione filosofica; nel secondo, un procedimento “prolettico” di pro
gressiva preparazione del pubblico all’apprendimento e all’accettazione di
dottrine preesistenti alla messa in scena dialogica.
A queste proposte è stata obiettata la scarsa verosimiglianza storio
grafica, oltre che l’arbitrio ermeneutico consistente nel decidere in modo
aprioristico rispetto alle situazioni testuali quale sia il nucleo dottrinale
48 IL POTERE DELLA VERITÀ I «SOLO PLATONE NON C’ERA» 49
4
che Platone intendeva davvero insegnare e rendere persuasivo. Riesce in
effetti difficile credere che il filosofo abbia concepito interamente il nucleo
essenziale del suo pensiero prima ancora di iniziare a esporlo per iscritto,
e l’abbia tenuto deliberatamente nascosto (se non per approssimazioni
si trattasse di un prolunga
quasi
successive) per lunghi anni preparatori —
tissimo corso universitario alla fine del quale soltanto quel pensiero fosse
esposto in modo compiuto. Questo avrebbe comportato l’irrilevanza dei
singoli contesti problematici affrontati, degli apporti ricevuti dall’ interno
e dall’esterno della scuola, del mutare delle situazioni storiche e culturali
complessive. Del resto, perché adottare un così faticoso percorso protret
pubblico cui
è del tutto ragionevole pensare —
come
il
tico-prolettico se —
erano destinati i dialoghi è sempre stato quello ristretto e selezionato dei
“compagni” di ricerca filosofica di Platone raccolti nell’Accademia?
A obiezioni analoghe si presta la seconda delle vie ora menzionate,
quella dell’interpretazione “ironica” dei dialoghi che fa capo a Leo Strauss.
In questa prospettiva, Platone non avrebbe mai scritto quello che pensava
davvero, o anzi in certi casi (come ad esempio in quello dell’utopia politica
ciò
della Repubblica) avrebbe scritto il contrario di quello che pensava —
che poteva essere dovuto al timore di persecuzioni, o al desiderio di se
lezionare, mediante la strategia di una lettura “tra le righe”, un pubblico
adeguato, o ancora al desiderio di mostrare, grazie al distacco ironico, l’in
congruità delle tesi apertamente professate. Questa linea interpretativa,
giustificata in ambienti culturali a impronta teocratico-repressiva, come
quello islamico, ebraico o controriformista, difficilmente si può riferire
al mondo greco, tanto più se si pensa che le idee esposte da Platone nei
dialoghi scritti sono spesso audacemente anticonformiste (basti pensare
al “comunismo” e alla parità fra uomini e donne della Repubblica), e che,
come si è detto, il pubblico dei dialoghi non doveva andare oltre l’ambien
te accademico.
Il lavoro condotto secondo queste prospettive ermeneutiche ha senza
dubbio prodotto risultati preziosi, richiamando l’attenzione sulle forme
espressive dei dialoghi, i loro dispositivi retorici, il ruolo dei personaggi
coinvolti, la contestualità problematica. Ma i suoi risultati si possono con
siderare nell’insieme non convincenti, per la comune assunzione che sia
possibile reperire una filosofia di Platone al difuori dei testi dialogici, a
Di fronte a questo insieme di aporie, si è fatta strada, soprattutto in am
monte, a fianco o dietro di essi, oppure ancora che sia possibile individuare
un singolo dialogo, o gruppo di dialoghi, come l’espressione vera e ultima
biente anglosassone la decisione ermeneutica di assumere 1”approccio
dialogico” in tutta la sua necessaria radicalità, che consiste nel non trascen
di quella filosofia.
dere in alcun modo l’effettiva testualità platonica e nell’accettarne senza
intenti riduttivi la complessità la problematicità le tensioni teoriche.
Da questo punto di vista, ciò che accade nei dialoghi non è la formu
lazione di una filosofia ma il gesto fondatore del pensarefilosoficamente, la
messa in scena drammatica della filosofia nel suo farsi. Platone avrebbe in
altri termini rappresentato lo spazio problematico della nuova forma di in
dagine e di conoscenza, le tesi rivali che vi si affrontano, i metodi e le proce
dure argomentative propri del suo stile intellettuale, infine anche le pretese
rivendicate da questo sapere di fronte alle scienze e alla vita etico-politica
degli uomini. Lo sviluppo teorico dei dialoghi dipende dal loro specifico
contesto problematico dagli interlocutori che vi si confrontano, presen
tandovi le loro tesi e persino le loro forme di vita. Per principio, dunque, i
dialoghi non possono condurre a conclusione dogmatiche valide univer
salmente al di là di quanto vi viene dibattuto: essi restano sempre “aperti”
(open ended), come altrettante provocazioni intellettuali lanciate allettore
cui viene affidato il compito di proseguire nella riflessione. In questo
sarebbe sottratto
perciò allo spirito “socratico”
—
fedele
si
modo Platone
—
all’accusa di dogmatismo che egli stesso rivolgeva alla tradizione sapienzia
le nel cui alveo si era costituita la nuova forma, filosofica, di conoscenza.
Al tempo stesso, avrebbe evitato lo scetticismo radicale, il “nichiIismo’ che
egli imputava ai sofisti, perché la dialettica dialogica aveva comunque come
proprio orizzonte la ricerca della verità e del valore, stretti nel flesso inscin
dibile che connetteva il valore della verittì alla veritii del valore.
Credo che, sviluppando criticamente questa linea interpretativa, si pos
sano trarre alcune prime conclusioni di rilevante importanza metodologi
ca, che tenterò qui di riassumere schematicamente.
4.’
Dal punto di vista della forma letteraria, i dialoghi sono senza dubbio
la classificazione proposta nel libro III della Repubblica
—
— secondo
ope
re di carattere mimetico (come il teatro) e, in misura minore, mimetico
50
4.3
Teeteto.
IL POTERE DELLA VERITÀ «SOLO PLATONE NON C’ERA» 5’
diegetico (come la poesia epica). Il loro effetto sul fruitore/lettore sarà
allora appunto quello la cui pericolosità etica e psicologica (se prodotto
in modo moralmente irresponsabile) era stata denunciata in quella sede.
La mimesi (che nasconde l’autore dietro i suoi personaggi) provoca di
namiche di identificazione nei personaggi stessi da parte di chi si trova
a condividerne ragioni, passioni, credenze, ideologie. Questa identifi
cazione è necessaria e preziosa nel teatro filosofico perché tramite essa è
possibile coinvolgere il fruitore/lettore nella critica alle opinioni che egli
aveva prima passivamente e acriticamente condivise, in modo da renderlo
disponibile a una riapertura della riflessione critica, e tramite essa anche a
una riconfigurazione etica delle sue scelte di vita. La rappresentazione dei
personaggi proposti per l’identificazione “proiettiva’ e per la successiva
confutazione critica, comprende un’ampia gamma di figure intellettuali,
che traspongono nella “società dialogica” tutta la realtà politico-culturale
ateniese del tempo: quelle filosoficamente “ingenue” che rappresentano la
politica e la cultura dellapotis (governanti e militari come Nicia e Lachete,
rapsodi come lone, sacerdoti come Eutifrone); quelle dei rivali filosofici,
sofisti e retori come Gorgia, Trasimaco, Protagora; in qualche caso anche
quelle di accademici attardati su posizioni dogmatiche, come gli “amici
delle idee” del Sofista o il “giovane” Socrate del Parmenide; spesso, infine,
quelle di giovani intellettuali in formazione, come Glaucone, Adimanto,
Dal riconoscimento dell’autonomia dei dialoghi discende l’ulteriore prin
cipio metodico dell’autonomia dei rispettivi personaggi, che troppo spes
so sono stati considerati come meri pretesti per la confutazione socratica.
In realtà, essi rappresentano in molti casi una condensazioneforte operata
da Platone di posizioni intellettuali, filosofiche, morali storicamente esi
stenti (probabilmente superiore allo stesso livello di consapevolezza pos
seduto dai loro referenti “storici”, quando ne esistono, anche se legata atie
loro effettive posizioni almeno dal vincolo della riconoscibilità da parte
del lettore). È questo il caso non soltanto di grandi sofisti come Gorgia e
Protagora, ma anche di figure minori come il Callicle del Gorgia, il Tra
simaco della Repubblica, di Simia e Cebete nel fedone, per non dire dei
fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, che giocano un ruolo di grande
rilievo come interlocutori-destinatari della stessa Repubblica. La costru
zione di personaggi di grande spessore intellettuale è del resto necessaria
per il successo del processo di identificazione-confutazione-ripensamento
critico: il lettore deve venire indotto a riconoscere nelle loro ragioni quel
le opinioni che aveva prima condiviso soltanto inconsapevolmente, senza
comprenderne né i presupposti né le conseguenze, per poter essere in se
guito dialetticamente orientato a un superiore livello di consapevolezza
tanto teorica quanto etica.
4.2 4.4
Da questa forma letteraria (che è al tempo stesso anche uno stile intellet
tuale e morale) consegue la necessità metodologica di una comprensione
dei singoli dialoghi nella ioto autonomia, in rapporto sia agli altri dialoghi
sia a una supposta unità sistematica. Si tratta ovviamente di una autono
Il principio metodico dell’autonomia dei personaggi non può che veni
re esteso anche al “personaggio” Socrate (oltre che, naturalmente, agli
altri protagonisti dei dialoghi, come Timeo, lo “straniero” del Politico e
del Sofista, l’Ateniese delle Leggi). È impensabile che l’autore abbia fat
mia relativa, visto che sono pur sempre in questione opere dello stesso au
tore; ma ciò rende in linea di principio scorretta l’interpretazione di un
dialogo che faccia immediatamente reagire su di esso sviluppi teorici deli
neati in altri testi (a meno che questa integrazione non sia esplicitamente
indicata dal dialogo stesso, come in qualche caso accade), e richiede una
lettura che almeno primafacie si limiti alla comprensione del singolo dia
logo nella sua peculiare situazione dialettica e nel suo specifico contesto
to di Socrate il proprio esclusivo portavoce (e tanto meno, naturalmente,
che si sia limitato a riportarne fedelmente le conversazioni). Sono a più
riprese chiaramente rilevabili tanto un’ironia d’autore nei confronti del
personaggio, quanto un marcato distacco critico che ne segnala i ripetu
ti fallimenti teorici; Socrate è spesso esposto alla confutazione altrui non
problematico.
meno di quanto a sua volta confuti i propri interlocutori, anche se questo è
facilmente sfuggito a interpreti frettolosi e prevenuti. In un dialogo come
la Repubblica, Platone traccia addirittura una sorta di Bitdungsroman del
personaggio Socrate, dall’iniziale limitazione a una morale individuale a
53
51 IL POTERE DELLA VERITÀ «solO PLATONE NON C’ERA»
base religiosa fino all’apertura alfa grande politica che gli viene imposta da
5.’
Trasimaco, Glaucone e Adimanto; nel fedone, Socrate è chiamato a trac
ciare una sorta di autobiografia intellettuale che ne disegna l’evoluzione
dai primitivi interessi naturalistici (del tipo di quelli attribuiti al Socrate
“storico” dalla satira aristofanea delle Nuvole) fino alla formulazione di
una complessa teoria logico-ontologica a base eidetica.
Occorre dunque pensare che i dialoghi non presentino un singolo “por
tavoce” privilegiato di Platone: secondo una suggestiva formulazione, alla
In primo luogo si può forse ascrivere direttamente a Platone uno specifico
stile di pensierO articolato in due aspetti fondamentali. Da un lato, ne fa
domanda «Who speaks for Plato?» occorre rispondere «Everyone!».
Platone è in altri termini l’autore di tutti i personaggi che porta sulla scena
parte l’introduzione di una serie di opposizioni polari a due livelli sia on
del suo teatro filosofico, esattamente come Sofocle lo è di Edipo e di Tire
sia, di Antigone e di Creonte. Ognuno di essi rappresenta una parte della
positivo o in negativo —
sua formazione intellettuale, un momento —
in
del
suo pensiero, dei suoi dubbi, della sua instancabile ricerca filosofica. Plato
ne è certamente in Callicle e Trasimaco come lo è in Socrate e Parmenide;
ma più precisamente, Platone è nel gioco dialettico in cui essi si confronta
no e si scontrano, rilevando a vicenda gli errori, i limiti, le incertezze delle
rispettive posizioni.
tologici sia assiologici: uno/molteplice, invariabile/divenire, immortale!
mortale, verità/Opifli0ne, noetico/empirico. è Tipicamente platonica l’in
chiara matrice parmenidea e pi
un terzo elemento di mediazione (metaxu): l’anima, il limite!
troduzione, fra queste scissioni polari
—
di
di
tagorica
—
numero, l’opinione vera, il filosofo/politico la dialettica stessa. Dall’altro
lato, appartiene a questo stile una struttura triangOlare ai cui vertici sono
poste l’ontologia (questione dell’essere), l’epistemologia (questione della
verità), l’etica e la politica (questione del bene): a seconda delle situazioni
dialogiche la preminenza può venife accordata all’uno o all’altro di questi
vertici, ma all’orizzonte sembra restare imprescindibile la reciproca con
nessione, quindi la pervietà teorica di tutti i lati del triangolo.
5.1
In secondo luogo, è probabilmente possibile ricostruire segmenti teorici
transdialogicÌ, reti locali di teoremi filosofici relativamente permanenti at
5
traverso una pluralità di contesti. La loro consistenza deve venire saggiata
Credo che questi assunti di metodo ermeneutico si possano ormai dare
per acquisiti. Ciò vuol dire, allora, che occorre rinunciare a qualsiasi tenta
tivo di individuare una filosofia di Platone al di là delle singole, specifiche
situazioni dialogiche? Forse non è così; forse è possibile seguire, come è
mediante l’individuazione di segnali testuali precisi. Nei casi più chiari, si
tratta della ripresa esplicita di un dialogo in altri contesti (è ad esempio il
caso dei riassunti parziali dell’utopia della Repubblica proposti sia nel libro
VIII dello stesso dialogo sia nel Timeo e nelle Leggi anche se con significa
tive differenze che vanno interpretate). Ma ci sono inoltre riprese implici
te, segnalate dalla menzione di un “consenso” dialettico (bomologia) dato
stato detto recentemente, una “terza via” fra l’immagine sistematicodogmatica
di Platone, che appare ormai inaccettabile, e quella scettico
confutatoria, che lo avvicina troppo ai sofisti e risulta quindi inadeguata
a spiegare la rivalità che l’ha opposto a essi durante il suo intero percorso
filosofico.
I passi da compiere nel corso di questa esplorazione devono però essere
metodicamente molto cauti. Non ci sono scorciatoie: il lavoro ricostrutti
vo non può dare nulla per scontato e deve comunque ripartire da un’ana
lisi accurata dei singoli dialoghi, investendone procedure argomentative,
situazione drammatica, contesto culturale. In via del tutto preliminare, si
per già consolidato in altre occasioni (così accade, nella Repubbtica per la
può indicare qualche risultato che è legittimo attendersi, secondo le linee
teoria delle idee discussa nel Fedone), o rinvii a ulteriori discussioni su di
uno stesso tema (come ad esempio nel caso della dialettica, a proposito
emerse dalle ricerche recenti.
della quale nel libro VII della Repubblica sembra riconoscibile un rimando
al Fedro e/o al Sofista).
Questi nuclei teorici persistenti attraverso i dialoghi sembrano consi
stere in un numero ristretto di teoremi, che perciò giocherebbero un ruolo
strategico nella ricostruzione dellafitosofia di Platone. Una ricognizione
preliminare può proporne il seguente regesto (l’ordine è naturalmente
arbitrario): a) una teoria dell’anima e della sua immortalità (fedone, Re-
r
55
54
le fonti a no
comportando
di
date
6
me
come
ed
tutte
piuttosto
di
il
noscibjljtà, e tutte d’altro canto arbitrarie, proprio perché su basate di
una violenta selezione dei testi e delle tematiche filosofiche assunte come
legittime, perché fondate su interpretazioni
dei testi del maestro, anche se talvolta forzate fino al limite della irrico
Tra queste diverse possibilità, la tradizione esegetica non ha cessato di
in una sua relativa indipendenza. C’è una storia dello spiritualismo del
fedone che resta ben distinta dall’eredità cosmologica del Timeo (parti
colarmente attiva in ambiente medioplatonico) così come dall’interpre
tazione neoplatonica del Parmenide in termini di metafisica dell’uno.
ze cinico-stoiche fino a Cicerone e addirittura ad Agostino, che procede
della provocazione utopistica della Repubblica, da Aristotele alle tenden
Ma ancora più importante è rilevare che esistono tradizioni differen
ziate, e in qualche caso divaricate, che fanno capo non al “platonismo”
nel suo insieme ma a singoli dialoghi o gruppi di dialoghi. C’è una storia
metafisico-sistematici, del resto pesantemente condizionati da influenze
esterne al platonismo stesso (la sistematica stoica da un lato, i mutamenti
La fase scettica dell’Accademia merita di esser presa almeno nella stessa
quella concessa ai suoi posteriori periodi
testimonianza di una possibilità filosofica implici
che costituirne il presupposto storico.
degna di venire esplorata, è confermato del resto dalla stessa tradizione
del platonismo. Ogni tentativo di rappresentare un “platonismo” unifica
tico interamente celato dietro la problematica aperta dei dialoghi, con la
cauta ricostruzione che essa comporta di teorie locali, di nuclei filosofici
relativamente costanti ascrivibili direttamente al suo pensiero, sia almeno
Che una “terza via” fra il Platone dogmatico-sistematico e il Platone scet
quello che è stato chiamato a ragione «l’enigma
testi cruciali come Politico e Sofista, oppure di Timeo e degli altri enig
matici interlocutori dello stesso Timeo). Ma si tratterà, inevitabilmente,
degli interlocutori dialogici (si pensi al ruolo dello “straniero di Elea” in
to è infatti condizionato da uno degli esiti di questa tradizione —
di ipotesi altamente congetturali, vista l’insolubilità —
dello spirito religioso dall’altro).
«SOLO PLATONE NON C’ERA»
ta nel pensiero del fondatore —
dell’Accademia antica».
dio e neoplatonismo —
operare le sue scelte —
stra disposizione —
considerazione —
IL POTERE DELLA VERITÀ
pubblica, fedro, Simposio, Timeo, Leggi); b) una critica della politica e una
proposta di riforma a fondamento etico-filosofico dei sistemi di potere
(Gorgia, Repubblica, Politico, Leggi, Lettera vri); c) una teoria onto-episte
mologica delle forme noetico-ideali, delle loro relazioni e
lità della loro causa
(fedone, Repubblica, Teeteto, Sofista, Parmenide, Timeo); d) una teoria
della dialettica come procedura elettiva della ricerca filosofica (Repubbtica,
fedro, Parmenide, Sofista). Naturalmente i dialoghi indicati sono soltanto
i luoghi centrali di tematizzazione di questi teoremi: anticipazioni, echi
o riflessi ne sono reperibili in numerosi altri testi, appartenenti a ognuna
delle tre grandi scansioni cronologiche.
Neppure questi nuclei o segmenti persistenti attraverso dialoghi di
versi sono tuttavia esenti da tensioni teoriche, slittamenti di prospettiva,
problematjzzazjoni ulteriori. Il tentativo di nasconderli o di sanarli, ol
tre che metodicamente scorretto, risulta improduttivo dal punto di vista
ermeneutico
—
il costo di rendere ftÌosoficamente meno
interessante il pensiero platonico. Si tratta piuttosto di riconoscerli e se
possibile di interpretarli, non però secondo il parametro rassicurante del
l”evoluzione’ quanto piuttosto in relazione a diversi ordini di fattori
specificamente storico-filosofici. Da un lato, si possono individuare le
questioni teoriche rimaste aperte o risolte in modo insoddisfacente, che
impongono un’ulteriore problematizzazione (è il caso, ad esempio, del
le diverse “prove” dell’immortalità dell’anima, della teoria delle idee tra
fedone e Parmenide, della configurazione della dialettica tra Repubblica
e Sofista). Dall’altro lato, è indispensabile rinviare al mutamento delle
situazioni storico-politiche esterne (ad esempio tra Repubblica e Leggi)
e al variare delle influenze culturali, in particolare in relazione alle vi
cende del pitagorismo (è impensabile che gli eventi storico-culturali del
mondo greco non abbiano lasciato tracce su di un lavoro filosofico esteso
è probabilmente l’aspetto più im
nell’arco di mezzo secolo). Infine
—
portante ma anche quello di più difficile interpretazione storiografica —
occorrerebbe comprendere l’andamento dei dibattiti interni all’Accade
mia che accompagnavano i due precedenti ordini di fattori: in essi sono
senza dubbio intervenuti personaggi di grande rilievo come Eudosso, il
pitagorico filippo di Opunte, Socrate il giovane,
non
lo stesso
citarne
Aristotele,
che alcuni.
per
Anche se certi dialoghi lasciano trasparire tracce
di questi dibattiti (ad esempio il filebo intorno al problema del piace
re, o le Leggi sulle questioni politiche) c’è ancora molto lavoro da fare
in questa direzione, interpretando tra l’altro il senso riposto del variare
56
IL POTERE DELLA VERITÀ
«SOLO PLATONE NON C’ERA» 57
centrali. Ma questa plurivocità esegetica sperimentata dalla tradizione è,
e probabilmente resterà, insuperabile, proprio perché si radica nell’in
tenzionale polisemia del pensiero di Platone, nel carattere aperto della
sua riflessione filosofica, pur nella costanza di uno stile facilmente rico
noscibile e distinguibile, ad esempio, da quello aristotelico e da quello
stoico.
L’arbitrio interpretativo più grave risulta allora proprio quello consi
stente nella pretesa di rimuovere questa originaria e insuperabile apertura.
Esserne consapevoli non comporta tuttavia, come si è cercato di mostrare,
la rinuncia al tentativo di comprendere i tratti essenziali di ciò che nei dia
loghi può venire riconosciuto come propriamente ptatonico, e di porre su
questa base limiti metodicamente precisi al ventaglio delle opzioni esege
tiche legittimamente compossibili.
Riferimenti bibliografici
I
Per la questione dell’autenticità della Lettera vii cfr. le discussioni (entrambe forse
troppo decisamente positive) di M. Isnardi Parente, filosofia e politica nette lette
re di Platone, Napoli 1970, pp. 101-la; L. Brisson (éd.), Platon. Lettres, Paris 1987,
pp. 133-66. Per l’inautentjcità dell’excursus filosofico cfr. H. Tarrant, ÌVliddle Platoni
sm and the Seventh Epistle, in “Phronesjs’ a8, 1983, pp. 75-103.
2.I
Sul rapporto fra Timeo e Repubblica cfr. M. Vegetti, L lutocritjca di Platone: il ‘Timeo”
e le “Leggi”, in M. Vegetti, M. Abbate (a cura di), La “Repicbblica”di Platone nella tra
dizioneantica, Napoli ‘999,pp. 13-27.
2.2
La versione più autorevole di questa ipotesi è quella formulata da G. Vlastos, Socratic
Studies, Cambridge ‘994; Id., Platonic Studies, Princeton 1973. Una recente ripro
posizione della cronologia stilometrica è quella di I. Brandwood, The Chronology of
Ptato’s Dzalogues, Cambridge 1990. Per la discussione dei tentativi di ordinamento
cronologico e delle tesi evolutive cfr. H. Thesleff, Studies in Ptatonic Chronology, Hel
sinki 1981; D. Nails, Agora, Academy, and the Conduct ofPhilosophy, Dordrecht 1995.
Per un tentativo di ricostruzione dell’ordine “drammatico” dei dialoghi cfr. V. Tejera,
Ptato’s Dialogues One by One, Lanham 5999.
3.1
Per la scuola di Thbingen e l’unificazione della “metafisica classica” cfr. le opere di
H. J. Kràmer, Areté bei Platon und Aristoteles, Heidelberg ‘959; Id., Der Ursprung
der Geistmetaphysik, Amsterdam 1964, I967. Sui presupposti culturali della scuola
cfr. f. Repellini, Gli agrapha doginata di Platone: la loro recente ricostruzione e i suoi
presupposti storico-filosofici, in “Acme’ z6, 1973, pp. 51-84. Sulla teoria dei principi e i
suoi rapporti con i dialoghi cfr. H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti della metafisica,
Milano 1981; T. A. Szlezàk, Platon unddie Schrftlichkeit derPhilosophie, Berlin-New
York 1985, trad. it. Milano 1988; G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone,
Milano 1984 (nuova ed. Milano
Dei numerosi interventi critici di M. Isnardi Parente sulla questione degli agrapha
dogmata basta qui citare Ilprobtema della “dottrina non scritta” di Platone, in “La pa
rola del passato”, zz6, 1986, pp. 5-30, e Platone e il discorso scritto, in “Rivista di storia
della filosofia’ 46, 1991, pp. 437-CI; sulle testimonianze aristoteliche cfr. Id., Testi
monia platonica i, Roma 1997. Per bilanci critici sul problema cfr. anche L. Brisson,
Gli orientamenti recenti della ricerca su Platone, in “Elenchos’ ‘, 1994, pp. 255-85,
e M. Vegetti, Cronache platoniche, in “Rivista di filosofia”, LXXXV, 1994, pp. 109-19
(CAP. i in questo volume). Cfr. anche E. Berti, Strategie di interpretazione deifilosofi
antichi, in “Elenchos’ 10, 1989, pp. 289-3,5.
Sul fedro e la questione della scrittura cfr. F. Trabattoni, Scrivere nell’anima,
firenze Id., Oralial e scrittura in Platone, Milano 1999; W. Kuhn, Lafin dt
Phèdre de Platon. Critique de la rhétorique et de l’écriture, firenze zoca. Più in gene
rale cfr. M. Vegetti, Dans l’ombre de Theuth. Dynamiques de l’écriture chez Platon, in
M. Detienne (éd.), Les savoirs de l’écriture en Grèce ancienne, Lille 1988, pp. 387-419,
trad. it. Roma-Bari 1989 (cAP. 9 in questo volume).
Sul carattere “aperto” delle dottrine non scritte cfr. R. Ferber, Die Unwissenheit
des Philosophen, oder, Warum hat Plato die “ungeschriebene Lehre” nichtgeschrieben?,
Sankt Augustin 1991. Per l’insistenza sul “socratismo” platonico nell’ interpretazione
di Gadamer cfr. f. Renaud, Die ResokratisierungPlatons. Dieplatonische Hermeneutik
Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999.
Per la crescente attenzione degli interpreti oralistico-esoterici verso la forma dia
logica, cft. K. Gaiser, Platone come scrittorefilosofico, Napoli 1984; M. Migliori, Arte
58
IL POTERE DELLA VERITÀ
r
«SOLO PLATONE NON C’ERA»
59
politica e metretica assiologica. Commentario storico-filosofico al “Politico” di Platone,
Milano 1996. Per un confronto tra studiosi di diverse tendenze sui problema dell’idea
del bene, cfr. ora G. Reale, 5. Scolnicov (a cura di), New Images ofPlato: Diatogues on
the Idea ofthe Good, Sankt Augustin zooz.
3.2
Per il principio del dialectical requirement cfr., in forme diverse, G. Fine, Knowledge
and Belief in Republic v-vii, in 5. Everson (ed.), Companions to Ancient Thought,
voI. I: Epistemology, Cambridge 1990, pp. 85-115; T. Ebert, Meinung und Wissen in
der Philosophic Platons, Berlin 1974. Il principio della Kontextbezogenheit è stato for
mulato da N. Blòssner, Kontextbezogenheit und argumentative funktion: methodische
Anmerkungen zur Platondeutung, in “Hermes”, iz6, 199$, pp. 1o9-zol (e da lui ap
plicato in Dialogform undArgument. Studien zu Platons “Politeia”, Stuttgart 1997).
Per la tesi “prolettica” cfr. Ch. Kahn, Plato and the Socratic Dialogue, Cambridge
1996 (sul quale cfr. C. L. Griswold, E Pluribus Unum? On the Ptatonic “Corpus”, in
“Ancient Philosophy”, XIX, 1999, pp. 361-97). Sul “pubblico” dei dialoghi cfr. H. The
sleff, Plato and His Public, in B. Amden et al. (eds.), Noctes Atticae, Copenhagen
zooz, pp. 289-301.
Per l’interpretazione “ironica”, oltre a L. Strauss, The City and Man, Chicago
(IL) 1964 (sul quale cfr. M. Burnyeat, Sphinx without a Secret, in “The New York
Review ofBooks”, May 30, 1985, pp. 30-6; G. Giorgini, Leo Strauss e la ‘Repubblica”
di Platone, in “Filosofia Politica”, 5, 1991, pp. 153-60; G. R. E Ferrari, Strauss’Plato, in
“Arion”, 5, 1997, pp. 36-55), cfr. ad es. A. Bloom, TheRepublic ofPlato, New York ,99i;
D. A. Hyland, Thking the Longer Road: The Irony ofPlato’s ‘Republic”, in “Revue de
métaphysique et de morale”, 93, 1988, pp. 317-55; per qualche aspetto ancheJ. Annas,
Politics and Ethics in Plato’s Republic, in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Politeia, Berlin
1997, 141-60.
4
Per la tematizzazione dell”approccio dialogico” cfr. i saggi compresi nelle raccolte
curate da C. L. Griswold, Platonic Writings, Platonic Readings, New York 1988; J. C.
Klagge, N. D. Smith, Methods oflnterpreting Plato and His Dialogues, in “Oxford
Studies in Ancient Philosophy”, suppl. voI. 1992; G. A. Press, Plato’s Dialogues: New
Studies and Interpretations, Lanham i99; C. Gili, M. M. McCabe, form andArgu
ment in Late Plato, Oxford 1996; G. Casertano, La struttura del dialogo platonico,
Napoli zooo; E Cossutta, M. Narcy, Laforme dialogue chez Platon, Grenoble 2001.
Per il carattere open-ended dei dialoghi cfr. D. Nails,Agora, Academy, andthe Con
ductofPhilosophy, Dordrecht 1995.
4.’
Per lo statuto letterario dei dialoghi cfr. G. Certi, Platone sociologo della comunicazione,
Milano ii; E Nightingale, Genres in Dialogue: Plato and the Construct ofPhiloso
phy, Cambridge 1995. Sul concetto di “società dialogica” cfr. P. Vidal-Naquer, La so
ciétéplatonicienne des dialogues, in Id., La démocratiegrecque vue d’,illeurs, Paris 1990,
pp. 95-119; M. Vegetti, Societi dialogica e strategie argomentative nella ‘Repubblica”
(e contro la ‘Repubblica”), in Casertano, La struttura del dialogoplatonico, cit., pp. 74-85.
4.’
Per un tentativo di analisi a tutto campo di un dialogo cfr. ad es. M. Vegetti (a cura
di), Platone, La Repubblica, trad. e commento, 7 volumi, Napoli 199 8-2007. Cfr. in
proposito G. R. E Ferrari, Vegetti’s Callipolis, in “Oxford Studies in Ancient Philo
sophy”, 23, 2002, pp. 225-45.
Esempi di analisi del ruolo dei personaggi dialogici: L. H. Craig, The War Lo
ver: A Study ofPlato’s Republic, Toronto M. Vegetti, Trasimaco; Glaucone, in
Platone, La Repubblica, cit., voi. i,pp. 233-56; voi. il, pp. 151-72 (per la Repubblica);
T. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis im Platons Phaidon, Stuttgart
1994 (per il fedone); S. Gastaldi, La giustizia e laforza. Le tesi di Callicle nel “Gorgia”
di Platone, in “Quaderni di storia”, 52, 2000, pp. 8-io (per il Gorgia).
4.3
Sul personaggio di Socrate cfr. C. L. Griswold, Irony andAesthetic Language in Plato’s
Dialogues, in D. Bolling (ed.) ,Philosophy andLiterature, New York 1987, trad. it. in “Phi
lologica”, 3, 1994, pp. 67-104; J. Beversluis, Cross-Examining Socrates: A Defense oflnter
locutors in Plato’s Early Dialogues, Cambridge 2000 (su cui cfr. C. Gill, Speaking upfor
Ptato’s Interlocutors, in “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, 20, 200,, pp. 297-32,).
4.4
Si è citato il titolo del saggio di E. Ostenfeld, in G. A. Press (ed.), Who Speaksfor
Plato?Studies in PlatonicAnonimity, Lanham zooo, pp. 211-9.
Co
IL POTERE DELLA VERITÀ
5
Sulla “terza via” cfr. F. G. Gonzales (ed.), The Third Wzy: New Directions in Platonic
Studies, Lanham 1995 (si ispira a questo orientamento, ma con esiti diversi da quelli
qui delineati, E Trabattoni, Platone, Roma 1998).
3
Come, e perché, la Repubblica
è diventata impolitica?
5.’
Sullo stile polare in Platone cfr. H. TheslefE Studies in Plato’s Tuo-Level Model, in
“Commentationes Humanarum Litterarum”, Helsinki 19.
Un’esplorazione della possibilità di ricostruire gli elementi di una filosofia “platoni
ca” è tentata in M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino zooi. Per il requisito
dialettico della homotogia cfr. in particolare G. Giannantoni, Il dialogare socratico e la
genesi della dialettica platonica, in P. Di Giovanni (a cura di), Platone e la dialettica,
Roma-Bari 1995, pp. 3-17.
Sul problema dell’Accademia cfr. H. Cherniss, The Riddle ofthe Early Academy,
New York trad. it. Firenze ‘974; M. Isnardi Parente, L’erediti di Platone nell%lc
cademia antica, Milano 1989; anche M. Vegetti, Ifilosofia scuola e la scuola deifilosofi,
in Platone, La Repubblica, cit., voi. v, pp. 603-14.
Sul ruolo di Aristotele come interlocutore di Platone cfr. ad es. R. Bodéùs,
Pourquoi Platon a-t-il composéles Lois, in “Etudes Classiques”, 53, 1985, pp. 367-72, e i
saggi raccolti in M. Migliori (a cura di), Gigantomachia. Convergenze e divergenze tra
Platone e Aristotele, viorcelliana LOOZ.
6
Sulla storia delle interpretazioni antiche di Platone, cfr. fra gli altri, E. N. Tiger
stedt, Interpreting Plato, Stockholm 1977; H. Tarrant, Plato ‘s first Interpreters, Lon
don zooo. Per la tradizione dei singoli dialoghi, cfr. A. Neschke-Hentschke (éd.),
Le “Timée” de Platon. Contributions ti l’histoire de sa reception, Louvain-Paris 2000;
Vegetti, Abbate, La Repubblica di Platone nella tradizione antica, cit.; M. Barbanti,
F. Romano (a cura di), Il “Parmenide”di Platone e la sua tradizione, Catania zooi.
I
Nel corso della sua lunga storia, la Repubblica ha conosciuto qualche ami
co e molti avversari. L’ostilità non sempre ha costituito un ostacolo alla
sua comprensione. È certo che un avversario come Aristotele permette di
capire la Repubblica, nelle sue buone ragioni e nelle sue criticità, meglio di
un sostenitore come Proclo; pervenire al Novecento, non ho dubbi che un
critico violento come Popper abbia scritto sul dialogo pagine più interes
santi delle tante dedicate alla sua esaltazione ad opera di interpreti filonazi
sti come Hildebrandt, Bannes e Guenther, o fascisti come Marino Gentile.
Né avversari né amici hanno comunque quasi mai messo in dubbio,
almeno fino alla metà del Novecento, che la Repubblica fosse un dialogo
a carattere politico, pur nell’estrema complessità dei suoi sviluppi teorici,
e che dunque il titolo Potiteia fosse appropriato a descriverne il tema e la
destinazione principale, lo skopos come dicevano i commentatori antichi.
Un severo custode della pertinenza disciplinare come Aristotele aveva
certamente sottoposto il dialogo alle sue consuete operazioni di chirurgia
epistemologica. La discussione sulla giustizia e sull’idea del bene era sta
ta assegnata all’ambito dell’etica, e quella sull’anima all’ambito della psi
cologia. Molte altre cose, come i discorsi sull’educazione dei governanti,
sono semplicemente considerate “estranee” (exothen, Fot ii 6 ia64b39).
Ma i temi trattati nei libri III-V e viii sono considerati senza alcun dubbio
da Aristotele come di pertinenza politica, e in quanto tali discussi nel luo
go opportuno che è il trattato sui Potitikti.
Questo appare perfettamente naturale se si considerano gli argomenti
principali della riflessione politica secondo Aristotele e in generale nel pen
Questo capitolo è già stato pubblicato in “Giornale critico della filosofia italiana”,
LXXXIX, 1010, pp. 431-52.
i
6z IL POTERE DELLA VERITÀ
COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 63
siero greco. Le “cose politiche” includevano tre questioni centrali. In primo
luogo, a chi spettava il diritto di accedere alla cittadinanza (senso ristretto di
potiteia), e come doveva venire organizzato il corpo civico (questi erano stati
i problemi decisivi della politica greca da Solone a Clistene, e continuavano
a essere attuali per utopisti come Ippodamo e teorici come Aristotele). In
secondo luogo, la questione del potere: a chi spettava il diritto al comando,
come e a chi dovevano essere assegnate le archai nella comunità (si tratta del
la questione discussa a partire dal celebre lagos tripotitikos di Erodoto). In ter
zo luogo, qual è la forma politica, lapotiteia, più adatta a garantire una buona
vita per i singoli e la comunità (pensiamo all’elogio della democrazia ateniese
nell’orazione funebre di Pericle nel ii libro di Tucidide). Questi tre argomen
ti venivano ampiamente trattati nella Repubblica, e ciò era più che sufficiente
ad assegnare il dialogo al campo disciplinare della filosofia politica.
Del resto, lo stesso Proclo respingeva la tesi di quegli interpreti, come
Albino, che facevano della giustizia il tema centrale della Repubblica, e la
assegnavano quindi all’ambito dell’etica: dikaiosyne epotiteia, egli osserva
va giudiziosamente, sono connesse da un vincolo di implicazione reciproca,
e non possono venire considerate separatamente (Diss. I, 11.5 ss.). Per altri
aspetti, tuttavia, come vedremo, Proclo può venire riconosciuto come il
fondatore remoto e occulto della tradizione esegetica che condurrà al tenta
tivo di depoliticizzare la Repubblica. Nell’ultimo decennio, questa tenden
za è stata rappresentata, in modi diversi, daJulia Annas, Norbert Blòssner,
Giovanni ferrari e Dorothea Frede. Ma un antecedente vicino può essere
trovato nella discussione fra Wayne Leys e francis Sparshott comparsa su
“Ethics” alla metà degli anni Sessanta’. Qui Platone veniva presentato come
non-political o anti-potitical thinker, benché con motivazioni diverse fra i
due studiosi. Essi condividono una concezione della politica come tecnica
di gestione e mediazione dei conflitti fra gruppi sociali che hanno aspira
zioni e opinioni discordanti sui fini da perseguire nella vita comunitaria.
Ma nella Repubblica non c’è alcun interesse verso una politica intesa in
questo senso. Anzi, benché questo aspetto antipolitico sottragga Platone
alla critica popperiana di totalitarismo, nondimeno egli resta secondo Leys
«the saint of those who see only evil in their opponents and in the istitu
tions that require concession to opponents». Anche secondo Sparshott,
la «fundamentally non political nature ofPlato’s thinldng» è dimostrata
dal suo disinteresse per le «dynamics ofpoliticldng», cioè su come gli or
gani di governo possano negoziare accordi o prendere decisioni. Ci sono
in effetti proposte politiche in Platone, ma egli nutre un « quite unrealistic
pessimism about the workability of ordinary politica1 devices»; perciò le
sue soluzioni preferite ai problemi politici «are directed toward changing
the social context itself», e in questo senso il suo pensiero è certamente
antipolitico (anche se l’elaborazione con cui viene sviluppato costituisce
un contributo, sia pure negativo, alla filosofia politica).
Non è difficile osservare che Platone risulta antipolitico, in questa di
scussione, solo in virtù di una concezione decisamente ristretta della po
litica, intesa come amministrazione del funzionamento di un sistema so
ciale liberal-democratico già istituito e concepito come non modificabile.
Non è chiaro perché l’intenzione di un mutamento complessivo del siste
ma sociale sia da considerare meno politica della sua amministrazione. Del
resto, come ha scritto giudiziosamente Christopher Rowe, « sembra che in
linea di principio non ci siano buone ragioni per cui la costruzione di uto
pie non debba essere legittimamente vista come una parte della teoria po
litica; cioè se si intende che ci sia qualche via per approssimarsi a ciò che è
descritto nel modo dell’utopia», come è appunto il caso della Repubblica,
almeno secondo la classica interpretazione proposta da Immanuel Kant3.
Maggiormente complesso è il discorso relativo agli sviluppi più recenti
della tendenza a depoliticizzare Platone, e in primo luogo la Repubblica.
Come si era detto, il suo remoto antecedente deve venire ravvisato in Pro
do. Pur ammettendo l’impossibilità di separare nel dialogo il discorso eti
co da quello politico, Proclo aveva sostenuto la priorità ontologica dei vizi
e delle virtù dell’anima, che «preesistono come modelli [paradeigmata]»
a quelli delle costituzioni politiche. Dunque le forme di governo (politeiai)
esteriori sono «imitazioni di quelle interiori e attività secondarie rispetto
a quelle primarie, e l’autentica arte politica riguarda le forme di governo
interiori», e quella esteriore ne è solo un’immagine (eikon) (Diss. VII,
110.15-30). Il vero oggetto della Repubblica sono dunque la politeia e la
politica della virtù dell’anima, rispetto alle quali quelle che appartengono
allapolis non sono che copie e riflessi.
È il caso ora di delineare un quadro sommario dei principali argomenti
sostenuti dalla tendenza contemporanea a depoliticizzare Platone.
a) Nel 1997 Julia Annas4 ha sostenuto che non esiste nessuna prova di
interessi politici diretti da parte di Platone e dell’Accademia: la Lettera
vii è un falso privo di qualsiasi valore documentario. Quanto alle “onda
te” del libro V della Repubblica (abolizione della famiglia e della proprietà
privata per il ceto di governo, parità femminile, potere filosofico), Annas
scrive: « Questa parte più scopertamente politica della Repubblica sembra
sostiene
sulla
64
IL POTERE DELLA VERITÀ
r
COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA?
trascurare le realtà politiche così deliberatamente che c’è sempre stato un
dubbio sulla serietà degli intenti di Platone, e più in generale su1 ruolo de
gli argomenti politici nella Repubblica in rapporto all’argomento morale
principale»; e ancora: «le proposte politiche, se prese alla lettera, sono
assurde; esse sembrano sia arbitrarie sia deliberatamente non realistiche».
Per concludere: le idee politiche del dialogo sono presentate in «sudi
sketchy, incomplete and extreme ways » da farle considerare estranee alla
seria tradizione della filosofia politica alla maniera di Locke e Hobbes6.
b) Che cos’è allora la Repubblica se non verte sulla migliorepoliteia? Secon
do Annas, che fa risalire questa interpretazione al medioplatonico Alcinoo
(Albino), si tratta di un testo di etica che intende argomentare l’autosuff
cienza della virtù in vista della felicità. E ovvio che se questa tesi, di impronta
socratico-stoica, è al centro del dialogo, la questione dello stato ideale e della
sua realizzabilità diventa del tutto irrilevante, perché esso non è necessario al
raggiungimento della virtù personale e della conseguente felicità. La delinea
zione della kallrpolis ha perciò la sola «funzione di permettere all’individuo
di formarsi un’idea di virtù che può interiorizzare e seguire nella vita»; serve
a «illuminare l’anima » grazie alla metafora della gerarchia delle parti, che
costituisce un modello per l’ordine morale individuale. Si tratta insomma,
attraverso la metafora politica, di « rendere l’individuo capace di conseguire
un’idea di moralità che può internalizzare» nella vita personale.
c) Una parte importante in questa discussione è naturalmente giocata
dall’interpretazione della storia parallela delle forme costituzionali e dei
tipi d’anima degenerati nel libro viii del dialogo. Dorothea Frede è stata
la prima a negare che si tratti di una vera e propria analisi storica delle
strutture politiche, per la mancanza di attenzione agli aspetti istituziona
li e funzionali delle diverse politeiai, che del resto non corrispondono ad
alcuna realtà storica. E davvero difficile a questo proposito non ricordare,
ad esempio, la stretta prossimità delle tesi di Platone sulla democrazia con
l’analisi di Tucidide delle guerre civili (III 8o-Sz), o evitare l’impressione
che l’analisi della genesi della timocrazia e dell’oligarchia a partire dalla
kaltzpotis si ispiri alla tesi dello stesso Tucidide secondo il quale la deca
denza dell’Atene postpericlea fu dovuta a idiai philotimiai e idia kerde,
all’ambizione e all’avidità privata (ii 65.7). In ogni caso, Frede — base
di una concezione della politica ristretta, come quella di Leys, agli aspetti
istituzionali e procedurali
— che lo scopo del libro VIII è piuttosto
quello di delineare una Entuicktungsgeschichte derlvloralitàt, e, per contra
sto, una psicopatologia dei cittadini8.
Questa è anche la posizione iniziale di Blòssner. La successione del
le politeiai del libro VIII non presenta «historical statements or political
analysis»: «what in a politica1 or historical analysis would be the hub of
things is mostly peripheral in the Republic». Il senso del libro consiste
nella denuncia dei falsi valori dell’ingiustizia individuale, in una «critique
ofways oflife and of the mistaken conceptions ofhappiness».
Su questa base, Blossner raggiunge per altra via le tesi di Annas. L’aspet
to politico del dialogo «is in the service and subordinate to the ethical goal
ofconsideration ofthe individual » io. La dimensione politica va considerata
come un potente strumento metaforico per convincere interlocutori come
Glaucone e Adimanto: ad esempio l’evidenza dei conflitti politici può illu
strare metaforicamente i conflitti interiori dell’anima. Dunque l’insieme
della Repubblica, e in particolare il libro VIII, costituiscono un dispositivo
destinato ad argomentare la tesi della connessione fra ordine morale dell’a
nima e felicità, a convincere degli esiti eudemonistici della giustizia”.
Giovanni Ferrari si muove nella stessa linea interpretativa, sia pure con
maggiore cautela. La sua analisi parte dall’evidente difficoltà di far coinci
dere in un perfetto isomorfismo parti dell’anima e parti della città, e dalla
problematica corrispondenza fra tipi di costituzione e tipi umani nel
bro VIII (non è vero, sostiene Ferrari, che i regimi timocratici e oligarchici
siano necessariamente governati da uomini psicologicamente omologhi).
Non c’è, in effetti, un rapporto di dipendenza causale fra città e anima, la
prima non determina la struttura della seconda, e i tipi psicologici non
determinano i regimi politici. La corrispondenza è solo analogica: la
gione sta all’anima come il governo sta alla città. In questo modo l’anima
risulta radicalmente «disengaged» rispetto alla città. L’analogia politica
permette di far comprendere la struttura degli elementi posti in relazione
(ad esempio l’anarchia della città democratica illustra il disordine dell’a
nima dell’uomo democratico), ma senza causazione reciproca: il regime
politico è irrilevante in rapporto alla «costituzione interiore» dell’anima.
La conseguenza di tutto questo, secondo Ferrari, è che la Repubblica «è
focalizzata sull’anima piuttosto che sulla città, ed esalta l’individuo al di
sopra della comunità»1z. La ragione ultima di questo privilegio dell’ indi
viduo sta nel fatto che questi, al contrario della città, è capace di filosofia,
e «la filosofia, non il regno, è il più alto achievement umano». La Repub
blica propone dunque, secondo Ferrari, la rivendicazione della superiorità
della vita filosofica su quella politica, della dimensione “divina”, propria
della prima, su quella “umana” che costituisce il limite della seconda’.
li
fa
66 IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 67
Si tratta, come è facile vedere, di un insieme di tesi importanti, che
ritengo siano destinate ad acquisire autorità fra gli studiosi e i lettori di
Platone. Non è possibile perciò limitarsi a liquidarle come uno dei tanti
tentativi, magari paradossali, di dire qualcosa di nuovo nella lunga storia
delle interpretazioni platoniche; non basta neppure contrapporre a esse
una serie di evidenze testuali che sembrano in grado di confutarle, come
pure farò brevemente alla fine di questa discussione. Credo piuttosto che
le posizioni che ho sommariamente esposto meritino di essere considerate
sullo sfondo di una importante vicenda della storia intellettuale del No
vecento, che va anche oltre i limiti delle interpretazioni di Platone, e della
quale esse rappresentano in qualche modo un tardivo riflesso.
i
Per questo, spero che mi sia consentito di percorrere un giro più lungo, una
makrotera periodas. La mia storia comincia, se vogliamo indicare una data
simbolica, nel 1938, e riguarda tre personaggi, tre eminenti filosofi di lin
gua tedesca in fuga dall’espansione nazista. Due di loro, Leo Strauss e Karl
Popper, erano ebrei, il terzo, Erich Voegelin, era invece cristiano ma perse
guitato perché autore di scritti critici sul concetto di razza. Due, Popper e
Voegelin, provenivano dall’Austria, Strauss invece dalla Germania. Strauss
si era rifugiato in America nel 1937, Voegelin vi era giunto nel 1938; Popper
invece era approdato nel 1937 nella lontana Nuova Zelanda. Qui nel marzo
del 1938 Popper ricevette la notizia dell’invasione nazista dell’Austria, e sul
la spinta emotiva di questo evento iniziò a scrivere la sua grande opera, The
Open Society and its Enemies, dedicata a ricostruire la genealogia culturale
dei totalitarismi moderni e della crisi europea. Come tutti sanno, il primo
volume dell’opera, pubblicata nel 1944, era dedicato a The SpettofFiato.
Ma lasciamo per ora Popper intento alla scrittura del suo libro, e tra
sferiamoci nell’America di Strauss e Voegelin. Le differenze fra i due sono
a prima vista profonde. Strauss era di tendenze sioniste, Voegelin invece si
ispirava a un cristianesimo radicale. Per il primo, la Legge trascendente di
origine divina segna il limite superiore della filosofia, ma non la sopprime,
proprio come la filosofia segna il limite superiore che la politica non può
superare14. Per Voegelin, al contrario, la filosofia è superata dalla Rivelazio
ne: Dio parla prima mediatamente, attraverso Socrate e Platone, poi diret
tamente nella parola rivelata’. Per quanto grandi fossero queste differenze,
però Strauss era convinto che « so Iong as we have to combat the presently
reigning idiocy, that shared objective is of greater significance than the
differences»’6. E aveva buone ragioni per pensare così: per i due filosofi
ultratradizionalisti lapresent idiocy si estendeva infatti all’intera moder
nità. Strauss si richiamava a Platone e ad Aristotele come i fondamenti
sicuri contro le degenerazioni atee e nichiliste della modernità, da Hobbes
e Machiavelli all’ Illuminismo e Hegel’; l’abbandono moderno del riferi
mento alla Legge e all’ordine della trascendenza accomunava le “società
aperte” dell’Occidente liberale e la “società chiusa” costruita in Germania
dal nichilismo nazistat8. Si trattava di un processo ininterrotto di « autodi
struzione della ragione», dovuto all’abbandono del razionalismo classico,
cioè platonico-aristotelico ed ebraico-medieval&.
Quanto a Voegelin, in un libro pubblicato proprio nel 1938, Diepotiti
sche Rettionen, egli faceva risalire i guasti della modernità, prima ancora
che a Hobbes, Machiavelli e all’aborrito Lockebo, allo “gnosticismo” ori
ginato dall’eresia medievale di Gioacchino da Fiore. Questi aveva inteso
«l’ideale dell’esistenza cristiana come qualcosa di realizzabile in questo
mondo», profetizzando un “terzo regno’ dopo quello di Cristo, cioè uno
stato finale di compimento della storia. Di qui, secondo Voegelin, sareb
bero derivati il Rinascimento, il Leviatano di Hobbes, l’Illuminismo, la
filosofia della storia di Marx ed Engels, il Terzo Reich, la Terza Roma fasci
sta, il Terzo regno comunista; le nuove forme di organizzazione del regno
nella storia sarebbero ora rappresentate dalle «leghe ed élites comuniste,
fasciste e nazionalsocialiste »
Il tratto comune a queste variegate versioni dello “gnosticismo” è la ten
denza a vedere nella «politica1, prophane history » la possibilità di attuare
un mondo di ordine e di valori che invece è trascendente: questo è secon
do Voegelin il punto di massima distanza fra la modernità e la filosofia
classica di Platone e di Aristotele. È da notare che sia Voegelin sia Strauss
considerano questa filosofia come un insieme unitario e indifferenziato,
senza mai prendere in considerazione, ad esempio, l’aspra critica di Ari
stotele alla Repubblica nel libro Il della Politica. Del resto, per entrambi è
Platone l’autentico portavoce di questa “filosofia classica”.
Strauss rispondeva con pieno consenso: anche per lui, la storia è «in
finitely unimportant» per la filosofia classica’. Del resto, recensendo
nel 1946 in modo violentemente critico un libro di Wild che tentava di
presentare Platone come un democratico liberaI, Strauss aveva sostenuto
che i suoi scritti «cannot be used for any purpose other than for philoso
68 IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 69
phizing. In particular, no social order and no party which ever existed or
which will ever exist can rightfully claim Plato as its patron »
Platone, dunque, senza storia e senza politica; collocato piuttosto,
come filosofo classico par excettence, in quello spazio intermedio proprio
della filosofia che sta sopra la storia e la politica e sotto la Legge trascen
dente, l’ordine della Rivelazione.
3
Torniamo ora a Popper e al suo libro comparso nel I944’. Anch’egli vo
leva risalire alle origini della tragedia europea, comprendere le radici cul
turali del nemico presente, il totalitarismo nazista e fascista, e di quello
futuro, lo stalinismo sovietico. Ma per Popper quelle origini non stavano
nel liberalismo moderno, come per Strauss, bensì nel suo rifiuto da parte
delle grandi filosofie della storia di Hegel e di Marx: qui stava il fondamen
to teorico dei totalitarismi di destra e di sinistra. Ma alle loro spalle c’era
un altro “genio del male’ Platone, in grado di offrire ragioni a entrambe le
versioni del totalitarismo. A quello di destra, per il carattere violentemente
autoritario del governo previsto nella Repubblica, nel Politico e nelle Leggi;
a quello di sinistra, per il collettivismo radicale richiesto dal libro V della
Repubblica.
Popper poteva facilmente trovare negli anni Trenta giustificazioni e
precedenti di questa sua interpretazione: da un lato, i critici di Platone
in Inghilterra, da Russeli a Toynbee a Crossman, che l’avevano avvicinato
tanto al bolscevismo quanto al fascismo, dall’altro i suoi ammiratori filonazisti
in Germania. Ma certo l’ampiezza di analisi e la forza teorica dei
suoi argomenti, così come l’energia confutatoria, non avevano paralleli e
facevano del suo libro, comunque lo si voglia valutare, uno snodo decisivo
nella storia delle interpretazioni moderne del Platone politico.
Alcune delle critiche popperiane a Platone possono in effetti apparire
eccessive, ingiustificate e fuori bersaglio: così la caratterizzazione della co
munità della Repubblica come “olismo tribale’ o l’attribuzione a Platone
di uno “storicismo regressivo”. Ma su una questione centrale — quella che
Popper chiama “ingegneria sociale utopica” (utopian social engineering) —
la pertinenza dei suoi argomenti non può essere negata.
La struttura dell’ingegneria sociale utopica viene chiaramente indivi
duata da Popper. C’è in primo luogo l’ordine dei fini: la teoria delle idee
è lo strumento teorico che consente di delineare, e di fondare, il modello
dello stato perfetto, per definizione immutabile e invariante.
Ciò posto, il problema dell’ingegnere sociale utopico è quello di pro
gettare i mezzi adeguati al conseguimento della finalità così stabilita. Si
tratta di una deduzione di tipo condizionale (se... allora), che non ha alcun
bisogno di consenso e anzi non può ammettere il dissenso. Ogni obiezione
appare irragionevole e reazionaria. Ciò che occorre è un sistema di potere
centralizzato che garantisca la realizzazione sequenziale della catena dei
mezzi in vista del fine, insomma la dittatura di chi conosce il modello da
realizzare ed è in grado di derivarne la pianificazione razionale dell’intera
società.
C’è in tutto questo, nota acutamente Popper, una significativa compo
nente di estetismo: la perfezione del mondo assunto come modello rende
l’ingegnere sociale utopico insofferente di fronte alla strategia riformistica
consistente nel tentativo di “rappezzare” l’esistente. La politica diventa,
in questo quadro, un’arte, il cui capolavoro consiste appunto nella società
nuova che l’ingegnere sociale viene costruendo. La bellezza perseguita lo
rende del tutto indifferente rispetto alla violenza eventualmente necessa
ria in corso d’opera (Popper cita il detto di Lenin secondo il quale “non si
può fare la frittata senza rompere le uova”). Così, Platone parla di un pitto
re di costituzioni che deve ripulire la tela prima di cominciare a tracciare il
suo quadro (Resp. VI 5oIa): poco importa se questa ripulitura comporterà
ad esempio di bandire dalla città tutti gli abitanti superiori ai dieci anni
(VII 541a), oppure, come dice il Politico, di “purgarla” uccidendo o esilian
do parte dei suoi cittadini (i9 3d-e).
Quali sono, secondo Popper, gli errori insiti in questo pur affascinante
modo di pensare? C’è, innanzitutto, l’inevitabile dogmatismo sui fini. Il
fine ultimo non può che essere l’oggetto di una intuizione che è impossibile
argomentare razionalmente, sicché occorre ricorrere alla forza per dirime
re i dissensi. E, soprattutto, il modello risulta non modificabile nonostante
l’indefinita lunghezza dei tempi necessari per realizzarlo e l’incertezza del
processo: ogni mutamento del modello in corso d’opera renderebbe inuti
li e vani i mezzi fino a quel momento usati per la sua attuazione. Insomma,
conclude Popper: per l’arbitrarietà dei fini, l’impossibilità di controllare
razionalmente la sequenza dei mezzi, e la conseguente, inevitabile, trasfor
mazione dei mezzi in fini, è molto probabile che l’ingegneria sociale uto
pica porti sulla terra, invece che il cielo, l’inferno.
Fin qui Popper. In Inghilterra, egli trovò l’immediato consenso di perso-
pur
70 IL POTERE DELLA VERITÀ
naggi illustri come Bertrand Russeil, Ernst Gombrich e Gilbert Ryl&, e, in
seguito, la puntigliosa opposizione filologica degli specialisti dell’antichità.
4
Per Voegelin e Strauss, l’immagine di Platone costruita da Popper equiva
leva a una mina in grado di distruggere la “filosofia classica” come fonda
mento della loro lotta contro le degenerazioni della modernità. Platone ne
risultava al contrario configurato come uno “gnostico”, che credeva nella
possibilità di realizzare nella storia, e mediante la politica, la perfezione
del genere umano. Dunque un “nichilista’ che rifiutava la trascendenza
della Legge, e non accettava la subordinazione della politica alla filosofia,
che anzi trovava in essa il suo compimento. Invece di contrapporsi ai mo
derni, Platone rischiava di diventare il loro vero precursore. Come ha scrit
to Myles Burnyeat a proposito di Strauss, se Platone è un «radical Utopian
[...] there is no such thing as the unanimous conservatism of the “classics”,
no such disaster as the bss ofthe ancient wisdom through Machiavelli and
Hobbes, no such person as “the philosopher” to teIl “the gendeman” to
observe “the limits of the politics”»z7.
Fino all’aprile del 1950, Strauss non aveva probabilmente letto il libro
di Popper. Ne aveva però ascoltato una conferenza a Chicago: una prova,
secondo Strauss, di «lifeless positivism [...] linked to a complete inability
to think “rationally”». Pur immaginando che un simile personaggio non
potesse aver scritto nulla che fosse degno di esser letto, Strauss chiedeva
l’opinione dell’amico Voegelin sulle sue operezl. La risposta non si fece
attendere. Voegelin ammette di esser stato costretto a leggere The Open So
ciety dal dovere professionale e dalla pressione degli ammiratori di Popper.
L’indignazione è tale da farlo cadere nel turpiloquio: «this book is impu
dent, dilettantish crap. Every single sentence is a scandal». La conclusione
è perentoria: il libro di Popper «in its intellectual attitude is the typical
expression of a failed intellectual; spiritually one would have to use expres
sions like rascallv, impertinent, loutish; in terms of technical competence,
it is dilettantish, and as a result is worthless».
Nell’immediato, Strauss scrive a Voegelin di aver intenzione di usare la
sua lettera per ostacolare un’eventuale chiamata di Popper a Chicago. Ma,
naturalmente, la vera risposta dei due amici al filosofo viennese — senza
mai citarlo — sarà formulata nei ioro scritti su Platone: il terzo volume di
COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 71
Order and Histo7y, del 1957, per Voegelin, e The City andMan, del 1964,
per Strauss.
Può sembrare sorprendente che nel volume platonico di Order and
History3c Voegelin citi con approvazione e segua da vicino, almeno nella
parte iniziale, il libro platonico di un autore dichiaratamente filonazista
come Kurt Hildebrandt.
È proprio seguendo Hildebrand che Voegelin legge nel Gorgia il segno
di una crisi nella vita di Platone, cioè la sua rottura con la politica ateniese.
Questa rottura comporta uno spostamento epocale. «L’ordine che com
porta l’autorità è trasferito dal popolo di Atene e dai suoi leader al soio
Platone {...] L’ordine rappresentato da Platone è sopravvissuto ad Atene
ed è ancora uno dei componenti più importanti nell’ordine dell’anima di
quegli uomini che non hanno rinunciato alle tradizioni della civiltà occi
dentale»; «the order of soul as revealed through Socrates has become the
new order of relations between God and man: and the authority of this
new order is unescapable»’.
Sulla base di queste premesse, Voegelin può cominciare la sua confuta
zione di Popper, naturalmente senza menzionarlo: «se l’evocazione plato
nica di un paradigma di un giusto ordine viene interpretata come se fosse
l’opinione politica di un filosofo il risultato sarà un completo nonsenso,
non meritevole di essere nemmeno discusso».
Tuttavia, Voegelin riconosce la presenza in Platone di un “mistero”, e
di un pericolo. Il filosofo sembra a tratti aver pensato che l’ordine della
psiche potesse penetrare interamente nell’ordine politico, ed essersi dun
que posto il problema non necessario della sua realizzazione, finendo così
in un’impasse ontologica. Aggiunge Voegelin: «che Platone pensasse la
sua autorità spirituale come autorità politica dev’essere accettato come un
imperscrutabile mistero del modo in cui la sua personalità rispose alla si
tuazione » Il rischio derivante da questo “mistero”, che sembra emergere
soprattutto nel Politico, è quello di una deriva gnostica del pensiero plato
nico. Il «royal restorer oforder» evocato in questo dialogo richiama da
vicino il personale incubo di Voegelin, il dux profetizzato da Gioacchino
da Fiore. Da qui il passo è breve verso «i rappresentanti dell’orgoglio della
civiltà e della perfezione immanente della civiltà: dai progressisti del di
ciottesimo secolo, attraverso Marx, Comte e Mill, fino a Lenin e Hitler» 3
Non è però in questo “mistero” e in questo rischio la parola finale di
Platone, che Voegelin legge invece nella celebre pagina della Repubblica
(IX 592) sul «paradigma in cielo». Qui, finalmente e con chiarezza,
COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 73
di “comunismo assoluto’ governato da filosofi che garantiscono che ogni
energia psichica sia devoluta all’interesse della comunità, e assicurano con
la persuasione e la coercizione questa dedizione anche da parte dei ceti
subalterni. Qualcosa dunque, scrive Strauss riprendendo Marx ma senza
citarlo, che somiglia alla “società castale egiziana”°. Questo progetto, se
condo Strauss, fa in primo luogo astrazione dal corpo. La dedizione to
tale alla comunità può riguardare solo la mente: la corporeità, con i suoi
desideri, e in primo luogo con l’eros che essa origina, è irriducibilmente
privata quindi preme in direzione opposta a quella comunitaria. La stessa
uguaglianza di funzioni politiche fra uomini e donne, essenziale nel dise
gno platonico, ignora la differenza corporea, e, facendo della riproduzione
un compito esclusivamente politico, «is based on a deliberate abstraction
from eros». Perciò la comunità platonica è innaturale4l.
Da questo deriva immediatamente l’impossibiliti della città platonica.
Scrive Strauss ripetendo per questo aspetto la critica di Aristotele: «the
just city is against nature because the equality ofsexes and absolute com
munism are against nature»4; dunque, la “città giusta” (in cui Strauss
riconosce la più profonda espressione dell’idealismo politico) è costituti
vamente impossibile (va notato fin d’ora che Strauss non attribuisce mai
esplicitamente a Platone la consapevolezza di questa impossibilità, ma le
sue conclusioni, come vedremo, non lasciano dubbi in proposito).
Una seconda ragione di impossibilità consiste in una contraddizione
radicale: i filosofi sono necessari alla realizzazione del progetto platonico;
ma, come mostra il libro VII, i filosofi non intendono governare, perché
sono dediti alla più alta attività concessa all’uomo, e disprezzano le vicen
de umane che si svolgono nel mondo della “caverna”. I filosofi possono
venire costretti a governare solo dalla coercizione della città, ma qui si apre
un circolo vizioso: i filosofi dovrebbero convincere la città a costringerli a
governare contro la loro volontà. La divaricazione tra filosofia e città con
ferma dunque la strutturale impossibilit della kallzpolis platonica. Essa
risulta inoltre indesiderabile sia per i più, che a essa dovrebbero sacrificare
corporeità ed eros, sia per gli stessi filosofi, che vi si vedrebbero obbligati a
rinunciare alla loro dedizione teorica.
Strauss è pronto a questo punto a trarre le sue conclusioni sia dalle pre
messe metodiche sulla natura ironico-dissimulativa del dialogo, sia dall’a
nalisi delle contraddizioni strutturali che esso presenta: «Socrate chiarisce
nella Repubblica quale carattere la città dovrebbe avere per soddisfare i più
alti bisogni dell’uomo. facendoci vedere che la città costruita in accordo
72 IL POTERE DELLA VERITÀ
the inquiry into the paradigm of a good polis is revealed as an inquiry into man’s
existence in a community that lies, not only beyond the polis, but beyond any
political order in history. The leap in being, toward the transcendent source of
order, is rea! in Plato; and later ages have right!y recognized in the passage a prefi
guration ofSaint Augustine’s conception of the Civitas Dei.
Ma allora (e questa conclusione di Voegelin va attentamente considerata
alla luce degli sviluppi che ci interessano) ne consegue che
il politico che è nel filosofo è scomparso. Passando dalla metafora alla realtà,
la partecipazione politica significa ora partecipazione alla potiteia transpolitica
che si trova in cielo e che verrà realizzata nell’anima di chi la osserva. L’anima è la
“polis di un uomo” [one-manpolis] e l’uomo è il “politico” che custodisce la sua
costituzione.
Dunque, aggiunge Voegelin, tutto il processo di decadenza politica de
scritto nel libro VIII della Repubblica avviene in realtà nell’anima, e descri
ve la corruzione dell’ordine psichico37.
Troviamo dunque formulate con grande nettezza nel libro di Voegelin
le tesi principali dell’interpretazione impolitica della Repubblica. Ciò che
vi è davvero in questione sono l’ordine interiore dell’anima, la morale in
dividuale, il rapporto fra l’uomo e la trascendenza divina. La dimensione
politica del dialogo non ha che una funzione metaforica per descrivere
l’ordine dell’anima e le sue deviazioni. Se c’è stata una tentazione politica
nel filosofo, essa viene superata verso una sfera superiore alla politica.
Quanto a Strauss, nel suo The City and Man8 Platone viene configu
rato, più che come impolitico, come antipolitico. Non è il caso qui di di
scutere l’approccio generale di Strauss ai dialoghi platonici e in particolare
alla Repubblica; come è noto, egli vede in questi testi una forma di scrittura
reticente, esoterica, ricca di dissimulazione ironica.
Ogni dialogo, rileva Strauss, è inevitabilmente parziale, nel senso di af
frontare il suo argomento facendo astrazione da altri aspetti rilevanti per
l’argomento stesso. Questa parzialità rende impossibile la soluzione del
problema, e l’impossibile presentato come possibile è ciò che costituisce
l’aspetto comico dei dialoghi, nel senso della commedia di Aristofane.
il problema diventa ora quello di identificare ciò da cui la soluzione
politica del problema della giustizia nella Repubblica fa astrazione, e che
dunque la rende impossibile. Richiamiamo in primo luogo i caratteri
fondamentali di questa soluzione secondo Strauss: si tratta di un regime
74 IL POTERE DELLA VERITÀ
con questa esigenza non è possibile, ci permette di vedere i limiti essenziali,
la natura, della città»; Platone è dunque consapevole di questa impossi
bilità; il senso del dialogo è di confutare gli aspetti “prometeici” dell’inge
gneria utopica (per dirla con Popper), di chiarire, mediante un esperimento
intellettuale che porta al limite le sue ambizioni, come la politica non possa
contendere lo spazio che spetta alla filosofia, e al di là di essa alla teologia.
Il limite invalicabile delle possibilità della politica porta così Platone,
nelle Leggi, a delineare il migliore ordinamento politico compatibile con
la natura dell’uomo, e perciò possibile e desiderabile. Dunque, conclude
Strauss, «le Leggi sono l’unica opera propriamente politica di Platone »4S:
una tesi volentieri condivisa anche dagli interpreti “impolitici” della Re
pubblica alla maniera di Annas.
In questo modo, Strauss aveva portato a termine la sua confutazione
di Popper, peraltro mai menzionato. La sua critica aveva mancato il ber
saglio perché aveva preso la Repubblica alla lettera, leggendovi il progetto
di una grande politica filosofica, mentre in realtà il dialogo intendeva mo
strare l’impossibilità, e la pericolosità, di una tale politica. Attribuendo a
Platone la tesi dei limiti insuperabili della politica, della superiorità della
filosofia e quindi dell’estraneità del filosofo rispetto alla politica, Strauss
d’altra parte completava la futura panoplia degli argomenti intesi a rende
re impolitici, o contropolitici, Platone e la Repubblica.
5
Sembra dunque che le tesi recenti sul carattere impolitico della Repubbli
ca ripetano per l’essenziale, in modo più o meno consapevole, i temi di
un vecchio dossier che risale alla metà del secolo scorso. C’è naturalmente
qualche nuova analisi testuale e qualche supplemento metodologico, ma
gli argomenti principali e le interpretazioni generali seguono la via della
confutazione di Popper tracciata, come si è visto, da Voegelin e da Strauss.
Ci si può interrogare sulle ragioni di questo movimento ciclico della
vicenda interpretativa. A mio avviso, esso può essere spiegato sulla base
del sostanziale fallimento di un’altra linea di difesa di Platone da Popper:
quella che tentava di dimostrare che la polemica di Popper mancava il
bersaglio perché in effetti Platone non era il progenitore di una cattiva
politica totalitaria, ma nutriva simpatie di tipo liberale e addirittura demo
cratico. Questo wishful thinking caritatevole avrebbe risolto il problema,
COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 75
ma purtroppo non era in alcun modo difendibile sulla base dei testi6. La
questione dell’aspetto politico della Repubblica resta così evidentemente
un nervo scoperto, che deve venire periodicamente devitalizzato se non
si vuole ricorrere alla sua asportazione chirurgica alla maniera di Popper.
Questa strategia va naturalmente discussa in modo analitico sulla base
degli argomenti testuali che vengono addotti dai suoi fautori. Ma essa
comporta un pericolo più generale, che è prioritario anche rispetto alla
eventuale validità dei loro argomenti: cioè il pericolo di un impoverimen
to del livello teorico del dibattito interpretativo su Platone e la Repubblica.
Questo dibattito dovrebbe misurarsi all’altezza delle sfide poste da Plato
ne al pensiero filosofico e politico, e anche all’altezza delle domande poste
a Platone dai suoi critici veri, da Aristotele a George Grote a Karl Popper.
Vorrei indicare in modo sommario alcuni dei problemi che si impongono
a questo livello della riflessione.
a) Un pensiero dell’utopia politica è in qualche misura utile e produttivo,
e come è eventualmente possibile controllare i rischi che esso presenta?8
Quali sono i limiti della desiderabilità e della praticabilità del progetto
utopico? Quale può o deve essere il ruolo della filosofia nella politica, e
specialmente nella politica dell’utopia?
b) Quale tipo di antropologia è implicata dal progetto di perfettibilità
utopica, o compatibile con esso? Le resistenze opposte a questo progetto
dalla “natura umana” sono da considerare insuperabili, secondo una linea
di pensiero che inizia con Aristotele (ma forse anche con il libro VIII della
Repubblica e con le Leggi)?
c) Quanto ai contenuti dell’utopia della Repubblica: la strana combina
zione di elitismo illuministico e di comunitarismo (o comunismo repub
blicano) che sta al centro del suo programma è in qualche misura sensata
e riconoscibile come una opzione possibile nell’ambito del pensiero poli
tico? Se non è così, per quali ragioni essa risulta insensata o inaccettabile?
Credo sia in ogni caso molto meglio seguire la via della confutazione, mo
strando, come Aristotele, che si tratta di “cattiva politica”, piuttosto che
negare che si tratti tout court di politica, perché in questo caso la sola “vera”
politica è implicitamente quella ritenuta tale dall’interprete, che si sottrae
sia all’impegno di dichiarare le proprie opzioni sia all’onere della critica.
a’) Insieme con questo tipo di riflessione, resta naturalmente il problema di
ricontestualizzare Platone nel suo ambiente storico, politico e culturale. Ad
esempio: i rapporti con Aristofane, Tucidide, la letteratura oligarchica dei
sofisti e dei socratici; il senso della critica alla democrazia e all’oligarchia,
r
normativo, di tutta la Repubblica:
L’influenza della città sull’anima può avere un ruolo negativo o positi
nature potenzialmente filosofiche ad opera di un ambiente sociale ostile
non causale. Anche qui, non c’è dubbio che l’assenta omologia fra anima
Questo apre senza dubbio un problema nell’interpretazione del rapporto
di una tendenza unilaterale che va corretta con la persuasione o la costri
cuni degli argomenti principali addotti dagli interpreti del dialogo come
tate in modo sensato solo se si riconosce il carattere politico della Repubblica.
l’atteggiamento ambivalente, di rifiuto e attrazione, verso le tirannidi del Iv
IL POTERE DELLA VERITÀ
secolo; il rapporto fra Repubblica, Politico, Leggi e la critica di Aristotele. È
chiaro che queste complesse questioni storiografiche possono venire affron
Per finire, possiamo discutere molto brevemente, sulla base del testo, al
I filosofi della kattipotis possono in effetti mostrare riluttanza a governare,
ma questo non è il punto di vista del legislatore Platone; se mai, si tratta
Basterà qui richiamare uno dei passi più celebri, e dal tono più fortemente
A meno che i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora sono detti re e
potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a
riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia, e ancora quei molti, la cui natura
tende a uno di questi poli con esclusione dell’altro, non vengano obbligatoriamente
impediti, non vi sarà sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del
genere umano (473d, corsivi miei).
In primo luogo, il tema straussiano par excettence dell’incompatibilità
zione. D’altra parte, si può certamente dire che nel fedone e nel Teeteto
fra questi dialoghi e la Repubblica. Ma non vedo come sia possibile soste
nere che nella Repubblica stessa Platone sostenga l’incompatibilità fra le
due forme di vita e di conoscenza, quando al contrario la loro separazione
è considerata come una delle cause della patologia che affiigge l’umanità.
C’è poi la questione del rapporto fra anima e città: un rapporto che si
e città presenti diverse difficoltà, sia nel libro iv sia nel libro VIII. È però
vo. Per quanto riguarda quello negativo, basti pensare alla corruzione delle
COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA?
ben difficile negare che fra psicologia e vi sia
individuale ambiente politico
un nesso di condizionamento reciproco.
ampiamente analizzata nel libro vi. Qui la pressione della città democrati
ca, il suo condizionamento hanno un potente effetto conformistico anche
sui migliori dei suoi giovani:
Quale privata educazione potrebbe resistere in un giovane senza venir travolta da un
tale flutto di biasimi e di lodi, e non si lascerà trasportare dove lo porta la corrente?
non dirà forse che sono belle o brutte le stesse cose che pensa la folla, e non si darà allo
stesso modo di vita, alle stesse loro occupazioni, diventando uno dei loro? (492b-c)
In una cattivapoliteia, dunque, l’anima filosofica salvarsi a non può meno
che sia protetta, dice Platone, da una theia moira, insieme di un circostan
ze eccezionali.
In senso positivo, non c’è dubbio che il svolto
programma educativo
ducazione vera e propria, o anche inconsapevoli, quando l’ambiente so
suoi cittadini: questa è in un certo senso l’idea centrale dell’intera Repub
blica. Il condizionamento può avvenire in consapevoli, come forme nell’e
dallapotis giusta sia in grado di plasmare a propria immagine l’anima dei
benefici, e fin da bambini, inconsapevolmente, li conduce all’identifica
vivono: le costituzioni non nascono “da una quercia o da una roccia” ma
ciale positivo agisce «come un’aura che reca salute provenendo da luoghi
zione, all’amicizia, all’armonico accordo la bella con ragione» (4oIc-d).
Ma è certamente vero anche, al che contrario, le disposizioni psicolo
giche dominanti fra i cittadini condizionano il di in cui essi
tipo politeia
resto, come i pesi che fanno pendere una bilancia» (544d-e).
In questi e in molti altri simili passi, fra gli assetti individuali dell’anima
e quelli politici della città è dunque descritto legame solo un non metafo
of their souls and their goals in life, and it cither creates the conditions
moralità individuale? La giustizia individuale non richiede, come propria
«dai caratteri [ethe] di chi vive nelle città, che si trascinano dietro tutto il
fico, ma di reciproca causazione51. Lo stesso Blòssner del resto ha scritto
recentemente che la città influisce sui cittadini costruendo «the structure
for reaching these goals or impedes their development». se Ma questo
è vero, come si possono separare in Platone, e nella Repubblica, e politica
tende a interpretare, come abbiamo visto, come puramente metaforico e
Platone sostiene una visione diversa del rapporto tra filosofia e politica.
tra filosofia e politica, e della superiorità della prima rispetto alla seconda.
Del resto, potis e filosofia si salvano o periscono insieme (497d8-9).
testo impolitico o antipolitic&0.
76
6
77
risponde
è
78 IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 79
condizione di possibilità, un ambiente sociale giusto, e d’altra parte non è
la condizione perché questo ambiente si possa formare? Intorno a questa
problematica circolarità si costruisce l’intera Repubblica, e il senso del dia
logo rischia di andare perduto se essa viene rescissa.
Veniamo, da ultimo, al passo del libro IX che costituisce il riferimento
testuale più forte per le interpretazioni impolitiche della Repubblica. È il
caso quindi di discuterlo con qualche attenzione.
Dopo una lunga analisi, che ha descritto la condotta morale dell’uomo
giusto in una società diversa dalla katlipotis, Socrate conclude che quanto
all’attività politica egli «ne farà, e anche molta, nella città che gli è pro
pria, non però forse nella sua patria, a meno che non sopravvenga qualche
sorte divina». Glaucone commenta: «Capisco: intendi nella città la cui
fondazione siamo venuti discutendo, quella che sta nei discorsi, perché
non penso che essa esista da nessuna parte della terra».
«Ma forse — Socrate — posta in cielo come un modello
[parade4gma], offerto a chi voglia vederlo, e avendolo di mira heauton ka
toikizein. Ma non fa alcuna differenza se essa esiste da qualche parte o se
esisterà in futuro: egli potrebbe agire solo in vista della politica di questa
città, e di nessun’altra» (591a-b).
Il problema cruciale sta nell’interpretazione delle due parole che si
sono lasciate in greco. All’inizio del Novecento, l’autorevolissimo com
mentatore inglese James Adam rendeva come «found a city in himself»,
legittimando così un tenace pregiudizio esegetico. Il testo sembrava allora
dire chiaramente: i. la realizzazione nel tempo storico del progetto della
kallzpotis è impossibile; i. comunque è irrilevante, perché la sua funzio
ne consiste nel fornire un modello da interiorizzare per costruire la virtù
individuale, per “rifondare sé stessi” secondo il paradigma della giustizia;
3. poiché l’uomo giusto agirebbe politicamente solo nella città giusta, che
non può esistere, ne risulta la sua radicale estraneità alla politica. Il senso
della Repubblica consisterebbe dunque in ultima istanza nella separazione
della morale individuale (dove è possibile praticare la virtù) dalla dimen
sione politica (in cui è impossibile fondare la città giusta).
Credo tuttavia di aver dimostrat& che la traduzione di Adam, così pro
pizia a confermare l’esegesi impolitica della Repubblica, non è sostenibile
dal punto di vista linguistico. Katoikizein con accusativo vale di norma, in
greco e in Platone, “insediare”, “trasferire’ “far abitare” qualcuno in qualche
luogo; spesso designa il “fondare una colonia’ insediando la popolazione in
una nuova località. Nel nostro passo, dunque, il soggetto che abbia deciso di
abbandonare la politica della propria patria storica « insedierà sé stesso» nel
“cielo” del paradigma, cioè nella prospettiva teorica della città giusta (così
suona del resto la traduzione di Grube-Reeve: «There is a model ofit in he
aven, for anyone who wants to look at it and to make himselfits citizen on the
strength ofwhat he sees»)54. Per questo, sono necessarie due decisioni. La
prima, di ordine intellettuale, consiste nel voler comprendere il paradigma
teorico (si confronti 47zd: « abbiamo prodotto nel discorso il paradigma
della città buona»); la seconda, di ordine morale, comporta di voler cam
biare il proprio habitat politico, continuando ad avere di mira quel paradig
ma. Alla luce di queste premesse, si comprende meglio il seguito, che vale
letteralmente: « farà le cose di questa città soltanto, e di nessun’altra» («he
would take part in the practical affairs ofthat city and no other»). In questa
frase si gioca molto del senso politico della Repubblica. Essa racchiude due
significati che non possono venire disgiunti. Il primo è che ovviamente l’uo
mo giusto (il filosofo) dispiegherà la pienezza della sua attività politica nella
nuova città, in vista della sua conservazione. 11 secondo è che egli, se agirà
nella patria storica, lo farà solo in vista e in funzione dell’avvento dell’altra
città: questo non è escluso, ma può accadere solo con il favore di quelle cir
costanze eccezionali che Platone indica come una “sorte divina theia tyche.
Correttamente tradotto e interpretato, il nostro passo non costitui
sce affatto una prova del carattere sostanzialmente non politico, e rivol
to all’interiorità morale dell’individuo, della Repubblica. Esso riprende
da vicino il luogo importante del libro VI, dove si afferma che invece di
limitarsi a «plasmare soltanto se stesso» il filosofo può trovarsi indotto
dalle circostanze a trasformare la città secondo «l’ordine che vede lassù»
(5ood), cioè nel “cielo” della teoria normativa. Non si tratta dunque, in
entrambi i casi, di limitarsi all’interiorizzazione della norma morale ma di
intraprendere un’azione politica trasformatrice della città storica, anche se
essa è possibile solo in condizioni eccezionalmente favorevoli.
La Repubblica è dunque un dialogo politico, un dialogo in cui Platone
espone le sue «most strildng ideas in political philosophy». Si possono
condividere o rifiutare queste idee, e soprattutto si deve tentare di compren
derle. Ma negarne l’esistenza e la forza, per tentare di proteggere Platone da
sé stesso prima ancora che dai suoi critici, non è una buona strategia storio
grafica e risulta, come già avvertiva Bambrough, unprofitable sul piano della
riflessione critica6. Meglio fare a meno della Repubblica, se la si considera
inaccettabile, che offrirne un’immagine edificante, depotenziata, insomma
“normalizzata” dal punto di vista del senso comune dei nostri tempi.
IL POTERE DELLA VERITÀ COME, E PERCHÉ, LA REPUBBLICA È DIVENTATA IMPOLITICA? 8i
Note
i. W. A. R. Leys, Was Plato Non-politicat?, in “Ethics”, LXXV, 1965, pp. 2.71-6; f. E.
Sparshott, Ptato as Anti-Political Thinker, in “Ethics”, LXXVII, 1967, pp. 2.14-9 (en
trambi riprodotti in G. Vlastos, ed., Ptato: A Cottection of CriticalEssays, New York
1971, pp. i66-86. Le citazioni sono da questo volume: p. 172 per Leys, pp. 181, 183 per
Sparshott).
z. C. Rowe, The Piace ofthe ‘Republic”in Ptato’s Politica1 Thought, in G. R. f. ferrari
(ed.), The Cambridge Companion iv Ptato’s “Repubtic”, Cambridge 2007, pp. 27-54,
cit. p. z8.
3. I. Kant, Critica detta ragion pura (1787), pp. B 370-5, 595-9. Sull’interpretazione
kantiana rinvio a M. Vegetti, «Un paradtma in cielo». Platone politico da Aristotele
al Novecento, Roma 2009, pp. 41-4.
4. J. Annas, Potitics and Ethics in Ptato’s “Republic”, in O. Hòffe (Hrsg.), Ptaton.
Potiteia, Berlin 1997, pp. 141-60.
Ivi, p. (non era tuttavia questa l’opinione di Annas nel suo importante libroAn
Introduction to Ptato’s “Republic”, Oxford 1981, pp. -6).
6. Ivi, pJ. 144-5, 152-3; cfr. anche J. Annas, The Inner City: Ethics without Potitics
in the ‘Repubtic”, in Id., Platonic Ethics: Old and New, Ithaca (NY)-London 1999,
p2. 72-95, cit. 2. 8z.
.
7. Id., Potitics and Ethics, cit., pp. 145 Ss.; Id., The Inner City, cit., pp. 8 o-i, 84 Ss., 8$ Ss.
8. D. Frede, Die ungerechten Verfassungen und die ihnen entsprechenden Menschen
(Buch viii 543a-Ix 576b9), in Ptaton. Politeia, cit., pp. 251-70, cit. p. 259; cfr. anche
Id., Ptaton, Popper und der Historizismus, in E. Rudolph (Hrsg.), Potis und Kosmos.
Naturphitosophie undpotitischePhilosophic bei Platon, Darmstadt 1996, pp. 74-107.
N. Blòssner, The City-Sout Anatogy, in The Cambridge Companion iv Ptato’s
“Republic”, cit., pp. 345-85: cit. pp. 367, 370. Va detto che Blòssner segue una sua pecu
liare versione metodologica del diatogical approach, secondo la quale nessuna dottrina
contenuta nei dialoghi, e quindi, per la Repubblica, né la “psicologia” né la “politica’
possono essere attribuite in quanto tali all’autore Platone. Si tratta sempre di strategie
argomentative miranti a convincere gli interlocutori ad accettare la tesi di Socrate (in
questo caso, che “la giustizia paga pp. 357-8).
Io. Ivi,p. 346.
.
li. Id., Diatogform und Argument: Studien zur Platons “Potiteia”, Stuttgart 1997,
pp.
i6, 169, 190 55.
iz. G. R. F. Ferrari, City and Sout in Plato’s ‘Republic”, Sankt Augustin 2003,
pp. o, 89.
13. Ivi, pp. 90, 103.
14. Strauss aveva esposto queste tesi già nel suo libro su Maimonide, Philosophie und
Gesetz, Berlin 1935.
Lettera a Strauss del 22 aprile 1951, in faith and Potitical Philosophy: The
Correspondence between Leo Strauss andErich Voegelin, 1934-1964, ed. by P. Emberley,
i.
3. Cooper, University Park (PA) 1993, p. 87; cfr. anche il commento di Strauss nella
lettera del 4maggio 1951 (p. 90).
i6. Lettera del 7 marzo 1949, ivi, p. 59.
17. Lettera del 9 aprile 1943, ivi, pp. 17-8.
i$. I. Strauss, Il nichilismo tedesco, conferenza tenuta nel 1941 presso la New School
for Social Research di New York, trad. inJ.-L. Nancy, L. Strauss,J. Taubes, Nichitismo
epolitica a cura di R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello, Roma-Bari zooo.
19. L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, Milano 1973, p. 321.
20. Definito «one of the most repugnant, dirty, morally corrupt appearances in the
history ofhumanity {...] one of the flrst very great cases ofspiritual pathology», let
tera del aprile ‘953’ in Faith and PoliticatPhitosophy, cit., pp. 96-7.
E. Voegelin, Diepolitische Religionen, ‘Wien, 193$, trad. it. in Id., La politica: dat
simboli alle esperienze, a cura di 5. Chignola, Milano I993, pp. 51-3.
2.2.. faith and Politica1 Phitosophy, cit., lettera del 4 dicembre ‘9o, p. 3.
i
23. Ivi, lettera del io dicembre 1950.
24. L. Strauss, On a New Interpretation ofPlato’s Politica1 Philosophy, in “Social
Research” XIII, 1946, pp. 326-64, cit. p. 351, a proposito diJ. Wild, Plato’s Theory of
Man: An Introduction to the Realistic Philosophy ofCulture, Cambridge (MA) 1946.
25. K. Popper, The Open Society and 115 Enemies, vo1. I: The Speil ofPlato, London
1944 (,966s), trad. it.La societti aperta eisuoi nemici, Roma ‘973.
z6. La recensione di quest’ultimo su “Mmd” (1952) è raccolta nel volume R.
Bamhrough (ed.), Plato, Popper and Politics, Cambridge 1967.
27. M. Burnyeat, Sphinx Withouta Secret, in “The New York Review of3ooks”, May
30, 1985, pp. 30-6: Cit. p. 35.
28. faith and Politica1 Philosophy, cit., lettera del io aprile 1950, pp. 66-7.
29. Ivi, lettera del i8 aprile pp. 67-9.
30. E. Voegelin, Orderand History, voi. 3, Baton Rouge (LA) 1957 (1966’), trad. it. (da
cui si cita) Ordine e storia. Lafilosofia politica di Platone, Bologna 1986.
31. Cfr. ad es. ivi, p. 104. Il titolo del libro su Platone di Hildebrandt, del 933, è
già significativo: Platon. Der Kampfdes Geistes um die Macht. Voegelin dichiara an
che la propria ammirazione per un intellettuale caro ai nazisti come Stefan George,
ottenendo l’approvazione, anch’essa sorprendente, di Strauss: «you are quite right:
George understood more ofPlato than did Wilamowitz,Jaeger and the whole gang»
(in faith and Politica1 Phitosophy, cir., lettera del 4maggio 1951, p. 90).
32. Voegelin, Ordine e storia, cit., pp. 91, 96 (cfr. Order and History, voi. Ptato and
Aristotte, ed. by D. Germino, Columbia, MO, 2000, pp. 92, 97).
Ivi, p. 127. Si ricorderà che Strauss si era espresso nello stesso modo recensendo
Wild.
lvi, pp. 145-8.
lvi, pp. 223-4.
36. Ivi, pp. ‘5°-I.
3. Ivi, p. i88.
:
8z
IL POTERE DELLA VERITÀ
38. LStrauss, The CityandMan, Chicago (IL) 1964.
39. Ivi,p.6z.
40. Ivi,p. 113.
Teorie
41. Ivi, pp. 109, 117. Va ricordato, a questo proposito, che nella Repubblica viene po
sta sotto controllo solo la sessualità riproduttiva, non i comportamenti erotici non
riprodutrivi, sia eterosessuali sia omosessuali, cui si fa ampio spazio nel libro v. Del
resto, Platone riconosce che «le necessità erotiche» sono anche più forti di quelle
geometriche (v 458d).
42. Ivi, p. “7.
43. Ivi, pp. 124 Ss.
44. Ivi,p.i3$.
45. Cfr. L. Strauss, J. Cropsey, History ofPotiticat Phitosophy, Chicago (IL) 1963,
trad. it. Storia dettafilosofia politica, Genova 1993, p. i6i.
46. Per recenti bilanci critici di questa tendenza interpretativa cfr. J. L. Pradeau,
Platon, les démocrates et la democratie, Napoli ;oo; L. Bertelli, Platone contro la
democrazia (e l’oltg-archia), in Platone, La Repubblica, trad. e commento a cura di
M. Vegetti, voi. vi, Napoli ;oos, pp. 295-396.
47. Cfr. G. Grote, Plato, and the Other Companions ofSokrates (i86), voi. iv,
London i$$$.
48. A mio avviso, le riflessioni più significative in questo senso sono quelle di
M. Burnyeat, Utopia and fantasy: The Practicability ofPtato’s Ideatly Just City, in
J. Hopkins, A. Savile (eds.), Pyichoanalysis, Mmd andArt, Oxford 199;, pp. 157-87;
M. Schofield, Plato: PoliticatPhitosophy, Oxford ;oo6 (cap. s).
49. Interessanti considerazioni su questo argomento sono proposte da uno studioso
di ispirazione in parte straussiana come 5. Rosen, Plato’s ‘Repubtic”: A Study, New
Haven-London 2005, pp. 6 ss.
50. Ho discusso più ampiamente questi problemi in «Un paradzgina in cielo», cit.,
capp. 7-9.
Se così non fosse, non avrebbe del resto senso la tesi della non responsabilità sog
gettiva delle condotte malvagie che viene ribadita nel Timeo: «se a individui così mal
costituiti [nel corpo] si aggiungono cattive politeiai delle città e si tengono, in privato
e in pubblico, discorsi conformi ad esse, allora tutti i malvagi fra noi lo diventano per
due ragioni, senza volerlo: di ciò bisogna sempre considerare responsabili i genitori
più dei figli, chi educa più di chi è educato» (s7b).
5;. Blòssner, The City-SoulAnalogy, cit., pp. 374-5.
53. Cfr. M. Vegetti, Il tempo, la storia, t’utopia, in Platone, La Repubblica, vo1. vi, cit.,
pp. i6-6; (CAP. 7 in questo volume).
54. In Plato: Complete Works, ed. J. Cooper, Indianapolis (IN) 1997.
Schofield, Plato,
. cit., p. 9.
6. R. Bambrough, Platos Modem friends and Enemies, in Id., Ptato, Popper and
Politics, cit., pp. 3-19.
Parte seconda
r
tema
Megiston mathema. .
L idea del buono e le sue funzioni
. *
4
La metafisica è una metaforica presa alla lettera
H. Blumenberg
Analitica del “buono” e teorema delle idee
La discussione sull’idea del “buono” — che la tradizione interpretativa
antica e moderna avrebbe considerato come uno dei vertici e insieme degli
enigmi più inquietanti della Repubblica e dell’intero pensiero platonico —
viene introdotta, nell’ultima parte del libro vi, senza alcuna enfasi e persino
con un certo tono di irritazione da parte di Socrate. Egli ha sostenuto che la
questione della formazione dei futuri archontes deve venire ripresa dal prin
cipio (oze) rispetto ai lineamenti offertine nei libri ii e iii, che già in quella
sede erano stati considerati “privi di rigore” (iii 414a). Questa ripresa è tan
to più inevitabile, in quanto ora non si tratta soltanto di formare un ceto
politico-militare in grado di gestire la nuovapotis, ma di costruire, nel suo
ambito, un gruppo di governanti-filosofi capaci di comprendere e preserva
re il senso originario e il fondamento di giustizia della sua costituzione, il
logos tespoliteias (497c8 s.). Essi dovranno dedicare agli studi un impegno
molto maggiore di quello che era stato allora previsto, per raggiungere con
il massimo rigore (akribei) possibile quella conoscenza (mathema) che è per
loro la più importante (megiston) e la più adeguata (prosekon) alla funzione
che devono svolgere (5o4d-e). Alla sorpresa di Adimanto, che chiede che
cosa ci possa essere di più importante della giustizia e dell’ambito della vir
tù politica (5o4d4-5), Socrate risponde, appunto, con una certa irritazione:
«non raramente ne hai sentito parlare, e ora non ci pensi oppure pensi di
mettermi in difficoltà con le tue obiezioni. Ritengo però che questo sia il
caso: perché certo hai sentito dire spesso che l’idea del buono è la massima
conoscenza» (5o5a1: ‘ro &ycI.8o téc ytoTav
Questo capitolo è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e com
mento a cura di M. Vegetti, voI. v, 11. vi-vii, Bibliopolis, Napoli aoo3.
è
86 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGIST0NMATHE
87
Le ragioni per le quali la conoscenza del “buono” nella sua forma es
senziale debba svolgere un ruolo decisivo nella formazione degli archontes
filosofici sono ribadite a più riprese nei libri vi e vii. Il “buono” costituisce
innanzitutto la motivazione a perseguire la giustizia e le virtù dell’ambito
politico (5o5a). Esso rappresenta il fine (skopos), il traguardo verso il qua
le occorre orientare la condotta sia privata sia pubblica (519c), dunque un
«orizzonte di orientamento» e un «centro di integrazione» della vita e
a maggior ragione del suo governo. Per chi ne ha il compito, la conoscen
za del “buono’ che è di livello ontologico ed epistemologico superiore al
mondo della mutevolezza storica e delle relative opinioni, costituisce tut
tavia il fondamento per le corrette e vere opinioni in questo stesso mondo
(;oc). Essa rappresenta infatti il modello di riferimento, il paradeigma,
riferendosi al quale chi ha 11 compito del potere deve riordinare (kosmein)
lapotis, i suoi cittadini e sé stesso (VII 54oa8-Io). Del resto, già all’inizio
del libro VI si era detto che i nuovi governanti avrebbero stabilito le nor
me di giustizia (nomima) nel mondo storico (enthade) avendo come punto
di riferimento la visione di “ciò che vi è di più vero” (to alethestaton), una
espressione nella quale, come meglio si vedrà più avanti, è probabile vada
ravvisata un’anticipazione implicita dell’idea del “buono” nella sua funzio
ne diparadezgma (484c8-d3). Di tutto questo, sostiene Socrate, Adimanto
è perfettamente al corrente (oistha: 5o4a4, 7, 5o5b5), perché ne ha già senti
to parlare più volte (5o4e9: O3c à)i7&Kt iccoa; 5o5a3: ro»&ct &dpcoa).
Ma che cosa esattamente Adimanto dovrebbe sapere, visto che dell’i
dea del “buono” non è stata fatta fin qui alcuna esplicita menzione nel
dialogo? E perché, comunque, la conoscenza del “buono” dovrebbe svol
gere quel ruolo centrale e determinante che in questo passo le viene asse
gnata? La risposta alla seconda domanda rende agevole rispondere anche
alla prima, senza dover ricorrere all’ipotesi che qui venga fatta allusione a
un insegnamento orale-esoterico che Adimanto avrebbe ricevuto in altre
occasioni e che non sarebbe ripetibile nel dialogo scritto3.
La supremazia del “buono” rispetto a ogni condotta pubblica e pri
vata il suo ruolo motivazionale nei riguardi della giustizia sono in effetti
derivabili dalla semantica specificamente “socratica” (ma più in generale
dall’uso linguistico) del termine agathon. Esso vale “efficace, ben fatto,
utile, vantaggioso” (in opposizione al senso di “difettività” che è espresso
in kakon). Una cosa buona è una cosa utile alla realizzazione di una vita
buona, cioè compiuta, prospera, felice; ciò che rende vantaggiose e desi
derabili le singole cose buone è questa ioro strumentalità rispetto al fine
ultimo, a ciò che è buono in sé stesso, la felicità privata e pubblica. Tutto
questo è ribadito con molta chiarezza nel passo della Repubblica che stia
mo discutendo. Il “buono” è ciò che rende utili e vantaggiose le cose giuste
(5o5a3-4): nessuno sarebbe motivato a comportarsi secondo giustizia se
ciò non fosse “buono’ cioè utile alla felicità; non c’è alcun vantaggio, e
nulla di desiderabile, nel possesso o nella conoscenza di una qualsiasi cosa
che non sia anche buona (5o5a7-$). In realtà, il “buono” è il fine e lo scopo
delle condotte di ognuno, ma ciò che le rende incerte e oscillanti è l’inca
pacità di identificarlo pienamente: tanto più necessaria risulta, per contro,
una sua solida comprensione da parte di chi è destinato a guidare la vita di
tutti (5o5d11-5o6a2).
La conoscenza di ciò che è davvero buono, cioè della forma e del senso
di una vita perfettamente felice per la polis e per gli individui
— una co
noscenza che comporta anche, come vedremo, la capacità di confutare le
descrizioni fallaci del “buono” — dunque necessaria per i futuri arcbontes,
ed è, naturalmente, auspicabile per ogni singolo uomo.
Non c’è allora da sorprendersi che Adimanto, frequentatore di Socrate,
debba sapere bene tutto questo per averlo sentito ripetere spesso, e non
solo nella Repubblica. Si era sostenuto nel Gorgia che tutti fanno quello
che fanno in vista del “buono” (to agathon), e questo desiderano, che siano
o meno in grado di identificano correttamente (468b-c). Nel Carmide la
« scienza di ciò che è buono e cattivo » era considerata come la sola in gra
do di recarci vantaggio, ophelein (i74d). E naturalmente nel Protagora era
stata argomentata la celebre tesi “socratica” che nessuno sceglie volontaria
mente (cioè consapevolmente) ciò che è male (quindi inutile e svantaggioso)
in luogo di ciò che è buono, dunque efficace ai fui di una vita felice:
l’errore deriva sempre dall’incapacità di esercitare la «scienza del buono e
del cattivo» (358c s.).
È però vero che in tutti questi passi si parla genericamente del “buono’
to agathon, e non di quella idea del “buono” che secondo la Repubblica deve
costituire la massima conoscenza dei governanti. Anche di essa Adimanto ha
sentito spesso parlare? La risposta a questa domanda solleva una delicata que
stione di metodo interpretativo: essa comporta infatti il necessario ricorso a
un dialogo diverso, un ricorso che non dovrebbe mai venir dato per scon
tato6 e di cui occorre in ogni caso provare la legittimità. Si tratta in questo
caso del fedone, dove viene formulato quel “teorema delle idee” senza la cui
conoscenza Adimanto non sarebbe in grado di comprendere il discorso di
Socrate, e che del resto viene esplicitamente richiamato più avanti (5o7a-b).
non
8$ IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONMATHEMA $9
Molto schematicamente, secondo questo teorema il fatto che molti og
getti diversi possiedano una proprietà comune che può venirne predicata
(x è F, y è f, z è f), comporta l’isolamento (che Aristotele avrebbe definito
ekthesis) di questa proprietà e la postulazione (hypothesis) dell’esistenza di
un ente noetico CD del quale F sia predicabile in modo univoco, stabile e invariante,
che cioè sia perfettamente F e nient’altro che F. La causa del fatto
che x, y, z presentano (sia pure in modo imperfetto, relativo e instabile)
la proprietà F consiste nella loro “partecipazione” (methexis) a CD, o nella
“presenza” (parousia) in essi di CD (che comunque non risulta frammentata
o parcellizzata da questa partecipazione o presenza, costituendo pur sem
pre un’unità noetica di significato rispetto alla molteplicità di x, y, z: cfr.,
ad esempio, Fhaed. ;oob-c).
Non è qui naturalmente il luogo per discutere il senso teorico, del re
sto altamente controverso, di questa “partecipazione” o “presenza”. Su
due aspetti del “teorema” è però necessario insistere brevemente. In pri
mo luogo: la descrizione (o definizione) di CD in quanto perfetta unità di
significato, costituisce il criterio o lo standard per valutare la correttezza
dell’attribuzione della proprietà F alle sue singole, molteplici e parziali
istanziazioni. La conoscenza di che cos’è il giusto in sé (la descrizione o
definizione dell’idea di giusto) è il parametro di riferimento per l’attri
buzione a stati di cose e azioni della proprietà della giustizia o per la sua
negazione; esso serve cioè a “spiegare” perché alcuni oggetti siano giusti
e altri ingiusti. Si tratta, naturalmente, di un criterio e di un parametro
assoluti, perché derivano dalla descrizione di un ente noetico immutabile;
il significato di giustizia non dipende cioè dall’arbitrio di individui o mag
gioranze politiche, come sosteneva secondo Platone il relativismo prota
goreo, ma resta permanentemente e universalmente identico. In secondo
luogo: nonostante alcuni aspetti del linguaggio platonico relativo alle idee
e alloro modo di esistenza e di conoscibilità possano indurre equivoci e
anche tensioni teoriche, le idee stesse
— almeno nell’ambito di fedone e
Repubblica — devono venir concepite come super-oggetti che esistono
a fianco degli oggetti in cui sono istanziate, al modo cioè in cui gli dei esi
stono accanto agli uomini o una mela perfetta nel cesto con le altre mele;
le idee non sono, in altri termini, «i migliori esemplari della loro specie»7.
Un chilogrammo non è un oggetto ma un’unità di misura che consente di
stabilire il peso di mele, pere e così via; allo stesso modo, l’idea di cerchio
non è un cerchio ma ciò per cui tutti gli oggetti che ne condividono le
proprietà sono detti cerchi (Vlastos), e l’idea di giustizia non è un com
portamento giusto o giustissimo (come sostengono Cefalo e Polemarco
all’inizio del libro i), ma ciò che costituisce il criterio per giudicare giusti
o ingiusti i singoli comportamenti.
Sulla base di questo “teorema’ è dunque possibile concludere che l’idea
del “buono” deriva per ekthesis dalla proprietà della bontà istanziata dai
singoli casi di cose buone, e che reciprocamente è per partecipazione a
essa che le cose diventano (cioè possono venir giudicate) buone, cioè utili
e giovevoli, come è chiaramente indicato in 5o5a3-4 ( ccì cctc icaì
icaì cDq.tc yiyvt’rat).
Socrate è perfettamente sicuro che basti “ricordare” ai suoi interlocu
tori (che qui rappresentano probabilmente il primo gruppo accademico)
i lineamenti di questo sviluppo teorico, rinviando in modo implicito al
fedone, per ottenerne il “consenso’ quella homologia che è necessaria al
procedimento dialettico8: «Occorre che mi metta d’accordo con voi, [...]
ricordandovi ciò che si è detto in precedenza e già in molte occasioni»
r&pop&itpit
(507a7-9: too)o vo&[.Lrvo [...] ccd & aw oct JFL& T& r’iv tot pooO
OéÌTa icctì &))om 7r0» ct Eipèvc).
Ecco di che si tratta: «Affermiamo [...] che molte sono le cose belle,
molte le buone, e così per ogni gruppo, definendole nel discorso [...] E
affermiamo che vi è il bello in sé e il buono in sé, e così per tutte le cose che
allora ponevamo come molteplici ora al contrario riportiamo ciascuna di
esse a una singola idea che consideriamo unitaria, e denominiamo “essen
za” [ho estin]» (5o7bz-7).
Che si tratti di un nucleo teorico che permane costante attraverso i dia
loghi è confermato dal fatto che esso viene considerato come un caposaldo
dottrinale, ribadito da Socrate nel libro x e a più riprese attribuito ai pla
tonici da altri interlocutori, come lo Straniero eleate nel Sofista (z46b7-$,
24$all-Iz) e Parmenide nel dialogo omonimo (131a1-3)9.
Applicando il teorema al caso in discussione, si ottiene dunque che
la pluralità delle cose cui viene attribuita la proprietà della bontà rinvia
a un’unica idea, quella del “buono’ che possiede tale proprietà in modo
perfetto e invariante, e che costituisce quindi la “causa”, ovvero il criterio e
la norma di quella attribuzione’°.
E dunque perfettamente giustificata e comprensibile la richiesta di
Glaucone e di Adimanto che Socrate proceda nella discussione sul “buo
no” nello stesso modo in cui aveva trattato, nel libro IV, la giustizia e la
moderazione. Come la prima era stata descritta nei termini della oikeio
pragia, con i corollari etico-politici che ne derivavano, così si dovrebbe fare
j
a
7r)ov7&p
per
t
90 IL POTERE DELLA VERITÀ
MEGISTONMATHEMA
9’
in linea di principio con l’idea di buono, che potrebbe ad esempio venir
definita in termini di felicità, di euprattein (il sintagma con cui si conclude
il dialogo), o altri simili. Ci sarebbe, è vero, un problema teorico ulterio
re, determinato dal fatto che la bontà non si attribuisce soltanto a stati di
cose o a condotte, ma anche, in primo luogo, alle altre idee, il che situa
l’idea di buono in una posizione gerarchica comunque sovraordinata alle
altre (ogni idea sarebbe “prima” per la sua specifica essenza, ma “seconda”
e subalterna in quanto godrebbe in aggiunta a essa della proprietà comune
della bontà).
Non è tuttavia questo il problema teorico che Socrate affronterà in
modo diretto, né è questo il percorso che egli deciderà di seguire nella sua
discussione sul “buono”
L’eccesso di Socrate: il
c1
Duoflo oltre le idee
Che non sia possibile procedere in questa direzione è mostrato dalla ra
pida confutazione cui vengono sottoposte due ipotesi definitorie evocate
dallo stesso Socrate: quella della maggioranza, che riconosce il “buono”
nel piacere (bedone), e quella dei più raffinati (kompsoteroi), che lo identi
fica nella intelligenza (phronesis, ob- 6); questa seconda posizione, rifor
mulata in seguito da Adimanto che sostituisce “scienza” (episteme) aphro
nesis (5o6bz-3), non poteva non apparire molto vicina a quella sostenuta
a più riprese da Socrate in altri dialoghi, e probabilmente dal suo gruppo
“storico”hI.
La prima tesi è respinta sulla base della constatazione che i suoi stes
si assertori devono ammettere che esistono anche piaceri cattivi (kakas,
oc8), come era stato forzato a riconoscere Callide nel Gorgia (499b-c).
La posizione dei “raffinati” è spinta al “ridicolo”, perché essi sostengono,
in modo circolare, che l’intelligenza (o la scienza) di cui parlano sono il
“buono” perché vertono sul “buono” stesso, lasciandolo quindi indefinito
(5o5b-c).
Il senso di questi due etenchoi, troppo succinti per essere convincenti (si
pensi ad esempio alla ben più elaborata discussione sul piacere nel filebo),
dev’essere quello di mostrare, in negativo, che la via di accesso alla com
prensione del “buono” non può essere quella consueta della discussione su
“Che cosa è X?”.
Socrate si rifiuta dunque di trattare del “buono” come ha fatto per la
giustizia e la moderazione, e propone di abbandonare la questione: «La
sciamo dunque andare per ora la questione di che cosa sia mai il buono in
sé; mi sembra troppo, rispetto al fondamento di cui adesso disponiamo,
giungere fino all’opinione che ora me ne sono fatta» (o6d8-e3: cOTÒ 2àV
t( TrOT’ orì t&’cOò octr rà vfn tt’ica — tot ccktrct icccr& -rp
7rcpo?Jowv 6p.d1v i4tKo-8at rot 7E &KOOVtO 4toì r& ,ih,).
Questa celebre formula di reticenza socratica’ deve venire attentamen
te analizzata. Da essa risulta, in primo luogo, che Socrate, almeno per il
momento, dispone intorno al “buono” soltanto di una doxa e non di una
conoscenza epistemica’3 (Socrate ribadisce a più riprese di possedere solo
“pareri”,phainomena, intorno al “buono”, 57b7-8, nonché intorno alla na
tura della dialettica, 533a3-4, ignorando se essi corrispondano al “vero”).
Egli propone comunque di accantonare la discussione perché il compito
di esporre la sua doxa gli sembra per il momento eccessivo, vista la attua
le horme. Il significato di questa doppia restrizione temporale (ta nun,
parousan) è stato molto discusso.
Gli interpreti oralistico-esoterici sostengono che essa si riferisce alla si
tuazione della scrittura, che è in sé stessa inadatta — la sua natura e per
l’impreparazione dei suoi fruitori — esporre i vertici più elevati (timiote
ra) del pensiero filosofico’ (perché, tuttavia, la stessa restrizione, ta nun,
viene riferita alla doxa di Socrate indipendentemente dal fatto che essa
venga esposta o meno?).
Da un punto di vista opposto, si è sostenuto che la restrizione ha un
valore essenzialmente ironico, perché (come meglio vedremo più avanti)
la natura stessa dell’idea del “buono” ne renderebbe impossibile una defi
nizione o addirittura una discussione a livello proposizionale’.
Una possibilità intermedia consiste nel prendere Socrate alla lettera:
si tratterebbe di una provvisoria impasse del pensiero platonico, magari
destinata a venire superata dai suoi successivi sviluppi, come secondo al
cuni interpreti accade nel filebo’6. Resta però da spiegare perché Platone
avrebbe, proprio in questo testo, posto il problema del “buono” solo per
dichiararlo provvisoriamente insoluto.
Una via di uscita da questa seria aporia interpretativa può essere sugge
rita da una riconsiderazione della reticenza socratica nel contesto che le è
proprio, quello dialogico-dialettico. In diverse occasioni, infatti, Socrate
si dichiara perfettamente disposto (hekon) a sviluppare la discussione fin
dove la situazione presente (toparon) lo consente (5o9clo; con gli stessi
91 IL POTERE DELLA VERITÀ j MEGISTONTHE 93
termini Socrate si accinge ad affrontare la questione dei rapporti fra potis
Glaucone
e filosofia in 497e3-4)’7. La reticenza non riguarda perciò tanto la forma
scritta dell’esposizione, né la natura del suo oggetto; nel nostro caso, essa
va addebitata senza dubbio alla inadeguatezza della borme disponibile. In
contesti epistemologici, questo termine non ha il significato psicologico
di “slancio” o “impulso”, bensì quello di “base di partenza” (cfr. 5iib6-7:
TE bCÌ 6pt&; cfr. anche Phaed. ioid4), cioè di fondamento che a
sua volta è costituito, nel contesto dialettico, dalla homotogia, dal consenso
dei dialoganti (cfr. 5iodz-3, 354b4-5, Leg. VII 799dz-3)’8.
Per questa ragione, Socrate teme di esporsi al ridicolo (5o6d8: yDc-rct
àc)uco) con la proposta di un esperimento teorico senza precedenti e de
stinato quindi a suscitare incredulità e dissenso: lo stesso “ridicolo” che
nel libro V, e con gli stessi termini, Socrate prevedeva avrebbe incontrato
con le sue inaudite e controverse proposte sulla condizione femminile e
sul regno dei filosofi (451a1: ‘yÀcrrct àc)tN; cfr. 451a7, 473c7). La man
canza di una base di consenso sulla quale fondare una costruzione di tipo
teorematico, simile a quella che nel libro iv aveva condotto, con la soddi
sfazione dei suoi interlocutori, alla definizione della giustizia, obbliga alla
fine Socrate a ricorrere, per esporre la sua concezione del “buono”, a una
strategia metaforica, come gli è consueto non solo a proposito dei grandi
temi filosofici (i timiotera degli interpreti oralistico-esoterici), ma più in
generale degli argomenti più esposti alla controversia dialettica: è il caso,
nello stesso libro VI, dell’impiego della metafora “nautica” della polis in
teso a giustificare la proposta del governo dei filosofi (questa abitudine
socratica del ricorso alla metafora per ottenere il consenso è ironicamente
sottolineata da Adimanto in 4$7e7).
Alla fine, comunque, e sia pure solo attraverso la metafora solare, la
pressione dei suoi interlocutori costringe Socrate a superare la reticenza
e a esporre la sua doxa intorno al “buono” (5o9c3-4: & rfyK&jiflì T& 4toì
ocofvta lripì ro)yerv).
Come temeva, Socrate si è però esposto in questo modo al ridicolo.
Glaucone, il cui ruolo in tutto il dialogo è quello di rimarcare impieto
samente oscurità o debolezze argomentative, ricorrendo spesso proprio
all’arma del ridicolo, interviene in modo derisorio (509cl:
Che Socrate si senta aggredito dalla risata di Glaucone è confermato dalla
sua immediata reazione, che addossa proprio all’insistenza di Glaucone la
responsabilità della sconcertante proposta teorica sulla natura del “buo
no” (5o9c3: o6 [...] rto; la stessa formula con cui Socrate aveva accusato
di averlo obbligato a formulare la “ridicola” proposta del potere
filosofico in 474a5).
Ma che cosa Glaucone trova intollerabilmente controvertibile, e per
ciò ridicolo, nel discorso socratico sul “buono”? Si tratta della atokt
che gli viene attribuita (5o9c1-z). Questa espressione non può in
alcun modo significare «divina trascendenza» come hanno inteso mol
ti interpreti, ma piuttosto — nonostante una certa ambiguità che, come
vedremo, va considerata intenzionale — «straordinaria esagerazione»10.
Hyperbote vale di norma “eccesso” ed è legato polarmente ai termini che
indicano “difetto’ come endeia ed etleipsishl; l’aggettivo daimonios è usato
dallo stesso Glaucone in relazione al progetto di una teoria dei numeri
armonici (VII 531e5), certo straordinario e inaudito ma per nulla divino,
se Socrate può commentare che esso risulta utile solo se finalizzato alla
ricerca del “buono”, altrimenti resterebbe achreston. Perciò, se è vero, come
sostiene Szlezàk, che hyperbole riecheggia quello hyperecbein, quella su
periorità dell’idea del bene sulla ousia (5o9blo), in cui consiste il ctimax
teorico del discorso socratico, è proprio a essi che si riferisce la pungente
incredulità di Glaucone.
In modo più serio, questa incredulità è riformulata in relazione a due
importanti sviluppi del discorso socratico. A proposito dell’implicito
riferimento al “buono” come principio anipotetico del tutto, cui deve
pervenire la dialettica, Glaucone dichiara di “non comprendere adegua
tamente” (hikanos: forse un riferimento allo hikanon ipotetico di Fhaed.
ioiei) la difficile impresa di cui parla Socrate (51;c3-4). Più esplicitamente,
a proposito dell’intero programma dialettico, Glaucone così ribadisce la
sua perpiessità:
Io accetto tutto questo. Tuttavia mi paiono cose estremamente difficili ad ammet
tersi [apodechesthai] e viceversa, da un altro punto di vista, difficili a non ammet
tersi. Comunque, perché non se ne deve sentir parlare soltanto in questa occasio
ne, ma occorrerà tornarvi sopra più volte, poniamo [thentes] che le cose stiano
come si è detto (vii 53zdz-5).
Come è facile vedere, si tratta di una chiara indicazione che gli sviluppi teo
rici che occupano i libri VI e VII del dialogo richiedono un’ulteriore discus
sione (nell’Accademia?), e che i loro risultati vanno considerati provvisori.
Ciò si deve, come già si è accennato, al fatto che essi forzano i limiti e
i vincoli della teoria delle idee, che è invece oggetto di homotogia. Questa
— o8blo
quindi
94 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONMATHEMA 95
eccedenza — che risponde del resto, come vedremo, a esigenze teoriche
imprescindibili nel contesto della Repubblica — è segnalata, nei passi sull’i
dea del “buono”, dall’infittirsi di allusioni di tipo religioso. A proposito
del sole, si parla naturalmente di “dei del cielo” (5o$a4), e l’ambito solare
riecheggia nell’esclamazione “Apollo!” attribuita a Glaucone (509cl)”;
la discendenza del sole dal “buono” ha una risonanza quasi teogonica
(5o8bh-i3), e la stessa ingiunzione euphemei rivolta a Glaucone che evoca
la possibilità di identificare il “buono” con il piacere suona come un invito
a non bestemmiare la divinità. Altrettante indicazioni, queste, che pos
sono avere una doppia valenza: segnalare, da un lato, che il discorso si sta
muovendo sul crinale sottile fra argomentazione teorica e mito, dall’altro
che la prospettiva filosofica delineata va a occupare uno spazio di tradizio
nale pertinenza religiosa’.
La metafora solare e le funzioni del “buono”
Socrate decide dunque di parlare del “buono” non direttamente, ma attra
verso la metafora del sole, “prole” (engonon) che il “buono” stesso ha gene
rato come proprio anatogon nel mondo “visibile”, mentre esso appartiene
a quello noetico (5o8bh-cz).
Questa “generazione” è a sua volta naturalmente metaforica, non essen
do possibile concepire la derivazione diretta di un oggetto empirico da un
ente noetico. Il rapporto padre-figlio significherà dunque un’analogia di
posizione e funzioni dislocate però in due sfere di diverso valore e consi
stenza ontologica, la superiore occupata dal “padre”, l’inferiore dal “figlio”.
Da questa situazione originaria della metafora derivano immediata
mente due conseguenze, che ne caratterizzano l’intero sviluppo.
La prima: il discorso sull’explicans, il sole, non dice mai che cosa
esso è, bensì ciò con cui non va identificato: la luce, la visione, l’occhio
(o$aiI ss.), la generazione degli oggetti naturali (5o9b4: questo costi
tuisce un’aporia, perché il sole è a sua volta un oggetto empirico, visibile
—, deve appartenere a sua volta all’ambito della genesis).
Del sole vengono piuttosto descritte le funzioni, ciò che esso fa nella sfe
ra che gli è propria’4. Questa curvatura del discorso sul sole si riflette in
quello sull’explicandum, il “buono” (e viceversa ne risulta implicitamente
governata). Anche la determinazione del “buono” si caratterizza, come vedremo,
in termini negativi, e soprattutto come una aitiotogia, un’analisi
delle sue funzioni causali, piuttosto che come una descrizione di ciò che
eSSO è di per sé stesso’5.
La seconda conseguenza è anche più rilevante. La partizione di campi
fra sole e “buono” confina quest’ultimo nella sfera noetica; non è dun
que in questione, nell’ambito metaforico, il suo rapporto con quella em
pirica. Ora, è propriamente in quest’ultima che il “buono”, esattamente
come il giusto e il bello, è causa, per partecipazione, dell’attribuzione del
la proprietà di esser buone (giuste, belle) a cose e azioni. Nella sfera
tica, la causalità del “buono” deve essere naturalmente riferita soltanto
alle idee, e nei loro riguardi, come vedremo, esso non è immediatamente
causa di bontà bensì di altre proprietà che sono comuni a tutte le idee in
quanto tali.
Veniamo dunque schematicamente alla struttura della metafora’. Il
sole è origine della luce (5o8b9) e tramite essa è condizione di possibilità
della visione, il rapporto che connette l’occhio agli oggetti visibili (5o9a).
Il sole inoltre, grazie presumibilmente al calore che emana, è causa della
generazione (genesis), della crescita e del nutrimento degli oggetti visibili,
cioè appartenenti al mondo della natura (5o9b3-4).
Trasferita all’ambito noetico, la prima parte della metafora illustra la
struttura del rapporto conoscitivo. Il “buono” conferisce agli oggetti della
conoscenza (le idee) verità ed essere, -r aì -rà v (o8d). Il nes
so m ... icttL ricorrente nei passi che stiamo analizzando, indica la stretta
connessione fra i due termini: la verità risulta una proprietà ontologica
dell’essere delle idee (nel senso, probabilmente, di autoidentità), e a sua
volta questo essere è primariamente esser-vero (perfettamente conoscibile
nelle sue proprietà invarianti). Per il polo soggettivo della conoscenza il
“buono” è causa di scienza e verità, [...] iccd & i8r(c (5o8e3), °
anche dirci TE ccì Gra (o$e). Qui la verità del conosciuto è la
condizione di possibilità dello statuto epistemico della conoscenza, che
è normalmente in Platone determinato dal suo oggetto. Fin qui, la “spie
gazione” metaforica può venire interpretata in modo piuttosto lineare.
Come il sole, mediante la luce, è la condizione di possibilità della visione,
così il “buono” lo è della conoscenza. Questo è direttamente conciliabile
con il valore semantico di to agathon. Si può pensare che l’intenzionalità
conoscitiva (a tatere subjecti) sia causata dal fatto che le idee sono buone a
conoscersi, quindi desiderabili, e che buona e desiderabile è la conoscenza
stessa’7. A tatere objecti, le idee presentano, in aggiunta alle loro specifiche
non-essente
96 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONTHE 97
proprietà essenziali (l’esser-giusto, l’esser-bello, l’esser-quadrato), anche
proprietà comuni, in primo luogo l’esser-vero che esse derivano dal “buo
no”: è la loro verità che costituisce mediatamente la loro bontà, cioè l’esse
re desiderabili come oggetti di conoscenza.
In quanto condizione di conoscenza, scienza e verità, 11 “buono” non
sarà identificabile con esse (o8e5, 5o9a6-7), ma a esse ancora superiore
per “valore” (timeteon, 5o9a5) e “bellezza” (kattos, 5o9a6): la sua superio
rità rispetto alla sfera conoscitiva appartiene dunque, in accordo con la
semantica di to agathon, non all’ordine epistemico-ontologico ma a quello
della valorizzazione.
La seconda parte della metafora solare induce tuttavia uno sviluppo
che eccede almeno a prima vista questo orizzonte. Come il sole è condizio
ne della generazione degli oggetti “visibili”, così dal “buono” quelli noetici
derivano (pareinai) non solo l’esser conosciuti ma anche tò Eivct( TE icctì rìpì
oi)oLa’ (5o9b6-7): l’essere e l’essenza, cioè il modo di essere proprio delle
idee, che esistono in quanto essenze (perciò, di nuovo, in quanto vere)18.
Va notato che risulta in questo modo escluso che le idee siano noemata
prodotti dall’intenzionalità conoscitiva, benché esse ne rappresentino co
munque la polarità “passiva” (cfr. Soph. 248ez-4).
In ogni caso, essendo condizione dell’esistenza delle idee in quan
to idee, il bene risulta ulteriore rispetto alla ousia che costituisce il pia
no ontologico delle idee: è dunque tvctt ooia (5o9b9), ma lo è
ancora una volta nell’ordine della valorizzazione, per “dignità e potenza”
(7rptti ccì inrtpxovto).
Prima di discutere le conseguenze derivanti allo statuto ontologico ed
epistemologico dell’idea del “buono” da questa sua collocazione ulteriore
rispetto al piano della ousia (il modo d’essere delle idee)29, è opportuno
affrontare due paradossi che emergono dagli sviluppi della metafora sola
re. Il primo consiste nel fatto che le idee, enti per definizione ingenerati,
derivano però dal “buono” “essere ed essenza’ equivalenti alla genesis del
mondo empirico. Questo paradosso è forse più apparente che reale, perché
le idee non vengono comunque “generate” come le cose; poiché il loro
modo di essere in quanto essenze consiste primariamente nella verità e
nell’invarianza, sono queste proprietà che esse derivano dal “buono’ e che
garantiscono la loro peculiare “esistenza” in quanto norme e paradigmi°.
La “generazione” delle idee non consiste dunque nel passaggio dalla nonesistenza
all’esistenza, ma nel compimento del rapporto conoscitivo fra
polarità soggettiva e oggettiva.
Il secondo paradosso è più serio e rappresenta in un certo modo una
riformulazione del primo. Poiché il “buono” non è immediatamente causa
di “bontà” per le idee ma piuttosto di essere e verità, questa idea non do
vrebbe venir chiamata auto to agathon ma auto to atethes, o meglio ancora
at#o to on: questa espressione designa però, nel Sofista (z58b), piuttosto
uno dei “generi” più estesi che un’idea in senso stretto. Che l’idea del
“buono” sia causa di proprietà che non le pertengono in modo specifico, a
differenza di quanto accade per le altre idee come “giusto”, “bello” o “gran
de”, rappresenta una chiara violazione del teorema delle idee formulato
nel fedone. Questo pone, da un lato, il difficile problema teorico di come
sia pensabile la forma di causalità del “buono’ e dall’altro quello del suo
statuto in quanto idea di tipo anomalo. Su questo aspetto occorre ora ri
volgere l’indagine.
Lo statuto onto-epistemologico dell’idea del “buono”
In quanto causa (fondamento e condizione) della conoscenza e dell’essere,
l’idea del “buono” non può che risultare “al di là’ superiore, rispetto all’u
na e all’altro. Significa questo che essa è “trascendente” rispetto all’essere e
alla conoscenza, quindi — secondo un’inferenza tipicamente neoplatoni
ca — e perciò non conoscibile?
La risposta a questa domanda, come ha recentemente dimostrato Bal
tes, non può che essere negativa31.
Che il “buono” non possa venir considerato come esterno all’ambito
dell’essere è segnalato, in primo luogo, dal fatto che esso è a più riprese
designato come un’idea (oaz, 5o8e3, 517cl, z6el, 534cl). Non credo,
come è stato talvolta sostenuto, che sia possibile reperire nel linguaggio
platonico una netta differenza di ordine ontologico fra idea ed eidos,
termine che non viene mai riferito al “buono”; se questo uso lessicale non
è casuale, esso può significare al più che il “buono” è un’idea il cui statuto
è diverso rispetto a quello degli eide di tipo standard, ma la differenza non
può comunque giungere fino a considerano trascendente rispetto all’es
sere, ciò che non è mai indicato in Platone dal termine idea. L’apparte
nenza dell’idea del “buono” al campo dell’essere, e insieme l’eccezionalità
della sua condizione, sono del testo segnalate in numerosi luoghi del te
sto. Essa è descritta come ciò che vi è di più luminoso (phanotaton, 518c9)
e di più felice (eudaimonestaton, 526e3-4) nell’ambito dell’essere, come
9$
IL POTERE DELLA VERITÀ
MEGISTONTHE 99
il migliore (ariston) fra gli enti (532c6). Il linguaggio di questi passi in
dica in modo inequivocabile come l’eccedenza del “buono” rispetto agli
altri enti (ideali e no) non sia di ordine ontologico ma piuttosto assiolo
gico (come tetos e condizione di conoscenza e felicità) e anche estetico.
La forte valenza etico-estetica del “buono” è del resto sottolineata negli
straordinari passi conclusivi del filebo, dove al termine dell’indagine ci
si avvede che «la potenza {dynarnis] del buono si è rifugiata nella natura
del bello» (64e), e che dunque per circoscriverla non basterà una sola
idea ma occorrerà ricorrere a tre caratteristiche, «bellezza, proporzione
e verità» (6a).
La luminosità e la verità del “buono” rinviano inoltre all’ambito della
conoscenza, cui esso appartiene in modo eminente come a quello dell’es
sere. Che il “buono” sia conoscibile è indicato fin dal principio dalla sua
condizione di idea e (quindi) di mathema, oggetto di conoscenza (5o5a1),
e lo conferma implicitamente l’analogia con il sole, il quale è insieme con
dizione e oggetto della visione (5o8blo). L’idea del “buono” appartiene
dunque al campo del conoscibile (gnoston), benché si collochi al suo limite
estremo (teteutaia) e dunque sia visibile solo con difficoltà (5i7b8 s.); essa
è situata al tetos del noetico (53zbz), il che significa insieme il compito del
processo conoscitivo, la realizzazione del suo fine ultimo e il suo limite
estremo.
L’idea del “buono” non trascende dunque la conoscenza, come non
trascende l’essere, ma anche in questo caso ha una posizione eccedente ri
spetto a tutti gli altri oggetti di conoscenza. Questo pone comunque un
problema ulteriore: la non appartenenza del “buono” al piano della ousia
impedisce, in linea di principio, che la sua conoscenza possa venir esaurita
nel logos tes ousias, nella definizione di essenza che è propria delle altre idee.
È vero che in 534b8 Socrate afferma che il dialettico deve procedere per il
“buono” in modo simile (hosautos) a quanto fa per le altre idee, delle quali
comprende il logos tes ousias. La somiglianza deve tuttavia venire limitata
all’opposizione fra il procedimento dialettico e quelli non-dialettici, ad
esempio matematici; questo non esclude che il dialettico si comporti nei
riguardi dell’idea del “buono” in modo diverso rispetto alle altre. Sembra
confermarlo la descrizione del suo procedimento come eminentemente
critico-negativo (534b-c), e della sua apprensione di auto ho estin agathon
come atto puramente noetico (53zb1: &vr
Di tutto questo si dovrà discutere altrove (cfr. qui CAP. io). Occorre ora
trarre qualche conclusione sul senso della collocazione del “buono” non
all’esterno ma all’estremo limite della conoscenza e dell’essere, il che ne fa
certamente un vertice “terzo” rispetto all’una e all’altro (come ha sostenu
to, parzialmente a ragione, Ferber)34.
La supremazia fra gli enti (in senso etico, estetico, veritativo) esclu
de intanto che il “buono” possa venir considerato in senso estensiona
le come equivalente alla totalità o all’insieme degli enti stessi. Se X è
migliore di A, B, C, non si può dire che X A + B + C. Detto in al
tri termini, il “buono” non entra nel logos tes ousias di nessun’altra idea,
ed è certamente meno esteso dell’essere, altrimenti si giungerebbe alla
conclusione, assurda in Platone, che ogni ente (ideale o no) è buono in
quanto tale. Va ricordato a questo proposito che la prima mossa del pro
cedimento dialettico rivolto alla conoscenza del “buono” è di tipo nega
tivo, consiste cioè nel “distinguere” e nel “mettere a parte” (diorisasthai,
aphairein) il “buono” da tutte le altre idee (534b9 ss.) — un’operazione
che non avrebbe senso se compiuta ad esempio nei riguardi dei megista
gene del Sofista.
Il “buono” non è perciò “elemento” o “genere” delle idee e degli enti
in generale, come il sole non lo è di ciò di cui è condizione di crescita. È
certamente vero che il buono in sé (auto to agathon), così separato dagli
enti nella sua collocazione oltre la ousia e al limite dell’essere, è l’origine
di quella bontà residuale (atto agathon, 534c5) che può venire attribuita
alle idee e agli enti in generale (questo è il caso classico in cui la conoscen
za di cI permette l’attribuzione di F a enti diversi, cioè la comprensio
ne del “resto del buono”). La non-identità del “buono” con l’essere delle
idee (di cui è causa e condizione) esclude la possibilità di considerare gli
enti come dotati di valore in quanto tali, e rende inoltre problematica
la riduzione del “buono” all’Uno che alcune testimonianze aristoteliche
attribuiscono all’Accademia platonica. E probabile che questa riduzio
ne (come quella analoga discussa nel fitebo al “limite” e alla “misura”)3
sia stata sperimentata all’interno dell’Accademia nel tentativo di offrire
una risposta teoricamente lineare alla domanda “Che cosa è il buono’ do
manda che nel contesto della Repubblica non sembra suscettibile, come si
è detto, di una risposta formulabile in termini di logos tes ousias. Ma dire
che il “buono” l’Uno significa compiere uno spostamento semantico
non giustificato in questo contesto8, e comporta o di accettare l’equie
stensione aristotelica di Uno ed essere, e quindi tornare per questa via a
una valorizzazione poco plausibile di tutti gli enti in quanto tali, negan
do l’ulteriorità e la separatezza del “buono’ o di rifiutarla alla maniera
100 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTON’L4THEM4 Io’
neoplatonica, e allora il problema del rapporto Uno-molti reduplica, in
altro e meno pertinente linguaggio, quello del rapporto fra il buono in sé,
l’essere e la ousia.
Molti di questi problemi sono tematizzati nella critica aristotelica all’i
dea del “buono” in Etica Nicomachea i 4. Se il “buono” si dice negli stessi
modi dell’essere, allora dovrebbe comparire in primo luogo nella categoria
della sostanza, risultando identificabile sostantivamente come “il dio e il
pensiero” (1o96a15); ma il “buono” platonico ovviamente non è ousia e
quindi neppure un principio cosmo-teologico come il primo motore im
mobile cui Aristotele qui allude. La separatezza del “buono” platonico fa
invece sì, secondo Aristotele, che a esso non ineriscano i “beni” effetti
vamente perseguiti e desiderati, e che viceversa esso non inerisca a questi
beni destituendoli dunque di valore; ma se è così, l’idea del “buono” risul
ta vuota e vana (mataion, 109 6bio), impossibile da praticare e possedere
(prakton oude kteton, 1o96b33 s.): che il “buono” non sia ousia ne esclude
infatti proprio questo carattere patrimoniale. Neppure il “buono” può
fungere da orizzonte di riferimento, paradergna, per i beni che si possono
praticare e possedere: medici e generali non ne fanno, né potrebbero far
ne, alcun uso nel perseguire i beni propri alle loro tecniche, la salute e la
vittoria (1o97a1 ss.). Qualcosa di più persuasivo, aggiunge Aristotele, sem
brano dire i pitagorici e Speusippo° (non dunque il Platone della Repub
blica discusso in questo passo), quando pongono l’uno nella systoichia dei
beni (io9 6b5 ss.), ma la discussione aristotelica in proposito è purtroppo
rinviata a un’altra occasione.
La critica aristotelica è preziosa perché conferma, in negativo, la sepa
ratezza del “buono” in Platone, la sua non equiestensione all’essere, la sua
differenza rispetto alla ousia e anche all’Uno.
Considerazioni analoghe si possono fare intorno alla collocazione del
“buono” al limite estremo del campo conoscibile. Possedendo in massimo
grado la “luce” dell’esser-vero, il “buono” è certamente conoscibile. La sua
conoscenza — che non può venire conclusa nell’enunciazione di un togos
tes ousias — è tuttavia difficile, richiede un lungo percorso attraverso i saperi,
presume il lavoro critico-negativo della confutazione dialettica. Se
il “buono” fonda la scienza, non può tuttavia probabilmente essere pos
seduto alla maniera dei suoi teoremi, e la sua conoscenza coincide forse
con la stessa dynamis tou diategesthai, la “potenza del discorrere dialettico”
(5;ib4, 533a$). Quest’ultima è dal canto suo in stretto rapporto con un’al
tra dynamis, quella del “buono” stesso.
La potenza del “buono”
La problematica eccedenza del “buono” rispetto all’essere e alla conoscen
za deve comunque venire pensata nella sua modalità specifica: Platone
descrive il rapporto fra causa e causato asserendo che il “buono” è al di là
(epekeina) della ousia per presbeia e dynamis (5o9b9), “dignità e potenza
I due termini evocano nel loro insieme una posizione di regalità, che è ri
presa infatti dal basiteuein del “buono” noetico in 5o9d1 (è il caso di ricor
dare che lo stesso verbo descrive il potere dei filosofi in v 473c11: l’idea del
“buono” è dunque l’equivalente ontologico del governo filosofico in poli
tica, ovvero quest’ultimo ne è per così dire il rappresentante nella storia).
li “buono” sovrasta (hyperechein) dunque il piano delle idee e della co
noscenza per la sua dynamis (per il sintagma i io &y8of. vcq.u, cfr. Phit.
64e5). il termine non vale qui certamente “facoltà” ma capacità di causa
zione, potenzialità di produrre (e subire) effetti e nessi relazionali’. Che il
“buono” assuma, nella sua ulteriorità rispetto alle idee, la configurazione
di una dynamis, ha rilevanti conseguenze in ordine alla sua comprensio
ne. Sappiamo infatti, da un passo importante del libro v, che è impossi
bile “definire” (diorizesthai) una dynamis, e che essa va compresa a partire
dall’oggetto cui si applica e dagli effetti che produce (477di: èC’ 4 TE QT1
ccì 6 7rEpyErat). Se è così, il modo corretto di porre la questione intorno
all’idea del “buono” non consisterà nel chiedersi “Che cosa è” (cioè nel
tentare un’impossibile definizione enunciandone il togos tes ousias), bensì
“Che cosa fa’ quali effetti produce una volta che sia stato delimitato il
luogo onto-epistemologico che essa occupa (ai limiti estremi dell’essere e
del pensabile), la funzione causale che svolge e gli oggetti ai quali prima
riamente si riferisce (le idee). Quali sono dunque gli effetti prodotti dalla
dynamis del “buono”? Possiamo, per semplicità di analisi, distinguerne
una classe negativa e una positiva.
La prima è chiaramente implicata dal “maggior valore” che il “buono”
presenta rispetto a scienza, verità e ousia (5o9a4-5), ed è resa esplicita dal
primo movimento della “potenza” dialettica, che consiste nel “toglier via”
(aphairein) l’idea del “buono” da tutte le altre (534b9), negando così la
possibilità di identificare le seconde con la prima. In altri termini, ciò si
gnifica che nessuna idea, nessun sistema della conoscenza o stato di cose
è tale da poter esaurire in sé il “buono”: essi ne possono partecipare (co
stituendo così qualcosa che appartiene al “resto del buono’ alto agathon,
534c5) ma non lo possiedono nella sua interezza. L’orizzonte assoluto di
100 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTON MATHEMA
101
neoplatonica, e allora il problema del rapporto Uno-molti reduplica, in
altro e meno pertinente linguaggio, quello del rapporto fra il buono in sé,
l’essere e la ousia.
Molti di questi problemi sono tematizzati nella critica aristotelica all’i
dea del “buono” in Etica Nicomachea I 4. Se il “buono” si dice negli stessi
modi dell’essere, allora dovrebbe comparire in primo luogo nella categoria
della sostanza, risultando identificabile sostantivamente come “il dio e il
pensiero” (1o96a15); ma il “buono” platonico ovviamente non è ousia e
quindi neppure un principio cosmo-teologico come il primo motore im
mobile cui Aristotele qui allude. La separatezza del “buono” platonico fa
invece sì, secondo Aristotele, che a esso non ineriscano i “beni” effetti
vamente perseguiti e desiderati, e che viceversa esso non inerisca a questi
beni destituendoli dunque di valore; ma se è così, l’idea del “buono” risul
ta vuota e vana (mataion, Io96bzo), impossibile da praticare e possedere
(prakton oude kteton, io96b33 s.): che 11 “buono” non sia ousia ne esclude
infatti proprio questo carattere patrimoniale. Neppure il “buono” può
fungere da orizzonte di riferimento, paradeigma, per i beni che si possono
praticare e possedere: medici e generali non ne fanno, né potrebbero far
ne, alcun uso nel perseguire i beni propri alle loro tecniche, la salute e la
vittoria (1o97a1 ss.). Qualcosa di più persuasivo, aggiunge Aristotele, sem
brano dire i pitagorici e Speusippo° (non dunque il Platone della Repub
blica discusso in questo passo), quando pongono l’uno nella systoichia dei
beni (1o96b5 ss.), ma la discussione aristotelica in proposito è purtroppo
rinviata a un’altra occasione.
La critica aristotelica è preziosa perché conferma, in negativo, la sepa
ratezza del “buono” in Platone, la sua non equiestensione all’essere, la sua
differenza rispetto alla ousia e anche all’ Uno.
Considerazioni analoghe si possono fare intorno alla collocazione del
“buono” al limite estremo del campo conoscibile. Possedendo in massimo
grado la “luce” dell’esser-vero, il “buono” è certamente conoscibile. La sua
conoscenza — che non può venire conclusa nell’enunciazione di un togos
tes ousias — è tuttavia difficile, richiede un lungo percorso attraverso i saperi,
presume il lavoro critico-negativo della confutazione dialettica. Se
il “buono” fonda la scienza, non può tuttavia probabilmente essere pos
seduto alla maniera dei suoi teoremi, e la sua conoscenza coincide forse
con la stessa dynamis tou dialegesthai, la “potenza del discorrere dialettico”
(5iib4, 533a8). Quest’ultima è dal canto suo in stretto rapporto con un’al
tra dynamis, quella del “buono” stesso.
La potenza del “buono”
La problematica eccedenza del “buono” rispetto all’essere e alla conoscen
za deve comunque venire pensata nella sua modalità specifica: Platone
descrive il rapporto fra causa e causato asserendo che il “buono” è al di là
(epekeina) della ousia per presbeia e dynamis (5o9b9), “dignità e potenza”.
I due termini evocano nel loro insieme una posizione di regalità, che è ri
presa infatti dal basileuein del “buono” noetico in o9dz (è il caso di ricor
dare che lo stesso verbo descrive il potere dei filosofi in V 473c11: l’idea del
“buono” è dunque l’equivalente ontologico del governo filosofico in poli
tica, ovvero quest’ultimo ne è per così dire il rappresentante nella storia).
Il “buono” sovrasta (hyperechein) dunque il piano delle idee e della co
noscenza per la sua dynamis (per il sintagma toD &yaOot) cfr. Fhil.
64e5). Il termine non vale qui certamente “facoltà” ma capacità di causa
zione, potenzialità di produrre (e subire) effetti e nessi relazionali’. Che il
“buono” assuma, nella sua ulteriorità rispetto alle idee, la configurazione
di una dynamis, ha rilevanti conseguenze in ordine alla sua comprensio
ne. Sappiamo infatti, da un passo importante del libro v, che è impossi
bile “definire” (diorizesthai) una dynamis, e che essa va compresa a partire
dall’oggetto cui si applica e dagli effetti che produce (477d1:‘ c
cì 6 &irsp-y&ttat). Se è così, il modo corretto di porre la questione intorno
all’idea del “buono” non consisterà nel chiedersi “Che cosa è” (cioè nel
tentare un’impossibile definizione enunciandone il logos tes ousias), bensì
“Che cosa fa”, quali effetti produce una volta che sia stato delimitato il
luogo onto-epistemologico che essa occupa (ai limiti estremi dell’essere e
del pensabile), la funzione causale che svolge e gli oggetti ai quali prima
riamente si riferisce (le idee). Quali sono dunque gli effetti prodotti dalla
dynamis del “buono”? Possiamo, per semplicità di analisi, distinguerne
una classe negativa e una positiva.
La prima è chiaramente implicata dal “maggior valore” che il “buono”
presenta rispetto a scienza, verità e ousia (5o9a4-5), ed è resa esplicita dal
primo movimento della “potenza” dialettica, che consiste nel “toglier via”
(aphairein) l’idea del “buono” da tutte le altre (534b9), negando così la
possibilità di identificare le seconde con la prima. In altri termini, ciò si
gnifica che nessuna idea, nessun sistema della conoscenza o stato di cose
è tale da poter esaurire in sé il “buono”: essi ne possono partecipare (co
stituendo così qualcosa che appartiene al “resto del buono”, alto agathon,
534c5) ma non lo possiedono nella sua interezza. L’orizzonte assoluto di
motivata
e
I0Z IL POTERE DELLA VERITÀ
yEGISTON MATHEMA 103
valore resta ulteriore alla verità della scienza e anche a formazioni etico
politiche come una eventuale ka1tzo1is: tutto ciò può essere “simile al buo
no” (agathoeides, come scrive Platone con un efficace neologismo, 509a3)
ma è diverso dal “buono” stesso e risulta dunque non autofondato dal pun
to di vista del valore. Questo vale senza dubbio anche per il mondo nel SUO
insieme: l’idea del “buono” è il fondamento del valore ma non la garanzia
della sua presenza nel mondo, e non costituisce dunque né il principio di
una onto-teologia né tanto meno di un provvidenzialismo immanentistj
co41. Da questo punto di vista, è vero che 11” buono” non è causa del male
(ii 379b15 s., vii 517c), ma ciò non significa, com’è ovvio, che il male sia
provvidenzialisticamente assente dal mondo.
L’ulteriorità dell’idea del “buono” rispetto al piano dell’esistente tan
to noetico-ideale quanto storico-empirico determina dunque un punto di
vista critico-negativo che segnala l’infondatezza assiologica dell’esistente
stesso, l’impossibilità che un qualsiasi suo stato pretenda il possesso o la
realizzazione esaustiva del “buono”
Dall’altra parte, però, è proprio la dynamis del “buono” a produrre ef
fetti nei quali è riconoscibile il “resto del buono’ la sua presenza mondana,
dando così luogo a un movimento costruttivo-positivo.
In primo luogo, essa produce conoscenza e verità, cioè scienza come
luogo nel quale l’una e l’altra si incontrano; è “signora” (kyria) di pensiero
(nous) e del suo contenuto, atetheia (517c4). Questo significa che l’idea
del “buono” è causa dell’intenzionalità conoscitiva perché presenta la ve
rità conoscibile come buona, cioè desiderabile ed efficace al fine di una
vita felice. L’intenzionalità conoscitiva stabilisce un nesso che connette
una polarità soggettiva
— dalla bontà della verità — una polarità
oggettiva, costituita dall’esistenza immutabile delle idee. L’idea del “buo
no” è la condizione di questo nesso fra conoscenza, verità ed esistenza
noetica.
C’è un ulteriore effetto positivo, produttivo, dell’idea del “buono”.
Essa conferisce valore (quindi desiderabilità ed efficacia) alle idee in quan
to norme etico-politiche (perciò, in ultima istanza, conferisce loro esisten
za in quanto norme). Il “buono” è il principio e il fondamento dell’intero
sistema dei paradigmi e modelli regolativi delle condotte private e pub
bliche: esso è infatti in ogni caso «la causa di tutto ciò che vi è di retto
e di bello» e a esso deve riferirsi chiunque «intenda agire saggiamente
[emphronos] sia nella vita privata sia in quella pubblica» (517c). In quanto
dotata della massima verità (atethestaton) normativa, l’idea del “buono”
costituisce, come si è visto, il canone di riferimento per le norme legislative
(nornirna) relative alla giustizia e alla moralità (4$4c9 ss.).
Se nell’ambito dell’intenzionalità conoscitiva l’idea del “buono” era la
condizione di possibilità della scienza, in quello etico-politico essa appare
dunque piuttostO la garanzia di validità della opinione vera (atethes doxa)
che governa le condotte giuste nella dimensione storica della comunità
umana.
Per lapraxis, tanto conoscitiva quanto etico-politica, l’idea del “buo
no” funge dunque come tetos e causa finale, principio di desiderabilità di
scienza e giustizia; ma al tempo stesso anche come causa efficiente genera
trice di verità e normatività del campo noetico.
La dynarnis del “buono” si estende dunque su di una complessa gamma
di effetti, critico-negativi da un lato, positivo-produttivi dall’altro. Essa si
presenta certamente in questo modo come il correlato oggettivo del lavo
ro della dialettica filosofica. Reciprocamente, il suo problematico statuto
onto-epistemologico, che ne rende la conoscenza per principio più diffici
le di quella delle altre idee, rende parimenti problematico lo statuto meto
dologico e cognitivo della dialettica stessa, come Glaucone non manca di
rilevare nel libro Vii (53zd-e: cfr. qui CAP. io).
Quanto più ampia e complessa è la gamma degli effetti della dynamis
del buono, tanto più profonda risulta la trasgressione rispetto al teorema
delle idee introdotta nella sua discussione nel libro vi, e tanto più “straor
dinaria” la hyperbote che le viene riconosciuta, secondo le parole di Glau
cone. C’è da chiedersi, a questo punto, perché Platone — nell’assenza,
almeno provvisoria, di una adeguata borme, di una condizione di homoto
gia dialettica — abbia deciso di tentare il difficile esperimento consistente
nell’attribuire al “buono” non solo una funzione di norma e di tetos, ma
anzi principalmente di fondazione metaideale e metaepistemica, dalla
quale quella funzione è derivata solo in seconda istanza.
Poiché questo ruolo eccedente del “buono” compare solo nella Repub
blica, e anzi solo nei suoi libri centrali, la risposta va senza dubbio cerca
ta nello specifico contesto dialogico, secondo il principio metodico della
Kontextbezogenheit. Da questo punto di vista, è chiaro che nella strate
gia argomentativa della Repubblica risulta di vitale importanza che la na
tura onto-epistemologica delle idee nel loro insieme (prescindendo cioè
dall’essenza specifica di ognuna) sia fondata su di un principio di valore,
quale è appunto to agathon. Le idee esistono e sono vere in quanto prodot
te da questo principio, che per la propria stessa natura le rende inoltre utili,
104 IL POTERI DELLA VERITÀ
vantaggiose, desiderabili, perciò fruibili come norme e criteri per la valu
tazione e l’orientamento della condotta etico-politica. La destinazione dei
filosofi al potere appare legittimata dal fatto che essi soltanto, a differenza
dei politici e dei loro consiglieri sofisti, possono fare riferimento
— fonda
to sulla conoscenza dialettica — a questo principio supremo di verità e di
valore, o di verità del valore.
L’esigenza antiprotagorea di una fondazione etica assoluta, che sfugga
al rischio della arbitrarietà e della mutevolezza delle opinioni individua
li e collettive, è spinta da Platone fino al punto “iperbolico” di fare del
“buono” stesso il fondamento dell’essere e della verità delle idee, e dunque
anche della scienza e della conoscenza in generale. Nel triangolo formato
da etica, ontologia ed epistemologia, che caratterizza lo stile di pensiero
proprio di Platone, il ruolo fondativo del “buono” costituisce la garanzia
del primato del vertice etico, come è richiesto dal contesto di un dialogo
sulla giustizia e sul potere giusto quale è la Repubblica6.
Il costo teorico di questa operazione è certamente elevato. Da un lato,
l’idea del “buono” è descritta come causa di proprietà diverse dalla bontà,
quali la verità e l’essere; dall’altro, la sua collocazione “al di là della ousia”
ne mette in questione lo stesso statuto di idea, e con esso la possibilità della
dialettica di offrirne la definizione d’essenza. Tutte queste aporie suscitano
tanto il dubbio metodico di Glaucone quanto le reticenze di Socrate, la sua
“provvisoria” incapacità di superarlo con risposte teoricamente esplicite.
Non c’è dubbio che Platone stesso, e la discussione accademica, abbia
no a più riprese affrontato queste difficoltà, esplorando diverse possibilità
di soluzioni teoricamente più controllabili. Il fitebo sembra concepire il
“buono” piuttosto come una struttura di ordine e simmetria immanente
all’ambito ontologico del “misto’ un principio di limite forse non dis
simile, come si è detto, dagli esperimenti teorici che nelle dottrine non
scritte portavano a concepirlo come “principio” e/o “elemento” di uni
tà nel molteplice. Per altri aspetti, come mostra il Sofista, l’elaborazione
platonico-accademica sembra essersi mossa nella direzione di rescindere
o almeno di allentare gli stretti vincoli con i quali la Repubblica aveva ten
tato di connettere fondazione ontologica, principio di valore e metodo
dialettico.
Ma questo inaudito sforzo di unificazione fra le tre dimensioni era co
munque destinato a diventare, dalla critica aristotelica nell’Etica eudemia
e nella Nicomachea, fino alle ardite elaborazioni metafisiche dei neoplato
nici, un terreno aperto di scontro teorico e di esercizio ermeneutico. Lo
MEGISTONJTHE 105
è ancora per noi, e questa “apertura” è probabilmente legittimata dall’in
trinseca problematicità, dalla polisemia teorica del testo della Repubblica.
Come si è cercato di indicare, ci sono tuttavia limiti al pluralismo in
terpretativo e alla gamma delle opzioni esegetiche: essi consistono nel ri
spetto del contesto del dialogo, dell’intenzione complessiva che domina
le sue strategie teoriche, dell’udienza e degli scopi peculiari ai quali era
destinato. Se questi limiti vengono violati, la legittima apertura delle inter
pretazioni diventa arbitrio ermeneutico, applicazione riduttiva di schemi
di lettura allogeni che cancellano la specificità del dialogo e ne dissolvono
la straordinaria, benché problematica, potenza filosofica: la dynamis, in
somma, non tanto del “buono” quanto della dialettica.
Note
i. Th agathon è un aggettivo neutro sostantivato, esattamente come to katon, to dika
ion e così via (tecnicizzati nel linguaggio delle idee con il sintagma auto to). Non c’è
quindi motivo di tradurre, come accade tradizionalmente in italiano e in francese,
con i sostantivi “bene”, “bien” (magari con l’iniziale maiuscola). Si rende dunque “il
buono”, come “il bello”, “il giusto” (così l’inglese “Good” e il tedesco “das Gut”). Va an
cora notato che nel greco dell’epoca di Platone non è attestato il sostantivo agathotes.
a. Per queste espressioni cfr. W. Kersting, Ptatons “Staat”, Darmstadt 1999, pp. 135-8;
nello stesso senso anche P. Stemmer, Ptatons Dialektik, Berlin-New York 1991,
pp. 171-a, che riprende per questo aspetto le tesi di W. Wieland, Ptaton unti die for
men des Wissens, Gòttingen 1981, pp. 163, i8o.
3. Si tratta di una tesi ribadita a più riprese da G. Reale, ad esempio in Ruota dette
dottrine non scritte di Platone “Intorno al Bene” netta “Repubblica” e nel ‘Tilebo”, in
Id. (a cura di), Verso una nuova immagine di Platone, Milano 1994, pp. 295-332 (cfr.
pp. 314, 299). Cfr., nello stesso senso, H. J. Kràmer, Die Idee des Guten. Sonnen- unti
Liniengteichnis (Buch vIso4a-sIIe), in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Potiteia, Berlin 1997,
179-103 (cfr. pp. 182-3).
.
Cfr. ad esempio l’espressione ‘uOoi 7rpò tèv 7r6)1.Lov in Resp. iii 4o8a1. Sulla se
mantica di agathon, e sulla sua connessione con la felicità (Gutsein), cfr. Stemmer,
Platons Diatektik, cit., pp. 553 Ss., 171-a. Su questa prima parte dell’argomentazione
platonica (distinta da quella che segue Sulla relazione fra “buono” e idee), cfr. anche
G. Santas, The form ofthe Goodin Plato’s Repubtic (1980), ora in G. fine (ed.), Plato,
Oxford 2000,
pp. 249-76 (cfr. pp. 252-3).
s. Cfr. in questo senso Stemmer,PtatonsDiatektik, cit.,p. 173, n. 78.
6. 11 principio metodico dell’autonomia dei singoli dialoghi è largamente diffuso
fra gli studiosi che si richiamano alla posizione che va sotto il nome di diatogicatap
proach: cfr. ad esempio i saggi raccolti in G. A. Press (ed.), Ptato’s Diatogues: New
Studies and Interpretations, Lanham 1993; e f. J. Gonzales (ed.), The Third Way:
io6
IL POTERE DELLA VERITÀ
MEGISTONMATHEMA 107
New Directions in Platonic Studies, Lanham 1995. Da punti di vista diversi condi
vidono questa interpretazione M. Frede, Ptato’s Argument and the Diatogue form,
in Methods ofInterpreting Ptato, in “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, suppi.
voi., 1992, pp. 201-19; N. Blòssner, Kontextbezogenheit undArgumentative funktion:
methodischeAnmerkungen zurPlatondeutung, in “Hermes”, CXXVI, 199$, pp. 109-101,
e da ultimo ampiamente C. L. Griswold, E Pturibus Unum? On the ?latonic “Corpus”,
in “Ancient Philosophy”, XIX, 1999, pp. 361-97. Qualche osservazione in proposito
anche in M. Vegetti, Societd diatogica e strategie argomentative netta “Repubblica” (e
contro la ‘Repubblica”), in G. Casertano (a cura di), La struttura detdiatogoptatonico,
NapoLi zooo, pp. 74-85. Sulla questione dei personaggi dialogici cfr. da ultimo i saggi
raccolti in G. A. Press (ed.), T47ho SpeaksforPtato?, Lanham zooo.
. Si tratta delle tesi sostenute da Santas, The fonn ofthe Good, cit., p. z$, e da Stem
mer, Platons Dialektik, cit., pp. 54-5, 164-5. La posizione di Stemmer è stata discussa
in questo senso da G. Giannantoni, La dialettica platonica, in “Elenchos”, XV, 1994,
pp. los-is (cfr. pp. iio-i). La “non-cosalità” ontologica delle idee è sostenuta anche
da Wieland, Platon und die Fonnen des Wissens, cit., pp. 142-3 (essa non implica tut
tavia il carattere non-proposizionale della loro conoscenza come l’autore sostiene a
pp. z$i ss.). Cfr., in questo senso, anche F. Fronterotta, ‘fé’9ri. La teoria platonica
delle idee e laparteczpazione alte cose empiriche, Pisa zoo,, pp. 179-80.
8. Sul ruolo centrale della homologia nella dialettica socratico-platonica cfr. ad esem
pio G. Giannantoni, Il dialogare socratico e la genesi della dialettica platonica, in P. Di
Giovanni (a cura di), Platone e la dialettica, Roma-Bari 1995, pp. 3-2.7 (cfr. pp.
Rilevano la mancanza di homologia che in seguito interviene tra Socrate e Glaucone
M. Dbcsaut, L’analogie intenable: le Soleil et le Bien, in Id., Platon et la question de la
pensée, Paris ZOOO, p. 146, e T. Ebert, Meinungund Wissen in der Philosophie Platons,
Berlin 1974, p. 173 (che tuttavia la attribuisce all’insufficienza intellettuale di Glau
cone e non, come sarà invece il caso, alla trasgressione socratica rispetto al livello di
consenso teorico consolidato).
9. Si tratta di passi inequivocabilmente riassuntivi di uno dei principali teoremi
accademici: «siamo soliti [ezothamen] porre una sola singola idea per ogni gruppo
di cose molteplici» (Resp. X 596a6-7); «sostenete che siamo partecipi con l’anima,
mediante il pensiero, dell’essenza che davvero è e che permane sempre invariata nella
sua identità» (Soph. z48all-;;); «penso che tu [Socrate] ritenga che vi sia un’unica
singola idea» (Parm. 13;al-3).
io. Questa è esattamente l’interpretazione che Aristotele formula e discute in fE I 8
izi7bl-i6.
ii. Cfr. i passi citati in proposito da Adam ad loc. (p. Del resto, anche la tesi
del piacere come bene, almeno in una sua variante (si pensi al Protagora) , può venir
fatta risalire al gruppo socratico: cfr. in proposito T. H. Irwin, Plato’s Moral Theory,
Oxford 1977, pp. 224-5.
iz. Una formula simile è in Tim. 4$c, dove il protagonista del dialogo si rifiuta di
esprimere le sue opinioni (ta dokounta) circa il principio, o i principi, di tutte le cose
(cfr. qui il «principio del tutto» di 5iib8), Nel caso del Timeo però la reticenza si deve
al «presente modo di trattazione», cioè alla forma mitica del discorso narrato, e non
alla mancanza di una adeguata borme.
13. Da punti di vista diversi, sottolineano questo aspetto sia Kràmer, Die Idee des
Guten, cit., p. 183, sia f. Trabattoni, Scrivere nell’anima, firenze 1994, pp. io- (il
primo ritiene che nella Repubblica Platone non si identifica completamente nella
«maschera di Socrate», il secondo che la verità non può comunque essere espressa
se non come opinione di qualcuno, aperta a una «progressiva e infinita possibilità di
verifica»).
14. Reale, nell’introduzione a H. J. Kràmer, Dialettica e definizione delBene in Plato
ne (1966), trad. it. Ivfilano 1989, scrive che «Platone dice chiaramente di avere bene in
mente, ossia di sapere, che cosa sia t’essenza delBene, ma di non volerlo dire», temen
do di « attrarre delle derisioni »,come gli sarebbe accaduto, secondo qualche testimo
nianza, nel corso della sua celebre lezione sul bene, dove aveva parlato di Uno anziché
di ricchezza, salute ecc. (p. i6: ma il pericolo del ridicolo è a più riprese esplicitamente
affrontato nella stessa Repubblica). In questo saggio, Kràmer pensa piuttosto, sulla
scorta della Lettera vii, che gli interlocutori di Socrate non siano abbastanza tempra
ti nell’esercizio dialettico per ricevere questo supremo insegnamento, non affidabile
comunque alla scrittura. T. A. Szlezk, Platone e la scrittura dellafilosofia (1985), trad.
it. Milano 1988, pp. 398-405, interpreta reticenze e omissioni come rinvii a ulteriori
“strutture di soccorso’ il cui ultimo riferimento consiste comunque nelle dottrine
non scritte e nell’identificazione di “buono” e Uno che esse sosterrebbero secondo la
testimonianza aristotelica. Lo stesso autore, nel saggio L’idée du Bien en tant qu ‘arche
dans la “République”de Platon, in M. Fattal (éd.), Laphilosophie de Platon, Paris zooi,
pp. 345-72, suppone invece che la cautela di Socrate prefiguri quella che dovrebbe ve
nire adottata nello Stato ideale per evitare gli abusi della filosofia da parte dei giovani
e dei non dotati (pp. 366 ss.).
Cfr. in proposito la discussione in M. Vegetti, L’idea del bene nella ‘Repubblica”di
Platone, in “Discipline filosofiche”, i, 1993, pp. 207-29.
i6. È la tesi di H. G. Gadamer, L’idea del bene tra Platone e Aristotele (1978), trad. it.
in Studi platonici2, Casale Monferrato 1984, pp. ii-z6i. A Gadamer, cui preme rista
bilire l’unità della tradizione classica («la filosofia platonico-aristotelica del logos»,
p. iii), pare che il filebo traduca la «mitica» trascendenza del bene nella Repubblica
in una sua presenza negli enti come misura e ordine (pp. 129-30). Aristotele darebbe
dunque «risposte concettuali», sviluppando il filebo, aciò che Platone aveva «anti
cipato in maniera simbolica» (p. 161). F. Renaud, Die ResokratisierungPlatons. Die
platonische Hermeneutik Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999, osserva che
con questa «immanenza del bene» (pp. 76 ss.), «il Platone di Gadamer sembra più
aristotelizzante che platonico o socratico» (p. 134).
17. In 533a1-z Socrate dubita che Glaucone sia in grado di seguirlo nella sua tratta
zione della dialettica nonostante l’impegno (prothymia) da lui profuso. Quasi con le
stesse parole, in Symp. zIoaz-3 Diotima dubita che Socrate possa seguirla nel discorso
io8 IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTON MATHEMA 109
sulle cose d’amore in cui pure profonderà tutta la suaprothymia. In entrambi i casi, il
dubbio non ha a che fare con la forma scritta del discorso n con la qualità intellettua
le dell’interlocutore (come potrebbe riferirsi allo stesso Socrate?), bensì con il fatto
che ci si prepara a compiere un salto teorico rispetto a ciò che si ritiene l’interlocutore
sia preparato a comprendere e accettare.
i8. NeL primo di questi passi si dice dei matematici che TE).EuTcZ)otv 6.to)oyouÉdvu
7tÌ TOSTO o &v un frt 6pdoum. Nel secondo Socrate si rimprovera di aver in
trapreso (bormesai) la ricerca sulle proprietà della giustizia senza averne prima defi
nito l’essenza. Nelle Leggi viene formulato il precetto metodico di «non mettersi in
movimento» (hormeseien) prima di aver consolidato (bebaiasaito) l’indagine su dove
porta la strada. Sulla homotogia come punto di partenza dialettico cfr. l’espressione
aristotelica 6toXoyl tu))’EJOm in Thp. 11oa33.
19. L’espressione va attribuita all’attitudine del rispondente (Brisson) e vale dunque
“scoppiando a ridere” (cfr. Shoreyadloc.: il divertimento di Glaucone «is Plato’s way
ofsmiling at himself»). Cfr. in questo senso anche R. Ferber, Platos Idee des Guten,
Sankt Augustin 1989’, pp. 14 ss. La stessa espressione è usata da Glaucone nei riguardi
dei kompsoteroi che identificano il “buono” con laphronesis in obl1, e da Socrate
contro i cattivi geometri in VII 527a6. Cfr., nello stesso senso, iii 4o6c6, VII ia.j.
zo. «Divina trascendenza» è la traduzione di Adam, seguito ad esempio da G. Rea
le e da T. A. Szlezàk («gòttliches Uberragen»). Nel senso dell’eccesso interpretano
B. Jowett, L. Brisson, R. Ferber («wunderbares treffen»). Kersting, Platons “Staat”,
cit., vede nell’espressione di Glaucone una «Selbstironie» platonica (p. ai8).
ai. Così in Tim. 85c4, Poi. 283c3, z85b$, Prot. 356a2, ba. Hyperbote significa “eccesso”
anche in Tim. 75C7 (in rapporto alle stagioni), 86e3 (per il fuoco), Ep. vii 3a6dx (cibo
e piaceri), Leg. 776a6 (pienezza). Solo in Leg. 739d4 hyperbotepros areten significa
“superiorità per virtù”, ma in riferimento alla costituzione proposta nella Repubblica,
la cui perfezione viene considerata eccedente ie possibilità della natura umana.
a;. In più occasioni G. Reale (cfr. Per una nuova interpretazione di Platone, Milano
1997”, p. 339) ha proposto un’interpretazione di questa esclamazione come rinvio
alla dottrina del Bene-Uno, basandosi sull’etimologia plotiniana del nome Apollo
(u privativo + potton = Uno), attribuita del resto ai «Pitagorici» (Enn. v 5.6). Ma
nulla del genere risulta dalle etimologie platoniche di Crat. 404 ss., secondo le quali
il nome illustra le capacità del dio come musicista, medico, indovino e arciere.
23. J. Adam, p. 6a, definiva la concezione platonica «non meno poetica e religiosa
che filosofica». Da un punto di vista critico, E. Cassirer, Da Talete a Platone (1925),
trad. it. Roma-Bari 1984, osservava che se si pensai! rapporto fra bene e mondo come
«un rapporto causale, pensando il derivato come scaturiente dall’origine, così cer
tamente non parliamo più il linguaggio della conoscenza pura, ma il linguaggio del
mito» (p. i); Cassirer individuava per contro nel bene una «suprema unità di sen
so» (p. x8). Sulla valenza teologica dell’idea del “buono” è tornato E. E. Benitez,
The Good or the Derniurge: Causation and the Unity of Good in Plato, in “Apeiron”,
XXVIII, 1995, pp. 113-40 (l’autore attribuisce a Platone l’aspirazione a una unificazio
ne del versante etico e di quello metafisico-teologico del “buono”, rappresentato dal
Demiurgo de! Timeo, che tuttavia rimane teoricamente irrisolta; molto discutibile la
descrizione “scolastica” dell’idea del “buono” come ens realissirnum, pp. 117 ss.).
24. Cfr. in proposito P. Gnisei, Visione e conoscenza. Il ‘gioco” analogico di “Repub
blica” vI-vii, in Casertano, La struttura del dialogo platonico, cit., pp. 262-96 (cfr.
pp. 269, 275).
25. Cfr. intanto in questo senso Dixsaut, L’analogie intenable, cit., pp. i;i-i (in par
ticolare pp. 122-3, ia: se il “buono” non è un’essenza ma una potenza, «la détermina
non de ce que fait le Bien, la détermination de sa manière propre d’agir et d’étre cause,
est aussi la définition de sa manière d’ètre: comme une cause»).
aò. Essa è schematizzata in Adam, p. 6o; per le dissimmetrie e i relativi problemi cfr.
Dixsaut, L’analogie intenable, cit., pp. 136
27. 11 ricorso all’intenzionalità conoscitiva può forse superare la severa critica di
J. Annas, An Introduction to Plato’s ‘Repubtic”, Oxford 1981, alla funzionalità espIi
cativa di questa parte della metafora (p. 284: «for all the grand language we are left
without any idea ofhow no go taking the first step»).
z$. Cfr. in questo senso Santas, The forrn ofthe Good, cit., p. ;; Dixsaut, L’analogie
intenable, cm., pp. 142-3; A. Graeser, 7enseits von Sein’ Ìvlutrnassungen zu Status und
funktion der Idee des Guten, in “freiburger Zeitschrift fur Philosophic und Theolo
gie”, XXVIII, 1981, J3. 70-7 (cfr. 3. 72).
29. Sulla ousia come modo d’essere delle idee cfr. M. Dixsaut, “Ousia’,’ “eidos”et “idea”
dans le “Phédon”, in “Revue Philosophique”, CLXXXI, 1991,
pp.
479-500; Kràmer, Die
Idee des Guten, cm., p. i$6, n.
30. Molto preciso in questo senso G. Cambiano, Platone e le tecniche (1971), Roma-
Bari 1991’, p. 174: «l’idea del bene è causa delle idee — cioè della loro sostanza, alla
quale è intrinseca la normatività, rimanendo normativa rispetto a esse»; «la con
formità alla normatività dell’idea del bene tende la molteplicità delle idee un ordine
coerente, conoscibile, apprezzabile e utile».
31. La trascendenza del bene inteso come Uno rispetto all’essere è stata a più riprese
sostenuta da Kràmer, che ha parlato di «Uberseiendenheit des Einen» (Epekeina tes
ousias. Zu Ptaton, Politeia 5093, in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, LI, 1969,
pp. 1-30, cit. p. ), di bene «ùber das 5cm» e di «Ubertranszendenz des Einen» (Die
Idee des Guten, cit., pp. i86, 192). C’è tuttavia una certa oscillazione in Kràmer fra le
posizioni di ispirazione heideggeriana di Areté bei Platon undAristotetes, Heidelberg
1959, dove la trascendenza dell’Uno è concepita come «l’antico anatogon della “dif
ferenza ontologica” » di Heidegger (p. 55, n. 4), e quindi appartiene all’ambito della
relazione fra essere ed ente, e le successive contrapposizioni, di ispirazione piuttosto
neoplatonica, fra l’Uno e l’essere. Per la posizione di M. Heidegger cfr. Iconcettifon
damentali delta filosofia antica (corso 1926), trad. it. Milano zooo, p. ;: «l’essere
è il telos, la “fine”, l’agathon [...] L’idea del bene è l’essere e l’ente autentico»; cfr.
anche La dottrinaplatonica della verial (1942), in Segnavia, a cura di F. Volpi, trad. it.
Milano 1987: il bene è ciò grazie a cui il «Seiendc è mantenuto e salvato nell’essere»
‘Io IL POTERE DELLA VERITÀ MEGISTONI4THEMA III
(p. 184). Su questi problemi cfr. F. franco Repellini, Gli agrapha dogniata di Platone:
la loro recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme’ XXVI,
pp. 5 1-84; e M. Vegetti, Cronache platoniche, in “Rivista di filosofia”, Lxxxv, 199%,
pp. 109-29 (CAP. i in questo volume). La trascendenza dell’Uno rispetto all’essere è
sostenuta anche da Reale (cfr. fra gli altri Ruolo delle dottrine non scritte di Platone,
cit., pp. 301 ss.). Una interessante oscillazione anche in Ferber, Platos Idee des Guten,
cit., che a p. 67 pone il bene «enseits des seienden Wesen», cioè al di là delle idee,
ma a p. 68 al di là di « Sein und Wissen». Sulla posizione di Ferber cfr. anche n.
32. M. Baltes, Is the Idea ofGood in Plato’s Repubtic BeyondBeing?, in M. Joyal (ed.),
Studjes in Plato andthePtatonjc Tradition, Aldershot 1997,pp. 3-23. Se la parte critica
di questo saggio è assolutamente convincente, più problematica appare la sua propo
sta, che sembra identificare il “buono” con l’essere in sé o con l’insieme unificato delle
idee (p. iz). Ma se il “buono” è “al limite estremo” dell’essere non può coincidere con
l’insieme dell’essere, ed è comunque ulteriore rispetto alle idee che io compongono;
da un altro punto di vista, l’identificazione “buono”-essere sembra piuttosto di ispi
razione aristotelico-scolastica, e determina l’identificazione della dimensione etica
con quella ontologica.
33. Su questa distinzione ha insistito Gadamer, L’idea del bene tra Platone eAristotete,
cit.; cfr. anche Dixsaut, L’analogie intenable, cit., pp. 126-7.
34. Alcune delle posizioni di questo autore sono a mio avviso da sottolineare e con
dividere. Il “buono” è un principio pratico, fondamento dell’etica platonica, non
identificabile con essere e pensiero, fondamento non immediatamente realizzabile
perché non esauribile nell’esistente a opera di una pur necessaria politica razionale
(«la politica razionale è secondo Platone filosofica, e la filosofia politica»): cfr. Fer
ber, Platos Idee des Guten, cit., pp. 13 1-3. La (feconda) contraddizione epistemologica
di Platone consiste in questo: il pensiero ha necessariamente a che fare con oggetti,
ma il “buono” ha uno statuto meta-oggettuale pur appartenendo nel linguaggio pla
tonico, come Ferber riconosce, all’ambito dell’essere (pp. 150-3). La contraddizione
viene così caratterizzata: il “buono” è “terzo” rispetto a essere e pensare; «das Denken
des Dritten hat das Undenkbare, Unsagbare und Nichtseiende zu denken [...] Was
kein Gegenstand der Theorie 5cm kann, soli es werden» (p. 278). L’intenzionalità
filosofica così delineata finisce tuttavia per sconfinare nel misticismo neoplaronico,
come Ferber riconosce (p. 153), oltre la lettera e il quadro teorico complessivo del
testo platonico.
3. G. Sillitti, Atdi Li delta sostanza: ancora su Resp. vi 5o9B, in “Elenchos’ 1, i8o,
pp. 225-44, argomenta convincentemente che l’idea del bene non può considerarsi
convertibile con l’essere (oltre che con l’Uno), non è «estensionalmente compren
siva di tutte» (pp. 232-3), e che possiede troppe note caratteristiche («comprensio
ne») perché possa risultare più estesa o equiestesa all’essere (p. 243). Una posizione
diversa, che non pare adeguatamente dimostrata, sembra essere sostenuta, oltre che
da Baltes (cfr. n. 32), da Santas, The form ofthe Good, cit., secondo il quale l’idea del
bene è la «ideality common to all the Forms» (pp. 269-70).
36. Si tratta, come è noto, della tesi sostenuta da Kràmer, ad esempio in Platone e
ifondamenti detta metafisica, Milano 1982, pp. 184-98; Reale, Per una nuova inter
pretazione di Platone, cit.; e Szlezk, Platone e ta scrittura detta fitosofia, cit. Questo
autore ha inoltre sostenuto (L’idée du Bien, cit.) che la Repubblica sviluppa una teoria
del principio (il Bene), che è diversa, ma non incompatibile, rispetto alla teoria dei
due principi (l’Uno e la Diade) attribuita a Platone dalle testimonianze aristoteliche:
il Bene non può essere considerato la causa dei mali che sarebbero invece dovuti alla
Diade (pp. 3s-9). La versione “abbreviata” del principio sarebbe da attribuire alla
reticenza socratica dovuta a motivi politico-educativi. Ma è necessario pensare a una
“causa” del male che non consista nella componente irrazionale dell’anima e nella
stessa struttura spazio-temporale dellagenesis, come sembra indicare il Timeo?
Come si è notato, Gadamer, L’idea del bene tra Platone eAristotele, cir., vede nel
fitebo l’immanenza del bene, in quanto Uno-misura, come garanzia dell’ordine del
mondo (pp. 229-30, 261). Una posizione simile in R. Ferber, Didftato Reply to Those
Critics, who Reproached Himfor the “Emptiness” ofthe Platonic Idea or form ofthe
Good?, in E. N. Qstenfeld (ed.), Essays on Plato’sRepubtic, Aarhus 1998, pp. 53-8.
38. Kersting, Platons “Staat”, cit., rileva giustamente che le identificazioni del “buo
no” con l’essere (Heidegger) e con l’Uno (Kràmer-Reale) «snaturano semantica
mente » il valore di to agathon nel linguaggio della Repubblica (pp. 240-I).
39. Il senso della critica aristotelica a Platone sembra tornare, radicalizzato e in una
nuova articolazione teorica, nell’Enciclopedia hegeliana: «questa somma cima del
fenomeno del volere, che si è volatilizzato fino alla assoluta vanità — fino a una bontà
non oggettiva, ma che è certa solo di se stessa, e a una certezza di se stessa nella nulli
tà dell’universale — rovina immediatamente in se stessa», rovesciandosi nel male. A
questo Hegel contrappone «la sostanza, che si sa liberamente, in cui il dover essere as
soluto è altresì essere» e che «ha la sua realtà come spirito di un popolo» (Enciclopedia
delle scienzefitosofiche in compendio, trad. it. B. Croce, Roma-Bari 1984, §S 512, 514).
40. In FE I 8 iai$ai6 ss. Aristotele critica coloro che «ora» (nyn, ripetuto due vol
te) tentano di dimostrare il bene in sé a partire dai numeri (non v’è alcun consenso,
homotogia, che questi possiedano il “buono”). Questo argomento è diverso da quello
classico della teoria delle idee discusso in izi7bl-i6, e può quindi venir riferito agli
“attuali” accademici pitagorizzanti, come lo stesso Speusippo.
41. Per importanti analisi platoniche del concetto di dynamis cfr. Fhaedr. z7od e
Soph. 247d-e: in entrambi si tratta della capacità intrinseca di produrre effetti o di
agire (poiein, dran) su qualcosa, o di subire (pathein) l’azione di un elemento ester
no. Nel Sofista si propone addirittura un consenso (homotogia) sull’identificazione
dell’essere con la dynamis.
42. Annas,An Introduction to ?lato’s “Repubtic”, cit., p. 247, sottolinea la necessità di
non confondere la sovranità del bene con uno «shallow optimism about Providence
and all being for the best». L’ «entusiasmo» platonico per l’idea del “buono” coe
siste con un estremo pessimismo circa «the amount ofgoodness to be found in the
actual world».
soprattutto
III
IL POTERE DELLA VERITÀ
Se neiiaTo 7tVTÒ &p di 5ijb7 è da riconoscere il “buono”, questa dichiarazio
ne sembra tuttavia delimitare l’ambito di ciò di cui esso è causa e principio all’insieme
dei valori morali.
Il principio è stato formulato da Blòssner, Kontextbezogenheit undArgumenta
tive funktion, cit.
La più nitida formulazione del relativismo protagoreo, che nega ai valori etico
politici qualsiasi ousia, è in Theaet. i7zb.
46. Su questo tema sono ancora rilevanti le osservazioni di H. Cherniss, The
Phitosophical Fconomy of the Theory ofldeas (1936), in Id., Setected Papers, Leiden
1977, pp. IzI-32. Che l’idea del “buono” fondi il primato della ragione pratica era tesi
dei filosofi neokantiani come H. Rickert, Der Gegenstand derfrkenntnis. Einfrhrung
in die Transzendentale Fhilosophie, Thbingen I9O4 (pp. 117 ss.); e P. Natorp, Pia
tos Ideentehre, Leipzig I9zI, pp. 191 SS. Inoltre cfr. Ferber, Platos Idee des Guten, cit.,
p. 149. Su questa funzione dell’idea del “buono” cfr. ora anche Fronterotta,
cit., 3p. 137-9.
5
To agathon: buono a che cosa?
Il conflitto delle interpretazioni
sull’idea del buono nella Repubblica4
I
Possiamo iniziare dando qualche indicazione testuale. La discussione sui
lo specifico statuto ontologico ed epistemologico dell’idea del buono è
svolta in cinque pagine del libro VI della Repubblica (5o4a-5o9c); alcuni
riferimenti all’idea del buono intesa in questo senso, e considerata come
fondamento normativo in ambito etico-politico, sono inoltre presenti nel
libro VII (5i7b-c, 5i9c-d, z6e, 53ib-c, 534b-c). Nei restanti tre libri del
dialogo, la idea tagathou torna a sparire; altrove, in tutto il corpus plato
nico, to agathon viene menzionato sullo stesso piano e nello stesso senso
delle altre idee-valore (iv katon, to dikaion, to alethes). Anche nel Fitebo,
il “buono” è considerato unicamente come finalità della vita umana, cioè
in ambito etico-pratico, e alla fine la discussione ne segnala la dissolvenza
(pheugein) nella rete formata dalle idee di bello, symmetria e verità (64e).
Questi dati — se confrontati con l’ampiezza delle trattazio
ni che Platone dedica a temi come la giustizia, la scienza, l’essere e l’esser
vero — sembrano indicare una relativa marginalità, o almeno un caratte
re eccezionale, della discussione “metafisica” intorno all’idea del buono.
Tanto più singolare appare dunque il contrasto con l’immensa letteratu
ra critica dedicata all’interpretazione delle pagine della Repubblica in cui
questa discussione è presentata, e al ruolo centrale che le è stato assegnato
nel quadro della comprensione complessiva del pensiero platonico.
Questo squilibrio fra dimensioni testuali e impegno esegetico può
suggerire una domanda a prima vista paradossale: si potrebbe costruire
un’immagine complessiva della filosofia di Platone che prescinda dalla
“metafisica” del buono? La risposta non può che essere positiva e si fonda
su di un esempio illustre. Nelle sue Vorlesungen, che dedicano a Platone
Questo capitolo è già stato pubblicato in “Argumenta in dialogos Platonis”, i,
TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? ‘IS
“4 IL POTERE DELLA VERITÀ
circa 130 pagine nell’edizione Michelet, Hegel non ne tratta affatto, né
menziona mai la celebre analogia solare, benché citi e commenti per esteso
il modello epistemologico della “linea” che la segue immediatamente nel
testo platonico (509d-511e)’.
In questa sede, intendo proporre un’ipotesi di spiegazione di questa
anomalia esegetica: la “metafisica” del buono è diventata un terreno di
scontro in cui si gioca la questione dell”anello mancante” della filosofia
platonica: la teologia. 5u questo terreno, si affrontano dunque le tesi che
sostengono l’esistenza di una teologia platonica e quelle che la negano; nel
caso affermativo, lo scontro si sposta poi attorno ai modelli teorici in cui
identificare questa teologia (che risultano, per schematizzare, essenzjal
mente due: quello neoplatonico, centrato sull’Uno, e quello aristotelicoscolastico,
centrato sull’ Essere).
z
Eppure, il primo grande interprete critico dell’idea del buono, Aristotele,
sembrava escluderne la possibilità di una fruizione teologica. Se il buono
appartenesse alla categoria della sostanza, egli osservava, sarebbe da inten
dersi come «il dio e il pensiero» (EN I 109 6az), ma il carattere transcate
goriale e meta-sostanziale (epekeina tes ousias, Resp. vi 5o9b8) del “buono”
platonico impediva questa identificazione’.
Ma è naturalmente con la tradizione neoplatonica, da Plotino a Proclo,
che to agathon diventava “buono a” una teologia. Questa fruizione com
portava però alcune operazioni teoriche impegnative, e un esito rischioso.
La prima di queste operazioni consisteva nello spostamento della collo
cazione ontologica del “buono” da epekeina tes ousias a epekeina tou ontos,
assicurandone così uno statuto extraontologico (quindi anche extraepiste
le
mico). La seconda consisteva in una decodificazione semantica di agathon
che lo riduceva all’Uno. A dire il vero, qualcosa del genere secondo —
celebri testimonianze aristoteliche — era già stato tentato da Platone negli
agrapha dogmata (le dottrine esoteriche affidate all’insegnamento orale),
o almeno nella lezione sul bene; ma questo esperimento comportava l’in
troduzione di un secondo principio, la Diade infinita, inaccettabile per
i neoplatonici, per i quali comunque le “dottrine non scritte” di Platone
decodificazione veniva piuttosto Parmenide. cercata nel Per Proclo, anzi,
trattazione la della Repubblica “buono” (in virtù un’applicazione
sul di
ante litteram del cosiddetto diatogicatapproach) volutamente dissimu
era
lata, a causa della presenza interlocutori dialogo fra gli del di sofisti come
Trasimaco e Clitofonte, indegni di ricevere la rivelazione dei mystikotata
possibile invece nel Parmenide presenza in dei filosofici eleatici (Comm. in
Remp., Diss. XI 174.1-Il). To agathon è dunque nome imperfetto dell’U
no, ed entrambi sono inadeguati Principio due
a designare il ineffabile. Le
operazioni convergevano in ogni caso nel fare del “buono” il vertice di una
teologia negativa, che non tutta la tradizione posteriore, come vedremo,
sarebbe stata disposta ad accogliere3.
Ma, anche fuori dell’elaborazione neoplatonica, libro vi
il passo del
della Repubblica sembrava predisporre “buono” una fruizione teologi
il a
ca per così dire spontanea. Th agathon (diventato frattempo, tramite nel il
latino di Cicerone e della scolastica medievale, summurn bonum), veniva
senz’altro interpretato come Dio da un traduttore quattrocen
ad esempio
tesco ignaro di Proclo come Pier Candido Decembrio, annotava che in
margine a 5o9b3: «de Deo loquitur».
3
Con la modernità finisce l’età dell’innocenza, la spontaneità dell’equa
zione summum bonum sive Deus; d’ora in poi, la fruizione teologica del
“buono” dovrà poggiare su argomentazioni più complesse.
Per schematizzare vicenda Otto all’estremo la che ci interessa fra e No
vecento — sono ben questa riduttiva
consapevole che schematizzazione è
rispetto alla ricca articolazione delle posizioni in gioco, ma essa mi è in
dispensabile per tentarne limiti questa
un’esposizione intelligibile nei di
conversazione — vorrei proporre individuare paradigmi di due maggiori
dell’esegesi del buono: quello che chiamerò il paradigma negazionista e il
contrapposto paradzg-ma teologico (o piuttosto, ormai, ontoteotogico). Indi
cherò due varianti etico-pra
del primo, quella logico-gnoseologica e quella
tica; e tre varianti del secondo, una prima chiamerò una se
che “precritica”,
conda di matrice neoplatonica, e una terza di matrice aristotelico-scolastica.
Comincerò dal paradigma negazionista, non perché sia il più influente
(e neppure in ragione della mia personale preferenza) ma perché esso è
sembrano esser risultate ininfluenti, o almeno marginali. La regola per la
ii6 IL POTERE DELLA VERITÀ TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? “7
cronologicamente anteriore nell’arco di tempo che ora ci interessa. Alle
origini di questo paradigma stanno da un lato una posizione teorica, quel
la di Kant, dall’altro una ragionevole considerazione semantica relativa aJ
linguaggio platonico. Questa seconda, su cui insiste soprattutto la variante
etico-pratica del paradigma, rileva che l’ambito semantico di agathon ne
mostra di per sé l’irriducibilità al campo dei concetti onto-teologici propri
del secondo paradigma (Uno, Essere, Dio)4.
Ma veniamo a Kant. Nelle poche ma incisive pagine della Critica del
la ragion pura dedicate al confronto con Platone (370-75, 59-99 dell’e
dizione 1787) egli non discuteva specificamente dell’Idea del bene, ma
dell’Idea (e dell’Ideale) in generale. All’Idea, Kant riconosceva un ruolo
regolativo, nel doppio senso di criterio dei giudizi di valore e di tetos della
prassi morale, mai del tutto attingibile ma infinitamente approssimabile.
In campo pratico (cioè nell’ambito fondato sulla liberta), le idee della ra
gione esplicano dunque il ruolo di cause efficienti del giudizio e dell’azio
ne. Ma Kant non segue Platone sul terreno insidioso del Timeo, e nega alle
idee questo ruolo causale in campo fisico e ontologico; neppure egli può
accettare la “deduzione mistica” delle idee da un’intelligenza divina, né le
“esagerazioni” (come l’ipostatizzazione iperurania) e l”elevato linguag
gio” cui talvolta si lascia andare il vecchio filosofo. Sembrano qui riecheg
giare le ironiche parole sulla daimonia hyperbole con le quali Glaucone
commentava l’enfatica descrizione dell’idea del buono nella Repubblica
(50 9c).
3.1
A partire da questi presupposti, il ruolo di fondatore del paradigma nega
zionista, nella sua variante logico-gnoseologica, va riconosciuto non a un
incerto Zeller quanto piuttosto a Paul Natorp. Nella suaPtatosIdeenlehre,
Natorp si scagliava contro la possibile identificazione del “buono” con il
Demiurgo e la divinità, una “parvenza” suggerita da dialoghi come Fedro,
filebo e Timeo:
A questa parvenza si aggrapperanno avidamente tutti coloro ai quali io non posso
procurare quell’acquietamento dell’animo consistente nel credere che Platone sia
stato in fondo un teista corretto, che egli non abbia detronizzato Dio in favore di
un principio prevalentemente formale e addirittura — cosa che più di ogni altra
incute timor panico alla nostra epoca — logico.
Il Bene non è in alcun modo «Essere ultimo, anteriore e trascendente
il pensiero — nessun Essere viene da Platone più nettamente respinto di
questo —‘ bensì unicamente la Legge [Gesetz] ultima propria del pensiero
stesso». Per Natorp, dunque, che significativamente interpreta la metafo
ra solare riconducendola al modello della linea, e in particolare al concetto
di anhypotheton (“incondizionato”), «nell’Idea pura, nell’idea del bene
come supremo concetto metodico della dialettica, la teologia non ha assolu
tamente alcun ruolo»6. Natorp non accetta tuttavia la restrizione kantia
na dell’idea del bene al solo ambito etico-pratico, e non vede dunque in
essa il segnale della supremazia della ragion pratica (Anhang 14).
Il “buono” non costituisce soltanto la “legalità” dell’azione bensì è la
“Legge del pensiero puro” che rende possibile ogni conoscenza particolare
e la costituzione di ogni particolare “oggettualità” della conoscenza stessa.
Va detto che qui Natorp si libera con una certa disinvoltura della difficoltà
insita nella tesi platonica secondo la quale to agathon è causa non solo di
conoscenza e verità ma anche di essere ed essenza (5o9b-7). Il “buono”
è principio della conoscenza perciò dell’essere, visto che questo è una po
sizione del pensiero (Setzung des Denkens): ricordiamo qui il sottotitolo
dell’opera, Introduzione alt ‘idealismo.
Natorp affronta invece con più attenzione il problema semantico di
agatt;on: perché designare con questo aggettivo il principio noetico incon
dizionato, invece di chiamarlo, ad esempio, Idea in sé o Idea dell’Idea?
Questa semantica indica che la Legge è un dover-essere, un Sollen, innan
zitutto come compito della conoscenza nella sua elevazione metodica a
idee via via superiori, dunque “principio ultimo logico” (come condizione
dell’Essere delle idee) e “principio ultimo etico” come dover essere pratico
(nella conoscenza e nell’azione morale)8.
Pare interessante, a questo punto, segnalare alcuni significativi svilup
pi di queste posizioni natorpiane nell’esegesi recente. Nel 1951, David
Ross, che nel suo Plato’s Theory ofldeas9 si occupava dell’idea del buono
soprattutto per negarne qualsiasi valenza teologica, riconosceva in essa
la “grande idea generica dell’eccellenza in sé”, il concetto limite di una
areté non limitata al campo morale ma dotata di un valore ontologico
universale.
Anche più vicina a Natorp appare la posizione di Santas. In un inte
ressante saggio del 198o’°, questo autore riconosceva nell’idea del buono
il principio della idealità delle idee, ciò che conferisce loro i caratteri ide
ali comuni in quanto distinti da quelli particolari di ognuna (invarianza,
ix8
conoscenza.
dell’essere.
tiana dell’Idea (qui, dell’idea del buono): da un lato, essa funge da regola
cose e comportamenti concreti sotto predicati normativi; dall’altro, essa
compimento, nell’ambito della tradizione neokantiana ma del tutto fuori
dell’esperienza intersoggettiva, a una «comunità delle anime» chiamata
sulta inoltre (sulla scorta di Cassirer) il centro di senso della coesione del
mondo. Proprio per questo, essa non può consistere in «una dichiarabile
zione di un «ideale campo spaziale dello spirito» che dà luogo, a livello
fondamento etico-conoscitivo della comunità politica, l’idea del bene ri
Nel Platone educatore di Stenze1’, l’idea del bene costituiva la fonda
Heidelberg si ispirava, in modo alquanto originale, Julius Stenzel, per altri
versi invece legato all’ambiente jaegeriano del Terzo umanesimo (il che
Heidelberg. Esso faceva capo a Lotze (dalla cui interpretazione platonica
« sanciva il primato speculativo della ragion pratica » ‘. Al neokantismo di
timo a sostenere, contro Natorp, che il Sollen indicato dall’idea del Bene
gure dominanti in Windelband e Rickert. Era stato soprattutto quest’ul
spiega i nessi che egli istituisce fra dimensione gnoseologico-trascenden
tale e dimensione etico-politica della sua esegesi platonica)’6.
La seconda variante del paradigma negazionista, quella etico-pratica, ha
lo di Marburg bensì del cosiddetto neokantismo “sud-occidentale” o di
Natorp aveva preso le distanze), e, sul piano storiografico, aveva le sue fi
anch’essa origine nell’ambito del pensiero ncokantiano; non però quel
IL POTERE DELLA VERITÀ TO%GATHON: BUONO A CHE COSA?
“9
inteÌligibilità, autoidentità): un rapporto simile a quello che intercor
re in Natorp fra Legge incondizionata del pensiero e singoli oggetti di
Getta un ponte fra la variante logicognoseologica e quella etico-pra
tica del paradigma negazionista l’importante tesi di Cambiano”. Rite
nendo che «le idee Sono condizioni dell’uso corretto delle cose», Cam
biano conclude che «l’idea del bene è causa delle idee — cioè della loro
sostanza, alla quale è intrinseca la normatività —‘ rimanendo normativa
rispetto a esse, come condizione del loro uso corretto»;
formità all’idea
dunque
del
la
bene
con
fa delle idee «un ordine coerente, conoscibile,
apprezzabile e utile». Si noterà qui lo slittamento dalla Legge natorpiana
al concetto di norma nel senso “tecnico” di condizione d’uso (Cambiano
intende di conseguenza la dialettica come suprema tecnica d’uso delle
altre technai).
Per tornare a Natorp, egli aggiungeva alcune considerazioni che sem
brano decisamente eccedere le premesse kantiane. L’efficacia dell’idea del
buono si estende fino alla cosmologia perché la legge vige in quanto “sus
siste” ciò che viene posto mediante essa; il mutevole, il divenire, risultano
perciò ‘salvati” nel pensiero che garantisce la persistenza dell’essere nel di
venirela. Sembra che Heidegger non fosse immemore del suo maestro di
Marburg quando scriveva, nel suo orizzonte e nel suo linguaggio, che «il
“bene” consente l’apparire dell’evidenza in cui ciò che è presente possiede
la consistenza del suo essere. Grazie a questa concessione, il Seiende è man
tenuto e “salvato” [Gerettet] nell’essere» ‘
Ma certamente l’erede più diretto e legittimo di Paul Natorp fu l’al
tro grande marburghiano Ernst Cassirer. Nel suo profilo storico della
filosofia greca’4, egli concepiva l’idea del buono da un lato come «fine
comune a cui rimandano tutte le configurazioni particolari dell’Idea»,
una finalità da concepire in senso tanto gnoseologico quanto etico, come
«la via che dalla forma basilare del sapere, dalla forma dell’agire etico
{... conduce su su all’idea del Bene come suprema unità di senso».
Cassirer aggiunge, kantianamente, che se si pensa il rapporto fra Bene
e mondo come «un rapporto causale, pensando il derivato come scatu
a garantire «l’unità statale»: Stenzel faceva così collimare i diversi piani
e insegnabile Idea», che sarebbe «la più mostruosa presunzione della ra
e contro l’orizzonte intellettuale del Terzo umanesimo, nell’opera di Wolf
e principio della facoltà del giudizio pratico, quando si tratta di sussumere
garantisce «l’ordine teleologico del comportamento». Qui l’analisi di
gang Wie1and’. Wieland recupera integralmente la doppia funzione kan
gione umana, condannata a cadere nel ridicolo» (Stenzel sbarrava così di
nuovo la strada verso un suo eventuale uso teologico), bensì soltanto nella
La variante etico-pratica del paradigma negazionista trovava però il suo
prospettici della Repubblica in un disegno unitario, dal “buono” allapotis.
riente dall’origine, così certamente non parliamo più il linguaggio della
conoscenza pura, ma il linguaggio del mito»: in questo senso ilDemiur
prospettiva della conoscenza e del suo valore etico-politico’8
Wieland — che si appoggia soprattutto sui passo 5o5d-5o6a —
si
sviluppa in
in quanto qualifica la giustizia come “buona” e “utile’ il “buono” fornisce
le necessarie motivazioni al comportamento morale, e garantisce la con-
modo originale, accostando la semantica di agathon a quella di chresimon:
go del Timeo appartiene appunto alla forma mitica
voce
del
all’esigenza
pensiero,
di
dando
rappresentare l’inizio temporale, e non solo logico,
I lO IL POTERI DELLA VERITÀ TO%GATHON BUONO A CHE COSA? Il’
vergenza fra utilità individuali e collettive, dunque la saldatura fra morale
individuale e ambito politico. Il sapere del “buono”, connesso con il tema
dell’utilità, diventa un «supremo sapere d’uso [Gebrauchwissen]», deter
minando il senso etico-politico della conoscenza da un lato, l’utilità della
virtù dall’altro, e, nei governanti, si integra con la loro potitische Kunst.
Quanto alla collocazione ontologica del “buono” epekeina tes ousias
(che Wieland intende come “jenseits des Seins”), essa viene interpretata
come descrizione del carattere non sostanziale, non-oggettuale dell’idea
(Ungegestndtichkeit), cioè come indicazione del suo ruolo formale-fun
zionale. Va detto, a questo proposito, che la compatta e persuasiva analisi
di Wieland risulta molto facilitata dal modo piuttosto sbrigativo con cui
vengono affrontati gli aspetti propriamente ontologici della metafora so
lare e della sua applicazione al “buono’ a tutto vantaggio dei passi intro
duttivi in cui Platone insiste sull’utilità della conoscenza di questa idea per
i futuri governanti.
Le posizioni di Wieland hanno avuto un seguito notevole nell’esegesi
etico-pratica del “buono”: Kersting ad esempio ne parla come di un «oriz
zonte di orientamento » e un « centro di integrazione » della vita e a mag
gior ragione del suo governo politicO”. È interessante notare, in ambito
analitico, una certa vicinanza fra l’interpretazione di Wieland e quella di
lerence Irwin. Questi nega che il buono sia «una sorta di essere ulteriore
rispetto alle forme», e lo concepisce piuttosto come il sistema teleologico
che connette le forme stesse, di cui spiega la “bontà”.
3.3
Se si volesse tracciare un bilancio dei risultati acquisiti dal paradigma ne
gazionista, ci si troverebbe di fronte a una serie di argomenti davvero
spicua. Se ne può indicare un elenco sommario.
a) Che appartenga o no al campo dell’essere (su questo c’è qualche oscilla
zione), il “buono’ in virtù della sua ulteriorità rispetto alla ousia, non può
comunque venire considerato come un “oggetto” o Ente determinato (il
fatto che Platone lo qualifichi come idea non è problematico per alcuni di
questi autori, che considerano a loro volta le idee come leggi o nonne).
b) Il “buono’ come del resto tutte le idee, non possiede né vita né pensie
ro (su questo tema è veramente perentoria la discussione di Ross del passo
del Sofista (148e s.) che sembrerebbe indicare il contrario)”.
co
c) Il “buono” non può essere un creatore ontologico, né delle idee (che
sono ingenerate) né tantomeno del mondo empirico che gli è ontologicamente
estraneo (si fa spesso osservare, del resto, che quando Platone parla,
come nel libro V della Repubblica, di essere e non-essere, i predicati non
vanno intesi in senso primariamente esistenziale, ma predicativo, cioè nel
senso di essere X o non essere X).
l) Il “buono” non può coincidere con il demiurgo del Timeo, perché,
come tutto il piano delle idee, gli è ontologicamente superiore (il demiur
go è buono, ma non è “il buono”). Del resto, è convinzione comune in que
sto ambito esegetico che il demiurgo rappresenti la proiezione mitica della
capacità ordinativa del pensiero, oppure costituisca il modo, altrettanto
mitico, con cui Platone aggira la difficoltà teorica, altrimenti insuperabile,
dell’attribuzione alle idee di una causalità efficiente in campo fisico (con
siderata assurda da Kant)’3.
e) Seguendo la caratterizzazione platonica della superiorità del buono in
termini di dynamis epresbeia (5o9b$), to agathon viene interpretato (e
tenuto conoscibile) soprattutto sulla base degli effetti che esso produce,
delle suefunzioni’4: la produzione di legalità e normatività, il conferimen
to di senso e valore alla conoscenza e alla prassi, la posizione di telos della
condotta in vista di utilità autentica e felicità.
In questa prospettiva, insomma, to agathon risulta soprattutto “buo
no a” giudicare il mondo e a orientare la vita.
4
4.1
Ho definito “precritica” la prima variante del paradigma teologico (o on
toteologico) perché essa si ricollega direttamente alle vecchie certezze
del bonum sive Deus e alla tendenza ad avvicinare strettamente, se non
proprio a identificare, il “buono” con il demiurgo del Timeo. Questo
non significa che non esistano ragioni testuali per confutare, o ignora
re, gli argomenti negazionisti. Come è ben noto, Platone scrive nel
bro vi della Repubblica che le idee traggono dal buono to einai te kai
ten ousian (5o9b6-7); nel libro x si parla inoltre di un “dio” produttore
delle idee (597b5); sempre nel libro VI, il “buono” appare come il “gene
ratore” del sole (5o$b13). Nello stesso passo, si parla del “buono” come
ri
li
122 IL POTERE DELLA VERITÀ
TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? 123
“padre”(5o6e4), il che pare alludere al demiurgo del Timeo definito ap
puntopater kaipoietes (z8c)5.
Questo giustifica il persistere di tesi sull’immediata natura divina del
buono, e suiia sua prossimità al demiurg&. Nel suo Flaton del ;9357, Ro
bin sosteneva che la divinità del Demiurgo era relativa a uno stadio infe
riore della realtà (naturale), e aggiungeva:
se il Demiurgo fosse il Dio, lo stadio superiore della realtà sarebbe inversamente
privato di una simile personalità unica e ugualmente organizzatrice; le Idee sareb
bero un popolo di Dei che potrebbero fare a meno di un Dio supremo. Ora c’è
proprio nella dottrina di Platone una esistenza che domina la folla delle Idee e che
ne è anche separata: è il Bene.
È da notare qui che Robin identifica un doppio livello divino, quello del
“buono” e quello del Demiurgo, dotati delle stesse funzioni rispetto ad
ambiti ontologici diversi; ma soprattutto va sottolineato che egli parla del
“buono” (che pure tende a identificare con l’Uno degli agrapha donata)
nei termini schiettamente teologici dipersonatita
Anche loJaeger “teologo” del periodo americano non esitava a identifi
care il Bene con Dio (Platone non avrebbe usato il nome theos per distin
guere la sua divinità filosofica da quelle della religione popolare)8.
In un importante articolo del 199529, Benitez problematizza la posi
zione precritica riconoscendo in Platone l’aspirazione a unificare il ver
sante etico e quello metafisico-teologico del “buono” rappresentato dal
Demiurgo, che tuttavia rimane teoricamente irrisolta. Benitez si appoggia
però a una descrizione “scolastica” dell’idea del buono come Ens reatissi
mum, che appare a sua volta assai problematica.
In ogni caso, questa variante del paradigma teologico appare resistere a
ogni dubbio, se Francisco Lisi° ha potuto recentemente scrivere che «una
lettura letterale dei dialoghi offre uno scorcio di un sistema in cui il prin
cipio più alto agisce come causa formale, finale ed efficiente»; il “buono”
deve allora essere concepito come un «active principle of creation [...].
Re also creates the world» (si noti che, nonostante Lisi neghi al “buono”
il carattere personale del Dio cristiano, usa tuttavia la forma maschile del
pronome personale).
D’altra parte, lo stesso Giovanni Reale’ segnala uno dei punti di ori
ginalità del proprio pensiero rispetto alla scuola di Tùbingen cui egli
aderisce, nella rivalutazione della figura del Demiurgo, in cui riconosce
senz’altro un Dio creatore a pieno titolo (espressione del «più avanzato
creazionismo nella dimensione del pensiero ellenico»), anche se subordi
nato all’impersonale idea del Bene.
Da ultimo, e con maggiore decisione, Michael Bordt ha nuovamente
tentato di costruire un sistema unificato della “teologia” platonica, facen
dovi confluire senza alcuna incertezza problematica tutti gli elementi di
teologia dispersi nei dialoghi, e in primo luogo naturalmente “buono” e
demiurgo32.
4.2
Rispetto all’immediatezza della formula precritica Bonum sive Deus, le
due varianti che ho impropriamente definito aristotelico-scolastica e neoplatonica
percorrono una makrotera periodos, un giro più lungo. Questo
giro passa per l’identificazione del “buono” rispettivamente con l’Essere
e con l’Uno, per poi concludere nelle equazioni che con Beierwaltes si
possono esprimere come Deus est Esse, Deus est Unum. Naturalmente, la
maggiore differenza fra le due varianti sta, come si è già visto, nell’inter
pretazione di epekeina tes ousias come “al di là delle essenze” oppure “al di
là dell’essere”. Ma, poiché ci sono oscillazioni e sovrapposizioni nelle tesi
proposte dai sostenitori delle due varianti, sarà opportuno indicare anche
in questo caso alcune premesse in certo senso comuni a entrambe, benché
con diverse accentuazioni. Per non appesantire troppo il discorso, mi limi
terò a proporne un elenco sommario.
a) La crescente influenza, fra gli anni Trenta e Cinquanta, della filosofia di
Heidegger, che chiudeva l’epoca del predominio neokantiano e storicista
e riproponeva il primato filosofico dell’ontologia34.
b) Più specificamente, il profilarsi di tendenze rivolte alla ricostruzione
di una tradizione unitaria della filosofia europea, o in altri termini della
“metafisica occidentale” Nel nostro campo, la via — come ho segnalato in
altra sede — sembra essere stata aperta dall’importante libro di Philippe
Merlan from Ptatonism to Neoptatonism (1953), che inseriva Aristotele
nella linea di una ontologia derivativa, a partire dal principio teologico,
destinata appunto a raggiungere il neoplatonismo; ma alle spalle di Ari
stotele stava soltanto una “metafisica accademica” ascritta a Senocrate e
Speusippo, che non giungeva però a includere lo stesso Platone. Questo
lasciava aperto un problema e una sfida, che sarebbero stati affrontati da
IL POTERE DELLA VERITÀ TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? 125
Hans J. Kramer. Nel suo libro Der Urpsrung der Geistmetaphysik (1964)
Platone avrebbe finalmente potuto venire riconosciuto come l’autentico
capostipite di una genealogia che raggiungeva Plotino attraverso Aristote
le. Toccava poi a Werner Beierwaltes (Pensare t’Uno, 1985) di ricostruire la
Wirkungsgeschichte del neoplatonismo fino a Hegel36
Su di un altro versante, premeva anche a Gadamer di annettere Platone
alla tradizione della “filosofia del logos” che andava da Aristotele a Hegel,
e che appariva incrinata proprio dal dissenso fra Platone e Aristotele in
torno al Bene; a questo intento conciliatorio egli dedicava il suo grande
saggio del 1978 sull’Idea detBene tra Platone eAristotele, sul quale dovre
mo tornare. In un modo o nell’altro, dunque, la “metafisica occidentale”
poteva ora garantirsi ininterrotte linee di comunicazione fra Platone, Ari
stotele, Plotino e Hegel (non a caso isolando Kant), e di lì eventualmente
proseguire fino alla renovatio heideggeriana.
c) In campo filologico, la novità era costituita dagli studi di Stenzel del
1914 sulla dottrina accademica delle idee-numeri, in cui si affrontavano
sistematicamente le testimonianze aristoteliche sulle “dottrine non scrit
te” di Platone e sulla sua identificazione “esoterica” di Bene e Uno (a dire
il vero Stenzel era stato preceduto da Robin nel 1908, e seguito da Mari
no Gentile nel 1930, ma questi lavori non hanno goduto di molta fortuna
presso gli studiosi tedeschi). Si apriva così un terreno di ricerca quasi ine
dito e molto promettente nella direzione di una reinterpretazione onto
teologica di Platone e in particolare dell’idea del buono.
4.3
Ho parlato di variante “aristotelico-scolastica”, riferendomi alla equiesten
sione categoriale di essere e bene sostenuta da Aristotele (EN I I09lZ3
e al motto tomistico ens et bonum convertuntur. Ma avrei potuto aggiun
gere: heideggeriana. Nei suoi Grundbegff’, corso tenuto a Marburg nel
1916, Heidegger scriveva infatti: «l’essere è il tetos, la “fine”, l’agathon {...]
L’idea del bene è l’essere e l’ente autentico»8. La forma del riferimento
teologico varia di molto nelle tre posizioni, pur essendo a mio avviso pre
sente più o meno direttamente in ognuna di esse.
Nei suoi studi iniziali, che fondavano l’identificazione (neoplatoniz
zante) del Bene con l’Uno, Kràmer tendeva poi esplicitamente a ricono
scere in quest’ultimo i tratti decisivi dell’ontologia heideggeriana. L’Uno
per Kràmer era il principio della Seiendheit (cioè della ousia) delle cose; ne
consegue che «ogni ente, nella misura tempo in cui è, è sempre al stesso
già buono e conoscibiJe. Ogni ente d’altra parte misura è nella in cui si
avvicina al modo di essere dell’Uno, del fondamento. Questo noccio
è il
dell’intero approccio ontologico lo di Platone». Dunque Ueberseiend
la
dell’Uno heit è «l’antico ontologica”» analogon della “differenza di
Heidegger9.
L’equiestensione Uno-essere-bene mirava a conciliare una visione iper
trascendente del fondamento con una per così dire “distributiva” fra gli
enti di essere e bene. Non era chiaro però dottrina princi
come la dei due
pi attestati da Aristotele (Uno/Diade) potesse conciliarsi con l’ontologia
heideggeriana (e neppure con neoplatonica, del resto la metafisica come
vedremo). Forse anche per questo Kràmer seguito dichiarato
avrebbe in
obsoleto il riferimento heideggeriano in virtù «mutato spirito dell’e
del
poca»40.
Con queste oscillazioni, il primo Kramer si era comunque mosso sul
crinale incerto che separa una concezione trascendente una immanen
da
tistica dell’Uno-essere-buono’. primo versante collocato Sul si era Luigi
Stefanini, che aveva scritto nel 1931: «L’essere deficiente del sensibile e
l’essere diffuso negli intelligibili concentra si tutto pienezza sfolgo
nella
rante dell’Essere per “buono”]: fuori non eccellenza [il del quale resta al
cunché di positivo conoscenza l’esistenza». che giustifichi la e Si avrebbe
dunque nella Repubblica una «visione monistica dell’Essere, che al vertice
degli esseri tutti in sé li risolve ed annulla »
Decisamente immanentistica e “distributiva” in senso aristotelico, e
perciò priva di imbarazzanti riferimenti tanto neoplatonismo quanto al a
Heidegger, è invece la posizione Gadamer, proprio per questo può
di che
venire solo indirettamente riferita paradigma teologico. eliminare
al Per
il contrasto dichiarato fra Platone Aristotele, occorre secondo Gadamer
e
istituire una serie di decodificazioni: descrizione Repub
la del Bene nella
blica ha un carattere mitico-metaforico, normalizzata teori
ed essa viene
camente nel filebo. «La trascendenza stata sottolineata
del bene, che era
tanto enfaticamente nella Repubblica » (dove « ciò che rende tali tutte le
cose buone si trova liberato, in maniera difficilmente comprensibile, dal
la qualità di ente») non è altro che «la forma mitica con fondo,
cui, in
Platone esprime quello che nel fitebo rende esplicito facendo “apparire”
il bene nel bello». Dunque «l’essere, quello bene ogni
del come quello di
altra essenza [...] si rivela direttamente nell’ente». bene limite, misura,
ll è
i z6 IL POTERE DELLA VERITÀ
I TOAGATHON BUONO A CHE COSA? i ‘7
ordine, cioè unità, dell’ente. Su questa base, il fitebo può a sua volta veni
re decodificato sulla base dell’ontologia aristotelica: il bene si distribuisce
nell’essere (ousia) degli enti e garantisce l’ordine teleologico e anche co
smo-teologico del mondo. Dunque Aristotele dà «risposte concettuali»
a ciò che Platone aveva «anticipato in maniera simbolica». Gadamer
avrà forse “risocratizzato” Platone, per usare l’espressione di Renaud, ma
la sua ermeneutica del bene immanente l’ha certamente aristotelizzato,
assicurando forse l’unità della filosofia del logos ma rendendo di fatto ir
riconoscibile, nella nebbia mitico-metaforica che ora lo avvolge, il testo
della Repubblica.
Un ultimo esempio della variante aristotelico-scolastica può essere of
ferto dall’interpretazione di Baltes, che sembra identificare il “buono” con
l’essere in sé o con l’insieme unificato delle idee: una posizione dunque
più “inclusiva” che distributiva nel senso di Gadamer. In virtù di questa
posizione, si potrebbe concludere che ogni ente è buono in quanto è; la
dimensione ontologica sembra riassorbire completamente in sé quella as
siologica, il che può essere comprensibile all’interno di una giustificazione
orno-teologica del mondo, ma difficilmente conciliabile con la prospetti
va platonica.
4.4
Sull’ultima variante del paradigma teologico, quella “neoplatonica’ pos
so essere breve perché se ne è già discusso in questa sede. Si può parlare
di neoplatonismo perché è posizione comune degli autori di questo in
dirizzo — che fanno capo alle cosiddette “scuole” di Thbingen e Milano-
Cattolica — la riduzione del buono all’Uno, che viene autorizzata, come è
noto, dalle testimonianze aristoteliche circa gli agrapha dogmata di Pla
tone, e da quella di Aristosseno relativa a una sfortunata lezione pubbli
ca di Platone peri tagathou, in cui appunto sarebbe stata proposta questa
riduzione. Il carattere neoplatonizzante di questa linea interpretativa è
accentuato dalla tesi, spesso ribadita, della trascendenza dell’Uno-Bene
rispetto all’essere. Ma, come avevo avvertito, questa caratterizzazione è
imprecisa, perché in realtà la “metafisica dei principi” ricostruibile a par
tire dalle testimonianze aristoteliche contempla appunto due principi,
quello dell’unità e quello della molteplicità (la “Diade infinita”) dalla cui
interazione risulta, per un processo derivativo (Seinsabteitung) la produ
zione di diversi livelli dell’essere con tasso decrescente di unità e crescente
di molteplicità. L’identificazione dell’Uno con il Bene rende inevitabile
concepire polarmente la Diade come il principio del Male, e questo eccede
drasticamente l’ambito teorico del neoplatonismo per indicare piuttosto
un orizzonte gnostico. Ma di simili conseguenze si discuterà più avanti.
Per quanto riguarda il problema del “buono” nella Repubblica, l’inter
pretazione esoterica-sistematica è rilevante soprattutto per due aspetti. Il
primo riguarda la reticenza e l’esitazione di Socrate di fronte alla richiesta
di offrire una precisa definizione del “buono” (5o6d-e). Gli interpreti “cri
tici” le spiegano di solito come il segnale di un’effettiva difficoltà teorica,
relativa all’audacia, o persino alla hyperbote, di un esperimento di pensiero
che eccede i limiti della teoria delle idee così come è stata finora accettata
dalla homotogia degli interlocutori di questo e altri dialoghi. Gli interpreti
dell’indirizzo di cui ci stiamo occupando ne propongono invece spiega
zioni diverse.
Secondo Reale, «Platone dice chiaramente di avere bene in mente, os
sia di sapere, che cosa sia t’essenza del Bene, ma di non volerlo dire», te
mendo di attrarre delle derisioni, come gli sarebbe accaduto nel corso della
lezione sul bene8. Kràmer pensa piuttosto che gli interlocutori di Socrate
non siano abbastanza preparati sul piano dialettico per ricevere questo su
premo insegnamento, e Szlezk suppone che la cautela socratica prefiguri
quella che dovrebbe venire adottata nello stato ideale per evitare gli abusi
della dialettica da parte dei giovani non dotati: l’uno e l’altro sembrano
così attenersi al principio dialogico che Proclo riferiva ai sofisti. In ogni
caso, questi autori ritengono che nel diniego socratico sia soprattutto in
causa l’inadeguatezza della scrittura a esprimere i concetti più importanti
(timiotera) della filosofia5o.
Il secondo aspetto consiste in un problema che si pone a questo indi
rizzo esegetico. Parlando del “buono” (identificabile con l’Uno) laRepub
buca parla forse di uno dei principi della “metafisica non scritta ma tace
sull’altro. Si tratta, secondo Szlezk, di una versione diversa ma non con
traddittoria rispetto a questa metafisica. Il “buono” non può essere consi
derato causa dei mali che sarebbero invece dovuti alla Diade; il silenzio su
quest’ultima sarebbe dovuto ai motivi politico-educativi di cui si è detto’.
Non è qui il caso di riepilogare le molte obiezioni che sono state mos
se all’interpretazione esoterico-sistematica. Basterà menzionare alcune
aporie teoriche specificamente relative alla riduzione del “buono” a uno
dei due principi della metafisica derivazionistica. Esse risalgono in fon
si
iz8 IL POTERE DELLA VERITÀ I TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? “9
do all’ambiguità delle stesse testimonianze aristoteliche, che definiscono
Uno-bene e Diade tanto come “principi” (archai) quanto come “elementi”
(stoicheta) degli enti. Nel secondo caso, i due elementi possono risultare di
mensioni strutturali degli enti (in quanto ognuno di essi è simuhaneamen
te uno e molteplice) come lo sono in Aristotele forma e materia: ma allora
Uno-bene e Diade risulterebbero unificabili non ontologicamente ma solo
per analogia, il che sembra decisamente estraneo all’orizzonte platonico e
neoplatonico. Si otterrebbero inoltre due conseguenze paradossali: ogni
ente è buono in quanto tale, in quanto unificato dall’Uno (con la già men
zionata riduzione della dimensione assiologica a quella ontologica); vice
versa, le stesse idee, in quanto plurali, risultano già contaminate dal Male.
Se invece si tratta di principi trascendenti, è difficile non concepirli
come una divinità e un’antidivinità, il cui rapporto sarebbe allora conflit
tuale e non collaborativo nella Seinsableitung. In ogni caso, l’assoluta tra
scendenza del principio dell’ Uno-bene destituirebbe il mondo di valore, e
l’etica prenderebbe allora la forma plotiniana di una fuga dal mondo e di
risalita mistica dell’anima verso il principio: una conseguenza, questa, che
appare aliena non soio rispetto all’orizzonte etico-politico della Repub
blica, ma alla stessa 6oicaoi Otc “per quanto è possibile a un uomo” del
Teeteto e di altri luoghi del platonismo.
Si tratta di questioni che possono qui venire solo accennate; va detto,
del resto, che nei tempi più recenti le distanze fra i sostenitori e gli avver
sari delle posizioni esoteriche-metafisiche sembrano essersi attenuate (es
sendo i primi più disposti a riconoscere l’autonomia dei dialoghi rispetto
alle dottrine non scritte, i secondi meno ostili ad ammettere la possibilità
che Platone abbia in effetti tentato “esperimenti di pensiero” del tipo di
quelli attestati da Aristotele). Più che filologico, il confronto a mio avviso
dovrebbe diventare ormai soprattutto filosofico.
Resta ancora da menzionare, prima di concludere, una posizione signi
ficativa anche se difficilmente classificabile, quella di Rafael Ferber. Benché
parzialmente ostile alle tesi esoterico-sistematiche, questo autore può es
sere accostato, come egli stesso riconosce, all’indirizzo neoplatonizzante
per il suo collocare il “buono” «al di là dell’essere e della conoscenza»13.
Lo statuto metaoggettuale e metaepistemico del “buono” lo rende “terzo”
rispetto all’essere e al pensare, producendo così una feconda tensione teo
rica: «Il pensiero del “terzo” deve pensare l’impensabile, l’inesprimibile e
il Nichtseiende [...] Dove non ci può essere alcun oggetto della teoria, soli
es werden». Questa tensione non sembra avere però in Ferber un esito
mistico-metafisico, quanto piuttosto etico-pratico, che lo riavvicina per
questo aspetto alle posizioni dei neokantiani e di Wieland. Il “buono” è
per lui un principio pratico, fondamento dell’etica platonica, non imme
diatamente realizzabile perché non esauribile nell’oggettualità dell’esi
stente ad opera di una pur necessaria politica razionale (essa è «secondo
platone filosofica, ela filosofia politica»)55.
5
Non è certo qui il caso di aggiungere un’altra interpretazione alle molte
già passate in rassegna. To agathon ci è risultato buono a molte cose, forse
troppe: legge del pensiero e criterio dei giudizi di valore, tetos della prassi
morale e divinità trascendente, principio di una metafisica e fondamento
di un’ontologia... Un arco ermeneutico la cui ampiezza può apparire ec
cessiva persino di fronte a testi originariamente polisemici come i dialoghi
di Platone.
Per ridurre a dimensioni più ragionevoli questa hyperbole esegetica
— che non a caso si riferisce alla hyperbole del “buono” sulla quale già iro
nizzava Glaucone — può forse soltanto ricordare un prudente criterio di
metodo. Ci si dovrà chiedere perché la tematizzazione onto-epistemica
dell’idea del buono compaia, nei testi scritti, solo in un dialogo di natura
etico-politica come la Repubblica. Si dovrà dunque interpretarla a partire
dalla suafunzione in questo specifico contesto dialogico, in primo luogo
la legittimazione della pretesa di un governo dei filosofi, e comprenderne
l”economia filosofica”6 a partire da esso. Senza che per questo si debba
tornare al silenzio hegeliano su1 “buono’ si potrà forse in questo modo
rendere teoricamente più governabile la sua interpretazione, e anche con
ferire un senso meglio delimitato agli sviluppi che Platone può averne
esperito nella discussione accademica che restò al di qua della soglia della
scrittura. Anche con queste salutari restrizioni, to agathon resterebbe co
munque, come Lévi Strauss diceva del mito, bon %penser.
Note
i. Nella Enciclopedia dette scienzefilosofiche in compendio( 511, 514) Hegel sembra
riprendere la critica di Aristotele alla “vuotezza” dell’idea del buono in Platone (sen
za peraltro menzionare né l’uno né l’altro) quando scrive: «questa somma cima del
rovina
130 IL POTERE DELLA VERITÀ I
TOAGATHON: BUONO A CHE COSA? ‘3’
fenomeno del volere, che si è volatilizzato fino alla assoluta vanità — fino a una bontà
non oggettiva, ma che è certa solo di se stessa, e a una certezza di se stessa nella nul1it
dell’universale — immediatamente in se stessa», rovesciandosi nel male. A essa
Hegel contrappone «la sostanza, che si sa liberamente, in cui il dover essere assoluto è
altresì essere», e che «ha la sua realtà come spirito di un popolo». Si minima licet...,
posso ricordare che due recenti brevi presentazioni d’insieme del pensiero platonico
riservano alla “metafisica” del buono un posto quasi altrettanto marginale di quello
hegeliano. In M. Erler, Platon, Mùnchen zoo6, al passo cruciale della Repubblica Sono
dedicate quattro pagine (su 224); in M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino
2003, il” buono” è trattato in un’appendice di sette pagine (su z).
i. Le critiche aristoteliche all’idea del buono nei primi libri dell’Eudemia e della iVi
comachea sono ricche di indicazioni esegetiche illuminanti, per quanto vengano spes
so ignorate dagli interpreti esoterico-sistematici e non solo da loro (nessuna analisi ne
compare nel pur ricco volume curato da G. Reale, 5. Scolnicov, New Images ofPtato:
Dialogues on the Idea ofthe Good, Sankt Augustin ;oo;). Nonostante le preziose ana
lisi di E. Berti, Multiplicité et unité du bien selon FE i 8, in P. Moraux, D. Harlfinger
(Hrsg.), Untersuchungen zur “Eudemischen Fthik”, Berlin pp. 157-84, probabil
mente questi testi meriterebbero ulteriori approfondimenti di indagine.
3. Sull’elaborazione neoplatonica del “buono” cfr. M. Baltes, Is the Idea ofthe Good
in Plato’s ‘Repubtic”beyondBeing?, in M.Joyal (ed.), Studies in Plato and the Ptatonjc
Tradition: Essays Presented tOJOt)n Whittaker, Aldershot 1997, pp. 3-23; e M. Abbate,
Il Bene nell’interpretazione di Ptotino e Proclo, in M. Vegetti (a cura di), Platone, La
Repubblica, trad. e commento, voi. v, Napoli 1003, pp. 625-78.
4. Così ad esempio P. Stemmer, Ptatons Diatektik, Berlin-New York 1992, pp. 153 ss.,
171-2; W. Kcrsting, Platons “Staat”, Darmstadt 1999, pp. 240-I.
P. Natorp, Dottrina platonica delle
.
idee (1903, 1921’), trad. it. I’vlilano 1999, Cit.
p. 19$ (sul “buono” cfr. pp. 235-50, che corrispondono alle pp. i88-zo, dell’edizione
del 192.1, cui va aggiunta laAnhang 14).
6. Ivi, pp. 194-5, 199-200.
7. Ivi,p. ‘94.
8. Ivi,pp. 196 SS.
D. Ross, Platone e la teoria delle idee
.
(i5i), trad. it. Bologna 1989 (sul Bene cfr.
pp. 69-75).
IO. G. Santas, The form ofGoodin Plato’s “Repubtic”(198o), in G. fine (ed.), Plato,
Oxford looo, pp. 249-79.
i,. G. Cambiano, Platone e le tecniche (iri), Roma-Bari 1991’ (cit. p. 174).
iz. Natorp, Dottrina platonica delle idee, cit., pp. 199-100, Anhang 14.
13. M. Heidegger, La dottrina platonica della veritd (1941), in Id., Segnavia, trad. it.
Milano 1987, p. 184.
14. E. Cassirer, Da Thlete a Platone (1925), trad. it. Roma-Bari 1984 (sul buono cfr.
f}2. 154-8).
H. Rickert,Der Gegenstand
,.
derErkenntnis. Einfiihrungin die Transzendentalphi
losophie, Tì.ibingen-Leipzig I904, pp. 117-8.
i6. Cfr. in questo senso le importanti osservazioni in F. Franco Repellini, Note su1
“Ptatonbild” del Terzo umanesimo, in “Il pensiero”, 1-3, 1972, pp. 91-111.
J. Stenzel, Platone educatore (192$), trad. it. Bari 1966, pp. 267 ss., 315.
s. Nello stesso senso e negli stessi anni si esprimeva A. Diès nella sua Introduzio
ne all’edizione Budé della Repubblica (1932): sulla funzione politica del “buono” cfr.
pp. LXIII 55.
19. W. Wieland, Ptaton und die formen des Wissens, Gòttingen 1981 (sul “buono”
cfr. pp. 159-85).
o. W. Kersting, Ptatons “Staat”, Darmstadt ‘929, pp. 235-8; nello stesso senso
p. Stemmer, Platons Diatektik, Berlin-New York 1992, pp. 17 1-2.
2.1. T. Irwin, Plato’s Moral Theory, Oxford 1977’ pp. 225-6. Va detto che in generale
gli interpreti di orientamento analitico manifestano un forte disagio rispetto al passo
sul “buono” della Repubblica. Valga per tutti la deplorazione di J. Annas, An Intro
duction to Plato’s ‘Republic”, Oxford 198;, p. 284: «for all the grand language we are
left without any idea ofhow taking the first step » verso la comprensione dell’idea del
buono. Ma già G. Grote, Plato, andthe Other Companions ofSokrates, London 1883’,
voi. IV, p. 113, aveva sostenuto che se Socrate non è in grado di rispondere a Glaucone
è perché Platone «has no key to open the door» della conoscenza del “buono”.
ii. Ross, Platone e la teoria delle idee, cit., pp. 151-2: secondo Ross, Platone vuol dire
solo che dell’essere fanno parte sia la vita della mente (pensante) sia l’immobilità del
le idee.
13. Questo problema viene ampiamente discusso da Zeller in E. Zeller, R. Mondolfo,
Lafilosofia dei Greci (19225), parte III, voi. 111/I, a cura di M. Isnardi Parente, Firenze
1974, JJ2. 81 55.
14. In questo senso cfr., fra gli altri, M. Dixsaut, Ptaton et la question de la pensée,
Paris zooo, pp. 121-7.
25. Il significato teologico di tutti questi passi viene però discusso e ridimensionato
da f. Fronterotta, La divinité du bien et la bonté du dieu ‘),roducteur” (phytourgos/
demiourgos) chez Platon, in J. Laurent (éd.), Les dieux de Platon, Caen 2003,
pp. 53-76 (il primato del bene resta secondo Fronterotta di natura assiologica e non
ontologica).
a6. Un’ampia rassegna di queste posizioni si troverà nella nota di M. Isnardi Parente
in Zeller, Mondolfo, Lafilosofia dei Greci, cit., pp. 94-106.
27. L. Robin, Platone ,968), trad. it. Milano 1988 (sul buono e il demiurgo cfr.
J22. 171-3).
;8. Cfr. WJaeger, Paideia, vo1. ,i (i), trad. it. Firenze ,954, pp. 493-5.
29. E. E. Benitez, The Good or the Demiurge: Causation and the Unity of Good in
Ptato, in “Apeiron”, z$, 1995, pp. 113-40.
30. E L. Lisi, The form ofthe Good, in Id. (ed.), The Ascent to the Good, Sankt Augu
Stifl 2007, pp. 199-227 (cit. pp. 226-7).
31. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano J9970, pp. 497-539
(cit. p.
529).
132 IL POTERE DELLA VERITÀ TOAGATH0N: BUONO A CHE COSA? ‘33
32. M. Bordt, Ptatons Theologie, freiburg-Mùnchen zoo6.
3. W. Beierwaltes, Platonismo e idealismo (Iy72), trad. it. Bologna 1987.
Cfr. in proposito la ricostruzione di f. Franco Repellini, Gli agrapha dogmata di
Platone: la loro recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme”, z6,
1973, 51-84.
M. Vegetti, Cronache platoniche, in “Rivista di filosofia”, LXXXV, 1994,
f3. 109-29
(CAP. i in questo volume).
36. A questi lavori si deve aggiungereJ. Halfwassen, DerAufitiegzum Einem. Unte,..
suchungen zu Plato undPlotin, Stuttgart 1991.
In H. G. Gadamer, Studi platonici 2 (1976), trad. it. Casale Ivlonferrato 1984,
i5i-26i.
38. M. Heidegger, I concettifondamentali dellafilosofia antica, trad. it. Milano 2oQ,
p. 235 (rinvio in proposito a M. Vegetti, IlPlatone delprimo Heidegger, in “Paradigmi”,
2.1, 2003, pp. 184-90).
Le citazioni sono rispettivamente da H.J. Kràmer,Areté bei Platon undAristote
les, Heidelberg 1959, pp. 473 SS., 555 n. 4; cfr. inoltre Id., DieplatonischeAkademie und
das Problem einer systematischer Interpretation der Philosophie Platons, in “Kantstu
dien”, 55, 1964, pp. 86-7; Id., Epekeina tes ousias. Zu Platon, Politeia 5093, in “Archiv
fùr Geschichte der Phiosophie”, ,, p. 19.
40. H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti della metafisica (1980), Milano 198;, p. 320.
41. L’immanentismo dell’indirizzo esoterico è sottolineato da E. Berti, Il Plato
ne di Krrimer e la metafisica classica, in “Rivista di filosofia neoscolastica’ 75, 1983,
pp. 313-26, che gli contrappone il trascendentismo della “metafisica classica” da Ari
stotele alla scolastica. Va tuttavia notato che Kràmcr insiste sulla trascendenza dell’ U
no, e che d’altra parte, se è vero che il Dio cristiano (e in parte anche quello aristote
lico) sono trascendenti, del tutto immanente è invece l’ordine del mondo assicurato
dalla equiestensione buono-essere.
42. L. Stefanini, Platone (1932), Padova voI. I, pp. 247-8 (rist. anast. Padova
1991).
43. Gadamer, Studi platonici 2, Cit., pp. 229-30, i6i.
44. Così E Renaud, Die Resokratisierung Platons. Die platonische Hermeneutik
Hans-Georg Gadamers, Sankt Augustin 1999’ p. 134.
M. Baltes, Is the Idea ofthe Good in Plato’s “Republic” beyond Being?, in M. Joyal
(ed.), Studies in Plato and the Platonic Tradition: Essays Presented toJohn Whittaker,
Mdershot 1997, pp. 3-23, in particolare p. 12..
46. Sull’impossibilità di considerare l’idea del buono convertibile con l’essere cfr. le
considerazioni di G. Sillitti, Al di Ici della sostanza: ancora su Resp. VI 5093, in “Elen
chos”, I, 1980, pp. 225-44. L’idea del buono non è «estensionalmente comprensiva di
tutte», e possiede troppe note caratteristiche («comprensione») per risultare equie
stesa all’essere.
47. Cfr. in questo senso Kràmer, fpekeina tes ousias, cit.; e Id., Die Idee des Gùten.
Sonnen- undLiniengleichnis (Buch vi504a-sIIe) , in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Politeia,
Berlin 1997, Jj3. 197-203.
48. G. Reale, Introduzione, in H. J. Kràmer, Dialettica e definizione delBene in Pla
tone (1966), trad. it. Milano 1989, p. i6. Si può osservate che Socrate affronta con
sapev0lmd1te ben altre occasioni di rendersi ridicolo di fronte al pubblico ateniese
(nudità delle donne nelle palestre, governo dei filosofi).
Kràmer, Dialettica e definizione delBene in Platone, cit.; T. A. Szlezk, L’idée du
Bien en tant qu’arché dans la Re’publique de Platon, in M. Fattal (éd.), Laphilosophie
dePtaton, Paris ;ooi, pp. 366 55.
o. Cfr. soprattutto T. A. Sz1ezk, Platone e la scrittura dellafilosofia (1985), trad. it.
Milano 1988, pp. 398-405.
,. Szlezk, L’idée dxi Bien, cit., pp. 345-59; e Id., Die Einheit des ?latonbildes in der
“Tùbinger Schule”, in Reale, Scolnicov, New Images ofPlato, cit., pp. 49-68; cfr. da
ultimo Id., Die Idee des Guten in Platons Politeia, Sankt Augustin 2003.
52. Cfr. in proposito R. Ferber, J’[’zrum hat Platon die “ungeschriebene Lebre” nicht
geschrieben? Mùnchen 2007.
Id., Platos Idee des Guten, Sankt Augustin 1989’, pp. 68, 153.
54. lvi, p. 2.78.
J32. 131-3.
Ivi,
.
6. Mi riferisco naturalmente al classico saggio di H. Cherniss, The Philosophical
fconomy ofthe Theory ofldeas (1936), in Id., Selected Papers, Leiden 1977, pp. 121-3;.
Per qualche indicazione bibliografica sull’approccio qui delineato, cfr. M. Veget
ti, Dialogical Context, Theoy ofldeas and the Question ofthe Good in Book VI ofthe
Republic, in Reale, Scolnicov, I.Tew Images ofPlato, cit., pp. 225-36.
Parte terza
L’utopia
ha
Proclo
6
Beltista ezer dynata.
Lo statuto dell’utopia nella Repubblica4
il problema
fin dalla sua comparsa’, l’utopia del libro v (il termine va per ora lasciato
impregiudicato in tutta la possibile ampiezza delle sue accezioni) è stata
certamente oggetto di discussione, di critiche, di interpretazioni. Come
mostrano il Timeo e le Leggi, questa discussione è senza dubbio iniziata
già all’interno dell’Accademia, e avrebbe conosciuto un momento forte
— destinato a dominarne i successivi sviluppi — nel libro ii della Politica di
Aristotele.
Da allora in poi, e fino alle soglie del mondo moderno, i critici della
Repubblica avrebbero contestato come inaccettabili i contenuti proposti
dalla sua utopia, o ne avrebbero denunciato il carattere chimerico.
Nessuno tuttavia, fra gli amici e i nemici della Repubblica — in
—
cluso mai messo in dubbio una serie di certezze: a) che Platone con
siderasse desiderabili e auspicabili le sue proposte; b) che egli le ritenesse in
qualche misura realizzabili e applicabili alle società storiche; c) che infine
l’utopia della Repubblica appartenga, di fatto e di principio, all’ambito del
pensiero politico.
All’inizio dell’Ottocento, Kant e Hegel fissavano, in modo per così
dire paradigmatico, le due prospettive possibili di lettura della Repubblica,
le due opzioni alternative fra le quali gli interpreti non avrebbero cessato
di scegliere fin quasi alla metà del Novecento.
Scriveva Kant, in polemica con Brucker, che «la Repubblica platonica
è divenuta proverbiale come presunto esempio vivente di perfezione chi
merica, tale da non poter risiedere altrove che nella mente di un pensatore
sfaccendato». Ma, aggiungeva Kant, è puerile «gettar via come inutile»
Questo capitolo è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e com
mento a cura di M. Vegetti, voi. Iv, I. v, Bibliopolis, Napoli zooo.
agli
della
risultava
nel
fino
13$ IL POTERE DELLA VERITÀ BELTISTA EIPER DYNATA 139
il pensiero platonico, con il pretesto della sua «inattuabilità». Si tratta di
una fallacia empiristica, perché, scriveva con la sua abituale severità, «
estremamente riprovevole desumere le leggi di ciò che io devo fare da ciò
che vien fatto, determinando il primo in base al secondo». La legislazione
e l’esercizio del potere descritti da Platone andranno dunque assunti come
principi teorico-ideali, come archetipi, « al fine di ottenere che la costitu
zione giuridica degli uomini si vada sempre più avvicinando alla massima
perfezione possibile», quali che siano, poi, i livelli di adeguazione storica
mente raggiungibili, e certamente non determinabili in astratto5.
Kant stabiliva così la premessa di tutte le interpretazioni della Repub
blica come teoria normativa e valutativa, ideale trascendentale, né utopi
co nel senso di sogno chimerico di evasione né in senso stretto politico
programmatico, ma certo non senza rapporto con il pensiero e la prassi
della politica6.
All’estremo opposto, ma nello stesso spazio concettuale, si situava la
lettura hegeliana.
Anche Hegel escludeva che la Repubblica fosse da considerare alla stre
gua delle «chimere» e dei «pii desideri», perché l’ideale, in virtù del con
cetto, contiene in sé verità, «e la verità non è una chimera». Ma, aggiun
geva Hegel, certo non simpatetico verso l’utopia, Platone non «è uomo da
trastullarsi con teorie e principi astratti», dunque neppure con la forma
dell’ideale che Kant gli aveva ascritto. Hegel non aveva dubbi sulla deside
rabilità — occhi del suo autore — forma di vita comunitaria propo
sta nella Repubblica. Ma l’aspetto decisivo della sua lettura stava nel modo
in cui egli liquidava il problema della possibilità o invece utopicità della
kattzotis platonica. Il privilegiare lo stato e la collettività rispetto alla vita
individuale, l’organicismo radicalmente anticontrattualistico, non ad altro
si devono se non al fatto che «Platone ha rappresentato l’eticità greca nella
sua forma sostanziale: infatti quello che costituisce il vero contenuto della
repubblica platonica è la vita dello stato greco» in cui a sua volta si incar
,
na lo spirito greco, estraneo com’esso era all’idea embrionalmente socrati
ca, poi cristiana e moderna, dell’individualità e dell’interiorità soggettiva8.
Lo storicismo hegeliano produceva dunque un risultato solo in appa
renza paradossale: l’utopista Platone diventava il realista Platone, l’inter
prete più fedele della sostanza etica e della forma spirituale del popolo
greco e del suo tempo. All’interno dello schema hegeliano, questo segnava
tuttavia il limite storico della Repubblica, troppo fedele al suo tempo per
potere tener conto dialetticamente di esigenze dello spirito che sarebbero
maturate più tardi e che soltanto nella forma dello stato moderno avreb
bero potuto trovare la loro soddisfazione. Nell’umanesimo soprattutto te
desco del Novecento, tuttavia, caduta la storicità della fenomenologia he
geliana la Repubblica, in quanto espressione compiuta dello stato e dello
spirito greco, sarebbe tornata a svolgere il ruolo di un modello direttamen
te fungibile in ambito politico e sociale — all’aberrazione di assegnarle
il compito di prefigurare lo stato totalitario del nazionalsocialismo.
Né Kant né Hegel, dunque, e neppure gli interpreti che in modi mol
to differenziati a essi si ispiravano, mettevano in dubbio i tre presupposti
di cui si è detto all’inizio: che le proposte del libro v fossero per Platone
desiderabili, in qualche misura attuabili, e comunque pertinenti alla sfera
della politica e della storia.
«li piano utopico», come ha scritto Dawson, poteva continuare a ve
nir concepito come «un paradigma politico tanto quanto un paradigma
.
etico»
La cesura di questa secolare tradizione interpretativa e critica può pro
babilmente venir situata alla fine della Seconda guerra mondiale, con la
memorabile aggressione di Popper contro Platone, annoverato ora, insie
me con Hegel e Marx, tra i fondatori del pensiero politico totalitario, e
dunque fra i precursori di nazismo e stalinismo”.
La polemica di Popper — fuoco del contesto ideologico che l’aveva
suscitata — senza dubbio per molti aspetti eccessiva e pretestuosa.
Essa metteva in luce però un’evidenza incontestabile: la radicale estraneità
del pensiero politico di Platone rispetto alla tradizione liberal-democrati
ca, e perciò la sua fallacia etico-politica per chiunque considerasse quella
tradizione come un orizzonte valutativo senza alternative.
La prima reazione rispetto a Popper — che consistette nel tentativo
alquanto ingenuo di difendere Platone e scagionarlo da quelle accuse, in
modo da provarne la compatibilità appunto con un “senso comune” libe
raldemocraticolz
— risultò in effetti o troppo debole di fronte all’atto di
accusa, o troppo insostenibile in rapporto a qualsiasi plausibile interpreta
zione dei testi platonici.
È venuta allora prendendo forma una strategia più ranata, che mirava
a difendere Platone in un certo senso da sé stesso: per salvare Platone, si
trattava di depotenziare il senso utopico-politico della stessa Repubblica,
in modo che l’autore fosse posto al riparo dagli effetti indesiderabili pro
dotti dal suo testo. In questo quadro, vengono messe in discussione appun
to quelle certezze di cui si è detto.
è
140 IL POTERE DELLA VERITÀ
La prima, cioè la desiderabilità delle proposte della Repubblica agli oc
chi del suo autore, è denunciata con apprezzabile sincerità da autori come
Gadamer e più recentemente Rosen.
Gadamer ha scritto che la Repubblica costituisce «una grande provoca
zione lanciata alla moderna coscienza cristiana e liberale dell’umanesimo
che venera in Platone uno dei suoi grandi eroi». Per sanare il conflitto,
bisogna allora ipotizzare che il dialogo non sia altro che un «gioco ra
zionale», da ascrivere al genere letterario del «pensare in utopie», che
Popper avrebbe frainteso prendendo alla lettera i «castelli in aria» del
dialogo, da interpretare invece soltanto come stimoli al libero pensiero.
Gadamer propone così la via più semplice e diretta per liberare Platone
dall’ingombrante fardello dell’utopia della Repubblica: si tratta di consi
derarla nient’altro che un surrogato immaginario della realtà, forgiato al
più per fornire un punto di vista critico sull’esistente, senza alcun requisito
intrinseco di desiderabilità e ancor meno di praticabilità”.
Altrettanto esplicito Rosen, che scrive: «Il problema [...] del fatto se
lo stato descritto dalla Repubblica sia possibile, o sia da Socrate creduto
possibile, è perciò di secondario interesse. Il punto decisivo è che esso è
indesiderabile, e in particolare che è indesiderabile per il filosofo»’.
Rosen si accosta per questa via a una seconda alternativa nell’ambito
della strategia di assoluzione di Platone dalla Repubblica, sostenuta in pri
mo luogo da Leo Strauss e condivisa da autori come Crombie e Bloom.
Per Strauss, la kallzolis è indesiderabile, perché costringerebbe i filosofi al
coinvolgimento politico, e inoltre impossibile, perché «l’eguaglianza dei
sessi e 11 comunismo assoluto sono contro natura». Si tratta dunque di
unafiction ironica deliberatamente destinata all’autoconfutazione, cioè a
mostrare sia i limiti intrinseci alla natura della dimensione politica, sia gli
effetti catastrofici che deriverebbero dal tentativo di innestarvi le esigenze
dell’immaginazione filosofica.
Sogno di evasione, dunque, oppure gioco ironico spinto fino alla vo
luta comicità, come sostiene Bloom: in entrambi i casi l’utopia della Re
pubblica sarebbe stata secondo il suo autore tanto indesiderabile quanto
impossibile, e quindi le accuse rivoltegli sulla base del suo testo dipendono
soltanto da una rozza incomprensione esegetica’5.
Nella stessa direzione, ma seguendo un percorso diverso, si orienta
una seconda variante di questa strategia interpretativa: quella consistente
nel considerare la Repubblica come sostanzialmente estranea all’ambito
politico.
BELTISTA EIPER DYNATA ‘4’
Su questa via si è mossa recentemente Julia Annas, preceduta del resto
da autori come Sparshott e Vògelin’6. Le proposte politiche della Repub
blica risultano, «se prese alla lettera, assurde»; esse vengono sviluppate
«in such sketchy, incomplete and extreme ways that it is hard to piace
them in a tradition of serious politica1 philosophy». Annas dubita persi
no che Platone abbia mai avuto davvero interessi di ordine politico (che
sarebbero semmai reperibili nel Politico e nelle Leggi). In ogni caso, la Re
pubblica va letta come un testo sulla morale individuale, rispetto alla qua
le la discussione sullo stato ideale non risulta «a major concern» per sé
stessa’7.
Seguendo le indicazioni di Robin Waterfield”, Annas inclina piutto
sto a leggere le parti politiche della Repubblica come una metaforica dello
stato interno dell’anima individuale (ad esempio, l’aborto e l’infanticidio
di 460c starebbero a significare il rigetto delle idee indesiderate da parte
del soggetto)’9.
In modo invero meno estremo, autori come Bertelli e Blòssner sono re
centemente approdati a conclusioni simili. Non c’è posto per la città giusta
nel mondo storico, scrive il primo, e pertanto l’uomo giusto vivrà lonta
no dalla politica; lapoliteia platonica vale dunque soltanto come «me
taFora dell’ordine interiore dell’uomo», un ordine esclusivamente mora
le°. Blòssner perviene dal canto suo, attraverso una giusta rivalutazione
del carattere dialogico-comunicativo dei testi platonici, alla conclusione
che nella Repubblica la metafora politica è destinata a rendere interessan
te e persuasiva per gli interlocutori di Socrate la descrizione dell’ordine
dell’anima, e la connessione che vi si può instaurare fra giustizia e felici
tà. L’errore della critica popperiana, conclude Blòssner, consiste nel non
aver compreso il contesto dialogico-argomentativo in cui vanno di volta
in volta inserite, e interpretate, le posizioni sostenute dai personaggi pla
tonici — delle quali, dunque, lo stesso Platone non può venir considerato
personalmente responsabilehi.
L’estraneità della Repubblica all’ambito politico — se per esso si inten
dono le forme storiche della società umana — confermata per altra via, sul
la scorta di indicazioni dello stesso Zeller, da Margherita Isnardi Parente.
Il disegno di Platone, essa scrive, «non vuole né intende diventare pro
gramma di azione», né «avrà alcuna espressione pratica». Si tratta invece
di creare una «nuova aristocrazia», una comunità filosofica separata dalla
« contaminazione immediata con la pratica». Platone in sostanza « non in
tende [...] creare una città collettivistica, ma un ceto dirigente cenobitico »
— le
si
‘4’ IL POTERE DELLA VERITÀ BELTIS TA FIPER DYNATA ‘43
Sul “cenobitismo” platonico aveva del resto già insistito Alexandre
Kojève, in uno scritto non a caso destinato a Leo Strauss e alla sua teoria
della dissimulazione ironica. Se vista come progetto destinato alla po/is,
come fa il «lettore comune» ignaro dell’Accademia, la Repubblica appare
«deliberatamente assurda», come prova fra l’altro la sua «ridicola comu
nità delle donne». In realtà, quel che Platone voleva costruire era un “mo
nastero” di filosofi separato dal mondo: chi ha veramente tentato di realiz
zare la “genuina” concezione platonica non sono dunque stati i politici, che
l’hanno volgarmente fraintesa, ma i monaci sia cristiani sia musulmanj’.
La kaizolis non è dunque una città degli uomini, ma una metafora
dell’anima oppure un cenobio filosofico, alla maniera della Platonopoli
progettata da Plotino.
Il carattere comune di queste strategie di difesa di Platone dal suo testo
interpretazioni utopistiche, ironiche, metaforiche, depoliticizzanti —
appare comunque quello di attribuire a Platone stesso i tratti di indesi
derabilità/impossibilità/impoliticità delle proposte della Repubblica, che
risultano ovvi e ineludibili per i suoi interpreti. Se ne è dato conto con una
certa estensione per documentare un consenso esegetico che oggi costitui
sce probabilmente, a mio avviso, il maggiore ostacolo alla comprensione
del libro v della Repubblica e della peculiare forma di utopia che vi si pro
pone. Ma questo consenso, per quanto autorevole, sembra confliggere al di
là di ogni buona regola interpretativa, come ha energicamente sostenuto
Myles Burnyeat, con l’evidenza testuale. Poiché essa ha finito per venire
occultata, o almeno pesantemente selezionata, negli sviluppi della discus
sione postpopperiana, sarà il caso di darne analiticamente conto, prima
di formulare un tentativo di interpretazione complessiva. La rubrica degli
argomenti può venire formulata così: a) le questioni della desiderabilità e
della praticabilità; b) il rapporto paradigma/esecuzione; c) le condizioni
di possibilità, teoriche e pratiche; I) i limiti del progetto collettivistico;
e) l’efficacia discorsiva e politica dell’utopia.
Desiderabilità e possibilità
Platone sembra aver nitidamente previsto il doppio scetticismo — relati
vo tanto alla desiderabilità quanto alla possibilità — che avrebbe investi
to i lineamenti dell’utopia tracciati nel libro v. Socrate esita a sviluppare
il discorso sulla comunanza di donne e figli, perché, dice, «da un lato si
I
dubiterà [apistoito] che si parli di cose possibili [dynata], dall’altro —
che ammettendo che lo siano — metterà inoltre in dubbio che esse siano
davvero le migliori [arista]» (45oc-d; cfr. anche ta nun apisteuomena, vi
50zb5). Più avanti, Glaucone confermerà il pericolo di una diffusa incre
dulità (apistia) relativa sia alla possibilità sia all’utilità (dynaton/opheli
mon) della legislazione sulla famiglia proposta da Socrate (457d).
Socrate si troverà a più riprese a dover affrontare questa duplice per
plessità. Ma il suo maggiore imbarazzo sembra proprio riguardare la que
stione della realizzabilità: «non vorrei che il discorso sembri solo un pio
desiderio [euche] » (45od). E la formulazione di euchai vane e irrealizzabili
sarebbe a buona ragione motivo di derisione (vi 499c; sul timore ricorren
te di suscitare il riso per l’impossibilità o l’indesiderabilità delle proposte
formulate cfr. anche 451al, 45za-b, 473c).
Quando per una volta Socrate ritiene di dover sviluppare il discorso
prescindendo provvisoriamente dalla questione della realizzabilità del suo
progetto egli avverte la necessità di scusarsi. Procederà per un tratto, affer
ma, come quei «pigri di mente» che sognano un Paese di Cuccagna senza
affaticarsi a pensare se i loro desideri siano possibili (dynata), «rendendo
ancora più pigra un’anima peraltro già pigra » (458a-b).
Ma questo « impractical idealism » 25 può essere soltanto provvisorio,
appunto per non incorrere nel ridicolo che giustamente colpisce l’utopia
intesa come mero sogno di evasione dalla realtà, o come un suo «surrogato
immaginario » 6• Di norma, il discorso platonico istituisce un vincolo
crociato, che connette strettamente fra loro le dimensioni di desiderabilità e
di praticabilità del disegno utopico (c’è una sola eccezione a questo vincolo,
peraltro solo apparente, nel passo 47zadi cui si dirà nel paragrafo seguente).
Si veda ad esempio la discussione sull’uguaglianza fra i sessi. Viene po
sta in primo luogo la questione della suapossibffità («se è possibile o no»,
45ze). Una volta mostrato che non si tratta di cosa impossibile (adynaton)
né simile alle euchai (456b), si passa a discutere della sua desiderabilità,
strettamente connessa alla precedente (L v’’atc 7E ,caì Drtorc, 456c4), e
si conclude che questa legislazione «non è soltanto possibile, ma anche la
migliore [arista] per la città» (457a).
Altrove, a proposito della comunanza di donne e figli, la questione
della utilità (ophetimon) viene invece anteposta a quella della possibilità
(dynaton) (457d, cfr. 461e, 466a).
Dopo l’excursus sulle norme relative alla guerra, l’impazienza di Glau
cone diviene incalzante nella sua richiesta di ottenere precisi chiarimenti
an
in
144 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA ‘45
sulle condizioni di attuabffità della nuovapotiteia. Egli teme che le digres
sioni di Socrate gli facciano dimenticare il discorso più importante, «cioè
come è possibile che questa costituzione venga realizzata [genesthai] e in
che modo potrebbe mai esserlo» (%7le).
Poco più avanti Glaucone ripete: «cerchiamo di convincere noi stessi
di questo solo punto: che è possibile e come è possibile [c vvarè’,’ iccì
e lasciamo perdere il resto» (471e).
Non si tratta, come qualche interprete ha scritto, solo di un’istanza in
genuamente o rozzamente “praticista” da parte di Glaucone. Le formule
conclusive di Socrate non lasciano dubbi sullo stretto legame che secon
do lo stesso Platone intercorre fra l’aspetto della auspicabilità delle sue ri
forme e quello della loro praticabilità; in esse, anzi, la possibilità appare
persino condizione di desiderabilità, perché, come si è visto, desiderare
l’impossibile è soltanto ridicolo. Le espressioni di VI ozc
)rLorc eiirrp
vcer, &ptota & ‘é’orro) sembrano in questo senso inequivocabili.
Altrettanto precise, e più volte ribadite, sono le conclusioni sullo staturo
di possibilità del disegno utopico: «Non è impossibile che si realizzi,
né noi parliamo di cose impossibili, benché certo difficili» (vi 499d: o
&VcTO yrvoeat, QTLE! & tayO2EV (cE7T& ).
La stessa formula torna a due riprese (vi 5ozc; VII 5o4d: XcE7r&
v’.rir& ancora in contrapposizione alle euchai).
L’evidenza testuale sembra dunque ampiamente escludere che Platone
intendesse mettere in dubbio l’auspicabilità delle sue proposte, o ignorare
la questione della loro praticabilità, o ancor meno considerarle estranee al
problema della riforma dellapotis storica. L’utopia è qui chiaramente con
siderata come uno strumento di critica dell’esistente (cfr. la sua contrap
posizione alla situazione attuale, ta nun pard tauta gtnomena, conside
rata come innaturale, in 456c), e come il progetto di un mondo costruito
dall’immaginazione filosofica ma considerato come possibile e praticabile.
Diverso è tuttavia il discorso, che occorrerà ora affrontare, sui limiti e le
condizioni di questa possibilità e praticabilità.
11 modello e l’esecuzione
Che cosa significa il carattere di “possibilità” che Platone assegna al model
lo della ka1tzo1is? 11 problema del senso e dei limiti di questa “possibilità” è
tematizzato apiù riprese nei libri ve VI. Nell’insieme, la soluzione sembra
consistere nello stesso statuto diparadeigma assegnato alla kattipotis: la ri
producibiità è una proprietà intrinseca di un paradigma, allo stesso modo
che la partecipabilità è una proprietà delle idee (si tratta, beninteso, di un
rapporto analogico, perché, come ha mostrato Burnyeat, la kattipotis non
è un’ideaY.
Nell’ambito del rapporto modello-copia, è ovviamente inevitabile la
presenza di un’imperfezione, un décatage che separa la seconda dal primo.
11 fatto che l’uomo giusto partecipi della giustizia in sé, del paradeigma di
giustizia non significa evidentemente, scrive Platone, che esso sia una sor
ta di multiplo dell’idea che non ne differisce in nulla: questo è ovviamen
te impossibile. Partecipare dell’idea di giustizia, e riprodurre il modello
dell’uomo perfettamente giusto, significherà approssimarsi nel massimo
grado possibile (hoti engytata) a questi paradigmi esemplari (47ab-c).
Lo stesso rapporto si applica al modello della kat1rotis e alle sue ese
cuzioni. Quel modello è stato tracciato nel discorso, en logois, è stato co
struito al modo di unaftction narrativa, un racconto mitico (cfr. ii 39c,
376d; vi o,e). Ora, dice Platone, la costruzione discorsiva, la lexis, benché
non possa né debba escludere l’esecuzione nella praxis, è certamente più
vicina di questa alla verità; il discorso può descrivere con maggior nitore
e precisione i lineamenti del modello, senza doversi piegare ai vincoli che
condizionano l’esecuzione pratica, l’ergon, immersi come essi sono nella
dimensione spazio-temporale del divenire.
La “possibilità” dell’esecuzione pratica del modello deve allora venir
considerata non come una sua riproduzione identica, ma, ripete Plato
ne, come il massimo di approssimazione consentita da quei vincoli (hos
engytata, 473 a-b).
Il rapporto è reso perspicuo da una metafora pittorica. Chi agisce cor
rettamente nellapraxis (in questo caso i filosofi re o i potenti convertiti alla
filosofia) opera come un «pittore di costituzioni» (iro).ttricv ypco)
che si ispira al modello paradigmatico e tenta di rendere gli uomini che vi
vono concretamente nella storia per quanto è concesso (hoson endechetai)
simili a esso (vi 5oib-c).
C’è a dire il vero un’altra metafora pittorica che sembra contraddire il
senso generale del discorso platonico fin qui delineato, e il nesso che vi vie
ne istituito fra desiderabilità e praticabilità, paradigma e riproducibilità.
La bravura di un pittore non sarebbe diminuita, scrive Platone, dal fatto
che egli non fosse in grado di indicare l’esistenza di un uomo altrettanto
bello di quello che ha dipinto (471d).
146 IL POTERE DELLA VERITÀ BELTIS TA EIPER DYNATA ‘47
Va anzitutto notato che la struttura di questo paragone è asimmetrica
rispetto a quello citato in precedenza. Là il modello era antecedente al di
pinto, che ne rappresentava una riproduzione inevitabilmente imperfetta.
Qui invece il modello è costituito dal dipinto stesso, e l’eventuale replica
ne va cercata fuori, nel campo degli erga. Il pittore di questa metafora va
dunque assimilato non al riproduttore di modelli, ma al costruttore di pa
radigmi en togois: la correttezza logica ed etica di questi paradigmi non
è inficiata, secondo Platone, dall’impossibilità di reperirne nella realtà
empirica una replica identica. Questo non significa contraddire il senso
dell’intero discorso, che insisteva appunto sulla riproducibilità pratica del
paradigma, ma soltanto avvertire che ogni riproduzione di esso è inevita
bilmente imperfetta, senza che ciò ne riduca la validità teorica.
Sembra chiaro da questa analisi che l’utopia del V libro ha per Plato
ne un carattere marcatamente progettuale. Come «ogni utopia seria»,
scrive Finley, essa non è una fantasticheria di evasione dalla realtà, ma «è
concepita come un fine che si può legittimamente tentare e sperare di rag
giungere » z8 Il paradigma è dunque un modello normativo, un « criterio
deontologico cui la prassi deve tendere»z9 nella simultanea certezza della
sua imperativa desiderabilità e del carattere solo approssimato e imperfet
to (dunque anche instabile) di una sua possibile realizzazione.
Questa doppia certezza apre tuttavia un’ulteriore serie di problemi.
Il varco, tanto ontologico quanto storico-pratico, che separa il logos
dall’ergon, il modello dalla riproduzione, impedisce di considerare l’u
topia platonica, anche una volta riconosciutone il carattere progettuale,
come un programma politico di cui sia possibile indicare tappe, tempi e
modi di realizzazione. Come vedremo meglio nel paragrafo ,
i luoghi e
i tempi del suo accadimento vanno pensati sulla scala dell’ «intero corso
del tempo» (VI ozb,ìtcvrì tc p6w); l’evento della kaltrpolis potrebbe
essersi verificato in un remoto passato, o verificarsi oggi in luoghi remo
ti e sconosciuti, o ancora potrà accadere in un futuro indeterminato. Da
questo punto di vista, l’utopia non rispetta dunque, né può rispettare, gli
impegni e i vincoli della temporalità politica; il che non significa tuttavia,
come si dirà più avanti, che essa non disponga di una sua efficacia eticopratica
anche attuale e immediata.
Un secondo problema riguarda la possibilità di determinare il margine
di approssimazione, il décalage che intercorre fra modello e copia: in che
misura, cioè, la kallzpotis è effettivamente possibile, e come va intesa questa
possibilità al di là delle considerazioni di principio fin qui analizzate?
Secondo André Laks, la mancata risposta a questa domanda costituisce
una “lacuna” della Repubblica; una lacuna che può venir colmata soio ri
correndo alle Leggi, nel cui progetto legislativo sarebbe da riconoscere, nel
disegno platonico, l’ambito di possibilità effettiva evocato, ma non preci
sato, dalla Repubbtica°.
Questa ipotesi è senza dubbio sostenuta dal testo delle Leggi (cfr.
v 739b-e). Ma è difficile pensare, dal punto di vista dell’utopia del libro V,
che le Leggi possano davvero rappresentare la “proiezione” applicativa di
quel paradigma. Ne vengono in effetti rovesciati i contenuti presentati
come necessari all’unificazione e alla salute della città, con il ritorno alla
proprietà privata e alla famiglia; ne viene inoltre ignorata l’imprescindi
bile condizione di possibilità, il governo filosofico. Si tratterebbe in verità
di una copia, non “quanto più vicina è possibile” al modello, ma separata
da esso da uno scarto tanto profondo da rendere irriconoscibile il modello
stesso. Se la privatezza di patrimoni e legami familiari è la malattia della
città, di cui la forma di vita comunitaria dovrebbe costituire la terapia,
attuata da medici come i filosofi-re, il modello delle Leggi sembrerebbe
davvero accettare quella malattia come inguaribile, e rinunciare alla fun
zione terapeutica.
È forse da dire che, nel quadro della Repubblica (se non certamente
in quello delle Leggi), la domanda da cui si è partiti sembra mal posta.
È impossibile determinare nell’ambito del discorso teorico la misura e le
forme della differenza destinata a separare, in ogni tentativo di esecuzione,
modello e copie: è impossibile quanto lo è prevedere le circostanze spaziotemporali,
storiche, in cui quei tentativi avranno luogo. Non si tratta sol
tanto di variabili geografiche, climatiche o antropologiche (più importan
ti nella nostra concezione del mondo — perché certamente una kallipolis
fondata a Oslo risulterebbe ben diversa da un’altra a Calcutta — che nella
visione più ristretta di Platone). Si tratta piuttosto della infinità variabi
lità, mutevolezza e instabilità delle situazioni storiche, dei costumi, delle
tradizioni, di cui Platone è certamente ben consapevole, come mostrano
nello stesso libro V le considerazioni sulla diversa valutazione storica della
nudità nelle palestre (451c-d).
Se c’è dunque una lacuna nella Repubblica circa i limiti di praticabi
lità dell’utopia, questa va probabilmente considerata come teoricamente
inevitabile: un altro aspetto, cioè, del divario che separa un’utopia pro
gettuale da un programma politico, e impedisce per principio alla prima
di determinare in anticipo i suoi margini effettivi di realizzabilità. Quello
148 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIFER DYNATA ‘49
che però si deve escludere, ancora in linea di principio, è che lo scarto fra
modello e copia possa esser tale da rendere irriconoscibili i lineamenti fon
damentali del primo: stravolto fino a questo punto, non potrebbe neppure
più venir considerato come desiderabile. Più che una proiezione attuativa
della Repubblica, le Leggi andrebbero allora considerate come una revisio
ne del paradigma stesso, in modo da renderlo praticabile almeno a livello
di “terza città”.
All’interno dell’orizzonte proprio alla Repubblica, va piuttosto con
siderata un’importante espansione della metafora pittorica. I «pittori
di costituzioni», gli attori del processo di trasformazione, non potranno
svolgere il loro compito di riprodurre quanto più fedelmente è possibile il
paradigma cui si ispirano nella tavola (pinax) dell’ambiente storico-politi
co, se non l’avranno prima interamente ripulito e “purificato” dalle forme
politiche e dall’ethos pubblico e privato esistente. Questo azzeramento de
gli assetti legislativi e dei costumi vigenti non è certo una cosa facile (ou
pany rhadion), ma si tratta di una premessa indispensabile al lavoro di rico
struzione etico-politica (vi 5o,a). Nel suo ambito, di per sé perfettamente
comprensibile perché proprio di qualsiasi potere rivoluzionario o di “salu
te pubblica” ai suoi esordi, si inscrive una norma che gli interpreti moderni
hanno considerato a tal punto eccessiva da leggervi un segnale di assurdità
dell’intero progetto, deliberatamente inseritovi da Platone. Ai fini della
radicale “purificazione” della situazione di fatto esistente, scrive Platone, i
nuovi governanti manderanno «nei campi» (eis agrous) tutti gli abitanti
della polis di età superiore ai dieci anni, e ne educheranno i figli, sottratti
ai costumi esistenti (r& cn) secondo il nuovo progetto. Questa sarà
la via più rapida e più facile (tachista te kai rhasta)3’ per instaurare la nuova
potis e la suapoliteia (vii 54la).
Si tratta davvero di un progetto così estremo da risultare volontaria
mente assurdo? Certamente no, se lo si interpreta, nel modo che a me pare
più plausibile, interpretando l’espressione eis agrous come equivalente a eis
georgous. Platone intenderebbe allora dire che il nuovo gruppo di gover
no assegnerà tutti gli adulti della città (tranne, ovviamente, i propri com
ponenti), al terzo ceto, nel quale i contadini sono la parte più numerosa,
e sottoporrà invece i loro figli ai processi di selezione educativa intesi a
identificare nel loro ambito i migliori, degni di venire cooptati nei gruppi
politico-sociali più elevati.
Se si vuole invece interpretare letteralmente il passo, come un’espulsione
di buona parte della popolazione dalla città, Platone non farebbe allora che
riproporre a scopi naturalmente diversi, un progetto che era già stato sto
ricamente concepito dal radicalismo oligarchico di Crizia (cfr. DK 88A,):
«l’espulsione del demo o di una sua gran parte dalla città nell’illusione di
spopolare l’Attica». A differenza che in Crizia, lo scopo non è comunque
l’instaurazione di «un regime agricolo-pastorale di tipo laconico»3z, ma la
rieducazione di giovani ancora plasmabili e non definitivamente condizio
nati dalla forma di vita del vecchio regime. Del resto, anche il progetto di
Crizia non sarebbe risultato intollerabilmente estremistico dal punto divista
dell’esperienza storica dei Greci fra ve iv secolo: un’esperienza che cer
to non ignorava la pratica della deportazione, dell’asservimento e persino
dello sterminio in massa di intere popolazioni (si pensi ad esempio ai casi di
Platea, di Melo o dei progetti di Cleone per Mitilene, riferiti in Tucidide).
Comunque la si interpreti, dunque, l’esigenza platonica appare certo
radicale ma del tutto coerente con la ragionevole esigenza di una “purifica
zione” etico-politica della tavola della polis, e per nulla assurda dal punto
di vista della discussione costituzionale e della pratica storica dell’epoca.
Va invece sottolineato un aspetto che non pare sia stato sufficientemente
messo in luce. In questo passo Platone sembra concepire il processo educa
tivo come rivolto all’insieme della popolazione giovanile dellapolis, alme
no nella fase della sua prima attuazione, e non limitato ai figli del gruppo
di governo. Un’eccezione di cui si dovrà tenere conto in sede di discussio
ne dei limiti del progetto collettivistico della Repubblica.
Le condizioni di possibilità: teoria e comando
Le condizioni che consentono di pensare come possibile il disegno utopi
co del libro v sono individuate da Platone a due diversi livelli, di principio
il primo, di fatto il secondo.
In linea di principio, la riforma è possibile perché essa è conforme a
natura, kata physin, come nel caso dell’assegnazione di uguali funzioni a
uomini e donne: è infatti nella natura di queste ultime il poter svolgere gli
stessi ruoli (455d-e). Qui chiaramente il concetto di natura ha un valore
normativo: è “naturale’ e quindi anche possibile, ciò che è in accordo con
le qualità e le proprietà essenziali delle cose in sé stesse; “naturale” è anche
ciò che risulta, di conseguenza, in accordo con il miglior ordine possibile
delle cose. Per questo, oltre che una garanzia sulla possibilità di principio
di ciò che le è conforme, la natura offre un punto di vista critico sull’esi
come
la
150 IL POTERI DELLA VERITÀ
stente, in cui quell’ordine non è normalmente realizzato: «sono piuttosto
le istituzioni attuali [ta nyn g;gnornena] , contrarie a quelle che proponia
mo, a sembrare costituite contro natura [paraphysin] » (456c).
È interessante notare che nelle Leggi la difformità dalla situazione at
tuale (nun, V 739e) avrebbe invece cominciato a costituire un marchio di
impossibiltà (adynaton) per il disegno utopico (v 746c). Si preparava così
la saldatura effettuata da Aristotele nel libro ii della Politica fra “normali
tà” dell’esistente (1163a2;: ton nyn tropon), la natura umana che vi si espri
me, e normatività di questo sistema normale/naturale: di qui deriva il
carattere innaturale, perciò tanto indesiderabile quanto impossibile, della
forma di vita collettivistica delineata nella Repubblica (cfr. ad es. ;z63b9).
Non sempre, tuttavia, Platone può invocare la conformità all’ordine
naturale come condizione di possibilità, in linea di principio, della tra
sgressione utopica dell’esistente. In casi dove questo riferimento non è
evidente
— per la comunanza di donne e di figli —
condizione di
principio è piuttosto individuata nella coerenza interna dell’argomenta
zione. Che quella comunanza sia «conseguente [epomene] al resto della
costituzione, bisogna confermarlo con il logos» (461e): si tratta dunque
di dimostrare la consistenza, la bomologia (464b$) dei diversi aspetti della
legislazione proposta con il disegno generale e gli scopi del progetto costi
tuzionale. La coerenza intrinseca dell’argomentazione, che ne connette gli
enunciati in modo cogente e «automatico» (VI 498a: 7rà ro croctou
uvLno6’iTc), sostituisce il riferimento alla natura come condizione teo
rica di possibilità del disegno utopico. Si tratta di una forma di necessità
condizionale’, sulla base della quale, assunta la desiderabilità di certi scopi
complessivi, ne consegue in modo appunto «automatico» l’adozione del
le misure indispensabili a realizzarli.
L’utopia risulta dunque “possibile” perché conforme alla natura e alla
logica dell’argomento; questa forma di possibilità consiste però piuttosto
in una garanzia di non-impossibilità teorica, quindi in una condizione più
in negativo che in positivo dell’effettiva praticabilità del progetto di rifor
ma. Per passare dal non-impossibile al praticabile, dal livello di principio a
quello di fatto, Platone ha bisogno di un secondo tipo di condizioni, che
si situano immediatamente al livello del potere, della forza, insomma nelle
contingenze del comando politico.
A questo punto il discorso della Repubblica si sposta in modo signifi
cativo: esso non verte più tanto sulle condizioni di possibilità dell’utopia,
ma, a monte, sulla possibilità che queste condizioni di fatto si verifichino.
BELTISTA EIPER DYNATA ‘5’
Per la realizzazione dell’utopia basta, dice Platone, un solo cambiamen
to (metabole), certo non piccolo né facile, ma tuttavia possibile (473c).
Questo cambiamento, condizione necessaria per l’avvio della trasforma
zione della città, consiste nella celeberrima tesi che i filosofi assumano un
potere regale nella città, o che gli attuali re e dynastai si convertano alla
filosofia, in modo che «potere politico e filosofia» giungano a riunificarsi
(473c-d).
Platone è categorico nell’affermare che senza questo subitaneo cambia
mento ai vertici del potere, che renda il genere dei filosofi (o, che da que
sto punto di vista è lo stesso, dei dynastai diventati filosofi) enkrateis nella
città, mai lapoliteia narrata nel discorso potrà realizzarsi nei fatti (vi 501e:
j
i Oo)o7oe6yto ercu; cfr. anche vii 54od).
Ma è a sua volta possibile questo evento decisivo e condizionante? Se
non lo fosse, l’intero discorso ricadrebbe nella condizione dei «pii de
sideri» (euchai), rendendo giusto oggetto di derisione i suoi autori (vi
499c4-5). Ma non ha alcun senso razionale affermarne l’impossibilità,
benché Platone lasci invero estremamente indeterminate le circostanze
dell’avvento della nuova forma di comando.
Una qualche «fortuita necessità» (vi 499b5: ananke tis ek tyches)
può indurre i filosofi, volenti o nolenti, a governare la città, e questa ad
accettarne il potere; una certa «ispirazione divina» (499cl: ek tinos theias
epipnoias) può suscitare l’amore per la filosofia in quanti ora detengono
il potere o nei loro figli. Tutto ciò può apparire se non impossibile certo
almeno improbabile. Platone compensa tuttavia questo basso gradiente di
probabilità estendendo indefinitamente nello spazio e nel tempo la scena
possibile per l’avvento del nuovo potere. Come escludere che il comando
possa spettare ai filosofi in qualche momento del corso passato, presente
o futuro del tempo, e in un luogo qualsiasi, anche se remoto e sconosciu
to (vi 499c-d)? Come escludere che in «tutto il tempo» (v 7rWvTì rci
xp6v) possa nascere un figlio di potenti dotato per la filosofia, e conser
vare incorrotta questa sua natura (vi 5oza-b)? Una risposta negativa — su
—
questo spettro indeterminato di possibilità sarebbe appunto insensata;
dunque è possibile « argomentare duramente » (diarnachesthai to logo)
che la politeia dell’utopia, una volta soddisfatta la necessaria condizione
di potere che le dà avvio, possa essere esistita, possa esistere o potrà esistere
(vi 499d).
Basterà che «uno solo» tra i figli dei dynastai (vi 5o2b4) oppure che
«uno o più» dei veri filosofi, divenuti a loro volta dynastai (vii 54od4),
‘5’ IL POTERE DELLA VERITÀ BELTISTA EIPER DYNATA 153
assumano il potere e diano avvio al processo di trasformazione dellapo
tis, perché « tutto ciò che ora appare incredibile giunga a compimento »
(vi ozb: vr’irtmXéottt t& v&v àtorotva).
L’indefinita dilatazione dei tempi e dei luoghi di attuazione dell’uto
pia ne toglie certamente i caratteri di pianificabilità determinata propri
di un programma politico, ma al tempo stesso ne garantisce, insieme con
la possibilità, la non-improbabilità (che del resto, nell’esperienza effettiva
se non nella teoria, poteva apparire meno indefinibile, dal momento che
Platone nella Lettera vii attribuiva lo sviluppo degli eventi di Siracusa ap
punto a tyche oppure a un intervento divino, 316e).
Entro queste coordinate, come vedremo, si delineano la destinazione e
l’efficacia del progetto della Repubblica.
Prima di discuterne, è tuttavia il caso di definire quali ne siano gli scopi,
cioè la forma di vita che ne viene delineata, e i limiti, di fatto e di principio,
all’interno dei quali essa appare praticabile.
Telos e limite dell’utopia: unità della città
e forma di vita comunitaria dei phytakes
Al centro del disegno tracciato nel libro v sta — ripresa e ulteriormente
approfondita
— la stessa finalità che aveva dominato il IV: la costruzione
dell’unità della potis5. L’unificazione della città, al di là del conflitto so
ciale che l’aveva lacerata nell’esperienza storica, e della frantumazione in
una pluralità di centri privati di interesse, aveva costituito, nel libro iv, il
punto di arrivo dell’instaurazione di quell’assetto gerarchico trifunzio
nale in cui si producevano la giustizia e la salute all’interno del corpo dei
cittadini. Ora si tratta di delineare
— secondo la specifica richiesta degli
interlocutori di Socrate all’inizio del libro — la forma di vita del gruppo
dirigente che corrisponda al modello della mia potis, della città unifica
ta, e ne garantisca la stabilità contro le tendenze alla scissione e alla stasis
(462a-b). Le due prime “ondate” sollevate da Socrate hanno appunto di
mira questo progetto: la distruzione della privatezza di patrimoni e di
legami affettivi di cui il nucleo familiare, l’oikos, costituisce tradizional
mente la roccaforte, e la devoluzione alla dimensione pubblica, politica
della vita di tutte le energie morali, intellettuali, emotive prima assorbite
da quella privatezza.
Se il nuovo modello di rapporti parentali tende a profilare l’insieme
del gruppo dirigente della nuova città come una famiglia estesa, in grado
appunto di trasferire sudi sé tutti i vincoli che erano stati propri dell’oikos,
l’esigenza platonica di unificazione va ben oltre questo livello (Aristotele
l’avrebbe visto con chiarezza, basando proprio su questo la sua critica).
La nuova comunità deve essere «il più possibile prossima alla condi
zione di un solo uomo» (462.c), nel senso di una condivisione immediata
e simultanea di sentimenti di fondo quali il piacere e il dolore: la dinamica
psichica collettiva deve dunque reagire di fronte agli eventi che coinvol
gono la vita del gruppo comportandosi come un singolo macroindividuo.
Come già per il nesso giustizia-felicità-salute del libro iv, il modello è qui
quello della comunità-corpo, della polis-soma (464b). Il dolore del dito
è immediatamente risentito dal corpo intero e dal suo centro psichico
(46zc-d), e così deve accadere per la vita comunitaria. Qui Platone ha
probabilmente presenti le tesi di un autorevole testo ippocratico, i Luoghi
dell’uomo. Vi si legge che «le parti del corpo, quando la malattia si scateni
nell’una o nell’altra di esse, immediatamente la trasmettono ciascuna alle
altre» (I i); «così il corpo prova dolore o piacere anche a causa della sua
parte più piccola» (i ). L’organicismo medico viene trasferito da Plato
ne sulla scala della comunità politica, e la coppia piacere/dolore, spostata
dall’ambito fisiologico a quello della psicologia collettiva, diventa il se
gno della compiuta unificazione di questa al livello dei sentimenti e degli
affetti.
Va qui rilevato in particolare il mutamento semantico negli usi lingui
stici della nuova comunità, che da un lato deve riflettere la trasformazione
in senso comunitario della sua forma di vita, dall’altro deve consolidare,
interiorizzandole, le nuove strutture sociali6. Cambierà in primo luogo
l’uso del linguaggio parentale; le parole figlio/figlia, padre/madre, fra
tello/sorella designeranno ora non singoli individui, diversi per ciascun
parlante, bensì interi gruppi di persone distinte per fasce di età; una con
sanguineità solo possibile, virtuale, sostituisce così quella reale, trasferen
done il sistema di vincoli affettivi alla comunità politica nel suo insieme
(46id). E l’uso linguistico non dovrà restare confinato nell’ambito delle
denominazioni (onomata) bensì andrà trasferito a quello delle condotte
(praxeis), in modo che l’istituzione, interiorizzata tramite il linguaggio,
dia durevolmente e spontaneamente luogo a un nuovo sistema di legami
affettivi (463d): infatti «sarebbe ridicolo se i nomi di parentela venissero
solo pronunciati dalla bocca senza influire sulla condotta» (463e).
IH
‘54 IL POTERE DELLA VERITÀ
Ancora più importante è il mutamento semantico che deve intervenire
nell’uso di rhemata cruciali come «mio» e «non mio», che andranno
ora pronunciati «dai più» all’unisono «della stessa cosa secondo lo stes
so punto di vista» (46zc, cfr. 463e s.). Questa mutazione appare fonda
mentale per scardinare quell’egoismo proprietario che costituisce la causa
prima della disgregazione della comunità e dei fallimenti degli sforzi di
politicizzare la vita; in essa si esprimono l’appropriazione e la fruizione
collettiva di patrimoni e affetti, grazie alla quale le “mie cose” diventano
immediatamente le “nostre”, e cade la perniciosa distinzione fra il “mio” e
“l’altrui” Viene così soppressa la privatezza dei sentimenti, e con essa il so
dido istinto che spinge altrimenti a usare il potere per riempire la propria
casa di beni sottratti alla comunità (464c-d). Per usare l’efficace espressio
ne con la quale le Leggi descrivono questo programma, «con ogni mezzo
tutto ciò che si definisce privato venga da ogni parte sradicato dalla vita
dell’uomo» (v 739c).
Viene infine, e conseguentemente, introdotto un drastico mutamento
nel linguaggio del potere.
Il demos non chiamerà più «padroni» (despotai) o, come ora accade
nelle democrazie, « governanti » (archontes) i membri del gruppo dirigen
te politico-militare; li chiamerà piuttosto, oltre che «cittadini», «salvatori
e guardie» (463a-b), riferendosi alla loro funzione di protettori del
corpo civico. Gli archontes a loro volta non definiranno certo «schiavi»
(doutoi) i cittadini sottoposti alloro governo, come ora accade, ma — ri
ferendosi alla propria funzione retribuita di difensori al servizio della cit
tà — «fornitori di salario e di cibo»; chiameranno poi i propri colleghi
non synarchontes, termine che si riferisce alla condivisione del potere, ben
sì symphytakes, «colleghi difensori», che designa non il privilegio ma il
compito di servizio che essi rendono alla comunità (463b).
Anche in conseguenza di questo mutamento di usi linguistici, accade
dunque che si produca, come ha scritto Arends, una «subjektiv erfahrene
Einheit der Wiichter », che costituisce a sua volta « die Voraussetzung zur
objektiven Einheit der Gesamtpolis».
Questa formulazione pone con chiarezza il problema cruciale dei limiti
della forma di vita comunitaria e di conseguenza della garanzia di unità
dellapotis che essa offre: si tratta di un comunismo dei gruppi dirigenti,
che appunto oggettivamente costituisce la condizione di unità anche per
il resto del corpo civico, oppure di una prospettiva destinata a coinvolgere
prima o poi quest’ultimo nella sua interezza? Anche a proposito di questa
3ELTISTA EIPER DYNATA ‘55
difficile questione, si rende indispensabile un esame preliminare dei testi
platonici pertinenti.
A prima vista, la loro risposta è chiara. Come già si era detto alla fine del
libro iii (4i6d ss.), e a più riprese nel corso del iv, l’abolizione della priva
tezza patrimoniale e affettiva riguarda soltanto il gruppo dei phytakes, nel
suo doppio versante politico e militare. Sono gli archontes e i loro epikouroi
ad avere in comune donne, case e pasti, e a non possedere nulla di idion
(458c, cfr. 464b-c per l’insieme dei phylakes).
E basta l’assenza di stasis all’interno del gruppo di governo a scongiu
rare il pericolo di dissensi nel resto della città (atte potis, 465b). La stessa
idea è ribadita e chiarita nel libro VIII: «ogni costituzione si trasforma a
causa di quel gruppo che detiene il potere, quando in esso insorge la stasis,
mentre è impossibile che venga alterata se esso è concorde anche se è del
tutto esiguo» (545cl). Questa tesi può presentare, come ha scritto Laks, un
« carattere brutale » 38: l’unità della potis sembra garantita dalla minaccia
coercitiva che il gruppo dirigente, con la sua coesione, fa pesare su ogni
velleità di ribellione. Proprio questo, però, fa sorgere un problema teorico
che Aristotele non avrebbe mancato di individuare: la divisione della città
in due gruppi sociali di cui l’uno detiene il potere, l’altro la ricchezza, e
che sono separati da forme di vita radicalmente diverse, torna a riprodurre
proprio quella situazione della coesistenza di due città in una, inevitabil
mente foriera di stasis, che Platone aveva denunciato nel libro IV e che
si era proposto di superare con il nuovo modello costituzionale (Pot. ii
1164a)39.
Non mancano, del resto, segnali testuali che alludono a una prospet
tiva di universalizzazione del collettivismo dei gruppi dirigenti. Già nel
libro iii, Platone aveva scritto che «tutti coloro che vivono nella città
sono da considerarsi fratelli» (415a), un’affermazione in cui si può leg
gere l’allusione a una estensione all’intero corpo civico di quella fratel
lanza tra phytakes che sta al centro del libro v40. Ma anche in quest ‘ulti
mo non mancano cenni nello stesso senso. A proposito della comunione
degli affetti, Platone parla di «tutti i cittadini» (politai, 46zb5); anche
altrove, allo stesso proposito, si parla indiscriminatamente di «cittadini»
(46zd8, 464a4). E, per quanto riguarda l’uso comunitario dell’espressione
«mio», Platone dice che la città migliore è quella in cui «i più» (pteistoi)
lo condjvjdono (462c7). Si tratta, certo, di espressioni deboli e forse prive
di intenzione teorica, dove il termine politai potrebbe equivalere, con una
certa forzatura, aphytakes.
156 IL POTERE DELLA VERITÀ BELlISTA FIPER DYNATA ‘57
Due altri passi nella Repubblica sembrano del pari alludere a una uni
versalizzazione prospettica della forma di vita comunitaria. Il primo è
quello già citato del libro VII (541 a): esso prevede l’espulsione dalla città
di tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni (e bisogna naturalmente pensa
re ai cittadini esterni al gruppo dei phytakes che è chiamato a gestire questa
operazione), e alla rieducazione dei loro figli secondo i nuovi criteri: nel
futuro, questo training educativo potrebbe renderli adatti alla condivisio
ne del nuovo modo di vita libero dai vizi passati.
il secondo passo è quello famoso del libro ix (59od-591a), che prevede
la sudditanza di chi è privo di un principio razionale forte a coloro in cui
esso è invece egemone, in modo che sia i primi sia i secondi siano uguali
nella comune sottomissione alla ragione, mediata nel primo caso, diretta
nel secondo.
Allo stesso modo, continua Platone, ci si comporta con i bambini:
essi vanno governati finché non abbiano installato in sé stessi una giusta
potiteia, un phylax e un archon, e a questo punto possono venir lasciati
liberi (eleutheroi). Questo potrebbe far pensare che il governo educativo
del gruppo dirigente sia transitorio e destinato a produrre la maturazione
morale e intellettuale dei sudditi, i quali allora potrebbero a loro volta as
sumere una piena libertà di autogoverno e, di conseguenza, anche il diritto
di accedere al governo della comunità.
Anche questi testi, tuttavia, non sono espliciti, e l’interpretazione che
ne può venire derivata resta soltanto congetturale. Molto meno equivoca
è invece l’interpretazione che Platone stesso avrebbe dato nelle Leggi del
disegno utopico del v libro della Repubblica. Secondo il dialogo tardo,
la forma di vita collettivistica doveva essere estesa «per quanto è possi
bile all’intera città» (v 739cl-2.: cct& 7r&uwv rp 7r6)tv 6rt torce); vi è
inoltre un chiaro accenno alla proprietà comune della terra (740a1: KOt
)/EupyoTVtcYV), che sostituisce quella privata spettante al terzo cero, tenuto
soltanto a devolvere ai governanti una parte della ricchezza prodotta, di
cui si era parlato nel IV libro della Repubblica. Confermando, e portando
all’estremo, la riduzione dellapotis all’unità del singolo individuo (739b-c),
le Leggi sembrano dunque intendere senza incertezze questa unità come
estesa all’intero corpo sociale. Non è affatto chiaro se con questa posizione
Platone abbia inteso chiarire le vere intenzioni della Repubblica, o abbia
piuttosto voluto reinterpretarla tenendo conto di critiche come quella ari
stotelica di cui si è detto.
Questa incertezza rinvia a un problema che si è certamente posto a PIatone
e al dibattito interno dell’Accademia. Da un lato, il «semi-comuni
smo» della Repubblica (per usare la definizione di Barker)4’ sembra desti
nato a riprodurre la scissione della città piuttosto che a garantirne l’unità,
a meno di pensare a un uso continuo e illimitato della forza coercitiva4.
Inoltre, il fatto che anche gli uomini del terzo ceto dispongono di un ele
mento razionale non può fare escludere in linea di principio che un’im
presa educativa gestita dalla città sia in grado di elevare almeno i loro figli
alla condizione di un pieno dispiegamento della razionalità.
Dall’altro lato, l’ipotesi di una progressiva universalizzazione della for
ma di vita comunistica si scontra con un presupposto antropologico e uno
teorico. Il primo consiste nel pessimismo platonico circa la possibilità di
reperire, o di impiantare, nella natura umana quelle eccezionali doti intel
lettuali e morali che la rendono degna della funzione di governo, la quale
appare dunque spettare necessariamente, come è ribadito a più riprese, a
un «piccolissimo» gruppo sociale, forse addirittura a un solo o a pochis
simi individui (cfr. ad es. VI 491a-b, ozb).
Il secondo presupposto deriva direttamente dalla teoria della giustizia
del libro IV: il principio della oikeiopragia presume la scansione funzionale
gerarchizzata del corpo sociale, e non una sua omogeneità al livello più
alto. Secondo un paradosso proprio di questa teoria una comunità in cui
tutti fossero perfettamente giusti non potrebbe più esser giusta a sua volta.
E più concretamente: da ch sarebbero allora svolte le funzioni produttive,
se non da una numerosa popolazione servile di cui non vi è traccia nella
Repubblica
L’interpretazione non può sciogliere questi nodi, che certamente,
come si è detto, erano già apparsi problematici a Platone e all’Accademia.
Quello che si può dire è che il comunismo platonico è eminentemente
politico-morale e non economico (per così dire, dunque, più giacobino
che marxista), e che la sua forma naturale di universalizzazione consiste
nel porre la funzione di governo, esercitata da una minoranza, al servizio
dell’intera comunità. I limiti di questa minoranza sono circoscritti dai di
fetti della natura umana, non da ragioni di classe o di casta. Nulla esclude
che essa possa venire via via integrata da nuovi individui, selezionati per via
educativa: si tratterà però sempre di una universalizzazione solo prospet
tica o virtuale perché ostacolata da quella natura e dai suoi difetti. Questo
rende la concezione gerarchica della giustizia al tempo stesso provvisoria,
in vista dell’orizzonte aperto di plasmabilità educativa del genere umano,
e tuttavia intrascendibile, per la resistenza che a essa oppone la natura stes
158 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA ‘59
sa del complesso psicosomatico umano. Si produce così una situazione
di tensione concettuale che spiega le derive interpretative in un senso e
nell’altro dalle quali è stato caratterizzato 11 lavoro esegetico tanto degli
antichi quanto dei moderni. Ma, anche in questo caso, non è possibile inferire
dal testo della Repubblica più di questa tensione costitutiva, e della
provocazione a pensare che essa propone45.
La questione dell’efficacia
Ilparadetgma della Repubblica non è, come si è visto, una narrazione uto
pica nel senso del “libro dei sogni’ perché presenta le sue condizioni di
realizzabilità; ma neppure è un programma politico immediato perché
non è in grado di determinare, nella teoria, tempi e luoghi di questa rea
lizzabilità.
Diversa, ma parallela, è la questione dello statuto performativo del dia
logo stesso, o in altri termini dell’efficacia che l’autore gli assegna. Si tratta,
evidentemente, di un atto discorsivo dotato di autorità e di argomentazio
ni persuasive, e, in quanto tale, di un gesto in senso lato politico6. Il testo
non lascia dubbi sul fatto che, come ha scritto Burnyeat, «l’intera Repub
blica è un esercizio nell’arte della persuasione», «designed to lead us from
here to there». I primi destinatari di questo sforzo di persuasione sono
«Trasimaco e gli altri», cioè gli individui, i gruppi, le posizioni culturali
che si trovano a venir rappresentati sulla scena del dialogo dai suoi perso
naggi emblematici (vi 493d3). I tempi di questa persuasione sono altret
tanto indeterminati quanto quelli della realizzazione delparadeigma. Essa
può accadere, dice Socrate, in questa o nell’altra vita; e replica alla com
prensibile impazienza di Glaucone («è un rinvio proprio a breve scaden
za!») ricorrendo di nuovo alla scala della «totalità del tempo», rispetto
alla quale qualsiasi dilazione appare davvero breve (498d).
Il secondo orizzonte cui si rivolge lo sforzo persuasivo è indetermina
tamente ampio: sono quei «molti» (polloi, 499e8, 5oodlo), la cui persua
sione e il cui consenso (pepeisthai, homologesosin, ozal) daranno infine
luogo a quella «città convinta» (potinpeithomenen, 5ozb4-5) in cui può
svolgersi l’opera di riforma dei filosofi-re o dei dynastai-filosofi.
Questi ultimi rappresentano in effetti il terzo, e forse il più immediato,
tipo di destinatari dello sforzo di persuasione sviluppato dal dialogo; ma
tale orizzonte rimane soltanto implicito, o piuttosto è adombrato in quella
i’
«divina ispirazione» (theia epipnoia, 499cl) cui Platone affida la conver
sione filosofica dei «potenti».
La Repubblica costituisce dunque un atto discorsivo di persuasione
etico-politica, i cui destinatari si collocano per così dire in cerchi concen
trici, e i cui esiti possono dilazionarsi su tempi indefinitamente lunghi. Ma
questo non esclude una capacità persuasiva e quindi una efficacia anche
immediate, laddove la convinzione raggiunga il livello della reattività mo
rale e psicologica del soggetto. A questo livello, la disgiunzione del logos
dall’ergon, della teoria dall’azione, è, come testimonia Platone stesso, mo
tivo di « vergogna » (aischyne): per questa ragione egli racconta di aver
affrontato il rischio del secondo viaggio in Sicilia, nella vaga e ingannevole
prospettiva di ricongiungere già in tempi brevi il potere e la filosofia (Let
tera VII 3Z8c)4.
Due passi della Repubblica esprimono con chiarezza la tensione che la
sua stessa esistenza come atto discorsivo instaura tra la frustrazione dell’i
nutilità e dello scacco da un lato, e l’aspirazione a una efficacia anche im
mediata, al di là dell’impossibilità teorica di definire scadenze temporali
determinate. Il primo (vi 496c-497a) evoca l’amarezza della solitudine
“socratica” e del suo dilemma. Intervenire in difesa della giustizia nell’a
gone politico in un ambiente ostile e senza «alleati» (symmachoi) com
porta il rischio di andare a morte «prima di aver giovato a sé e agli amici,
risultando inutile a sé e agli altri». Ma d’altra parte la scelta della «tran
quillità» (hesychia), della protezione dell’integrità personale, risulta for
se inevitabile ma al tempo stesso malinconica e insufficiente: non si sarà
certo realizzato in questo modo, dice Platone, «il massimo» (ta megista),
mentre in una potiteia adeguata l’uomo giusto potrà mettere in salvo le
sorti comuni insieme con le proprie. Si profila così di nuovo la situazione
di un circolo vizioso, perché questa politeia non potrà mai esistere senza
l’assunzione di quel rischio da parte del giusto. Se a livello autobiografico
l’esperienza platonica a Siracusa può aver rappresentato un tentativo di
spezzare quel circolo, esso si ripropone, ma in forme diverse, in un secondo
luogo della Repubblica (ix 59za-b).
Il filosofo, dice Socrate, consentirà a svolgere un’intensa attività politi
ca nella sua propria città, ma non nella patria storica, a meno di una « sorte
divina». Glaucone interpreta queste parole nel senso di un’allusione alla
potis delineata fin qui en logois, che di fatto non esiste. Si tratta in effetti,
concede Socrate, di un «paradigma in cielo». Ma aggiunge che la sua
immediata efficacia non va dilazionata all’attesa, e alla possibilità, che esso
per
un
i6o IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA i6x
si realizzi in qualche luogo o in qualche futuro (59ib4). Essa agisce già ora
in chi voglia vederlo, e, vistolo, voglia su questa base «insediarvi se stesso»
(rzurà-v iccttonc(trv), riorientare in direzione di questo modello la propria
intenzionalità etico-politica.
Questo soggetto riorientato — si conclude così il libro ix — «farà sol
tanto le cose di questa città, e di nessun’altra» (59zb4- 5).
L’espressione è ambigua. Se viene intesa nel senso che l’uomo orientato
verso il paradigma parteciperà alla politica solo nella kaltzpolis, si riprodu
ce il circolo vizioso di cui si è già detto, perché senza la sua azione la katti
polis non esisterà mai. Ma «fare le cose» della nuova città (che costituirà
comunque l’unico contesto adeguato per la politica dell’uomo che si ispira
al «paradigma in cielo») può anche significare «agire in vista di essa», e
non in conformità a quella esistente. Il diniego del consenso a quest’ulti
ma è in ogni caso già un atto politico, compiuto qui e ora, che richiede cer
to per il suo successo una theia tyche (59za8-9)’; ma questo stesso atto non
sarebbe possibile senza l’orizzonte di riferimento al «paradigma in cielo»,
che in questa capacità di distacco critico e di orientamento trova così la
misura della sua efficacia immediata, presso coloro che esso è riuscito a
convincere. In questa immediatezza si produce la «vergogna» platonica
per la disgiunzione di logos ed ergon, l’impazienza psicologica — testimo
niata a più riprese anche da Glaucone — una realizzazione che la teoria
può invece presentare come indefinitamente dilazionabile nei tempi e nei
luoghi della storia.
La politica dell’utopia
La discussione sull’impegno politico personale di Platone ha conosciu
to un movimento oscillante fra le sopravvalutazioni tipiche degli anni
Trenta, ad esempio in autori così diversi tra loro come Wilamowitz e Diès
(«Platon n’est venu à la philosophie que par la politique et pour la po
litique»)5’, e le altrettanto eccessive sottovalutazioni, pur con differenti
sfumature, proprie degli anni recenti52, e parallele al rifiuto del carattere
politico della Repubblica. Va detto, in primo luogo, che questo confronto
critico non è stato e non è esente da equivoci e anche da pregiudizi (in
parte gli stessi che come si è visto pesano sull’interpretazione della natura
della Repubblica).
Non c’è in effetti bisogno di nessuna attività “pratica” per considerare
l’autore della Repubblica — come ad esempio quelli del Discorso sulle ori
gini dell’ineguagtianza o del Capitale — politico in senso forte: basta, a
configurarlo come tale, l’atto autorevole ed efficace della costruzione teo
rica del testo.
Rispetto a questa, il problema dell’impegno personale di Platone nella
politica è una questione morale e psicologica di indubbia rilevanza biogra
fica, che va però considerata soltanto tangenziale, seppure naturalmente
non priva di rapporti, rispetto al senso dell’opera teorica. Una ulteriore
cautela è imposta in questo caso dalla necessità di ricorrere alla testimo
nianza autobiografica della Lettera VII, la cui autenticità può difficilmente
essere ormai messa in dubbio, ma che deve in ogni caso venire utilizzata
con una certa prudenza esegetica.
Gli equivoci di cui si è detto possono forse venire chiariti ricorrendo, in
modo impregiudicato, alle evidenze disponibili, sia testuali sia contestuali.
a) È da escludere che Platone sia mai stato, né abbia inteso essere, un po
litico direttamente impegnato nella contesa per il potere alla maniera di
Pericle, Teramene o Crizia.
b) È certo per contro che le origini familiari, le tradizioni e l’ethos dell’a
ristocrazia ateniese spingevano Platone precisamente in questa direzione,
come è confermato dalla Lettera VII (314c, 32.5a, 3;6a). Da questo punto di
vista, il vero trauma nella vita di Platone dovette consistere nella rinuncia
al consueto cursus politico in Atene. Una rinuncia probabilmente vissuta
come lesiva della sua stessa autoimmagine di katos kagathos, oltre che della
sua dignità morale, se è vero che la «vergogna» derivante dall’esser consi
derato come uomo capace solo di parole e non di azione terga) lo indusse
ad accettare, nel 367, la sfida del secondo viaggio in Sicilia (Ep. vii 328c).
c) È altrettanto certo che Platone ha dedicato, lungo l’intero corso della
sua vita, memorabili interventi teorici alle questioni della politica. Che sia
esistita o no una proto-Repubbtica, intorno al 390 (come risulta da Ari
stofane) dovevano esser noti i lineamenti di un precoce disegno utopico
ricostruttivo simile a quello del libro v della Repubblica; se è affidabile la
posteriore autotestimonianza della Lettera VII (316a-b), è di questo stesso
periodo l’idea di un potere filosofico come terapia dei mali sociali. Alla
stessa fase appartiene il risoluto attacco del Gorgia alla tradizionale lea
dershzp della politica ateniese. In seguito, la politica fu al centro, in forme
diverse, di grandi dialoghi come la stessa Repubblica, il Politico, le Leggi,
nei quali inoltre è possibile leggere le tracce di una costante discussione su
questi temi all’interno dell’Accademia.
che
162. IL POTERE DELLA VERITÀ
BELTISTA EI?ER DYNATA 163
ci) È inoltre indubbia la massiccia partecipazione di discepoli dell’Acca
demia, sia pure in forme suscettibili di interpretazioni assai diverse, alle vi
cende politiche del mondo greco del iv secolo, con la rilevante eccezione
di Atene.
Da queste evidenze è possibile trarre qualche conclusione forse meno
esposta ai pregiudizi e agli equivoci consueti nel dibattito interpretativo.
La politicità di Platone è certamente consistita in primo luogo nell’o
rizzonte di una trasformazione etica della società, da conseguire mediante
una strategia di rieducazione collettiva. Questa stessa prospettiva com
portava però direttamente un’inevitabile proiezione politica, sia perché
nell’intera tradizione dell’ethos pubblico dei Greci etica e politica non
erano affatto separabili (basti pensare che Aristotele stesso considerava
l’Etica Nicomachea come un «trattato di politica», i i iobxi ), sia per
ragioni più vicine al nucleo del pensiero platonico. La nuova impresa edu
cativa non poteva che essere il risultato di uno sforzo collettivo program
mato e attuato al livello della polis, come del resto lo era stata la paideia
tradizionale della città greca. Inoltre, Platone era convinto (al contrario
di Aristotele) che nessun progetto rieducativo potesse aver successo senza
trasformare le basi strutturali della società — come l’oikos e la proprietà
privata — agivano in controtendenza rispetto a esso. Etica, educazione
e politica (nel senso proprio di gestione del potere legislativo della città)
non potevano così che risultare solidali nella prospettiva platonica. Que
sto nesso porta direttamente al nucleo della politicità dell’esperienza pla
tonica: la questione dell’accesso al potere necessario per rendere possibile
ed efficace il progetto di trasformazione etica ed educativa della comunità.
Il “realismo” politico di Platone consiste precisamente nella consape
volezza che la disponibilità di un punto di forza è la condizione indispen
sabile per qualsiasi prospettiva di efficacia progettuale. La costituzione
dell’Accademia mirava certamente anche a formare quel gruppo di sym
machoi e hetairoi senza i quali l’uomo giusto è condannato alla solitudine
impotente descritta nel libro vi (496c-d; cfr. Ep. vii 3z5d).
Ma la probabilità che esso possa conquistare il consenso di massa ne
cessario per l’accesso al potere dei filosofi, benché teoricamente non esclu
sa, dovette apparire tanto remota a Platone e agli accademici da indur
li a rinunciare a qualsiasi tentativo in questo senso nel contesto politico
ateniese. Nonostante la prospettiva del potere filosofico sia dal punto di
vista teorico presentata come equivalente a quella della conversione alla
filosofia dei dynastai, è dunque quest’ultima a venire decisamente privile
giata su1 piano delle probabilità concrete. Se è vero che il potere filosofico
rappresenta nel pensiero platonico la «fine della politica» intesa come
competizione per il governo, è anche vero che questa fine può essere attua
ta soltanto da un ultimo e risolutivo atto di forza da parte di un potente,
re o tiranno che sia, convinto a diventare strumento per un progetto che lo
supera e ne abolisce la futura legittimità.
Nel logos della Repubblica i tempi e i luoghi dell’avvento di un simile re
o tiranno disponibile alla conversione filosofica sono per principio lasciati
indefiniti. Ma è comprensibile che nella concreta esperienza personale di
Platone e di alcuni accademici, fra i quali in primo luogo Dione, questa
indeterminazione teorica precipitasse invece nella speranza che quell’avvento
potesse prodursi a breve scadenza e in un luogo ben determinato.
Su questo terreno prese certamente forma la disponibilità di Platone
alle rischiose imprese siracusane, nell’ansiosa ricerca di una figura di tiran
no disponibile a realizzare almeno un embrionale esperimento di trasfor
mazione morale della società e della politica.
L’ingenuità e la mancanza di realismo “machiavellico”6, di cui spesso
è stato tacciato il tentativo platonico, vanno interamente ricondotti alla
comprensibile esigenza, psicologica e morale, di dar corso nella prassi
all’attesa di efficacia propria di un atto discorsivo come il logos della Re
pubblica. Quanto ai ripetuti “fallimenti” di Platone, essi risultano tali solo
se il suo coinvolgimento politico viene inteso, alla maniera di personaggi
quali Crizia o forse lo stesso Dione, come un tentativo di conquistare
munque posizioni di potere nell’impervia situazione siracusana.
Se invece il tentativo platonico viene compreso nella sua dichiarata
radicalità, cioè come destinato all’unico scopo di saggiare la disponibili
tà dei tiranni siracusani alla conversione filosofica e al conseguente pro
getto di trasformazione della società, il suo mancato successo costituisce
soltanto una sorta di verifica sperimentale della difficoltà di realizzazione
dell’utopia che la Repubblica sancisce a livello teorico. Il fatto che i viaggi
di Platone a Siracusa accompagnino tutto il processo di elaborazione della
Repubblica significa che Platone riteneva quella verifica così importante
e imprescindibile da non abbandonarla nonostante le difficoltà via via ri
scontrate (benché da ultimo egli si fosse probabilmente convinto che il
massimo risultato conseguibile non andava oltre una normalizzazione le
gislativa della politica siracusana).
L’attesa dell’avvento del re-filosofo, così efficacemente preconizzato
nella Repubblica, non era del resto destinata a concludersi con l’esperien
164 IL POTERI DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA 165
za biografica di Platone. Essa avrebbe per contro durevolmente segnata la
storia del platonismo, se è vero che gli ultimi accademici avrebbero lasciata
Atene, come racconta Agatia, per mettersi in viaggio alla volta della remo
ta Ctesifonte, nella speranza che sotto il regno di Cosroe si fosse finalmen
te realizzata «l’unione del regno con la filosofia» tu zo.)7.
Note
i È irrilevante ai fini di questo discorso stabilire se l’utopia del libro v appartenga a
una “proto-Repubbtica”, nota già prima del 390, secondo la tesi cara a H. Thesleff, The
Earty Version offtato’sRepubtic, in “Arctos”, XXXI, 1997, pp. 149-74,0 piUttoSto a una
rielaborazione di “alto livello” dell’utopia filo-spartana dei libri in-iv come sostie
ne D. Dawson, Cities ofthe Gods: Communist Utopias in Greek Thought, New York-
Oxford 199;, pp. 75 ss. il Timeo costituisce certamente un termine ante quern per la
conoscenza da parte dei lettori di Platone di questo tema teorico.
a. Per una utile distinzione fra i concetti di utopia, paradigma, ideale e progetto cfr.
C. Quarta, La ‘Repubblica” di Platone: utopia o stato ideate?, in “Idee’ VIII, 1993,
103-14; Id., Paradtgina, ideate, utopia: tre concetti a confronto, in A. Colombo
.
(a
cura di), Utopia e distopia, Milano 1987, pp. 175-201. Per la differenza fra utopie di
evasione e utopie ricostruttive cfr. anche M. I. Finley, Utopie antiche e moderne, in Id.,
Uso e abuso detta storia (‘9), trad. it. Torino 1981, pp. 267-89. Per una definizione
critico-progettuale dell’utopia cfr. A. M. Jacono, L’utopia e i Greci, in S. Settis (a cura
di), IGreci, Torino 1996, voi. I, pp. 883-900.
3. Cfr. in proposito vl. Vegetti, L’autocritica di Platone: il “Timeo” e te “Leggi”, in
M. Vegetti, M. Abbate (a cura di), La ‘Repubbtica”di Platone netta tradizione antica,
Napoli 1999’ p. 13-2.7.
4. Cfr. R. Stalley, Aristotte on Plato’s Repubtic, in Vegetti, Abbate, La Repubblica di
Platone, cit., pp. 29-48; cfr. anche M. Abbate (a cura di), Proclo. Commento atta Re
pubblica (diss. vii-x), Pavia 1998.
I. Kant, Critica detta ragion pura. Dialettica trascendentale,
.
libro I, sez. I, trad. it. a
cura di P. Chiodi.
6. In questo senso cfr. L. Berteili, L’utopia greca, in L. Firpo (a cura di), Storia det
te idee politiche, economiche e sociali, Torino 198;, vol. I, pp. 463-58 I (in particolare
pp. 473-4, 533-8); anche Id., Paradzgmi ptatonici, in V. I. Comparato (a cura di), Mo
delli netta storia del pensiero politico, vo1. i, Firenze 1987, pp. 49-87 (per una diversa
posizione di questo autore cfr. infra, nota zo). Per l’interpretazione dell’utopia plato
nica come “orizzonte logico-normativo” cfr. anche G. Cambiano, Platone e te tecniche,
Roma-Bari I99I, p. 145.
L’edizione Garniron-Jaeschke reca «das griechische
.
Staatsleben, diese griechische
Sittlichkeit», e aggiunge il riferimento al «Volk»: cfr. G. ‘W. F. Hegel, Platone, a cura
diV. Cicero, Milano 1998, p. ;86.
8. Id., Lezioni di storia detta filosofia, I, III, A, 3, trad. it. a cura di E. Codignola,
G. Sanna. Per la versione del testo Griesheim, cfr. Id., Lezioni su Ptatone (i25-i’26), a
cura diJ.-L. Vieillard-Baron (1976), trad. it. Milano (cfr. p. 153 per il testo, p. 67
per l’introduzione).
Per una ricostruzione di questa vicenda cfr. M. Isnardi Parente, Teoria e pratica
.
nel pensiero di Platone, e Id., Aristocraticismo, canseruatorismo, assolutismo in Plato
ne, in E. Zeller, R. Mondolfo, Lafilosofia dei Greci, parte Il, voi. III!;, firenze 1974,
pp. 564-83, 604-24. Cfr. anche F. Franco Repellini, Note sut “Ptatonbitd” det terzo
umanesimo, in “Il pensiero”, XVII, 197;, pp. 91-1;;.
,o. Cfr. Dawson, C’ities ofthe Gods, cit., p. 67 (anche PR. 64-70).
ii. Cfr. K. Popper, La societii aperta e i suoi nemici trad. it. Roma 1986.
Popper poteva del resto riferirsi alla valorizzazione filonazista di Platone in Germa
nia: cfr. L. Canfora, Ptaton im Staatsdenken der Weimarer Repubtik, in H. funke
(Hrsg.), Utopia und Tradition. Ptatons Lehre vom Staat in der Moderne, Wùrzburg
1987, pp. 133-42..
i;. Cfr. ad esempio D. Levinson, In Defense ofPtato, Cambridge (MA) I 953;R. Brum
baugh (ed.), Plato, Popper and Potitics, Cambridge-New York 1967. Su questa linea
cfr. G. Vlastos, The Theory ofSocialJustice in the Potis in Ptatos Repubtic, in H. f.
North (ed.), Interpretations ofPtato, Leiden 1977’ pp. 1-40 (con l’equilibrata replica
di L. Brown, How Thtatitarian is Ptato’s Repubtic?, in E. N. Ostenfeld (ed.), Essays on
Ptato ‘s Repubtic, Aarhus 1998, pp. 13-27). Per esempi recenti di questo wishfutthinking
liberai-democratico cfr. Ch. L. Griswold, Le libératisme platonicien: de la perfection
individuette cornmefondement d’une théoriepotitique, in M. Dixsaut (éd.), Contre Pta
tOri. 2, Paris 1995, pp. ‘55-95; R. iviuller, La doctrineptatonicienne de ta tiberté, Paris
1997.
13. Cfr. H. G. Gadamer, Lznima atte soglie del pensiero netta filosofia greca (1983),
trad. it. Napoli 1988, PR. 61-91 (la citazione alle pp. 63-4).
14. Cfr. 5. Rosen, Introduzione atta Repubblica di Platone (1941), trad. it. Napoli
1990,
19.
.
L. Strauss, The City andMan, Chicago (IL) 1964 (sulle posizioni di Strauss
Cfr.
,.
cfr. la recensione critica di M. Burnyeat, Sphinx without a Secret, in “The New York
Review ofBooks”, May 30, 1985, PR. 30-6, e la nota più cauta di G. Giorgini, Leo
Strauss e ta ‘Repubblica” di Platone, “Filosofia Politica”, v, 1991,
pp. 153-60). A una
linea straussiana è ispirato il commento di A. Bloom, The Republic ofPtato, New York
‘i’ (cfr. pp. 381, 39;). Ma cfr. già I. M. Crombie, An Examination ofPtato’s Doctri
nes, voi. I, London 196;, PR. 73 ss. L’impossibilità di prendere alla lettera le proposte
platoniche sulla famiglia (note dal riassunto del Timeo) era dei resto già stata soste
nuta nel Medioevo: ad esempio Bernardo di Chartres pensava si dovesse interpretarle
per involucrum o in tegumentum (cfr. P. E. Dutton, ed., The Glosae super Timaeum of
BernardofChartres, Roma s.d., p.
i6. Cfr. E. Voegelin, Ordine e storia (1966), trad. it. Bologna 1986, pp. 14$ ss.; F. E.
Sparshott, Plato asAnti-Potitical Thinker, in “Ethic”, LVII, 1967, PR. 214-9.
17.
J. Annas, Potitics and Ethics in Ptato’s Repubtic, in O. Hòffe (Hrsg.), Platon. Po
i66
IL POTERE DELLA VERITÀ
BELTISTA EIPER DYNATA 167
titeia, Berlin pp. 141-60 (le citazioni alle pp. 145, 152-3, 156-7). Questa posizio
ne comporta naturalmente il rifiuto (senza addurre argomenti) dell’autenticità della
Lettera vii, che conferma l’intenzione politica della Repubblica.
x8. R. Waterficld (ed.), Ptato. Repubtic (transl. with Introd. and Notes), Oxford
19. Per qualche recente equilibrata messa a punto sulla questione del carattere poli
tico della Repubblica, cfr. invece Dawson, Cities ofthe Gods, cit., pp. 71, 93; 0. Hùffe
Einft.hrung in Flatons Politeia, in Id., Plato. Politeia, cit., pp. 3-18 (in particolare
pp. io ss.).
io. L. Bertelli, L’utopia, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza (dir.), Lo spazio
letterario delta Grecia antica, vo1. i, t. i, Roma 1992, pp. 493-524 (la citazione alle
pp. soo-).
zi. Cfr. N. Blùssner, Dialogform und Argument: Studien zu Platons “Politeia”,
Stuttgart 1997, pp. 190 55., 212; per il riferimento a Popper cfr. anche la sintesi del
lo stesso autore, Kontextbezogenheit und Argumentative funktion: Methodische
Anmerkungen zur Platondeutung, in “Hermes”, CXXVI, 1998, pp. 189-101 (in parti
colare p. zoi). Per una particolare versione dell’interpretazione dialogica, secondo
la quale Platone avrebbe riferito ma non condiviso l’utopia razionale di Socrate per
ché questa ignorava l’anima irrazionale, cfr. R. 5. Brumbaugh, ReinterpretingPlato’s
Republic, in Id., Platonic Studies ofGreek Philosophy, Albany (NY) 1989, pp. 15-87 (in
particolarepp. 25, 36).
zi. Isnardi Parente, Aristocratismo, cit., pp. 613-4.
23. Cfr. la lettera a Strauss del Is maggio 1958 (in M. Vegetti, Introduzione a A. Kojève,
L’imperatore Giuliano e l’arte della scrittura, 1964, trad. it. Roma 1998, p. 9).
24. Cfr. M. Burnyeat, Utopia and fantasy: The Practicability ofPtato’s IdeallyJust
City, in J. Hopkins, A. Savile (eds.), Psychoanalysis, Mmd and Art, Oxford 1992,
pp. 175-87. Cfr. anche brevemente A. Demandt,Derldealstaat, Kòln pp. 105-6.
z. Così Burnyeat, Utopia andfantasy, cit., p. 178.
z6. Bertelli,L’utopia greca, cit., p. 533.
27. Burnyeat, Utopia and fantasy, cit., p. 177.
z8. Finley, Utopie antiche e moderne, cit., p. 270.
29. Bertelli, L’utopia, cit., p. 500; Dawson, Cities ofthe Gods, cit., p. 71’ parla di « stan
dard to follow». Sulla questione cfr. ora le convincenti osservazioni di Ch. Rowe,
Myth, History and Dialectic in Plato’s Republic and Timaeus-Critias, in R. Buxton
(ed.),fromMythtoReason?, Oxford 1999’pp. 263-78 (inparticolarepp. 269-70).
30. Cfr. A. Laks, Legislation andDemiurgy: On the Relationshz Between Plato’s Re
publicandLaws, in “ClassicalAntiquity”, IX, 1990, pp. 209-29. Le posizioni di Laks
risultano più articolate (nel senso di distinguere il punto di vista della Repubblica
da quello delle Leggi) in The Laws, in C. Rowe, M. Schofield (eds.), The Cambrid
ge History of Greek and Roman Political Thought, Cambridge zooo, pp. 258-92, e in
Platon, in A. Rénaut (éd.), Histoire de la philosophiepolitique, tome i, La liberté des
Anciens, Paris 1999, pp. 57-125. Nel primo, il rapporto di Leggi con Repubblica è vi
sto come «completion, revision, implementation»; nel secondo, la “lacuna” della
Repubblica risulta tale dal punto di vista delle Leggi, che per prime ne decretano lo
statuto utopico. Condivide con opportune sfumature le tesi di Laks M. Schofield,
The Disappearing Philosopher-King, in Id., Saving the City, London-New York
pp. 31-50.
31. È interessante notare che la stessa espressione (rhasta/tachista) compare nelle
Leggi a proposito della realizzazione della aristepoliteia a opera di un buon tiran
no consigliato da un adeguato legislatore (Iv 7iod): il potere si sostituisce qui al
progetto educativo. Va inoltre notato che la katharsis della città nella Repubblica
appare decisamente più mite di quella prospettata in fol. z93d s., dove gli archontes
dotati di scienza ricorrono all’uccisione, espulsione e deportazione di parte del
la cittadinanza. Per la riduzione in schiavitù dei cittadini indesiderabili cfr. anche
309.
32. Cfr. L. Canfora, Crizia prima dei Trenta, in G. Casertano (a cura di), Ifilosofi e
il potere nella societtì e nella cultura antiche, Napoli 198$, pp. 29-41 (la citazione alla
p. 32). È interessante notare che un allievo di Platone e dell’Accademia, Chairon, di
venuto tiranno di Pellene, sembra abbia attuata una variante di “sinistra” del program
ma criziano, con l’espulsione degli aristoi e la distribuzione agli schiavi dei loro beni
e delle loro donne. Cfr. Ath. 508c-509e e K. Trampedach, Platon, dieAkademie und
die zeitgeniissische Politik, Stuttgart 1994, pp. 6--; M. Isnardi Parente, L4ccademia
antica e la politica delprimo Ellenismo, in Casertano, Ifilosofi e ilpotere, cit., pp. 89-117
(in particolare p. 103).
Un’altra contrapposizione fra stato attuale delle cose e progetto della Repubblica
compare in PoI. il iz6ia$ 5.: quest’ultimo risulta ad Aristotele, fra tutti i disegni
costituzionali, il più lontano dalla situazione storica (ii I266a31 ss.). Una prova
dell’indesiderabilità e dell’impossibilità dell’utopia della Repubblica consiste secon
do Aristotele appunto nel fatto che niente di simile è mai stato scoperto e sperimen
tato nel corso del tempo passato (ii 1264al ss.). Anche per un altro esponente del
moderatismo dcliv secolo, Isocrate, non si tratta di inventare leggi nuove ma di sce
gliere le migliori fra quelle che esistono (Antidosis $3).
Cfr. in proposito Cambiano, Platone e le tecniche, cit., pp. 145-6.
3. Sul tema cfr. J. F. M. Arends, Die Einheit der Polis, Leiden 198$, pp. izo ss.
36. Sul tema cfr. 5. Campese, Pubblico e privato nella Politica di Aristotele, in
“Sandalion”, VIII-IX, 1985-86, pp. 59-83 (in particolare p. 7°); anche M. Vegetti, L’io,
l’anima, il soggetto, in Settis, I Greci, vo1. I, cit., pp. 431-67 (in particolare pp. 452 ss.).
37. Arends,DieEinheitderPolis, cit., p. 183.
38. Laks, Platon, cit., p. 83. Sulla delimitazione del «comunismo platonico» al
solo gruppo dirigente ha fortemente insistito Isnardi Parente, Aristocraticismo, cit.,
pp. 647-9.
Non mancano infatti cenni di una propensione di Aristotele, di fronte a queste
difficoltà, a interpretare in senso universalistico (cioè di proprietà comune della terra
e dei beni) il comunismo platonico: cfr. fol. li 3 ,6,bl$ ss., 1z63a$, iz63bl5 ss. Sulla
fondatezza di questa interpretazione aristotelica cfr. R. F. Stalley, Aristotle’s Criticism
i68 IL POTERE DELLA VERITÀ 3ELTISTA EIPER DYNATA 169
ofPtato’s Repubtic, in D. Keyt, F. D. Miller (eds.), A Companion to Aristotte’s Potitic,
Cambridge (MA) 1991, pp. 181-99 (in particolare p. 185); R. Mayhew,Aristotte’s Criti
cism ofPtato’s Repubtic, Lanham 1997.
40. Insistono su questo punto, in relazione agli altri passi che prospettano una ten
denziale universalizzazione della forma di vita comunistica, R. von Pòhlmann,
schichte der Soziaten frage unti des Soziatismus in der antiken Weit, Mùnchen 1915,
vo1. I, pp. 420, 605, VOI. Il, pp. 75 55.; e P. Natorp, Gesammeite Abhandtungen zar
Soziatpddagogik, Stuttgart 1907, voi. i,pp. 1-36.
41. Cfr. E. Barker, Greek Fotiticat Theory, London (191$) I97o, p. zo; anche G.
Klosko, TheDevetopment ofPtato’sPoiiticat Theory, New York-London 1986, pp. 141-9.
42. Questa conseguenza è delineata da Aristotele, quando prospetta la trasforma
zione dei ptjylakes in una guarnigione armata (phrouroi) per far fronte all’ostilità dei
proprietari privati della terra (Poi. ii 1164a26).
43. Questa delega del lavoro agli schiavi è invece chiaramente prevista nelle Ecctesia
zuse di Aristofane, VV. 651-65;.
Per questo dibattito, cfr. R. Bodéùs, Pourquoi Flaton a-t-it compose les Lois,
in “Etudes classiques’ LIII, 1985, pp. 367-72; Dawson, Cities ofthe Gods, cit., p. 89;
Vegetti, L’autocritica diP/atone, cit.
s. Una intelligente problematizzazione di questi temi, in relazione all’antiplatoni
smo di Popper e Russeli, in R. Maurer, De t’antzplatonismepolitico-philosophique mo
derne, in Dixsaut, Conti-e Flaton. 2, cit., pp. 129-54 (in particolare pp. 143-51).
46. Utili osservazioni in questo senso in A. Ophir, Piato’s Invisibte Cities, London
1991, pp. 3’ 100 Ss. (su questo libro cfr. però le riserve di N. Pappas, Ptato’s Inuisibie
Cities, in “Ancient Philosophy”, Xiii, 1993, pp. 417-30).
Cfr. Burnyeat, Utopia and fantasy, cit., p. 184. Si tratta di immaginare una possi
bile uscita dalle «parochial perspectives ofeveryday existence» (p. 185).
4$. Alla luce di questo passo, non appare fondata l’affermazione di M. Isnardi Pa
rente, filosofia e politica nette lettere di Platone, Napoli 1970, p. 195, secondo la quale
«il filosofo antico [e Platone in particolare] non avverte alcuna esigenza di coerenza
“ideologica” fra posizioni teoretiche e impegno pratico».
A differenza di Burnyeat, Utopia and fantasy, cit., p. 177, non credo che il «pa
radigma in cielo» sia da riferirsi all’ordine visibile degli astri che dev’essere trasferito
nell’anima. Ouranos vale comunemente nellaRepubblica come metafora dello spazio
noetico (cfr. «gli dèi del cielo» (il sole) in vi 50$a4 rapportati al bene in o$ci;
anche VII 516a9). In VII 5z9d7 s. Platone afferma che gli «ornamenti del cielo», cioè
gli astri, devono essere usati come paradeigmata (esempi) degli oggetti ideali dell’a
stronomia geometrizzata. Non c’è quindi un valore paradigmatico del cielo rispetto
alle vicende umane, ma esso costituisce un rinvio al livello delle idealità matematiche.
Anche nel nostro passo, il «paradigma in cielo» sembra dunque costituire un rinvio
alla dimensione etico-ideale del bene.
50. Questa espressione non significa certamente l’attesa di un intervento provviden
ziale nella storia, ma di un propizio e fortuito insieme di circostanze (cfr. vi 499b5;
Ep. vii 316e, e, per un uso parimenti debole, ad es. Hdt. iii 139.3). Per la «necessità»
(ananke) che può indurre il filosofo ad agire nella dimensione pubblica, senza limi
tarsi a «forgiare sé stesso» (ti a6v0v icuràv 7r)&TTE1v), cfr. VI 5oodò. Questa possi
bilità esclude l’interpretazione di Adam che interpreta heauton katoikizein nel senso
interiorizzante di “found a city in himself’ Questo però non è in Platone né in greco
il senso di katoikizein + accusativo, che vale invece “insediare qualcuno in qualche
luogo” (tipicamente di una colonia): cfr. ad es. Resp. 543b;; 579a5.
i. Nella celebre biografia di U. von Wilamowitz, Platon, Berlin 1919, cfr. nel voi. i le
pp. 4zI ss., 641 55., nel voi. il le pp. z8i ss. La citazione di A. Diès è dall’Introduzione
aPtaton. La Répubtique, Paris 1932 (1989), p. v.
z. Cfr. fra gli altri Isnardi Parente, fitosofia epolitica, cit., pp. 171 Ss.; P. A. Brunt, Pia
to’s Academy and Politics, in Id., Studies in Greek History and Thought, Oxford
pp. 181-341 (pp. 303, 331); Trampedach, Ptaton, cit., che parla di un Platone meta- e
antipolitico ma non «Unpolitisch» (pp. 278-9).
Cfr. in proposito, oltre alle opere citate alle note 1, 30 e 44, D. Nails, Agora,
Academy, and the ConductofPhitosophy, Dordrecht 1995,
pp.
116, 223 55.
Cfr. l’imponente documentazione raccolta nella parte i del libro di Trampedach,
Platon, cit.
Così in ivi,
.
pp. 111-1; per l’effettiva prevalenza della possibilità del re-filosofo cfr.
anche Arends, Die Einheit dei- Polis, cit., p. z; K. von Fritz, Platon in Sizitien unti
das Probtem derPhilosophenherrschafi, Berlin 1968, p. 15.
6. Su questo tema ha insistito von fritz, Platon in Sizitien, cit., pp. 17, 115 ss. Sull’e
sperienza siracusana cfr. l’acuta riflessione di L. Canfora, Ilfallimento di Platone, in
“Micro-Mega”, 4, 1999,
pp. “7-37.
Sulle interpretazioni neoplatoniche della memoria del filosofo-re cfr. D. O ‘Meara,
Conceptzons néoptatoniciennes duphitosophe-roi, in A. Neschke (éd.), Images dePlaton
et tectures de ses oeuvres, Tournhout 1997, pp. 35-50.
cioè
che
7
Il tempo, la storia, lutopia*
All’inizio: la kallrpotis
La struttura compositiva dei libri viii e Ix della Repubblica pone imme
diatamente un problema: perché la kallzolis — la forma compiuta di
una società umana governata secondo giustizia — compaia all’inizio della
“storia”, anziché al suo termine, come era accaduto nel primo movimento
del dialogo, dal libro ii al v. Va detto, naturalmente, che si parla qui di
“storia” sia nel senso di totalità del tempo umano (quale è menzionata a
più riprese nel libro vi, 486a8-9, 49$d5, 499c8-9, 5ozbi)’, sia in quello di
“racconto”, mythos, narrato nel dialogo (cfr. in questo senso ii 376d), non
certo in quelli di una ReaIgeschichte, alla maniera tucididea (sebbene certo
non manchino con questa punti di intersezione), e tanto meno di una “fi
losofia della storia’ che è del tutto assente in Platone.
Il problema tuttavia resta: perché, dunque, la kallrpolis è situata ora
all’inizio e non alla fine dei tempi?
Ci sono, in primo luogo, due importanti funzioni argomentative. Sulla
prima di esse gli interpreti hanno ampiamente insistito. Poiché lo scopo
d’insieme dei due libri è quello di mostrare — rispondendo definitivamen
te al problema posto nel libro ii da Glaucone e Adimanto — la giustizia
è remunerativa in termini di felicità individuale e collettiva, la figura della
città e dell’uomo perfettamente giusti andava evocata per fornire il para
metro di misura, il criterio di valutazione delle forme di vita via via più di
stanti da essa, fino a quelle della città e dell’uomo tirannici, perfettamente
ingiusti e perciò perfettamente infelici: uno standard di riferimento, dun
que, un Ideattypus con cui contrastare le figure dell’ingiustizia’.
Altrettanto importante — almeno per chi attribuisca a Platone la con
* Questo capitolo è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e com
mento a cura di M. Vegetti, voi. v, 11. vi-vii, Bibliopolis, Napoli 2003.
come
il
da
cosa
172. IL POTERE DELLA VERITÀ
IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘73
vinzione che il progetto utopico sia in qualche misura praticabile _3 risulta
una seconda funzione argomentativa. Nel libro VI Socrate aveva indicato
tre possibili dimensioni temporali per l’esistenza della kattrotis: «nell’in
finito tempo passato, o anche oggi in qualche regione barbarica [...] oppu
re se accadrà nel futuro» (499c-d). Si trattava ora di proteggere la prima
ipotesi — vedremo tutt’altro che irrilevante — una possibile obie
zione: se la città dell’utopia è esistita nel passato, perché oggi non esiste
più? E reciprocamente, la sua attuale inesistenza non è prova che essa non
è mai davvero esistita?4 A questo risponde il libro VIII: se anche fosse esi
stita nel passato, la kattzpolis non avrebbe potuto durare indefinitamente
nel tempo, e la sua scomparsa non dimostra quindi la sua impossibilità.
Questo argomento è rilevante perché in 59l Glaucone avrebbe seccamente
respinta la seconda possibilità evocata da Socrate (che la città giu
sta esista ora in qualche luogo della terra). Quanto alla dimensione futura
(che sarebbe stata ancora rievocata in Leg. V 739c), essa non è più esplici
tamente ripresa nella Repubblica, se non in un’allusione del libro IX
e costituisce, come vedremo, uno dei maggiori problemi interpretativi dei
nostri due libri.
Torniamo però all’ipotesi di una ka11zolis formatasi in un remoto pas
sato, e poi inevitabilmente estinta nel corso del tempo. Essa va situata in
un contesto più ampio e trasversale, che riguarda in Platone il tema ricor
rente del tempo delle origini.
Il tempo dell’inizio
L’inizio dei tempi è di norma in Platone — secondo una chiara memoria
esiodea — tempo almeno apparentemente felice della positività. Versioni
diverse ne compaiono nel Politico, nel libro III delle Leggi e nel libro ii
della stessa Repubblica.
Nel primo di questi dialoghi, il tempo dell’inizio è contrassegnato dal
governo diretto di Crono sul mondo umano; nel secondo, da un’umanità
primitiva “sana” e non conflittuale; nel terzo, infine, da una società altret
tanto primitiva della produzione e dello scambio, esente da ingiustizia.
Dal punto di vista che ora ci interessa, queste tre situazioni degli ini
zi presentano tuttavia un tratto in comune: in nessuna di esse esiste una
condizione che si possa definire propriamente umana. Nel Politico, tutti i
bisogni degli uomini sono soddisfatti dal dio, un re-pastore che «li guida
i
I
al pascolo» (271e, z75a). Chiedendosi se fossero più felici gli uomini di
allora o quelli che vivono nel tempo attuale di Zeus, lo Straniero propo
ne un’alternativa ironica. Sarebbero certo stati felici gli uomini «allevati
[trophimoi] da Crono», se avessero dedicato il tempo libero alla filosofia;
ma se essi invece — che appare più probabile — «mentre si riempivano
fino al collo di cibi e bevande, si raccontavano tra loro e con le bestie miti
del tipo di quelli che appunto anche adesso si raccontano sul loro conto,
è molto facile decidere » sulla questione della rispettiva felicità (271c-d)5.
Nelle Leggi, un’altrettanto ironica citazione di Omero permette di pa
ragonare la vita degli uomini primitivi a quella dei Ciclopi, che non hanno
assemblee deliberanti né leggi politiche, mentre ciascuno di essi detta leg
ge a donne e figli, fuori da ogni civile consorzio. Si tratta qui di un potere
patriarcale nel quale «i più vecchi comandano, in virtù del potere tra
smesso loro da un padre o da una madre, e gli altri, seguendoli come gli uc
celli, formano un solo gregge, soggetti a leggi paterne e retti dal regno più
giusto di tutti» (III 68oa-e). Non c’è bisogno di dire che questi uomini
ignorano le leggi vere e proprie così come la scrittura, e sono sprovveduti e
ignoranti (atechnoteroi, amathesteroi) in tutte le tecniche, in primo luogo
quelle della guerra.
Quanto alla società sana del ii libro della Repubblica, è appena il caso
di ricordare che essa viene seccamente liquidata da Glaucone come una
«città di maiali» (37id), e perciò subito abbandonata da Socrate.
Queste diverse versioni dell’umanità primitiva risultano dunque am
bigue nella loro apparente positività: la condizione umana appare infatti
descritta con tratti di una sorta di animalitii pre-storica, che la distanzia
no nettamente dal tempo umano in senso proprio. In ognuno di questi
quadri, la condizione storico-umana inizia con il tempo della crisi e della
catastrofe, con l’avvento del disordine. Nel Politico, l’abbandono del mon
do da parte di Crono costringe gli uomini a «governarsi da soli e ad aver
cura di se stessi» (274c-d): vengono così, in una sorta di rivisitazione del
mito del Protagora6, le scoperte delle tecniche, delle scienze e infine della
politica. È questo il tempo di Zeus, lineare e “storico”, un tempo sulle cui
origini violente il Politico tace, ma che erano ben note tanto dalla tradizio
ne esiodea quanto dal Prometeo incatenato8.
Nelle Leggi, è la scoperta delle tecniche, soprattutto quelle metallurgiche
foriere di guerra e di stasis, a porre fine al buon tempo antico; nella Repubbli
ca, lo stesso ruolo è svolto dall’irruzione nella storia della città del lusso e del
Iapleonexia, che comporta a sua volta la comparsa degli eserciti e delle guerre.
passa
la
174 IL POTERI DELLA VERITÀ
Il tempo propriamente umano inizia dunque con l’esplosione della
crisi, del disordine, del conftitto — insomma, dal punto di vista antropo..
logico, della pleonexia. Solo a partire di qui vengono prodotti i saperi, la
filosofia, la politica: insomma le tecniche umane per governare il disordine
dopo la catastrofe delle origini. E con esse nascono — secondo un flesso
tipico dell’artificialismo platonico — le figure destinate a questo governo
del disordine: appunto il filosofo, il politico, il legislatore.
La kattzotis della Repubblica, in quanto realizzazione compiuta di
questo governo del disordine, che consegue finalmente un controllo po
litico e psicologico sulla pteonexia, appare dunque collocata logicamente
non all’inizio ma al termine del processo, come pieno dispiegamento della
condizione storico-umana. Tuttavia, se la si considera dat punto di vista
delta crisi, essa può anche apparire come un inizio, in quanto questa stes
sa crisi può venir pensata come un effetto della sua disgregazione, della
sua instabilità e del suo fallimento nel compito di governare il disordine.
Questo non comporta ancora, almeno per quanto riguarda la Repubblica,
una visione ciclica del tempo storico-umano, perché la stessa realizzazione
della kallzpotis non è che una possibilità bensì latente in questo tempo,
ma tutt’altro che necessitata da esso, che potrebbe dunque permanere nel
disordine delle sue origini.
Lo spostamento di prospettiva, che disloca la città dell’ordine giusto
non alla fine ma all’inizio del tempo umano, diventa invece, nel linguag
gio mitico del Timeo, una «verità» (z6c7-d;) che colloca senza incertezze
una kalttolis, dai tratti simili se pure contraffatti rispetto a quella della
Repubblica (basti pensare alla sostituzione dei filosofi-re con un ceto sacer
dotale, novemila anni prima di Socrate e Crizia (la sua distruzione
24a)0,
sarebbe qui stata dovuta a un cataclisma naturale, e non a una instabilità
strutturale).
Né l’ambigua collocazione della katl;polis della Repubblica (alla fine
ma anche all’inizio del tempo), né la dislocazione mitica di quella del Ti
meo in un’epoca remota, possono tuttavia fare di entrambe un’imitazione
(mimema) del regno di Crono, secondo un’allusione forse presente nelle
Leggi (IV 7i3b)”. Si tratta infatti di società altamente evolute nei saperi,
nella filosofia, nelle tecniche del governo e soprattutto della guerra: cose,
queste, del tutto ignote all’umanità “animalizzata” dei tempi di Crono.
Se mai, c’è un segnale dell’ambiguità della collocazione della kall;polis
della Repubblica sul tranquillo crinale che separa precariamente, con il suo
controllo etico-politico, due fasi del disordine nella storia umana. Rac
IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 175
conta il mito finale della Repubblica (x 6x9b-d) che l’anima di un uomo
vissuto in una potiteia ben ordinata, «inesperta di sofferenze», che ave
va acquisito la virtù non per filosofia ma per condizionamento educativo
(ethos), era la più pronta a scegliere, dopo la reincarnazione, la vita del
la «maggiore tirannide». In questo sorprendente ricongiungimento fra
i due estremi del libro VIII, che salda il principio e la fine della “storia”
della degenerazione etico-politica, è forse da leggere un’indicazione pre
cisa: il governo del disordine, una volta che sia eventualmente conseguito,
reca in sé un fattore di instabilità perché tende a sostituire la tensione “fi
losofica” verso l’ordine con forme di condizionamento educativo intese
certo a favorirne il consolidamento, ma che sono d’altra parte incapaci di
riattivarne il senso, e dunque impotenti a controllare il risorgere di quei
desideri pleonectici il cui orizzonte compiuto è il massimo disordine della
tirannide.
La decisione platonica di collocare la kallipolis nel libro VIII all’inizio
del tempo storico-umano ha dunque anche questo significato: di mostra
re che la sua eventuale realizzazione, come compimento dello sforzo di
governo del disordine, può costituire il fine di questo tempo, ma certa
mente non la sua fine (non più di quanto un altro operatore d’ordine, il
demiurgo del Timeo, possa determinare la fine dell’influenza caotica della
“necessità” nel mondo).
Una fenomenologia “dialettica”
L’instabilità del governo del disordine è resa inevitabile dal suo stesso inseri
mento nel continuum spazio-temporale, e la sua deformazione inizia quindi
nel momento stesso in cui il progetto utopico — clii esigenza è d’altronde
imposta dallo stesso disordine dei tempi — dal piano del logos a quello
degli erga. Questo è il senso del discorso delle Muse con cui si apre il li
bro VIII: un discorso certamente scherzoso, come è chiaramente indicato
in 545d-e’, ma non per questo privo di due assunti di grande importanza
teorica. 11 primo è nettamente formulato all’inizio del logos: « è difficile che
venga sovvertita una città così costituita, ma poiché per ogni cosa che è nata
vi è distruzione [yrvovc rrvTì cOopd ltt]’3, neppure una simile costru
zione resisterà per tutta la durata del tempo, ma si dissolverà» (546a).
Il secondo assunto, che chiarisce e giustifica il primo, emerge dal senso
complessivo del discorso sul “numero geometrico”: è impossibile imporre
anche
176 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘77
alla dimensione spazio-temporale un compiuto controllo perfettamente
razionale (quindi matematizzabile), quale invece è possibile per il campo
dell’ontologia eidetica (a modello appunto geometrico), il cui ordine ha
peraltro una funzione paradigmatica rispetto agli sforzi di governare quel
la dimensione (cfr. VI 500 c-d)’4.
La deformazione inevitabile — anche questo va a mio avviso preso sul
serio nel discorso delle Muse —
non riguarda soltanto la qualità etico-po
litica della società umana, ma anche la stessa qualità “biologica” del suo
gruppo dirigente, secondo il nesso circolare di perfettibilità dell’umano
che era stato proposto dall’ “eugenetica” del libro v.
Alla luce di questi due assunti generali, il libro VIII descrive in modo
più determinato le ragioni che rendono inevitabile la crisi della kattipotis
realizzata: una crisi che non può non avere inizio da quella del suo grup
po dirigente, secondo un assioma costante della teoria politica platonica
(545d, cfr. III 415c, v 465b). Nonostante la vaghezza del discorso platoni
co (547a-b) sembra che questa crisi inizi con un conflitto tra il ceto di go
verno “filosofico” e quello “militare”, o fra elementi degenerati presenti in
entrambi. Chiari sono invece i motivi e la soluzione del conflitto: c’è una
spinta incoercibile alla rtrivatizzazione (« spartirsi terra e case privatiz
zandole»), e all’asservimento del terzo ceto (« asservire, riducendoli alla
condizione di perieci e di servi, coloro che prima erano da loro difesi come
uomini liberi»): il ceto di governo assume dunque il monopolio esclusivo
della ricchezza, del potere e della guerra (547c).
Che la crisi della kattro1is assuma questa forma specifica non dipende
soltanto dai principi generali formulati nel discorso delle Muse, ma più
specificamente — se i riferimenti platonici sono di nuovo molto va
ghi, limitandosi ad accennare alle “razze” pseudoesiodee descritte nella
“nobile menzogna” del libro III (415a-b) — dalla dinamica logico-genetica
della sua formazione. Essa aveva avuto infatti origini violente, fondata
com’era sulla rieducazione di un ceto militare comparso nella città della
pteonexia; e il suo gruppo dirigente era stato costituito sulla base di un
accordo fra l’elemento razionale (togistikon) e quello collerico-aggressivo
(thymoeides), la cui fedeltà al primo, nonostante ogni sforzo di condizio
namento educativo “indelebile’ non poteva che risultare strutturalmente
precaria’5.
E, come risultava chiaramente dai timori espressi nelle analisi del li
bro IV, l’elemento timico, nell’anima come nella città, una volta rescissa la
sua alleanza con quello razionale, poteva agire sia in vista dei propri autonomi
desideri, sia al servizio di quelli inferiori, propri dello epithymetikon
(441a, 444b)’.
Nasce dunque da questa crisi la narrazione delle forme sociali e psico
logiche dell’ingiustizia, che, secondo il metodo già collaudato nel libro IV,
fa precedere le prime alle seconde, nonostante la ribadita asserzione che le
poiiteiai e le loro metabotai dipendono dal tipo di ethe dei rispettivi cittadi
ni (544d-e). Per molte ragioni, non si tratta ovviamente di una narrazione
“storica” e fattuale’.
In primo luogo, Platone si limita dichiaratamente all’analisi delle quat
tro forme costituzionali paradigmatiche, trascurando una molteplicità di
varianti secondarie pure storicamente esistenti (544c-d)’8. Ma c’è di più: la
sequenza delle trasformazioni dei regimi non è cronologicamente lineare
né necessitata (e tanto meno, come vedremo, istituisce una sincronia fra
la vicenda dell’anima e quella della città), benché sia certamente ricca di
riferimenti concreti alla storia effettiva, che dovevano costituirne un’effi
cace esemplificazione per gli interlocutori del dialogo e per i suoi lettori’.
Si tratta dunque di altro. Per molti aspetti (che andranno discussi) non
sembra arrischiato interpretare la sequenza politica e psicologica di timo
crazia, oligarchia, democrazia e tirannide, che segue la crisi della kaitrpotis,
secondo una prospettiva dichiaratamente hegeliana, come una fenomeno
logia la cui “legge” di movimento è di tipo dialettic&°. Nel suo insieme,
essa andrà concepita come una rappresentazione della dinamica dell’ani
ma e di quella delle proiezioni sociali (cioè dello “spirito oggettivo”) cui
essa dà luogo, senza che fra i due movimenti si possa stabilire né un rappor
to di sincronia né un rispecchiamento puntuale.
Questa doppia dinamica si fonda su una realtà antropologica di base:
la tripartizione dell’anima, la presenza in essa di forze e desideri irraziona
li, l’incoercibile pulsione della pteonexia (qui spesso designata come apte
stia, 555b9, 56b6, bio, c, 5$6b3, 578a1, 59ob8) verso gli scopi, ben noti
a Tucidide, della phitotimia e del kerdos”. A partire di qui, si instaura un
movimento basato sulla dinamica della contraddizione: i desideri pleonec
tici delle diverse parti dell’anima tendono verso un limite estremo, il cui
raggiungimento determina però il rovesciamento (metabole) in una forma
contraria (questo principio è nitidamente formulato, a proposito dell’o
ligarchia, in 55b8-xo, e della democrazia in 563e9-Io)”. In altri termini,
in ogni assetto dell’anima e della città coesistono, in una contraddizione
dinamica, elementi della forma precedente, elementi specifici della nuova
forma che tende a sostituirla, ed elementi che la porteranno a sua volta a
— che
— del
in
per
e
178 IL POTERE DELLA VERITÀ
venir superata (questa situazione contraddittoria è chiaramente descritta
in 547d a proposito della timocrazia).
Il sistema delle contraddizioni può venire delineato a partire da que
sti presupposti generali. Nel caso della timocrazia, l’elemento dominante
emerge compiutamente non nel padre timocratico, ex aristocratico,
bensì nel figlio, 55ob — è il desiderio dell’autoaffermazione personale, phi
totimia ephitonikia (548c). Questo desiderio è reso possibile dalla ripriva
tizzazione della vita e dall’asservimento del terzo ceto, che trasferiscono le
aspirazioni del principio timico dallo spazio comune a quello individuale.
Ma la privatizzazione comporta l’esistenza della famiglia, della casa, dei
relativi forzieri (54$a). E questa è la condizione necessaria per l’insorgere
di un ulteriore desiderio di “riempimento’ di uno spostamento dell’au
toaffermazione in direzione dell’accumulo di ricchezze prestigiose, come
l’oro e l’argento (55oe); una condizione alla quale si aggiunge un’educa
zione diretta all’aggressività, priva di filosofia e di musica (54$a-b)’3. Acca
de così che phitotimia ephilonikia si rovesciano inphitochrematia (ia), e
la timocrazia si trasforma — l’eccesso del principio di autoaffermazione
privata che la reggeva — oligarchia: il primato del potere si trasforma nel
potere del denaro.
Ancora più chiara è la contraddizione propria dell’oligarchia. Il princi
pio dominante in questo sistema è naturalmente l’accumulo di ricchezze
(555b9-;o). A questo fine, esso non solo non contrasta, ma anzi favorisce
l’impoverimento di una parte del gruppo dirigente, che per l’eccesso di
indebitamento è costretto ad alienare il patrimonio familiare, rilevato da
altri a condizioni di usura (551a-b, 555c). La parte impoverita del ceto oli
garchico diventa così il veicolo per il rovesciamento del governo dei ricchi
resto inidoneo tanto alla politica quanto alla guerra (551d-e9), per
avarizia e dominante propensione agli affari — per la sua sostituzione con
quel potere dei poveri che è la democrazia.
In essa il principio dominante e assoluto è la libertà, che per insaziabili
tà si trasforma rapidamente in anarchia, nel rifiuto di qualsiasi autorità po
litica e morale (561a b-e). L’estrema libertà è però destinata a trasformarsi
in un asservimento altrettanto assoluto (564a): per tutelarsi dalla temuta
riscossa oligarchica, e incapace com’è di autogoverno per il rifiuto di sot
toporsi all’autorità della legge comune, il popolo dei liberi e dei poveri è
costretto ad affidarsi a un “protettore” armato, che ne diventerà il padrone
tirannico (5c5b-d).
La contraddizione politica e psicologica della tirannide è in un certo
IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘79
senso speculare rispetto a quella della democrazia. Se qui è l’estrema li
bertà a rovesciarsi in schiavitù, nella tirannide lo stesso effetto è prodot
to dall’assolutezza del potere. Solo e odiato, il tiranno vivrà nella paura
(578a) e risulterà servo e prigioniero sia di coloro di cui si circonda per
proteggersi (579a-b), sia dei suoi stessi desideri, che non trovano più alcun
freno nella legge o nella moralità. A differenza però da ogni altro sistema,
la contraddizione della tirannide non sembra produttiva di alcuna metti
bote, né vi è un movimento dialettico che da questo regime conduca a un
altro. Su questo, che rappresenta uno dei problemi cruciali della Repubbli
ca, dovremo tornare in seguito.
Ora è piuttosto il caso di analizzare il senso di questa fenomenologia
dialettica delle costituzioni e dei tipi umani. Va detto, in primo luogo, che
non esiste alcuna sincronia fra i mutamenti morali e psicologici dei tipi
d’uomo e quelli delle forme costituzionali a essi analoghe. I primi presen
tano, come risulta dai casi dell’uomo timocratico, oligarchico e democra
tico, una temporalità tendenzialmente generazionale4 (anche se da non
prendere strettamente alla lettera), che non corrisponde a quella, più di
latata, delle corrispondenti forme politiche. Si può benissimo diventare
un uomo tirannico anche se non si vive in un regime tirannico, anzi la
coincidenza tra le due figure, in cui il primo assume il potere nel secondo,
è da considerarsi come un caso limite (cfr. 578c). Non esiste del resto una
corrispondenza immediata e lineare fra tipi d’uomo e classe dirigente dei
regimi a essi analoghiz6: è vero però che la struttura dialetticamente con
traddittoria di ogni forma costituzionale degenerata non solo consente,
ma comporta, la compresenza in essa, e all’interno del suo stesso grup
po dirigente, di tipi psicologici diversi, e a loro volta contraddittori, che
si alternano e si contendono il potere (così ad esempio nella timocrazia
coesistono l’ex aristocratico rinunciatario, il timocratico vero e proprio,
in cui si fanno però strada tendenze oligarchiche, l’oligarca compiuto). E
il caso di insistere sul fatto che, come nessuna forma costituzionale cor
risponde pienamente al suo Idealtypus, per le contraddizioni dinamiche
che la attraversano, lo stesso vale per i tipi psicologici. È stato ad esempio
persuasivamente mostrato che un personaggio come il Callicle del Gor
gia presenta tratti democratici (per il rifiuto di istituire una gerarchia fra
desideri), tirannici (per l’aspirazione a dominare gli altri ma non sé stes
so), timocratici (il desiderio di onore e potere, con il riferimento all’uomo
“leonino”), e persino filosofici (la speranza nell’avvento di un “uomo solo”
capace di governare la città: Gorg 484a-b; Resp. VI 5ozb; Leg. IX 875c)’’.
una
i8o IL POTERE DELLA VERITÀ
- IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA i8i
Allo stesso modo, le metabolai costituzionali formano, come si è detto,
una sequenza fenomenologico-dialettica, che non si dispone tuttavia in
una temporalità storica di tipo lineare. Forme degenerate possono benis
simo coesistere nello stesso ambito politico: la democrazia ad esempio, al
modo di un supermercato (pantopotion), contiene in sé ogni tipo di Costi
tuzione (553d), pur essendo la forma dominante rispetto alle contraddi
zioni latenti al suo interno. Ma non è il soio caso. Secondo le Leggi, la co
stituzione spartana somiglia alla tirannide, per il potere degli efori, ma per
altri aspetti anche alla democrazia, «d’altra parte dire che non è un’aristo
crazia [nel linguaggio della Repubblica un’oligarchia] è del tutto assurdo,
e inoltre in essa c’è la monarchia a vita» (iv 7izd-e). La distinzione fra
complessità delle costituzioni “reali” e tipologie di governo caratterizzate
secondo la forza dominante viene chiaramente formulata in questo stesso
passo delle Leggi (71ze9 ss.).
Ogni forma storica va dunque pensata come un sistema di contraddi
zioni latenti, la cui dinamica conduce in ogni caso alla possibilità di ulte
riori degenerazioni rispetto alla costituzione dominante —
possibilità
che va compresa secondo la sequenza fenomenologica teorizzata nel libro
VIII, la cui funzione è dunque anche quella di rendere possibile, come ha
scritto Dorothea frede, una Zukunftprognase’8.
Due cose appaiono comunque certe, pur nella complessità di livelli
dell’analisi platonica.
La prima è che la tirannide è la forma inevitabile della degenerazione
tanto psicologica quanto politica perché essa rappresenta l’espressione li
mite, la massima potenzialità, di quella pteonexia da cui ha origine la crisi
della kaltzatis (riappropriazione della proprietà privata, asservimento del
terzo ceto, competizione per il potere e la ricchezza). L’orizzonte della ti
rannide, ancor prima della sua eventuale realizzazione compiuta, è dunque
implicito in ogni fase delle costituzioni degenerate, e nei tipi d’uomo loro
analoghi, e rappresenta dialetticamente la loro veritd, anche se in forma
solo incoativa.
La seconda certezza è che non esiste nei libri VIII e IX alcuna prospet
tiva di ritorno “ciclico” dalla tirannide all’aristocrazia, contrariamente a
quanto avrebbe sostenuto Aristotele nella Politica:
a proposito della tirannide Socrate non dice se sarà soggetta a trasformazioni e,
nel caso che lo sia, per quale ragione e in quale forma di costituzione passi. Il mo
tivo è che non era facile dirlo, perché non è determinabile: secondo lui, infatti, Li
tirannide deve passare nettaforma prima e migliore di costituzione: in tal modo si
avrebbe continuità e un ciclo perfetto. E invece la tirannide si trasforma anche in
tirannide (Poi. V 12. 1316a).
Pur con qualche incertezza, Aristotele sembra attribuire dunque a Plato
ne, per confutarla, una concezione ciclica del tempo storico che è invece
assente nella Repubblica. In questo modo egli sovrappone diverse con
cezioni della temporalità presenti, ma distinte, in Platone, e apre d’altra
parte un problema: che cosa accade dopo la tirannide? In altri termini,
questo sistema, in quanto verità limite della condizione politico-morale
degli uomini, non è soggetto a contraddizioni e dunque risulta insuperabi
le? E qual è allora, se non appartiene al ciclo, il tempo proprio dell’utopia?
Dimensioni della temporalità
Esistono in Platone due distinte concezioni della temporalità, quella co
smica e quella storico-umana, cui se ne aggiunge, come vedremo, una ter
za, quella dell’utopia°.
La prima di queste dimensioni, segnata dal moto degli astri ( Timeo, Po
litico) e dalla vicenda “geologica” delle catastrofi ricorrenti (Timeo, Leggi),
ha un andamento ciclico. Le interferenze di questa forma della tempora
lità cosmo-geologica con il tempo storico-umano sono però descrivibili
solo nel registro della narrazione mitica, perché la distanza dagli eventi
delle origini non può venire colmata se non con il ricorso a ipotesi più o
meno “verosimili”: l’incerto statuto di queste interferenze è ben esemplifi
cato dall’ ironica presentazione del discorso delle Muse nel libro viii della
Repubblica che tenta di mettere “tragicamente” in rapporto l’algoritmo
geometrico dei moti astrali con la vicenda delle generazioni umane e la
crisi della kaltipotis.
La seconda dimensione è quella del tempo storico-umano, che si in
staura a partire dal distacco dalle origini mitiche: è questo il tempo del
disordine, della degenerazione (morale, politica e anche biologica), ma al
tempo stesso il tempo dell’esigenza dell’ordine, dello sforzo deliberato di
ricostruzione. Questa dimensione non è in alcun modo ciclica’, ed è strut
turata dal movimento dialettico delle contraddizioni latenti nelle forme
politiche da un lato, nei tipi psicologici dall’altro.
C’è, infine, il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione del progetto
i8z IL POTERE DELLA VERITÀ
IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 183
d’ordine, della ka1tzotis attuata. Va sottolineato che questo tempo non
appartiene alla sequenza dialettica del tempo storico-umano, né la Repub
blica lo presenta come il telos di questa sequenza (se mai soltanto come
l’ipotesi di un’origine che la rende comprensibile). L’avvento della kat
tzpotis nella storia è descritto come un evento possibile nell’infinità della
distensione temporale (5oib;: en panti to chrono), ma non necessario n
programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e at
teso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica
degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul
movimento orizzontale di questa dialettica. Una ricognizione attenta del
linguaggio platonico relativo alla temporalità dell’utopia lo può indicare
chiaramente.
La prima condizione di realizzabilità dell’utopia è, si sa, l’intervento
dei filosofi nella politica della città. Ma che la natura filosofica si salvi nelle
città della storia è impossibile «a meno che un dio si trovi a soccorrerla»
(49za5: T( o8o-c Oev grazie insomma a un «favore divino»
(493a1: Oo itoipc). Che poi i filosofi così salvati siano indotti a occupar
si della politica delle città dipende da «una fortuita necessità» (499b5:
àvc-ycy ri èic 499c7: tis ananke; cfr. ood); questo non accadrà,
in altri termini, «a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina»
(591a8: theia tyche). Anche così, la loro azione politica potrà avere successo
solo grazie a «circostanze propizie sopravvenute per una sorte divina»
(Ep. VII 3Z7 3-5: cttpo [...] payEov6TcYv OE( TLVÌ TXfl).
La condizione di possibilità alternativa (la conversione alla filosofia dei
potenti o dei loro figli) viene descritta con lo stesso linguaggio. Essa avrà
luogo se «per una qualche ispirazione divina sorga [...] un vero amore per
la filosofia» (499c1-z: ek tinos theias eptnoias; sull’ispirazione dei politici
cfr. anche Men. 99d, e sulla epzpnoia Leg. VII 811c9). In altri termini, i po
tenti possono diventare filosofi «per una sorte divina» (Ep. vii 3z6b3: ek
tinos moiras theias) , come potrebbe accadere a Dionisio «con l’aiuto degli
dèi» (Ep. vii 3z7c3: syttambanonton theon). Similmente è preconizzato
nelle Leggi l’avvento di un uomo dalla natura adatta al regno filosofico
(Ix 875c4)32.
Che cosa ci dice questo linguaggio ricorrente di tyche, moira, kairos,
ananche, theion? Il suo primo significato è senza dubbio che le condizioni
di realizzabilità della kaltzpolis non appartengono al corso normale della
storia, che il suo avvento non ne costituisce il telos predeterminato. Esso
può soltanto essere dovuto al verificarsi fortuito e istantaneo di circostanze
propizie e cogenti, il cui carattere straordinario ed eccezionale
(tanto nel senso della rarità quanto in quello del valore) è sottolineato dal
ricorso al termine theion (che non può in alcun caso indicare un disegno
provvidenziale unapronoia divina, perché essa non avrebbe evidentemen
te il carattere fortuito di tyche). L’avvento della kattipotis rappresenta un’e
sigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare
la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è
improbabite (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe
comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto
alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.
Katoikizein
Possiamo a questo punto riaprire alcune questioni di fondo relative al sen
so del disegno utopico della Repubblica. Il dialogo è attraversato, da questo
punto di vista, da un complesso gioco delle parti; quanto ai libri VIII e IX,
essi sembrano concludersi con un residuo non detto.
Il gioco delle parti è quello che viene a lungo interpretato dal maestro
di Platone, Socrate, e dal fratello Glaucone: con ogni verosimiglianza, due
facce dello stesso Platone. Socrate tende ad arroccarsi nel presente dialo
gico delfare teorico (Il 369c9: tc )6yci i. &p rot6i1.ttv 7r6)v), che può
presentare i caratteri dell’affabulazione immaginaria (Il 37d9: hosper en
mytho mythotogontes). Tutto ciò in nome della rivendicata superiorità, in
termini di verità, del logos sull’ergon, della texis teorica sullapraxis politica
(V 473a).
Glaucone vuole al contrario costringere (anankaze, 473a5) Socrate
a ragionare sul futuro della realizzazione del disegno teorico, a passare
dunque alla dimensione dipraxis ed ergon (‘ Ie: «non parlarne più, ma
cerchiamo di convincere noi stessi di questo solo punto: che questa costi
tuzione è possibile e come è possibile, e lasciamo perdere il resto»). L’esi
genza “demiurgica” formulata con forza da Glaucone finisce per obbligare
Socrate a una svolta decisiva, costringendolo a passare dal piano dell’affa
bulazione teoricapresente all’analisi delle condizioni di possibilità di una
realizzazionefutura: senza l’assunzione di potere da parte dei filosofi que
sta realizzazione non avrà luogo (501e4-5:o 7rO)ttE(ì
)6yc pyc toetcu).
Glaucone sembra dunque aver vinto, anche se Socrate, come abbiamo
commenta
intendi
184 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA i8
visto, non può che affidare questo futuro all’incertezza di tyche, moir e
kairos. Ma la discussione, che sembrava così conclusa, si riapre quasi in
provvisamente alla fine del libro ix. Dopo una lunga analisi, che ha de
scritto la condotta morale dell’uomo filosofico in una società diversa dalla
katlrpotis, Socrate conclude:
Così anche per gli onori [timas]3: mirando allo stesso scopo [cioè a preservare
integra ed equilibrata la sua potiteia interiore, en hauto, sie;], volentieri parte
ciperà e godrà di quelli che ritenga possano renderlo migliore, mentre rifuggirà
in privato e in pubblico da quelli che rischiano di rovinare la stabilità della sua
condizione.
Con un brusco e inatteso ritorno alla questione politica, Glaucone com
menta: «Perciò non vorrà certo svolgere attività politica [tapotitika (...)
prattein], se è di questa condizione che si prende cura». Socrate risponde
che «ne farà, e anche molta, nella città che gli è propria, non però for
se nella sua patria, a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina
[theia tyche] ». «Capisco
—
Glaucone
— nella città la
cui fondazione siamo venuti discutendo, quella che sta nei discorsi [en lo
gois], perché penso che essa non esista da nessuna parte della terra». Glau
cone rileva qui il carattere teorico della discussione condotta da Socrate, e
contemporaneamente nega una delle tre possibilità di realizzazione della
kallzpolis che erano state enunciate (499c-d), la sua esistenza attuale in
qualche luogo remoto e sconosciuto. Non può negare invece la sua esisten
za nel passato, su cui si è fondata tutta l’argomentazione degenerativa che
occupa i libri VIII e IX; e neppure nega la sua possibilità futura. Per quanto
però riguarda il presente, Socrate aggiunge:
Ma forse [isos, può valere anche “certo”], in cielo ne è posto [anakeisthai]3 un mo
dello [paradezma], offerto a ch voglia vederlo, e vedendolo [6p63vTt: “tenendolo
d’occhio”] intenda icìuràv Toncinv. Ma non fa alcuna differenza se essa esista da
qualche parte o se esisterà in futuro [estai]: egli agirà solo in vista della politica di
questa città [Tà (scil.potitika) T5T) 6vs &v rpcltttv], e di nessun’altra (59za-b).
Si tratta naturalmente del passo su cui hanno da sempre insistito gli inter
preti che tendono a negare, o a ridimensionare, il carattere politico della
Repubblica, e ad accentuarne invece l’interesse per la moralità individuale
e interiorizzata. Una reinterpretazione del testo deve iniziare con il chia
rimento del significato di katoikizein, che vi riveste un’importanza cen
trale. Tutti i traduttori hanno seguito la proposta di Adam, che interpre
tava «found a city in himself». Questa interpretazione può senz’altro
appoggiarsi sul riferimento alla «costituzione interiore» menzionata in
5iei, ma non corrisponde al significato normale, in greco e in Platone, del
costrutto katoikizein + accusativo.
Esso vale “insediare, trasferire, far abitare” qualcuno o qualcosa in qual
che luogo, “deportare” una colonia8. Questo è il significato di tre delle quat
tro ricorrenze in cui il costrutto appare nella Repubblica (375a5: ‘cctronct’ctt
Tp, TràXn? Ei [...] T67to; 543b2.: &yOvTE TO oTpctT1cYrcg
oi1dJEt; 579a5: 6 OEÒ CSK)s) KcTOtK(JEtEv yE(TOV)3.
Nelle Leggi, il valore prevalente del costrutto è naturalmente quello
di “fondare una colonia”, installando la popolazione in una nuova città
(7o5e1, 9x9d4, 757dx, 747e9, 75;d5; in 848e4 si parla di “insediare” una
parte degli artigiani nella città, en astei katoikizein).
Lo stesso valore prevalente di “installare, insediare” ha il costrutto nel
Timeo (69d7, cfr. 70a3, 70e2, 7idz, 89e3; e, per le popolazioni insediate in
un territorio, 14c5, z4d3; cfr. Criti. 113c).
Anche la Lettera vii presenta un uso inequivocabile nello stesso senso
(329e1: ti &Kp67ro)av &y y&rv Kcd Krouc(Jc), mentre altre ricorrenze del
costrutto hanno valore più incerto40.
Il fatto che il significato prevalente di katoikizein + accusativo sia dun
que quello di “trasferire, insediare” qualcuno in qualche luogo, ha sugge
rito a qualche critico l’interpolazione nel passo che stiamo discutendo di
un avverbio di luogo o di moto: così Jowett e Campbell aggiungono ekei
dopo katoikizein, e, secondo l’apparato di Slings, H. Richards propone
tose (“proprio verso quel luogo”) dopo heauton. Anche senza interpolazio
ni, è tuttavia abbastanza chiaro il luogo in cui può insediarsi politicamente
il soggetto che abbia deciso di abbandonare la “patria” storica: en ourano,
nel “cielo” del paradigma, cioè della teoria normativa4T.
Per questo, sono appunto necessarie due decisioni: la prima è di ordine
prevalentemente intellettuale, il voler vedere (‘rc ov)o.tvq 6p&v) il para
digma teorico; la seconda, di ordine morale, consiste nel “voler cambiare
habitat politico’ continuando ad avere di mira (questo è il valore del par
ticipio presente horonti) quel paradigma.
Alla luce di queste premesse, si comprende meglio il seguito, che vale
letteralmente “farà le cose di questa città soltanto, e di nessun’altra” In que
sta frase si gioca molto del senso politico della Repubblica. Essa racchiude
infatti due significati, che non credo possano essere disgiunti. Il primo è
TOt1CtOJt’.’ EI
perché
non
a
essa
i86
IL POTERE DELLA VERITÀ
IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 187
che ovviamente il “filosofo” dispiegherà la pienezza della sua attività poli
tica (cfr. il kai mata di 591a7) nella nuova città, in vista della sua conserva
zione. Il secondo è che egli, se agirà nella patria storica, lo farà solo in vista
e in funzione dell’avvento dell’altra città: questo non è escluso, ma può
accadere, come si è visto, solo nelle circostanze di una theia tyche (592a8-9)
Interpretato in questo modo, tutto il passo che stiamo discutendo non
costituisce affatto una prova del carattere sostanzialmente non politico, e
invece tutto rivolto all’interiorità morale, della Repubblica. Invece che li
mitarsi a «plasmare soltanto se stesso» 6vov icvrò’ì 7r)&TTEtv), 11 filo
sofo può trovarsi nella necessità di trasformare il mondo umano secondo
«l’ordine che vede lassù [icti p]» (5ood5-7): un passo, come ora si può
meglio vedere, perfettamente parallelo a quello che stiamo commentando,
che non si limita all’interiorizzazione della norma morale e non esclude
affatto l’attività politica trasformatrice nel filosofo nella città storica, an
che se essa dipende da una «qualche necessità» che corrisponde al “caso
eccezionale” di wza.
Il chiarimento che ci viene dunque dalla fine del libro ix è questo: l’oriz
zonte etico di un’eventuale attività politica del filosofo all’interno della sua
patria storica non coinciderà in nessun caso con questa stessa patria, perché
ciò distruggerebbe la sua “costituzione interiore”; se questa attività politica
ci fosse — circostanze propizie lo consentono o lo esigono — non
potrà in ogni caso avere altro scopo che la realizzazione della katliolis, la
cuipoliteia è in armonia con quella “interiore”. Non si tratta dunque di uno
spostamento dall’esterno all’interno, dalla politica alla morale, ma di un
ridislocamento (espresso dakatoikizein) delle finalità di un’azione politica,
certo “eccezionale” ma cui non si rinuncia in linea di principio.
« Datemi una città retta a tirannia»:
il silenzio della Repubblica
I libri VIII e IX si concludono con un paradosso. Nella sua perfetta infeli
cità, la tirannide è apparentemente l’unico regime che non reca in sé una
contraddizione in grado di condurre al suo superamento dialettico, e risul
ta quindi lapiù stabile tra le forme costituzionali. Parallelamente, sul piano
psicologico, il tiranno — differenza dall’uomo timocratico, oligarchico e
democratico — sembra avere un figlio destinato a rovesciarne il modo
di vita e il sistema di valori: al pari del regime tirannico, anche la famiglia
tirannica sembra dunque esente da contraddizioni destabilizzanti.
Questo silenzio, se non lo si vuole considerare definitivo, può venire
colmato ricorrendo ad altri luoghi della Repubblica e ad altri testi platoni
ci, che consentono forse di fornirne una spiegazione. Il libro vi parla a più
riprese come è ben noto, della possibilità della conversione alla filosofia
di basileis e di non meglio qualificati dynastai; e soprattutto si riferisce alla
possibilità che nascano loro figli «per natura filosofi» (5o1a6), qualcuno
dei quali potrebbe preservare la propria buona natura. La trasformazione
verso la katlzolis diventerebbe così possibile grazie all’avvento di un solo
uomo adeguato e dotato del potere in una città obbediente (5o;b4-5: ttc
bccvà y6vo 7r6).tv ic’rv 7rE1Go.Lé-v)9v). Questo passo è ripreso da vici
no in quello delle Leggi dove si allude all’avvento di un solo uomo dota
to di nous e quindi in grado di governare senza leggi (ix 875c: ti 7tQt ti
Non è neppure necessario ricorrere al progetto formulato nella Lettera
vii di conversione del tiranno siracusano, per vedere come questi passi,
con il loro insistere sull’unico dynastes, o un suo figlio, rieducabile alla
filosofia, alludano a un possibile “buon uso” della tirannide. Esso viene
reso esplicito in un celebre passo del libro iv delle Leggi. Qui il futuro
legislatore esprime il desiderio che gli venga affidata una città retta a ti
rannia (tvpcvvouLéwv ot 6rt Tp 7r6).tv), e governata da «un tiranno43
giovane, dotato di buona memoria e di facilità ad apprendere, coraggioso
e magnanimo» (7o9e6-8, 71oc5-6), e inoltre sophron: forse il “buon figlio”
del tiranno, sul quale si tace nella Repubblica? In ogni caso, questa è la
condizione perché una città raggiunga la costituzione felice nel modo mi
gliore (arista), più rapido (tachista, 7Iob) e più semplice (rhasta, 7iod8).
Occorre, naturalmente, che il giovane tiranno abbia la buona sorte di in
contrare un eccellente legislatore disposto a collaborare con lui (7Ioc-d).
E dunque la concentrazione di tutto il potere nelle mani di un solo
uomo a costituire la leva archimedea per una metabole rapida e facile
(711a). Platone ribadisce qui, con una chiarezza ancor maggiore che nella
Repubblica, la centralità della questione del controllo del potere e della
forza:
Un tiranno che intenda trasformare i costumi di una città non ha affatto bisogno
di grandi sforzi né di moltissimo tempo: occorre solo che si avvii lui per primo
nella direzione in cui intende condurre i cittadini [...]. Nessuno potrà convincerci
o
i88 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 189
che una città possa mutare le sue leggi in modo più rapido e semplice altrimenti
che grazie al comando [hegemoniaj di chi detiene il potere [ton dynasteuonton]
né che ora questo avvenga in altro modo, né che mai accadrà in futuro (711b-c)45
La conversione del tiranno — meglio del “figlio del tiranno”
— alla fi
losofla, il suo incontro con un consigliere filosofico, sembrano dunque
chiudere, nelle Leggi, il circolo che la Repubblica aveva lasciato aperto,
rispondere alla domanda “Che cosa succede dopo la tirannide” alla quale
essa non aveva dato riposta. E sembrano anche dar ragione ad Aristotele:
ma in modo molto parziale, perché il transito dalla tirannide alla kattzolis
non appartiene alla regolarità del ciclo storico, bensì al verificarsi di circo
stanze fortuite ed eccezionali, a più riprese inscritte nel segno della theia
moira e della tyche6.
In ogni caso, resta da chiedersi perché la Repubblica non formuli que
sta risposta nel modo esplicito delle Leggi, benché, come si è visto, non
manchino accenni in questa direzione. Non è il caso di ipotizzare un mu
tamento di convinzioni da parte di Platone su questo problema cruciale. È
più probabile attribuire il silenzio di Platone a due motivi, entrambi legati
alla struttura dialogico-argomentativa del dialogo. In primo luogo, l’esi
genza di mostrare come quelle del tiranno e della città tirannica siano, in
quanto tali, le forme di vita e di costituzione in assoluto più infelici; in
secondo luogo, l’ambientazione strettamente “ateniese” del dialogo, che
non poteva non tener conto dell’avversione e del sospetto antitirannico
propri di quella cultura.
Del resto, la conversione del tiranno, se è certamente la via “più rapida
e semplice” verso l’instaurazione della kallzolis, non è però l’unica. Quel
le stesse circostanze potrebbero anche far sì, sia pure con una probabilità
ancora minore, che la città stessa decida di affidarsi ai filosofi (vi 499b6),
che i “molti” se ne lascino convincere (ozai-z), così come, nel Politico, si
prospettava la possibilità che i cittadini accogliessero di buon grado (aga
pasthai, 3oid4) il vero re. Il silenzio della Repubblica sulla conversione del
tiranno può forse venire allora interpretato anche alla stregua di un mes
saggio implicito: se non si desidera giungere davvero fino alla tirannide,
che costituisce un esito altrimenti inevitabile del tempo storico, è neces
sario che sulla soglia della catastrofe la città e i “molti” prendano questa
decisione, accettando l’unica alternativa possibile. Altrimenti, il filosofo
resterà solo di fronte al suo eventuale e pericoloso discepolo, il “figlio” del
tiranno.
Note
Su questi passi cfr. le analisi di K. Thein, Le lien intraitabte. Enque’te sur te temps
dans la “République” et le ‘Timée”de Platon, Paris zooi, pp. 35-7.
a. Per questa funzione cfr. ad esempio D. Frede, Platon, Popper unti der Historizi
smus, in E. Rudolph (Hrsg.), Polis unti Kosmos. Naturphitosophie unti politische Phi
tosophie bei Platon, Darmstadt 1996, I’J• 74-107 (pp. 83, 96); Id., Die ungerechten
Verfassungen unti due ihnen entsprechenden Menschen (Buch VIII 543a- Ix57Òb), in O.
Hòffe (Hrsg.), Platon. Politeia, Berlin 1997, pp. z51-7o (pp. 264-5); anche R. Kraut,
Comparison ofJustandlnjustLives, in Hòffe, Platon. Politeia, cit., pp. 271-90. Si tratta
naturalmente della linea interpretativa preferita dagli studiosi che negano l’esisten
za nella Repubblica di una teoria politica autonoma, cioè indipendente dagli scopi
di persuasione morale: cfr. in questo senso soprattutto N. Blòssner, Diatogform unti
Argument: Studien zu Platons “Politeia”, Stuttgart 1997, pp. 127, i6.
Cfr. in questo senso ampiamente CA?. 6 e supra, § Dimensioni della temporalitti,
.
Katoikizein, «Datemi una cittti retta a tirannia»: il silenzio della Repubblica.
Dalla irreperibilità storica della kall;polis Aristotele avrebbe tratto una delle prove
.
della sua impossibilità: cfr. Fol. li 5, 1264I SS.
Come scrive esattamente P. Vidal-Naquet, «le paradis de l’gc de l’or est, en défi
.
nitive, un paradis anima1»: cfr. Le mytheptatonicien du “Politique”, in Id., Le chasseur
noir, Paris 1981, p. 373.
6. Su questo cfr. M. Vegetti, Protagora, autore della “Repubblica”? (ovvero, il “mito”
del “Protagora”nel suo contesto), in G. Casertano (a cura di), Il “Protagora”di Platone:
struttura e problematiche, Napoli 2004, vo1. i,pp.
145-5 8.
Cfr. in questo senso N. L. Cordero, Lafunzione etica del mito in Platone (aproposi
.
to del mito del “Politico”), in M. Migliori (a cura di), Il dibattito etico-politico in Grecia
tra il ve il Ivsecolo, Napoli zooo, pp. i6i-so (p. 178).
8. Cfr. G. Giorgini, Decadenza efilosofia in Platone, in “Filosofia politica”, ix,
pp. 5-14.
Su questa categoria antropologica, cfr. M. Vegetti, Anthropologies of ‘ileonexia” in
.
l’lato, in M. Migliori (ed.), Plato Ethicus, Sankt Augustin 2004, pp. 3’s-z7 (CAP. 8 in
questo volume).
io. Su questa contraffazione cfr. M. Vegetti, L’autocritica di Platone: il “Timeo” e le
“Leggi”, in M. Vegetti, M. Abbate (a cura di), La “Repubblica” di Platone nella tradi
zione antica, Napoli 1999, pp. 13-27. Sul discorso di Timeo come “prova” della realiz
zazione della kallipolis in un remoto passato cfr. C. Natali, Antropologia, politica e la
struttura del “Timeo”, in C. Natali, 5. Maso (a cura di), Plato Physicus. Cosmologia e
antropologia nel “Timeo”, Amsterdam 2003, pp. 225-41 (pp. 229-30).
ii. Questa è l’interpretazione di f. Lisi, Héros, dieux etphilosophes, in “Revue des Étu
des anciennes”, CVI, zoo, pp. 5-za. Sulle differenze fra le due epoche cfr. U. Bonana
te, Il tema della decadenza in Platone, in “Rivista di filosofia”, LXXVI, 1985, pp. 207-37
(pp. 224-5).
1IllL
democrazia
tirannide.
190 IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA 191
iz. Questo carattere scherzoso è sottolineato ad esempio da frede, Die ungerechte
Verfassungen, cit., pp. 255-6. Lo stile tragikos del discorso delle Muse significa “incom..
prensibile, oscuro’ come mostra il confronto con la sola altra ricorrenza dell’avverbio
in 4i3b4 (cfr. in questo senso D. Hellwig, Adikia in Ptatons “Politeia”, Amsterdam
1980, p. 78). Il non aver visto questa intonazione ironica indebolisce il pur interes
sante articolo di W. Janke, Atethestate tragoidia. Fine Deutung der Ìvfetabote-reihe in
g Buch des Staates, in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, XLII, 1965, pp. zi-6o
il quale tra l’altro attribuisce una funzione “catartica” (certamente estranea a Platone)
alla “tragedia” dellepoiiteiai (pp. 252, 259).
13. C’è qui forse una eco di Senofane (DK B z6). Genomenoi significa senza dubbio
la kattrpoiis realizzata. È interessante notare che Hellwig, Adikia, cit., non ritenendo
possibile questa realizzazione, è costretta a interpretare il testo come se significasse
l’abbandono o la deviazione dal progetto di giustizia formulato soltanto nei logoi
(pp. 84-6).
14. Cfr. in questo senso Thein,Leiien intraitabte, cit., p. 127.11 tempo noetico-astrale
è appunto il risultato di una messa in movimento dei solidi dell’ontologia geometrica
(vii 5z9d).
i. Si trattava del resto di una storia già narrata da Tucidide a proposito della crisi
dell’Atene periclea. Nonostante le esortazioni di Pericle, nella condotta della guerra
gli Ateniesi agirono dopo di lui «Kur& r& i&c t).ort[lkt ici.ì tt cip », perseguen
do time e ophetia dei privati (ii 65.7): sull’opposizione koinon/idion in questo passo,
che anticipa in modo decisivo le analisi platoniche, cfr. G. Carillo, Katechein, Napoli
2003, pp. 110-2.
i6. Nel caso dell’oligarca, è chiaramente detto che lo thymoeides, insieme con il togi
stikon, è posto al servizio dello epithymetikon (543d).
17. Così l’avrebbe invece interpretata Aristotele, criticandola su questa base median
te una numerosa serie di controesempi fattuali, in Pol. V iz: cfr. in proposito Hellwig,
Adikia,cit.,p.i.
i8. All’origine c’è come sempre il logos trtpotitikos erodoteo (iii 8o-$z), dove vengono
contrapposte la monarchia, l’oligarchia e la democrazia (cfr. in proposito l’analisi di
L. Bertelli,Ìvletabotepoiiteion, in “Filosofia politica’ III, ‘989pp. 277-326 (pp. 286-9).
La monarchia “buona” può corrispondere all’aristocrazia platonica; Platone poi arti
cola l’oligarchia in una forma migliore (la timocrazia) e una peggiore, che mantiene
il nome di oligarchia.
19. Cfr. in questo senso frede, Platon, Popper unti der Historizismus, cit., pp. 84, 94.
Questo non toglie che la fenomenologia platonica possa risultare suscettibile di pro
iezioni addirittura in termini di Weitgeschichte: E. Voegelin, Ordine e storia (1966),
trad. it. Bologna 1986, p. 190, vi scorge una sequenza aristocrazia [feudale] — oligar
chia [borghese] — — Ed è difficile non pensare, a proposito di
queste ultime due forme, alla vicenda novecentesca della repubblica di ‘Weimar (cfr.
per questo riferimento P. Friedlànder, Piato (1928), zvoll., trad. ingi. New York 1969,
j3. 13 8-9).
zo. Cfr. in questo senso R. Porcheddu, Dialettica delle costituzioni e delle ideologie
nella ‘Repubblica” di Platone, Sassari 1984, p. Io. H. Ryffel, META3OLE POLITEION.
Der Wandetder Staatsverfassungen, Bern 1949, parla di « Aktions-Reaktions-Gesetz »
e di «Prinzip des Gegenstandes» (p. 92).
21. Cfr. in proposito Vegetti, L’autocritica di Platone, cit.
22. Per un accenno in questo senso cfr. frede, Piaton, Popper unti der Historizismus,
cit., p. 86. Cfr. anche L. H. Craig, The War Lover: A Study ofPlato’s ‘Republic”,
Toronto 1994, 3. 28.
23. Su questo nesso cfr. ivi, pp. 59-60.
24. Cfr. Blòssner,Dialogt2n-m undArgument, cit., p. 113.
z. Allo stesso modo, va notato, possono esistere uomini in possesso della scienza
regale senza che esercitino di fatto il potere (Poi. z59b).
z6. Su questo punto ha ampiamente insistito G. R. F. Ferrari, City and Soul in Pia
to’s Republic, Sankt Augustin 2003. Ferrari si spinge tuttavia troppo in là, escluden
do ogni forma di interazione causale fra uomo e città (ciò che può essere facilmente
confutato sulla base delle considerazioni del libro VI, che insistono sulla pressione
conformativa esercitata dallapolis storica, e dalle stesse preoccupazioni educative pro
prie della kalltolis su cui insiste il libro iv). La radicale disgiunzione fra anima e città
operata da Ferrari, che vede fra i due poli una relazione solo analogica (p. so), lo porta
a ridurre drasticamente (senza però negarlo del tutto) il significato politico della Re
pubblica, e ad accentuarne l’interesse prevalente per la morale individuale (pp. 89 ss.).
27. Cfr. in questo senso M. Bonazzi, A. Capra, Callicle e Serse: democrazia e tirannide
nel “Gorgia” di Platone, in 5. Simonetta (a cura di), Potere sovrano: simboli, limiti,
abusi, Bologna 2003, pp. 217-33 (pp. zz8 ss.).
z$. Frede, Die ungerechten Verfassungen, cit., p. 270.
29. Aristotele potrebbe però riferirsi a Leg. iv 7Iod-e (cfr. in questo senso le impor
tanti osservazioni di Ryffel, METABOLE POLITEION, cit., pp. 102-3). Per questo snodo
cfr. supra, § Katoikizein.
30. Non è persuasivo il tentativo di K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone,
Milano 198$ (si tratta di una versione riveduta della seconda parte di Ptatons unge
schriebeneLehre, Stuttgart I96$), di unificare queste dimensioni in una serie lineare,
individuandone una linea generale di “progresso”.
31. Cfr. in questo senso Vidal-Naquet, Le chasseur noir, cit., pp. 9, 48-58; Thein,
Le lien intraitable, cit., pp. 156-7; Frede, Die ungerechten Verfassungen, cit., p. 254;
Porcheddu, Dialettica delle costituzioni, cit., pp. 64-5.
32. È da notare che nel Timeo la coincidenza del racconto di Crizia sull’Atene primi
tiva con quello di Socrate sulla kallzpolis viene considerata come causata utiav(w ic
TtVO T1X9 (25e4).
33. Platone non usa in questi contesti l’avverbio exatphnes (sul cui senso teorico cfr.
Parm. i6c-e), che viene però riferito alla visione del bello noetico in Symp. iioe,
e al sorgere della conoscenza filosofica in Ep. VII 34idi. Su questo carattere istanta
neo del tempo dell’utopia cfr. soprattutto K. Thein, The foundation and Decay of
forse
l’interesse
192. IL POTERE DELLA VERITÀ IL TEMPO, LA STORIA, L’UTOPIA ‘93
Socrates’ Best City (Repubtic VI 499b-c, ami Books viii-ix), in A. Havlicek, F. Karfik
(eds.), The ‘Repubtic”and the “Laws”ofPtato, Prague 199$, pp. 67-75 (pp. 70-2); Id.,
IViettre la kaltipotis en acte: t’équivoque temporette dans la “Répubtique” de Ptaton, in
C. Darbo-Peschanski (éd.), Constructions du temps dans te monde grec ancien, Paris
2.000, pp. 253-65 (pp. 255-60).
Va qui notato che il Timeo, parzialmente in linea con il libro VIII, colloca nel
passato, anziché nel futuro, la dimensione della “realtà” (atetheia/praxis, ;od, zIa),
mentre al presente resta quella del mythos e dei logos (ze, z6c$-di).
Si tratta evidentemente delle timai che spettano al filosofo ($zc), qui significatj
vamente disgiunte dalle cariche politiche (archai) che invece erano legate alle timai
in 546c4.
36. Il verbo designa normalmente la deposizione o la costruzione di un’offerta votiva.
Le altre due occorrenze in Platone parlano del gramma inscritto sui tempio di Delfi
(Charm. i64d6), e di un lagos dedicato al dio (Symp. 197e7). Qui c’è una chiara allu
sione allapolis en logois keimene di aaii. Sul senso di ouranos cfr. nota 4;.
37. Cfr. Adam, pp. 369-70, seguito in questo daJ. Annas, Politics in Ftato’s “Repu
blic”: His and Ours, in “Apeiron”, XXXIII, 2000, pp. 303-26, che traduce «refound
himself» e interpreta come «internalize the idea! ofvirtue as “a city ofhimself”»
(pp. 306-7).
3$. Basti citare ad es. Hdt. lI 154.3, [PLAT.1 Ep. VIII 357a.
39. Il quarto caso, che può venire addotto come controesempio isolato, è in
(cfr. anche Leg. 7ozdz).
40. Cfr. 336a6, 33;b7; 332C9 potrebbe venire usato come controesempio abbastanza
isolato (“rifondare le città”).
41. Questa interpretazione conferma che ouranos non può significare qui il “cielo”
degli astri visibili, che con il loro ordine fornirebbero un modello da trasferire alla
società umana, secondo l’ipotesi formulata da Burnyeat. Questa ipotesi è giustificata
dal fatto che ouranos in Platone vale di norma appunto “cielo visibile” (con l’ecce
zione però del libro x, dove si tratta del luogo di ricompensa delle anime giuste, cfr.
614c-e), e dal riferimento al Timeo dove gli astri del cielo hanno appunto questa fun
zione paradigmatica. Ma essa si scontra con la critica all’osservazione del cielo visibile
formulata nel libro VII della Repubblica (il participio horonti comporterebbe allora
quello “stare col naso all’insù” che viene ridicolizzato in 5;9a-b), e che si concludeva
con l’invito a “lasciar perdere le cose del cielo” (53ob7). Esse possono sì venir usate
come paradeigmata, nel senso però di segni e problemi che rinviano allo studio del
mondo noetico (5z9d7), non di modelli esemplari per la vita umana, che il filosofo
reperisce appunto in quel mondo (vi 484c-d, ood5). Il paradeigma della città giusta
sta dunque nei logoi della teoria (592a11), non negli astri visibili, ed è qui che occorre
“trasferirsi”. Ouranos dovrà dunque avere in questo passo un senso metaforico, sug
gerito del resto dalla metafora solare del libro VI (cfr. gli «dei del cielo» in 5o8a4).
42. Frede, Ptaton, Popper und der Historizismus, cit., parla, per escluderla, di una
« Sackgasse » «hoffnunglose » (pp. 94-6).
Il meritorio traduttore italiano delle Leggi, A. Zadro, rendeva pudicamente
“principe” (c’è del resto un illustre precedente: Machiavelli chiama “principi’ nell’o
pera omonima, personaggi definiti “tirannni” nei Discorsi, come Pandolfo Petruz
zi; cfr. in proposito L. Strauss, La tirannide. Saggio sul “Gerone”di Senofonte, 1948,
trad. it. Milano 1968,p. 112, n. 128). Per altri tentativi «to mitigate the outrage felt by
those ofliberal sentiment» di fronte a questo passo, cfr. H. W. Ausland, The Rhetoric
ofPlato’s “Second-Best”Regirne, in 5. Scolnicov, L. Brisson (eds.),Plato’s “Laws’ from
Theory into Practice, Sankt Augustin 2003, pp. 65-74.
Sulle possibili identificazioni di questa figura (Dionisio u, Dione?) cfr. Vegetti,
L’autocritica di Platone, cit., p. 23. In ogni caso, come notano D. Nails, H. Thesleff,
Early Academic Editing: Ptato’s “Laws”, in Scolnicov, Brisson, Ptato’s “Laws”, cit.,
14-29,
pp. questa descrizione del tiranno «has much more in common with the
description ofguardian candidates in the Republic than with those who rule in the
Laws» (p. 21).
Che tutto questo passo non incontri — per imbarazzo — dei com
mentatori, è confermato già da un esame dei luoghi discussi negli indici analitici delle
due più recenti raccolte di studi sulle Leggi: cfr. Scolnicov, Brisson, Plato “Laws”, cit.,
ci L. Lisi (ed.), Ptato’s “Laws”andItsHistoricatSrnficance, Sankt Augustin 2001.
46. Una diversa forma di contiguità fra tiranno e filosofo è indicata in un passo al
quanto enigmatico del Politico: «In questo modo dunque è emerso il tiranno, dicia
mo, e il re e l’oligarchia e l’aristocrazia e la democrazia, quando gli uomini hanno
mal tollerato [dyscherananton] quell’unico monarca e hanno perso la fiducia che mai
potesse sorgere qualcuno degno di un tale potere [...J e hanno sospettato invece che
costui rovinasse, uccidesse e maltrattasse chiunque di noi volta a volta egli volesse;
giacché se emergesse uno del tipo che diciamo noi, sarebbe ben accolto [agapasthai]
e amministrerebbe pilotando felicemente l’unica costituzione rigorosamente corret
ta» (3oIc-d, trad. Accattino). Non è chiaro perché nascano il disgusto e il sospetto
per il “monarca” giusto, né perché essi non dovrebbero riproporsi per la nuova figura
di cui si è in attesa. Chiare invece sono la contiguità fra “monarca” e tiranno, e una
certa circolarità dei rapporti fra le due figure. Non sembra che questo passo abbia
richiamato l’attenzione degli interpreti, piuttosto interessati a sottolineare il second
best, l’ossequio alle leggi in assenza del vero sovrano. Cfr. comunque M. Lane, A New
Angie on Utopia: The Potitical Theory ofthe “Statesman”, in C. J. Rowe (ed.), Reading
the “Statesman”, Sankt Augustin 1995, pp. 276-91: il passo presenterebbe un’analisi
delle paure e delle preoccupazioni suscitate dal potere assoluto, che è importante dis
sipare perché «costituiscono un formidabile ostacolo all’apparizione teorica e reale
della miglior politica» (p. 290).
47. Del resto, come nota Strauss, La tirannide, cit., p. 136, n. 57, anche nelle Leggi
l’Ateniese lascia a un anonimo “legislatore” l’evocazione della città tirannica e del
“buon tiranno”, così come nel Politico l’elogio della monarchia assoluta è affidato non
a Socrate ma allo Straniero di Elea: altrettanti segnali di quanto questo tipo di discor
si siano difficili da attribuire a un cittadino ateniese.
8
Antropologie dellapleonexia.
Callicle, Trasimaco e Glaucone in Platone*
I
Ci sono nei dialoghi di Platone personaggi di grande rilievo intellettua
le, ben caratterizzati sul piano letterario e sostenitori di tesi di notevole
livello teorico, che gli interpreti normalmente sottovalutano consideran
doli come semplici pretesti per la confutazione socratica, il cui edificante
trionfo viene celebrato anche al di là della lettera e del senso comples
sivo del testo platonico. Queste interpretazioni si basano su un falso e
superato presupposto metodologico, che individua troppo facilmente nel
personaggio di Socrate il portavoce unico della filosofia di Platone. Ma,
almeno negli ultimi due decenni, si è sempre più diffusa la consapevo
lezza che Platone è autore di dialoghi, e che il suo anonimato d’autore
non è casuale. I dialoghi non sono capitoli di un trattato, e ciò che in essi
viene esposto non è un sistema chiuso di dottrine filosofiche. I dialoghi
rappresentano piuttosto la messa in scena della ricerca filosofica, dei suoi
problemi, dei suoi metodi, dei suoi argomenti; l’autore è presente in tutti
i suoi personaggi (secondo l’efficace espressione di Erik Ostenfeld, «Who
speaks for Plato? Everyone!»), nelle tesi filosofiche e nelle forme di vita
che essi rappresentano, proprio come Sofocle lo è in Edipo, Giocasta o
Tiresia. Questo non significa che non sia possibile individuare teoremi e
tratti di un pensiero filosofico proprio di Platone, ma li si potrà riconosce
re come tali solo dopo una lettura attenta dei dialoghi che conceda ai loro
personaggi, e alle posizioni che essi sostengono, tutta la loro autonomia
e la loro efficacia teorica, e che ne comprenda le ragioni e il significato
complessivo.
*
Questo capitolo è già stato pubblicato in Enosis kaiphitia, CUI CM, Catania zona.
rispetto
in
in
196 IL POTERE DELLA VERITÀ i ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXIA ‘97
2
Intendo discutere in questa sede le posizioni di due grandi interlocutori
della Repubblica, Trasimaco e Glaucone, ai quali è necessario accostare un
personaggio che per certi aspetti è prossimo a essi, quello di Callicle nel
Gorgia. Vorrei mostrare come Callicle, Trasimaco e Glaucone rappresen
tino tre varianti teoriche di un medesimo paradigma filosofico, fondato
su quella antropologia della pteonexia che si era imposta nella cultura gre
ca, e specialmente ateniese, a partire dagli ultimi anni del V secolo. Vorrei
inoltre mostrare che alcune posizioni che possiamo ritenere tipicamente
platoniche, attribuite al personaggio Socrate, sono profondamente in
fluenzate dalle teorie critiche sostenute da Callicle, Trasimaco e Glaucone,
al punto di non consentire una visione d’insieme della Repubblica ottimi
stica, edulcorata ed edificante come viene proposta da molte sue interpre
tazioni tradizionali.
3
Antropologia della pleonexia significa — termini molto schematici —
una concezione della natura originaria, profonda e immutabile dell’uomo
come dominata dal desiderio di sopraffazione reciproca, dalla spinta inco
ercibile ad “avere di più” — termini di potere, gloria, ricchezza, dunque di
“signoria” — a una ripartizione equilibrata e paritaria di questi beni.
La legge della pteonexia si applica tanto ai rapporti fra gruppi e indi
vidui all’interno delle singole comunità cittadine quanto a quelli fra le
poleis, le città stesse. Il contesto storico in cui si sviluppa questo pensiero
antropologico è chiaramente individuabile: da un lato, l’imperialismo ate
niese, che, sotto la maschera di un’impresa democratica, svela la natura
della città comepolis tyrannos, secondo l’espressione che Tucidide (ii 62.3)
attribuisce al suo maggiore leader, lo stesso Pericle; dall’altro, i conflitti
interni fra i gruppi rivali degli oligarchici e dei democratici, le staseis che
infrangono il patto di cittadinanza su cui si era costruita l’esperienza stori
ca dellapolis. Si tratta insomma, per dirla con le parole di Tucidide, di quel
«maestro violento» (biaios didaskalos, iii 8z.) che era stata per i Greci
e per il loro pensiero antropologico e politico la guerra del Peloponneso.
Il primo e più lucido allievo di questo maestro era stato senza dubbio
lo stesso Tucidide. C’è una «natura dell’uomo», egli scrive (e altrove ag
giunge: «una natura necessaria»,physis anankaia, v ,os.i), che lo spinge
a esercitare la violenza della pleonexia contro le leggi comuni (iii 8z.z, 6),
per impadronirsi del potere (arche), a causa di una innata phitotimia, de
siderio di vittoria e di gloria (iii $z.8). Per gli dei e per gli uomini vige in
realtà una sola legge: che chi possiede la forza comanda, ou an kratearchei,
indipendentemente dal diritto e dalla ragione (v 105.1).
Platone mostra con grande chiarezza come questa antropologia della
pteonexia fosse tanto diffusa, nel passaggio fra v e iv secolo, da raggiunge
re i giovani intellettuali aristocratici vicini alla sua cerchia familiare: suo
fratello Glaucone, in primo luogo, e anche Callicle, una figura di politico
di stampo criziano che è presentato nel Gorgia come l’amante di Demos,
un fratellastro dello stesso Platone.
Per natura, sostiene Caflicle nel Gorgia (483c-d) «il più forte è desti
nato ad avere di più [pleon echein] del debole», anche se, con una sorta di
rivoluzione nietzscheana nella morale, i deboli chiamano «ingiustizia»
(adikein) questo naturale e necessario pleonektein dei forti.
Quanto a Glaucone, nel libro ii della Repubblica egli afferma che tutti
per natura desiderano l’esercizio della pleonexia, e che l’eguaglianza non
è che un vincolo innaturale imposto dalla violenza del nomos voluto dai
deboli nell’intento di proteggersi (359c).
È comune a personaggi dialogici come Callicle, Trasimaco e Glaucone
insistere sul fatto che questa antropologia pleonectica rappresenta la “veri
tà delle cose”, una verità che smaschera 1e menzogne imposte dalle ideolo
gie egualitarie e dalla morale pubblica della città (e forse era proprio questa
“verità” che ispirava il titolo dello scritto di Antifonte, un uomo che tanto
nella teoria quanto nella pratica politica aveva contribuito alla formazione
di questo pensiero dellapleonexia).
A partire da questa base comune, tuttavia, i tre personaggi platonici
offrono tre diverse varianti del paradigma, di livello intellettuale e teorico
molto diversificato.
4
Cominciamo dunque da Callicle, la cui posizione è insieme la più forte
come testimonianza della scelta di un modo di vita, ma la meno profonda
da un punto di vista teorico.
19$ IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 ‘99
C’è, secondo Callicle, una naturale pteonexia dei più forti; per difen
dersene, i deboli (astheneis) hanno introdotto la morale e la legge dell’e
guaglianza (to ison echein, 483b-c), hanno sviluppato una formazione
educativa che tenta di convincere i forti che in questa eguaglianza contro
natura consistono «il bello e il giusto» (484a).
Callicle riflette qui senza dubbio le nostalgie di potenza dell’oligarchia
ateniese umiliata dalla legge egualitaria della democrazia: basti per ora ri
ferirsi al frammento del Sisfo che viene attribuito a Crizia, dove si parla di
una giustizia tirannica (dike tyrannos) che si contrappone all’uso naturale
della forza, kratos (DK 88 B 2.5 ‘1V. s-7); o ancora al dialogo di Mcibiade
con Pericle nei Memorabili di Senofonte, dove il primo insiste sul carat
tere violento, costrittivo, di qualsiasi legge, anche di quella democratica
(i z.40-45). Questa nostalgia emerge ancora più chiaramente nell’evoca
zione fatta da Callicle della figura di un uomo leonino, un uomo dotato di
una natura capace di « strapparsi di dosso, di spezzare e di liberarsi da tutte
queste pastoie: egli calpesterebbe le nostre scritture, i trucchi e gli incante
simi e tutte le leggi contro natura. Lui, che era uno schiavo, si rialzerebbe
e ci apparirebbe come un padrone — e allora risplenderebbe la giustizia
secondo natura» (484a).
La nostalgia dell’uomo-leone lascia trasparire ancora una volta l’ombra
di Alcibiade, che era stato definito appunto un “leone” pericoloso per la
città nelle Rane di Aristofane (vv. 1431-1).
Come si diceva, la forza straordinaria con cui Callicle evoca l’antro
pologia dellapteonexia rappresenta più una scelta di vita, una nostalgia di
memoria omerica, una speranza di liberazione dai vincoli della morale e
della legge egualitaria, che un vero e proprio argomento teorico. Da questo
punto di vista, la debolezza di Callicle consiste nell’evocare la forza come
una qualità naturale, perciò assoluta, che si trasforma tuttavia sul piano
storico e sociale in una debolezza: l’uomo leonino è di fatto uno scon
fitto, un debole, di fronte alla forza collettiva della maggioranza, del pie
thos, come osserva senza difficoltà Socrate (4$8d-4$9b). La stessa tesi era
già stata sostenuta dal sofista difensore della legge egualitaria conosciuto
come l’Anonimo di Giamblico: nessun individuo, per quanto forte come
l’acciaio (adamantinos) può resistere vittoriosamente alle leggi condivise
dalla comunità cittadina (DK 89 B i.6). Dcl resto, gli stessi esempi addotti
da Callicle (le guerre portate in nome del diritto del più forte da Dario
contro gli Sciti, e da Serse contro i Greci, 4$3e) rimandano entrambi, ab
bastanza ironicamente, a due sconfitte subite dai cosiddetti “forti”.
È però su di un altro terreno che la testimonianza di Callicle circa la
“verità” dell’antropologia dellapieonexia appare insuperabile: cioè nel suo
rifiuto di accettare il confronto dialettico con Socrate, di subirne la confu
tazione e gli argomenti (5o5d); da questo punto di vista, Callicle è imbatti
bile, a meno di usare la forza (e di confermare così la sua “verità”). Socrate è
perciò costretto al soliloquio, a un monologo che si conclude (513a ss.) con
il racconto, di ispirazione orfica, sui premi e le punizioni che attendono
nell’al di là il giusto e l’ingiusto, e reintegrano dunque l’equilibrio violato
dalla pteonexia in questa vita. Si tratta, è il caso di notano, precisamen
te dell’argomento che nel libro ii della Repubblica Adimanto, anche lui
fratello di Platone, proibirà a Socrate (in breve: non si può ricorrere agli
dei in difesa della morale, perché tutto ciò che sappiamo della religione
ci viene dai poeti, ed essi dicono anche che gli dei si lasciano convincere e
sedurre dai sacrifici: e chi meglio dell’ingiusto, grazie alle ricchezze accu
mulate con la suapteonexia, può offrire sacrifici sontuosi?).
5
Se dunque la forza della posizione di Callicle sta soprattutto nella testimo
nianza irriducibile di un’ideologia e di una forma di vita, ben diverso è il
caso di Trasimaco nel libro i della Repubblica.
Non c’è in lui alcuna traccia dell’opposizione ideologica di natura e leg
ge, né alcuna nostalgia eroica dell’uomo-leone. Ciò che Trasimaco scopre
sono la forza, il kratos, e la sua pleonexia non contro la legge, ma dietro la
legge, come suoi presupposti mascherati. Trasimaco sostiene in effetti due
tesi differenti, la prima delle quali (338d-e) è senza dubbio quella teorica
mente più rigorosa e originale. Questa tesi è così articolata: a) le norme di
giustizia sono stabilite dalla legge. Non c’è un valore morale che trascenda
la legge; del resto, il principio che la condotta giusta è quella che si con
forma alla legge è tesi largamente diffusa nel v secolo, e l’equivalenza fra
dikaion e nomimon, sostenuta nel sofistico peri nomon, è condivisa dallo
stesso Socrate del Critone e dei Memorabili di Senofonte; b) ma la legge
è emanata da chi ha la forza per farlo, cioè dal potere, to archon: a mia
conoscenza, il Trasimaco della Repubblica è il primo a formulare questo
concetto astratto di potere, che può riferirsi tanto alla maggioranza demo
cratica quanto all’oligarchia degli aristocratici e all’arbitrio del tiranno;
c) ma ogni forma di potere emana leggi funzionali all’interesse primario
l’aggressività
nella
zo o IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 lo I
della propria conservazione. Dunque, se la giustizia è rispetto delle leggi,
e se le leggi sono strumenti del potere, ne consegue, conclude Trasimaco
che la giustizia non è altro che il vantaggio del più forte, tou kreitton05
xympheron.
Partito da un positivismo giuridico largamente condiviso, Trasimaco
dunque ne smaschera l’inganno ideologico leggendo dietro a esso il posi
tivismo del potere (egli passa cioè da un Rechtpositivismus a un Machtposi
tivismus). Platone riassumerà così le sue tesi nelle Leggi (iv 714c-d): «Le
leggi, dicono, le impone sempre nella città la parte più forte [to kratoun].
E credi tu, dicono, che mai democrazia vittoriosa, o altra forza politica, o
anche un tiranno, credi che vorranno dare leggi per altro scopo principale
se non per il vantaggio di mantenere il proprio potere [arche] ?».
La forza teorica di questa prima tesi di Trasimaco è tale, come vedremo,
da non poter essere seriamente confutata da Socrate, e da richiedere, per
una sua reinterpretazione se non per il suo rifiuto, l’intero sviluppo del
dialogo fino al libro ix.
La seconda tesi di Trasimaco (344a-c) deriva dalla prima non per con
seguenza logica ma per un effetto retorico, risulta più debole sul piano teo
rico e meno originale, finendo per avvicinarsi alle posizioni di Callicle (il
cui atteggiamento viene del resto in parte ripreso dal rifiuto di Trasimaco
di continuare la discussione con Socrate verso la fine del libro i).
Secondo la prima tesi, il potere, essendo anteriore alla legge, era per de
finizione esterno alla norma di giustizia. Si stabilisce così una polarità po
tere/giustizia dalla quale, in modo appunto retorico, è possibile derivare
le equazioni potere = ingiustizia, suddito = giusto. Di qui la tesi secondo
cui la giustizia, praticata dai sudditi, è un “bene altrui’ cioè è funzionale
all’interesse dei potenti ingiusti che li opprimono. La figura perfetta del
potere ingiusto torna quindi a essere quella dellapleonexia del tiranno, l’u
nico uomo che sia veramente “libero” in quanto “padrone” di sé e degli
altri: questa immagine di uomo eteutherios perché dispotikos rievoca diret
tamente le nostalgie “eroiche” di Callicle.
Perché Platone attribuisce al personaggio Trasimaco queste due tesi,
che non sono logicamente connesse e rappresentano due livelli di pensie
ro molto diversi? Si può tentare una risposta ipotetica a questa doman
da: forse Platone intendeva suggerire che la seconda tesi costituiva per la
cultura contemporanea la “verità”, non teorica ma psicologica e appunto
retorica, della prima; che cioè il rigore logico di una “teoria critica” come
quella attribuita a Trasimaco finiva inevitabilmente, se essa non veniva
reinterpretata in modo adeguato, per lasciare il campo allapteonexia tiran
nica alla maniera di Callicle, e soprattutto — concretezza storica — di
Crizia e di Alcibiade.
6
Dal canto suo, Glaucone deriva dal paradigma della pleonexia una teoria
critica della giustizia che assume la forma di una genealogia della morale.
Come per Callicle e per Trasimaco, lapulsione primaria e naturale dell’uo
mo è quella di adikein, di esercitare una violenta sopraffazione sugli altri
per conquistare potere, gloria e ricchezza (358e). Ma — e qui sta l’originalità
della tesi di Glaucone, che ne fa uno straordinario precursore di Hobbes e
del pensiero contrattualistico — naturale genera un altrettan
to universale sentimento di paura: non ci sono superuomini alla maniera
di quello evocato da Callicle, ognuno è troppo debole per poter sperare di
esercitare la violenza sugli altri senza doverne subire una ancora maggiore.
Nasce così il patto (syntheke) di giustizia, che consiste in una reciproca ri
nuncia alla violenza e nell’impegno comune a rispettare le leggi. La legge e
la giustizia costituiscono dunque la protezione dei deboli, ma non ci sono,
come pensava ancora arcaicamente Callicle, deboli e forti “per natura”:
la debolezza, e la paura che ne consegue, sono una condizione universale
degli uomini in società, che li costringe a rinunciare alla pulsione primaria,
al basic instinct della violenza.
Almeno in apparenza, perché la rinuncia allapteonexia riguarda solo la
superficie civilizzata e socializzata del cittadino che ha bisogno dell’appro
vazione (eudokimesis) degli altri. Sotto questa superficie, resta la ferocia
originaria del «vero uomo» (359b). La pulsione della pleonexia sceglie
allora la via della segretezza, del complotto, della società segreta (hetairia,
synousia), sotto la protezione pubblica dell’abilità oratoria e dell’esibizio
ne di virtù civiche. Il conflitto pleonectico si sposta dunque dall’atmosfera
“eroica” di un Callicle, dall’evocazione tirannica di Trasimaco, alla realtà
quotidiana della trama segreta, dell’intrigo, della menzogna.
Dietro la tesi di Glaucone sta probabilmente la figura di un “cattivo
maestro” del pensiero e della politica quale fu, verso la fine del v secolo,
l’ateniese Antifonte. Le ricerche papirologiche di Fernanda Decleva Caiz
zi e le analisi storiografiche di Michel Narcy hanno ormai mostrato l’unità
202 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA FLEONEXL4 203
di questa figura, che veniva di solito scissa fra il sofista “democratico’ che
avrebbe contrapposto l’egualitarismo naturale alle gerarchie arbitrarie im
poste dalle convenzioni e dalle leggi, e l’oligarchico golpista di cui testimo
nia Tucidide (viii 66-70). Antifonte aveva in realtà descritto la reciproca
rinuncia all’adikein nella vita pubblica, che costituiva il contratto (homo
logia) su cui si fondano la società e le sue leggi; aveva però denunciato l’in
sopportabile violenza che queste leggi recano alla vera natura dell’uomo,
pretendendo di regolarne il comportamento i desideri (epithymiai), per
sino i gesti e le funzioni del corpo. Egli aveva quindi rivendicato l’utilità
della violazione segreta (tathra) delle leggi in nome del ristabilimento dei
diritti di natura (DK B fr. iA). Nella vita politica, come ci informa Tu
cidide, egli aveva organizzato grazie alla sua intelligenza e protetto dalla
sua deinotes oratoria, il colpo di stato dei Quattrocento, preparato dalle
società segrete e portato a termine grazie a una alternanza di intimidazio
ne e di violenza. È probabile che Platone si riferisse proprio ad Antifonte
quando denunciava nelle Leggi quei cattivi maestri che insegnano ai giova
ni che «in verità» la cosa più giusta è «vincere commettendo violenza»,
e promuovono staseis al fine di vivere « una vita corretta secondo natura»,
che consiste nel dominare gli altri e non servirli come vorrebbe la legge
(x 8$9e s.).
Crizia per un verso, Antifonte per l’altro, sembrano dunque essere
stati i maestri di pensiero e di azione della pteonexia, sullo sfondo storico
dell’imperialismo ateniese, della stasis nelle città, della rivolta oligarchica
contro la legge egualitaria della democrazia.
Platone ne elabora le posizioni teoriche, sovente, credo, le rende sul
piano filosofico più rigorose di quanto fossero in origine, ne produce di
verse versioni, che articolano tutto il ventaglio di possibilità di pensiero
che era implicito nel paradigma della pteonexia, e le porta sulla scena del
suo teatro filosofico attraverso la voce di grandi personaggi dialogici come
Callicle, Trasimaco e Glaucone.
lutto ciò rappresenta una formidabile sfida per la confutazione socra
tica: una sfida dalla quale, occorre dirlo subito, il personaggio Socrate, al
del Gorgia e dei primi due
quella
meno nella sua configurazione iniziale —
perdente.
esce
libri della Repubblica
—
La confutazione socratica fallisce a più riprese. fallisce di fronte al si
lenzio di Callicle, che oppone la forza di una scelta di vita a quella degli
argomenti e costringe Socrate a un monologo che si conclude con il mito
del giudizio delle anime: un mito, appunto, e non una teoria, del tipo di
quelli cui Adimanto gli proibirà di fare ricorso nel libro ii della Repubblica
(36 5d-3 66b).
La confutazione fallisce a più riprese anche di fronte a Trasimaco,
come Socrate riconosce apertamente alla fine del libro i della Repubblica.
Qui il fallimento è dovuto soprattutto all’impotenza del paradigma delle
technai, cui Socrate fa come al solito ricorso, a dire qualcosa intorno alla
logica del potere: il medico e il pastore non sono buoni esempi per con
futare il rapporto fra kratos, arche e nornos, e del resto Trasimaco non ha
difficoltà a svelare l’interesse pleonectico che sta anche dietro le maschere
di questi buoni artigiani (e l’usurpatore Gige della favola di Glaucone era
lui stesso un pastore).
Ed è proprio Socrate, nel libro 11, a dichiararsi incapace di “portare aiu
to” alla giustizia di fronte all’attacco sferrato da quei “figli di Trasimaco”
che sono secondo lui, sul piano intellettuale se non su quello morale, i
fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto. Non ne è capace, se non a condi
zione di abbandonare il livello della morale individuale che gli era consue
to e di accettare la sfida dellapteonexia sul terreno che le è proprio, quello
antropologico e quindi politico.
7
A dire il vero, anche su questo terreno Socrate va incontro inizialmente a
uno scacco, che è talvolta sfuggito all’attenzione degli interpreti. Socrate
apre il suo passaggio alla dimensione politica con la proposta di un’altra
antropologia, che non confuta quella pleonectica ma la sostituisce. Si tratta
di un’antropologia collaborativa, secondo la quale gli uomini sono spinti a
unirsi in società dalla necessità di soddisfare i loro bisogni primari (chreia).
Ci sono probabilmente riflessi democritei in questa nuova antropologia
socratica, da cui si origina una società prevalentemente economica, basata
sul principio della collaborazione produttiva, della divisione del lavoro,
dello scambio paritario di beni e servizi. Una società semplice, sana, a suo
giusta. Come
al livello di un’economia elementare —
cioè
anche
modo —
è noto, questa ipotesi antropologica di Socrate e il modello di società che
ne deriva vengono liquidati da Glaucone con una secca battuta: si tratte
rebbe, egli dice, di «una società di porci» (37zd), dove il termine non va
inteso naturalmente in senso morale ma in quello dell’eccessiva semplici
tà, dell’ignoranza e della stupidità. Ma perché Socrate ritiene che questa
— che
204 IL POTERE DELLA VERITÀ
battuta sia sufficiente a fargli abbandonare il suo primo modello sociale?
Quello di Glaucone non è evidentemente un argomento ma ha, ancora
una volta, la forza della testimonianza di una scelta di vita: e in questo caso
chi la propone è troppo importante perché il suo dissenso possa venire
ignorato. Il ceto che Glaucone rappresenta — quello stesso al quale vie
ne indirizzato l’intero sforzo persuasivo della Repubblica — non potrebbe
mai accettare un mondo primitivo e regressivo come quello delineato da
Socrate, che non soddisfa le sue esigenze urbane, i suoi ideali di una vita
colta, raffinata, abbellita dalle arti e premiata con il prestigio di un potere
politico e militare giusto, certo, ma accompagnato dalla time, dal ricono
scimento sociale cui quel ceto “signorile” si sente destinato.
Di fronte all’opposizione radicale di Glaucone, il primo progetto so
cratico di un’antropologia e di una società non pleonectiche è dunque
destinato ad abortire. È allora necessario intraprendere una via più lun
ga, che accetti come dati primari della condizione umana il bisogno del
lusso, la tryphe, dunque quella pleonexia dalla quale si origina la guerra
fra le città. La necessità della guerra produce a sua volta la formazione
di un ceto politico-militare che era assente nel primo modello. È la ri
educazione di questo ceto, che affonda le sue radici nella tryphe e nella
pteonexia, che porterà finalmente alla formazione della città giusta, nella
quale il conflitto pleonectico sarà superato da una struttura sociale ge
rarchizzata e governata da un potere razionale (tutto questo almeno nel
togos; nel tempo storico questa rieducazione potrebbe configurarsi — se
condo le prospettive formulate nei libri V e VI — come la conversione
di dynastai politici e militari ad opera di un piccolo gruppo di autentici
filosofi-legislatori).
8
Un conflitto superato e governato, ma non certo estinto. Al contrario, il
libro IV della Repubblica offre una potente fondazione psicologica all’an
tropologia della pleonexia. Per la prima volta, la concezione della “natura
umana” che essa evocava viene giustificata da una teoria dell’anima, che
mostra come il conflitto pleonectico sia radicato nell’apparato psichico
di ogni uomo in modo tale che ogni sforzo di governarlo non può che
risultare precario.
ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 205
Bisogna qui premettere un’osservazione di metodo che troppo spesso
è trascurata dai commentatori. La tripartizione del corpo sociale su cui si
fonda l’equilibrio della città giusta è, nel testo platonico, un progetto deli
neato dal logos, un modello normativo affidato ai fondatori e ai legislatori
della kattzotis, filosofi o dynastai che essi siano. Per contro, la tripartizione
dell’anima è il risultato di una descrizione dell’effettiva realtà psichica, di
una fenomenologia dei processi decisionali e delle fonti motivazionali da
cui essi dipendono (il “conflitto tragico” gioca un ruolo importante nel
sapere psicologico che sta alla base di questa fenomenologia). Questa dif
ferenza di punti di vista (il dover essere sociale da una parte, la realtà psi
cologica dall’altra) spiega molte delle difficoltà nella costruzione di una
perfetta omologia fra le due tripartizioni, che Bernard Williams ha analiz
zato in modo magistrale.
La fenomenologia dell’anima rivela che in essa sono presenti due com
ponenti, due masse energetiche destinate a riprodurre senza sosta l’insor
gere della pulsione pleonectica: lo thymos, il desiderio di autoaffermazione,
l’aggressività rivolta allo spirito di vendetta, alla gloria e al potere; e lo
epithymetikon, la fonte dei desideri di piacere e di ricchezza. Lo thymos
può, grazie a una strategia educativa complessa, venire indotto ad allearsi
con la parte razionale dell’anima, convincendosi che solo nel governo del
la ragione esso può trovare l’autentica realizzazione dei suoi bisogni (ma
anche in questo caso si tratta di un’alleanza precaria ed esposta al pericolo
di una stasis psichica). Al contrario lo epithymetikon è una irriducibile mi
naccia per il potere della ragione. Scrive Platone:
queste due parti [logos e thymos], così allevate e veramente educate in modo da
apprendere ciò che è loro proprio, prenderanno il controllo di quella desiderante
è la più grande nell’anima di ciascuno e per sua natura la più insaziabile di
ricchezze. Essa va sorvegliata per evitare che, diventata grande e forte gonfiandosi
dei cosiddetti piaceri connessi al corpo, cessi di svolgere la propria funzione e tenti
di ridurre in servitù e sotto il suo potere le altre parti, ciò che non le si addice per la
sua origine, sovvertendo così l’intero modo di vita di ognuno (442a-b).
Lapleonexia non è dunque una concezione antropologica arbitraria, con
cepita da qualche storico, sofista e oligarca impressionato dalla lezione
di quel «maestro violento» che era stata la guerra del Peloponneso, alla
quale contrapporre, come faceva Socrate nel libro Il, un’antropologia col
laborativa del lavoro e dello scambio. Si tratta piuttosto, secondo Platone,
non
è
zo6 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 107
di una realtà psicologica insuperabile, che può essere controllata, ma non
soppressa, da un tenace sforzo di condizionamento educativo dell’anima
e della città.
Uno sforzo, tuttavia, i cui successi non possono essere che parziali e
precari. Questa è la lezione di quel paradossale rovesciamento di pro
spettiva che Platone opera nei libri viii e ix della Repubblica. Secondo
i teorici della pteonexia, all’origine stava uno stato di natura, appunto
pleonectico, che l’inganno delle leggi e della giustizia cercava in qualche
modo di reprimere e di celare, a protezione dei deboli. Secondo Platone,
invece, la “natura” che sta al principio — una natura che costituisce evi
dentemente un concetto non descrittivo ma normativo, e un inizio che
non è storico o cronologico, ma per così dire fenomenologico — la città
giusta, la katliolis. Essa subisce un inevitabile processo di deformazione
e decadenza sotto la pressione delle pulsioni pleonectiche, quella timica
prima, quella epithymetica in seguito. È dunque il tempo storico, non
la natura delle origini, che costituisce il luogo fenomenologico di realiz
zazione della pleonexia. Ma il risultato non cambia: esso si conclude, in
una paradossale “fine” antiteleologica, nella tirannia, la forma di vita e di
potere che Platone aborriva e che costituiva invece l’oggetto del deside
rio di Callicle e di Trasimaco, la segreta aspirazione di ogni “vero uomo”
secondo Glaucone.
Le leggi storiche — quelle dell’oligarchia, della democrazia, natural
mente della tirannide — sono allora secondo Platone freni per lapleo
nexia ma suoi strumenti. Trasimaco (e soprattutto il Trasimaco della sua
prima tesi) aveva dunque ragione. La realtà inevitabile della storia delle
società umane consiste nel trionfo, in forme diverse, della violenza e della
sopraffazione reciproca, nell’asservimento dei poveri da parte dei ricchi, o
dei ricchi da parte dei poveri, fino all’assoggettamento universale rappre
sentato dalla tirannide.
Se questa è, ancora una volta, la “verità delle cose’ Platone non ha che
una sola risposta, e una sola proposta. È necessario accettare, con Trasi
maco, la centralità della questione del potere, to archon. Si può tuttavia
tentare di costruire un gruppo di potere non trasimacheo, cioè relati
vamente immune dallo spirito di pleonexia, mediante un’operazione di
chirurgia politico-morale che ne estirpi le radici, cioè la proprietà, la fa
miglia, la privatezza del patrimonio e degli affetti (come Platone avrebbe
ricordato nelle Leggi, si tratta insomma di far sì che «con ogni mezzo
tutto ciò che si definisce privato venga da ogni parte sradicato dalla vita
dell’uomo», V 739c): tutto ciò insomma che altrimenti trasforma inevi
tabilmente il cane da guardia in un feroce predatore come il lupo (il pe
ricolo evocato nel terzo libro della Repubblica). Questo gruppo di potere
dovrebbe subire una indelebile tintura educativa, al tempo stesso etica e
intellettuale, capace di garantire che il suo sia un potere di servizio e non
di oppressione. Esso dovrebbe infine venir dotato della forza necessaria
grazie all’alleanza con un ceto guerriero le cui aspirazioni all’autoaffer
mazione possano venire sublimate in direzione della ricerca della felicità
universale del corpo sociale, compresa come unica possibile garanzia an
che per una vera felicità delle sue singole componenti: una finalità eu
daimonistica, dunque, che non si contrappone alla deontologia ma ne è
strettamente implicata.
A questo punto, tutto funzionerebbe secondo lo schema di Trasimaco:
è vero che le leggi saranno in ultima istanza strumento della conservazione
del potere di questo gruppo, to archon, ma è anche vero che esso lavorerà
per la felicità dell’intero corpo sociale anziché per la sua spoliazione. La
questione del potere, di “chi comanda’ resta dunque primaria e centrale:
ma è possibile pensare che la destinazione del potere stesso cambi di senso,
si orienti verso il bene comune, facendo diventare la giustizia un “bene
proprio” anziché altrui.
Trasimaco non è allora confutato ma almeno corretto. Tuttavia anche
questa correzione risulta, come si è visto, provvisoria e instabile. L’im
menso sforzo di ricondizionamento intellettuale e morale dellapleonexia,
ispirato dal “paradigma in cielo” della giustizia, dà luogo a una costru
zione artificiale, che si appoggia su di un terrain vague. La realtà psichica
dell’uomo, la mutevolezza delle circostanze storiche, il conflitto sempre
riprodotto dalle condizioni stesse della vita sociale, determinano una
malattia perpetua, una aezatheia del genere umano, che è appunto la
pleonexia. Vale la pena di combatterla, come dicono le righe finali del
la Repubblica, per «star bene» (eu prattein), in questo e magari anche
nell’altro mondo, in un viaggio che può durare mille anni. Ma la guarigio
ne dell’anima e della città, la loro salute, non sono stati che si possano mai
considerare stabili e acquisiti per sempre. Per sempre, c’è solo la “verità”
della pteonexia.
Il peggior torto che si possa allora fare a Platone è di considerarlo un
pensatore edificante, affrancandolo da quel lato oscuro del suo pensiero
cui danno voce personaggi come Callicle, Trasimaco e Glaucone, e che
costituisce una parte non piccola della sua “verità”
2.0$ IL POTERE DELLA VERITÀ
Riferimenti bibliografici
Sul ruolo dei personaggi dialogici cfr. G. A. Press (ed.), Who Speaksfor Plato?, Lanham
zooo (che comprende il citato saggio di E. Ostenfeld); cfr. anche M. Vegetti,
Societri diatogica e strategie argomentative nella “Repubblica” (e contro la ‘Repubblica”),
in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogoplatonico, Napoli zooo, pp. 74-85
Su Callicle cfr. 5. Gastaldi, La giustizia e laforza. Le tesi di Catlicte nel “Gorgia”
di Platone, in “Quaderni di storia”, z, zooo, pp. 85-105. Per Trasimaco cfr. M. Veget
ti, in Platone, La Repubblica, trad. e commento, vo1. i, Napoli 199$, 133-56; su
Glaucone ivi, vo1. il, pp. 151-71.
Per Antifonte cfr. F. Decleva Caizzi, “Hysteron Proteron”: la nature de la toi seton
Ptaton etAntzphon, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, xci, 1986, 191-310;
M. Narcy, Les interprétations de tapenséepolitique d%lntiphon au xxsiècle, in “Revue
Franaise d’Histoire des Idées politiques’ III, 1996, pp. 3i-45; su Tucidide e il dibat
tito sofistico intorno apteonexia cfr. anche G. Giorgini, Idoni di Pandora, Bologna
1001, capp. I, VII.
Sulla teoria della giustizia e l’omologia anima-città nel Iv libro della Repubblica
si è fatto riferimento a B. Williams, The Anatogy of City and Soul in Ptato’s ‘Repu
blic”, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exegesis andArgument,
Assen 1973, pp. 196-lo 6. Sulla questione cfr. anche Vegetti, Platone, La Repubblica,
cit., vo1. III, pp. 11-45.
Interessanti osservazioni critiche sulle tesi discusse in questo saggio sono state
formulate da F. Decleva Caizzi, Glaucone, Socrate e t’antropologia della pteonexia, in
“Elenchos”, XXIV, 1, 2003, pp. 361-73.
Parte quarta
La verità
Socrate
che
il
9
Nell’ombra di Theuth.
Dinamiche della scrittura in Platone*
La prima e maggiore ambiguità del corpus filosofico di Platone sta nella sua
stessa esistenza. Si tratta di un insieme di scritti teorici senza precedenti,
per dimensione e qualità, nell’esperienza culturale greca — che però ven
gono presentati come progetto mimetico di trascrizione della parola di un
—
filosofo — aveva sempre rifiutato la scrittura. Non solo: questi
scritti contengono anche elementi di una teoria sistematica del rifiuto della
scrittura nei suoi valori comunicativi (fedro), legislativi (Politico), conosci
tivi (Lettera vii). L’ambiguità rischia di paralizzare sul nascere un’indagine
sulle forme e le dinamiche della scrittura in Platone. Se si privilegia il dato
di fatto dell’esistenza del corpus platonico, si può vedere in Platone — con
tro le sue stesse parole — l’artefice di una rivoluzione scritturale, lo scopri
tore delle virtualità concettuali insite nella messa per iscritto del pensiero:
è la proposta, fondamentale ma anche paradossale, avanzata da Havelock’.
Se ci si tiene, all’opposto, alla lettera dei passi ora ricordati, leggendovi i
luoghi forti della costituzione di una teoria unificata della negatività della
scrittura, occorre declassare l’intero corpus allo statuto di un gioco lettera
rio, non più che propedeutico rispetto all’esercizio della vera filosofia, le
cui tracce andranno allora cercate in direzione delle dottrine non scritte: è
questa la via su cui si sono mossi, con un rilevante sforzo argomentativo, gli
interpreti della scuola di Thbingen, Gaiser e Kràmer in particolare.
Per sfuggire alla trappola che Platone ha teso al suo lettore — cui senso,
tuttavia, andrà interpretato — si è scelto qui di muoversi a monte rispetto
alle strettoie di questa alternativa. Si tenterà cioè di seguire, in modo esten
sivo3, i numerosi segmenti di interrogazione platonica sulla scrittura, nelle
loro direzioni disperse e anche divergenti: una tortuosa linea di crinale fra
l’impatto arcaico dell’esperienza grafica e le mature teorie della lingua e
Questo capitolo è già stato pubblicato in Ivi. Detienne (a cura di), Sapere e scrittura in
Grecta, Laterza, Roma-Bari 1989.
una
a
appunto
elementare
al
2.12. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “3
del testo proprie del iv secolo. Se ne potranno definire alcuni profili locali:
il mito ambiguo delle origini della scrittura, la sua assunzione metaforica
nella figura di un sapere elementare che rinvia a un possibile sapere degli
elementi, la costruzione di un modello di conoscenza analitico-sintetica
messo alla prova innanzitutto sulla phone, lo strumento di una circola
zione culturale e di una pratica legislativa che si tratta di controllare e di
governare, infine il problema del testo filosofico. Altrettanti elementi che
rendono la riflessione platonica sulla scrittura — monte della sua eventua
le chiusura teorica — produttiva, nella sua autonomia, di nuove forme di
sapere possibile, di nuove esplorazioni intellettuali.
L’invenzione della scrittura
Platone toglie agli dei e agli eroi della tradizione greca, come Prometeo
o Palamede, la responsabilità preoccupante dell’invenzione di un ritrovato
ambiguo come la scrittura. Essa viene piuttosto collocata nell’antichità im
memorabile dell’Egitto dei re, dei sacerdoti e dei templi: qui si sviluppa una
scrittura sacra (hiera grammata) e capace di conservare una memoria on
nicomprensiva (paniagegrammena) (Tim l3a-d). All’opposto del vecchio
Egitto, barbaro6 a suo modo per eccesso di antichità e di civilizzazione, si
situano i barbari privi digrammata, legati alla tradizione orale delle leggi dei
padri, il cui prototipo sono i Ciclopi omerici (Leg. III 68ob). Nello spazio
intermedio tra questa barbarie “orientale” e “occidentale’ segnata rispettiva
mente dall’abuso e dal difetto della scrittura, si collocano i Greci: sottoposti
come sono alla vicenda delle catastrofi alluvionali, essi ciclicamente scopro
no e riperdono i grammata, avvicinandosi di volta in volta alla condizione
egizia e a quella “ciclopica’ costretti comunque a una memoria lacunosa e
intermittente, e a un rapporto difficile con la scrittura (Tim. za SS.; Leg.
iii 6$oa), in qualche modo indicativo dello stesso atteggiamento platonico.
Com’è ben noto, l’inventore della scrittura che Platone sostituisce a
Prometeo e Palamede è un dio egiziano, Theuth, che sottopone il suo heu
rema al re Thamus e ne viene rimproverato, perché esso è nocivo alla me
moria e al vero sapere (?haedr. za ss.). La capacità inventiva di Theuth
è coerente ma ambigua. I suoi ritrovati — variante platonica della lista
altrove attribuita a Palamede — si possono disporre in due serie; la prima,
“alta”, comprende aritmetica, geometria, astronomia — le discipli
ne che la Repubblica indica come essenziali per la formazione del filosofo;
a essa ne segue una “bassa”, che include la dama (petteiai), i dadi (kybeiai)
e appunto le lettere scritte, igrammata (Phaedr. z74d). La coerenza fra le
due serie sta nel fatto che tutte le discipline comprese si basano su elementi
semplici (numeri, figure, solidi nel primo caso, pedine, dadi, lettere nel
secondo), e ne utilizzano le proprietà combinatorie. Quanto all’ambigui
tà dell’invenzione della scrittura, essa risulta evidente se si riscrivono le
due serie in ordine di crescente complessità conoscitiva7: otterremo allora
la sequenza di dama, dadi, grammata, aritmetica, geometria, astronomia.
Nel campo generale delle invenzioni elementari-combinatorie, la scrittura
si colloca dunque al limite tra la serie dei giochi, di cui fa parte, e quella dei
saperi produttivi di verità, ai quali prelude.
L’invenzione di Theuth non è del resto abbandonata alla condanna del
re Thamus. Nella sua collocazione mitica, essa anticipa la produttività co
noscitiva dell’impiego metaforico e paradigmatico dei grammata, precisa
mente nell’esplorazione della possibilità di costruire una forma generale di
sapere elementare-combinatorio.
Sapere elementare, sapere degli elementi
Impiego metaforico e paradigmatico, si è detto. In sé stessa, la tecnica della
scrittura (e quella connessa della lettura) non rappresenta più per Platone
un fenomeno culturale emergente e innovativo, e neppure un formatore
dell’immaginario scientifico, come poteva accadere ancora per gli atomi
sti. Scrittura e lettura costituiscono certo un sapere, che ha i suoi specia
listi, i grammatistai. Senza questo sapere noi avremmo la pura percezione
della figura e del colore delle lettere ma non le conosceremmo, come udia
mo il suono della phone dei barbari senza comprenderla (Theaet. i63b)8.
Ma si tratta di un sapere di grado minimo, ovvio e declassato
— pari dei
suoi specialisti —, nel senso che è il primo cui i ragazzi accedo
no e di conseguenza il più diffuso. Il grammatistes occupa sempre il primo
posto nelle sequenze di insegnanti elementari formulate da Platone, che
gli affianca nell’ordine kitharistes e paidotribes (cfr. ad es. Prot. 3izb); il
primo apprendimento dei ragazzi consiste nel passare dalla comprensio
ne della voce a quella dei grammata (Prot. 325e), ed è a loro che spesso i
genitori affidano il compito minimo di leggere o scrivere qualcosa (Lys.
214
rispecchia probabil
ignorano ancora?
—
—
IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THIUTH 215
zo9a-b). Platone non fa che registrare questa situazione quando prescrive
nelle Leggi che i futuri cittadini debbano apprendere “con precisione” i
grammata fra i io e i i anni di età (Leg. vii 809c ss.).
Capacità minima e diffusa, e come tale agevolmente fruibile a un livello
metaforico elementare, la scrittura gode tuttavia di una serie di proprietà
interessanti. È ripetibile a piacere (Rpp. mi. 366c), ha capacità referenzialj
(quando un ragazzo scrive o legge un nome altrui «non fa le cose pro
prie», Charm. i6id-e). li segno grafico rimane identico anche nel variare
delle sue dimensioni (Resp. ii 36$d); forma un piccolo gruppo di stoichefa
che restano riconoscibili in tutte le combinazioni in cui vengono a tro
varsi (peripheromena) (Resp. iii 401a). Il gramma è dunque stoicheion, ele
mento primo, semplice e invariante della scrittura; stoichelon esso stesso,
può venir assunto a paradigma estensibile a qualsiasi elemento cui pos
sano venir ridotte, e da cui possano venir derivate, strutture complesse’°.
Sapere elementare, la lettura può quindi a sua volta essere concepita come
il paradigma universale di una conoscenza degli elementi. Un passo del
Potitico (277e-z78b) offre la chiave di questa estensione paradigmatica del
gramma/stoicheton e della scrittura/lettura:
Noi in qualche modo sappiamo che i fanciulli, appena sono divenuti esperti delle
lettere [grammata] {...] discernono bene ciascun elemento [stoicheton] quando
si trova nelle sillabe più brevi e più semplici, e sono capaci di esprimerli corret
tamente [...]. Ma in altre sillabe non li distinguono più chiaramente e allora su
di essi le loro opinioni e i loro discorsi sono falsi [...]. E non credi allora che sarà
facilissimo ed efficacissimo questo modo per guidarli alla conoscenza di ciò che
[trnagein] prima davanti a quelle sillabe
Quale?
in cui essi li riconoscevano correttamente, poi porre questi di fronte a quelli non
Riportarli
che
secondo
stesso.
è in gioco un pensiero degli elementi. A chiunque si debba la teoria, essa
mette in opera, secondo Platone, il paradigma dei grammata/stoicheia e
tn dei Megarici, posizioni comunque non estranee all’orizzonte socratico
se non certo esenti da un’eco atomistica, come sempre, del resto, quando
ticolazione teorica del discorso platonico è troppo complessa perché sia
qui possibile ricostruirla analiticamente; altrettanto difficile è il problema
storiografico di identificare i sostenitori di questa dottrina, cui Platone al
platonico, forse condivise problematicamente dallo stesso Platone, anche
mdc molto vagament&. Si tratta secondo alcuni di Antistene, secondo al
za basata sulla riduzione delle strutture complesse agli elementi semplici
enunciati o dei nomi nominando gli stoicheia onde essi sono generati. L’ar
che le compongono; in particolare, di ottenere la definizione (logos) degli
Il primo di questi esperimenti, condotto nel Teeteto, è di ordine episte
mologico. In questione è la possibilità di ottenere una forma di conoscen
menti. La produttività teorica di questo paradigma viene messa alla prova
definizione del modello scrittorio come possibile infrastruttura teorica di
una episteme analitico-combinatoria: invarianza degli elementi primi, ri
da Platone, con una serie di esperimenti concettuali, in direzioni diverse e
ducibilità a essi dei composti, regole di derivazione dei composti dagli ele
funzione vocalica e del sapere grammaticale. Ma intanto, si è completata la
allora il problema di individuare gli equivalenti metaforici generali della
nazione di lettere sarebbe possibile; e la grammatica rappresenta il sapere
specifico relativo a questo campo di combinazioni (Soph. 253a). Si apre
che regolino le combinazioni possibili. Alcune lettere, infatti, possono dar
le vocali, in particolare, fungono da legame senza il quale nessuna combi
solo per quanto riguarda la riducibilità delle strutture complesse ai loro
elementi primi, ma anche in vista della produzione di criteri di selezione
luogo a mescolanze perché si accordano (synarmottei) fra loro, altre no;
significherà conoscere qualsiasi testo possibile; il possesso di questo sapere
Più seriamente, il paradigma dei grammata può venire utilizzato non
un nome qualsiasi significa immediatamente diventare più esperto in tutta
il quale, poiché ogni testo è composto da grammata, conoscere le lettere
quanta la tecnica (grammatikoteros, i8c-d). Su questa via, non è difficile
primario riduce qualsiasi ulteriore conoscenza a un semplice riconosci
mente una sorpresa più arcaica di fronte all’esperienza scrittoria —
per il sofista Eutidemo giungere al paradosso —
con risultati contrastanti.
mento (Euth. ziia)”.
ancora conosciuti, e finalmente comparando i primi ai secondi mostrare che in
entrambe le serie di combinazioni {symptokai] sono presenti elementi simili e del
la stessa natura, fino a che accanto a tutti quelli ignorati siano posti e mostrati gli
elementi corrispondenti da loro interpretati correttamente, e questi elementi, una
volta mostrati così e divenendo quindi modelli [paradergmata], diano modo di
denominare ogni elemento in ogni sillaba, quando è diverso, come diverso dagli
altri, quando identico, come identico sempre dallo stesso punto di vista con se
A prima vista, la proprietà più sorprendente della conoscenza per elementi
fondata sul paradigma del gramma è la sua indefinita ripetibilità e quindi
estensibilità. Il Politico osserva che riconoscere le lettere di cui è formato
con
come
zx6 IL POTERE DELLA VERITÀ I
NELL’OMBRA DI THEUTH 217
della loro relazione con le sillabe: queste hanno un logos, una definibilità
che consiste precisamente nella risoluzione nelle lettere che le compongo..
no; il processo si arresta qui, perché gli stoicheta non sono ulteriormente
definibili (atoga) ma solo nominabili con il loro suono o classificabifi se
condo i tipi’3. Lo stoicheion non è dunque conoscibile (gnoston) in sé stes
so: come lo sarà allora la sillaba se la sua conoscenza dovrebbe risultare
dalla scomposizione in lettere e dalla enumerazione/nominazione di que
ste ultime? D’altra parte, se si dovesse inferire (tekmairesthai) dal modello
addotto per lo sviluppo della teoria, le lettere-elementi dovrebbero posse
dere una conoscibilità più evidente e sicura delle sillabe che ne derivano.
La conclusione, come è noto, è dubitativa e aporetica: chi non combina le
lettere nelle sillabe non ha conoscenza, ma anche scrivendo ordinatamen
te tutti gli stoicheia del nome “Teeteto” se ne otterrà una retta opinione
basata su un logos definitorio, ma non ancora una conoscenza scientifica,
una episteme (Theaet. zoie-zo8a).
Per quanto ci interessa più da vicino, i dubbi epistemologici tematizzati
da Platone
— molta cautela e anche rispetto per la teoria discussa —
sembrano essere di due tipi. Il primo riguarda la legittimità conoscitiva
generale di un metodo “elementaristico”, analitico-scompositivo, che non
è rifiutato tout-court ma che sembra incapace di comprendere l’originalità
formale del composto rispetto ai suoi elementi (cfr. soprattutto zo3e)’4, o
la sua referenzialità, come nel caso del nome “Teeteto” (zo8b). Il secondo
riguarda più da vicino la legittimità del,gramma a fungere da metafora del
lo stoicheton: in quanto non definibile in sé, ma solo nominabile, ilgramma
sembra mancare della trasparenza conoscitiva, della ricchezza di significa
zione che un elemento dovrebbe possedere perché le sue combinazioni sia
no suscettibili di conoscenza ulteriore e più elevata. Le possibilità offerte
in questo senso dal gramma verranno ulteriormente esplorate nel Cratito.
Ma il tema viene ripreso in modo diretto nel Timeo, dove Platone si chiede
esplicitamente con quali caratteri sia scritto il libro del mondo. Quelli che
una lunga tradizione considera “elementi”, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco,
non solo non vanno considerati stoicheia, ma neppure sillabe dell’alfabeto
cosmologico (Tim. 4$b-c). La piramide, ad esempio, è lo stoicheion del
fuoco, ma essa — ogni altro solido — risulta a sua volta una “sillaba”, il
composto (systasis) dei veri elementi, i triangoli rettangoli scaleni ed equi
lateri (56b-57c).
Come si vede, il Timeo non rifiuta affatto il modello analitico-com
binatorio, ma sostituisce la suggestione metaforica del gramma con il ri
ferimento almeno parzialmente non metaforico alle figure geometriche
“prime” come costituenti elementari del mondo. Rispetto ai grammata,
i triangoli presentano per Platone l’incommensurabile vantaggio episte
mologico di una totale definibilità, di una trasparenza senza residui alla
visione conoscitiva, quindi la capacità di fondare un edificio conoscitivo
sempre più complesso ma sempre linearmente riducibile alle proprietà dei
suoi elementi primi.
Quanto al Sofista, Platone vi sperimenta, come è noto, un particolare
metodo scompositivo e quindi definitorio degli aggregati ideali complessi,
quello dicotomico. Qui gli elementi in cui si conclude la scomposizione
non sono grammata e neppure triangoli, bensì forme semplici e indivisibi
li, gli atoma eide (Soph. ;;9d). A parte l’andamento generale del metodo,
sembra interessante rilevare la formazione di nuovi nomi corrispondenti a
livelli intermedi di realtà, che la dicotomia mette in luce e che sono restati
finora anonimi (z67d).
L’onomaturgia platonica procede utilizzando le parole del linguaggio
comune come stoicheia dalla cui composizione risultano i nuovi termini;
reciprocamente, la definizione di questi ultimi consisterà nella somma del
le definizioni dei termini elementari in cui possono venire scomposti (si
pensi a parole di conio platonico come zootherike,pezotherikon, anthropo
theria, mathematopolike ecc.: Soph. zzoa ss.).
Anche qui, come per altri aspetti nel Timeo, il paradigma analitico
combinatorio dell’episteme scrittoria resta attivo e produttivo, nonostante
le aporie del Teeteto e la negazione al gramma della dignità di stoicheion
universale.
Ma è naturalmente sul terreno della lingua, del rapporto phone
gramma, che le potenzialità conoscitive della scrittura possono venire spe
rimentate più a fondo’.
Decisiva è in questo senso l’analisi del Fitebo (17a-b, i8b-d). L’emissione
vocale costituisce un continuum, unitario per un certo aspetto, e per un al
tro anche indefinitamente molteplice (apeiron). L’unico modo per gover
nare conoscitivamente questo continuo paradossale sono appunto le lettere
dell’alfabeto, i ,grammata: esse rappresentano uno strumento analizzatore
che mediante i grafemi scompone la voce nei suoni-fonemi elementari che
la costituiscono. 11 gramma è dunque il termine medio tra la voce, una e
indefinita, e l’insieme discreto e numerabile dei suoni che la compongo
no. Mediante questa analisi, Platone elabora al tempo stesso una conquista
concettuale e un modello epistemologico. La prima consiste nel compiuto
219
NELL’OMBRA DI THEUTH
risponderanno così al flusso e al movimento, delta e tau alla immobilità e
alla quiete (426c SS., 434C ss.). Ma che cosa significa questa corrisponden
za? La prima possibilità esplorata in questa direzione da Platone consiste
nel far corrispondere a ogni fonema-grafema un semantema, cioè a ogni
elemento della scrittura fonetica un radicale semantico immediatamente
referenziale rispetto alla struttura fine della realtà stessa. L’aggregazione di
questi radicali nei nomi primi, e di essi nei nomi composti, darebbe final
mente luogo a un linguaggio “naturale” o normale, cioè adeguato alla sua
funzione di strumento di simulazione/rivelazione delle cose stesse.
Questa prima possibilità semantica di adeguazione del linguaggio al
mondo è esemplificata da Platone con i nomi delle lettere: per quanto
compositi, essi devono sempre contenere la dynamis della cosa-lettera si
gnificata, come è ad esempio B nel nome beta (393e). Il nome corretto
si appropria dunque della “potenza” della cosa, e la significa. C’è indub
biamente un sapore arcaico in questo nesso elementare di significazione
tra parola e cosa; Platone lo esemplifica tuttavia, almeno nel suo versante
compositivo, che va dal semplice al complesso, con un sapere relativamen
te “moderno” qual è quello dei metrici orhythmikoi del V secolo. Essi sono
in grado di riconoscere e quantificare la dynamis degli stoicheia risalendo
da questi alle sillabe e poi al ritmo nel suo insieme (424c: con le stesse pa
role era definito il sapere di Ippia, maestro della dynamis di lettere, sillabe,
ritmi e armonie, in Hzpp. ma. i85d)’7.
Ma che cosa può garantire che la dynamis della cosa sia davvero cattura
ta dal segno fonico-grafico, e che il nome ce la restituisca, ce la “manifesti”
grazie alla sua potenza semantica? Platone è sistematicamente consapevo
le, attraverso tutto il Cratito, dell’arbitrarietà del nesso semantico che si
presume immediato tra sistema degli stoicheia, dei nomi primi e dei nomi
composti da un lato, e l’essenza delle cose, lo stato del mondo dall’altro.
Tanto è vero che egli produce due differenti analisi dei “radicali semantici”
IL POTERI DELLA VERITÀ
iis
riconoscimento della struttura e della funzione dell’alfabeto fonetico: la
cui invenzione è attribuita a «un dio o un uomo divino», Theuth secondo
la leggenda egiziana (lo sfondo egiziano, dunque semi-ideografico, appare
qui incongruo al ritrovato alfabetico, ma, come si vedrà, l’insistenza su di
esso non è priva di senso in rapporto ad alcuni sviluppi del Cratito).
Per quanto a suo modo definitiva, la teoria della scrittura fonetica inte
ressa qui a Platone per la sua fruibilità come modello; e precisamente per
una forma di sapere che
una volta —
ancora
a
la sua capacità di alludere —
non si smarrisca sterilmente nella polarità uno-infinito, ma che sia in gra
do, attraverso il processo analitico di elementazione e numerazione degli
stoicheia, e quello ricompositivo di aggregazione ordinata degli stoicheia
stessi, di muoversi nello spazio intermedio fra quella polarità, di passare
da una concezione indifferenziata a una articolata e composita dell’unità
via dell’esemplarità scritturale— si
la
quella
che rinviano a due opposte visioni del mondo, una delle quali —
sicuramente errata.
“eraclitea”, centrata sul dominio del movimento —
Di fronte all’esaustione e allo scacco di questo primo esperimento in
è
tellettuale, Platone imbocca, se pure meno sistematicamente, un’altra via,
quella suggerita dal grafismo della tradizione atomistica’8. In questa nuova
prospettiva il segno grafico, sciolto dalla connessione organica con il fone
ma, conta per la sua forma materiale e visibile. Il nome corretto sarà quello
che contiene ed esibisce, nei segni che lo compongono, il “typos della cosa”,
il suo sigillo, la sua impronta: un marchio di riconoscimento ridotto all’es
(fhit. i8a-b). Anche per questa via —
giunge al “parmenicidio”, si ricostruisce uno spazio discorsivo pur sempre
epistemologicamente controllabile e collocato tra la tautologia eleatica e il
suo orrore per la molteplicità indefinita: il sapere della dialettica viene così
strettamente metaforizzato da quello della grammatike (i$d).
Ma è certo nel Cratito che Platone compie l’esperimento intellettuale
più radicale e più esaustivo sulle possibilità conoscitive della scrittura in
quanto tale, fonetica e no.
Come è ben noto, il problema del Cratito consiste nel saggiare la tenuta
del legame fra linguaggio e realtà, la consistenza del rapporto fra i nomi e
le cosel6. Si tratta in altri termini di verificare se sia possibile, e pensabile,
una “normalità” corretta del linguaggio tale da stabilire una sequenza tra
l’essenza della cosa stessa (ousia toupragmatos), la forma del «nome per
natura» (onomaphysei), e la trascrizione di quest’ultimo in elementi (stoi
cheia) fonetico-grafici, quindi in grammata e sillabe. Se questa sequenza
fosse possibile, essa sarebbe allora ripercorribile all’inverso: lettere e silla
be, con i nomi che ne risultano, sarebbero leggibili come simulazione (mi
mesis), o meglio ancora come rivelazione (detoma) della ousia della cosa
stessa (Crat. 39od, 393d, 423e, 433b).
Questo nesso immediato fra il nome e la cosa non può venir rivelato
al livello dei nomi composti o aggregati. Un primo passo analitico dovrà
ridurli ai loro componenti primi, ai nomi-stoichela, quali possono essere,
nel contesto di un pensiero del movimento di tipo eracliteo, rhoe, flusso,
o ienai, andare (Crat. 4zza, 424a). Ma un secondo passo è in grado di
ridurre questi nomi ai loro radicali alfabetici: lettere come rho e iota cor
— con
il
per
12.0 IL POTERE DELLA VERITÀ
NELL’OMBRA DI THEUTH 12.1
senziale ma ben visibile (Crat. 431e). Torna in questo nuovo contesto, e
non a caso, l’esempio dei nomi delle lettere; solo che ora il nome beta non
è tanto il veicolo semantico della dynamis di B, quanto il suo rappresentan
te figurale, perché ne racchiude in sé la forma. Gli stoicheta dei nomi primi
dovranno dunque essere non significativi, ma riproduttivi della cosa, do
vranno essere homoia (uguali o simili) a essa, proprio come i colori della
pittura stanno alla cosa raffigurata (434a).
È difficile interpretare il senso di questo secondo esperimento plato
nico, direttamente centrato sul segno grafico, se non riportandosi, al di là
degli stessi stoicheia dell’atomismo, in direzione di un immaginario ideo
grafico. In una drastica quanto provvisoria rinuncia all’orizzonte della
scrittura fonetica elaborato nel fitebo, il geroglifico egiziano sembra di
ventare ora il modello possibile dello stoicheton del nome primo “corretto”
E questo può gettare nuova luce sull’insistenza platonica circa le origini
della scrittura in terra d’Egitto.
Rinuncia tuttavia provvisoria, si diceva. Anche l’esperimento di sosti
tuzione dei radicali semantici con radicali (ideo-)grafici per garantire la
consistenza del nesso fra il nome e la cosa viene portato rapidamente al suo
scacco. Il controesempio immediatamente evocato è quello dei nomi dei
numeri, altrettanto primi quanto quelli delle lettere ma incapaci di esibire
nella loro configurazione il typos della cosa (435c ss.).
Di fronte a questo duplice fallimento, non resta a Platone che proporre
un rincrescimento che non è soltanto ironico — ritorno a un crite
rio più “grossolano” (phortikon), e soprattutto più debole, di garanzia del
rapporto fra linguaggio e stato del mondo: quello della convenzione se
mantica tra i parlanti. Si apre così la via per il ripiegamento, al di là dell’in
chiesta sul linguaggio e sulla sua infrastruttura grafica, verso la riflessione
diretta sulle “cose stesse’
Che cosa rimane di quell’inchiesta? In negativo, la rinuncia alla pretesa
arcaica di catturare nel segno grafico, per una via o per l’altra, l’essenza e la
potenza delle cose. In positivo, ancora una volta, un paradigma “gramma
ticale” che costituisce il modello forte di un sapere analitico-combinatorio
non senza rapporti, come si è visto, con lo stesso programma dell’impresa
dialettica; e ancora, una mossa potente in direzione della costituzione di
una nuova scienza, la linguistica, che nasce nello spazio del rapporto fra
voce e scrittura, con la consapevolezza della capacità di quest’ultima di
oggettivare, articolare, dominare la voce parlata, e dell’autonomia — per
quanto malvolentieri accettata — della lingua rispetto alla realtà’.
i
Dalla scrittura al libro
Accanto alle sue potenzialità come paradigma teorico, c’è sicuramente un
incentivo esterno che spinge Platone alla sua riflessione intorno alla scrit
tura. Non più certamente l’arcano di una techne da poco inventata, com’e
ra accaduto in tempi ormai lontani; ma una vera e recente “rivoluzione
culturale’ la diffusione del libro e la sua generale accessibilitàbo. Questo
fenomeno appare a Platone capace di alterare profondamente i modi, i
contenuti e i destinatari della comunicazione culturale.
Come l’esperienza del v secolo aveva dimostrato, la scrittura è uno
strumento flessibile e accessibile a molti (mentre la forma orale della co
municazione richiede la preliminare credibilità del parlante, la sua capaci
tà di attirare e dominare un uditorio). Il libro consente inoltre una libertà
pressoché illimitata di discorso, non sottoposta alla censura immediata da
parte dell’uditorio; e, soprattutto, esso si offre a una fruizione non selet
tiva, né per quanto riguarda la cerchia dei lettori né per le circostanze e le
ragioni della letturahl. In questo modo, il libro da un lato “democratizza” la
circolazione culturale, dall’altro la rende anche a-sociale — chi punti a
un modello di socialità chiuso e coeso — perché isola il suo lettore dal con
testo e dal controllo del corpo sociale cui appartiene’. Per tutte queste ra
gioni, la circolazione dei libri appare a Platone eversiva in rapporto al suo
progetto di ricostruzione di una città fondata sull’educazione collettiva e
sulla coesione culturale che le è necessaria; una potenzialità dei libri con
fermata, come vedremo, dai loro effettivi contenuti, spesso irresponsabili,
talvolta decisamente pericolosi nei riguardi dei temi centrali del progetto
platonico: la vera filosofia, le giuste leggi, le credenze sugli dei.
Il fenomeno è preoccupante anche perché ormai radicato e diffuso in
modo irreversibile: gli ateniesi sono abbastanza esperti di g?ammata per
poter leggere il libro di Anassagora sugli astri (Apot. z6d). Sullo stesso
Socrate, che pure rifiuta tenacemente la scrittura, il libro agisce irresisti
bilmente come un’esca sugli animali (Phaedr. z3od): non gli basta sentir
leggere i libri di Anassagora, ma li acquista e li legge avidamente, con la
maggior rapidità possibile (Phaed. 98b). La diffusione e la fascinazione
del libro richiedono allora uno sforzo rivolto non a una impossibile ri
mozione, ma a limitarne, controllarne, governarne l’impatto per renderlo
compatibile con le strategie di fondo del programma platonico.
I dialoghi offrono intanto, sia pure in modo sporadico, un censimento
degli scaffali di quella che potremmo definire la “biblioteca d’Atene”.
2,2,2. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’ OMBRA DI THEUTH “3
afferma
Platone introducendo il problema della Scrit
«Nelle poteis» —
«ci
tura delle leggi —
sono opere scritte e discorsi scritti che sono opera di
molti autori» (Leg. Ix 858c). Questa biblioteca comprende libri comun
que “profani’ ma che possono spingersi fino alla profanazione, all’empietà
e all’ateismo.
Ci sono innanzitutto «opere scritte, senza metro o col metro, di poe
ti e quanti altri hanno voluto deporre nella memoria il loro parere sulla
vita», da Omero e Tirteo a Licurgo e Solone (Leg. ix 88d-e). Ci sono poi
opere poetiche scritte ma non musicate, in versi o in prosa, e syngrammata
antologici tratti da esse, che i giovani devono imparare a memoria: sphale..
ragrammata, scritti pericolosi, dice Platone, per l’irresponsabilità dei loro
autori e la inattendibilità dei contenuti (Leg. vii 8iob-8iib). Ci sono i libri
dei retori, come quello di Lisia, altrettanto irresponsabili e per giunta ca
paci di uccidere la memoria, secondo il rimprovero mosso dal re Thamus
a Theuth. Fedro tenta infatti di apprendere a memoria il discorso di Lisia,
ma poi abbandona questo sforzo “arcaico” di memorizzazione della comu
nicazione bocca-orecchio e si impadronisce del libro, che desidera recitare
a memoria; alla fine, premuto da Socrate, rinuncia anche a questo esercizio
e si arrende alla lettura (Phaedr ,,8a-e): un preambolo ironico, che prelu
de appunto alla grande discussione del Fedro tra l’inventore della scrittura
e il suo re in terra d’ Egitto.
Nella biblioteca d’Atene sono poi numerosi i manuali delle arti, della
retorica in primo luogo (?haedr. 66d), genere letterario che si immagi
na inaugurato da Nestore e Odisseo durante gli ozi sotto le mura di Troia
(zCib), e inoltre di medicina (z68c): manuali naturalmente incapaci ditta
sformare i loro lettori in buoni retori o in buoni medici, perché contengo
no tutt’al più le sole premesse dell’arte (z68a ss.).
Più futili ancora i libri dei sofisti come l’elogio di Eracle, dovuto a Prodico,
o quello del sale (Symp. i77b). Ma questi scritti diventano grotteschi
e pericolosi quando sfiorano i grandi temi della verità filosofica e religiosa.
Grotteschi, come l’Atétheia di Protagora che profetizza dall’adyton non di
un tempio, ma di un libro oscuro (Theaet. i6za); o come le formule enig
matiche (ainittontai) degli autori di scritti «sulla natura e sul tutto» alla
maniera di Empedocle (Lys. zi4b-d). Ma soprattutto pericolosi, come la
biblioteca ateniese dell’ateismo, prodotto di una «ignoranza tanto più
espongono la nascita degli dei e
grave in quanto pare essere il massimo dell’intelligenza» (Leg. x $86b).
«Ci sono da noi discorsi scritti nei libri, alcuni in versi, altri in prosa
che parlano degli dei. I più antichi narrano come in principio fu la prima
natura del cielo e delle altre cose, [...]
come venuti all’essere gli dei ebbero rapporti fra di loro» x (Leg. 886c).
Questi scritti non sono nè lodevoli nè utili né tantomeno veritieri, anche
se meritano una qualche indulgenza per la loro antichità. «Ma lasciamo e
diciamo addio a ciò che riguarda queste cose antiche [...] Noi ora dobbia
mo accusare le opere dei nostri moderni sapienti quanto sono e in causa
dei mali» (Leg. x 8$ Cd): questi libri negano, noto, divinità come è la degli
astri e l’esistenza di una qualsiasi provvidenza divina.
Tutto ciò che esiste negli scaffali della potis, tutto ciò che la scrittura
offre a una circolazione culturale diffusa e indiscriminata, risulta dunque
inutile o nocivo: questi libri indeboliscono la memoria, offrono al consu
mo giochi intellettuali futili, danno alloro lettore l’illusione non ma la re
altà del sapere, minano le credenze tradizionali poterle sostituire senza con
altre più vere. Quando si pone la questione libro cruciale del filosofico — il
chiarisce come la cattiva qualità
libro per eccellenza della verità —
Platone
della biblioteca d’Atene non dipenda soltanto irresponsabilità dalla teo
rica e morale a un tempo dei autori, più intrinsecamente suoi bensì dalla
stessa forma-libro, dal guasto che la scrittura opera contenuti.
sui suoi
Tre opere possono rappresentare la tipologia libro del filosofico par (a
te gli scritti sofistici di cui si è già detto). un libro Anas
A estremo, c’è il di
sagora, vero best seller dell’ateismo nella presentazione Platone
che ne fa
(Apot. 6d, Phaed. 97b ss.).
Accanto a esso, un libro non ignobile, dovuto a un autore “serio” (spou
daios) come Zenone di Elea: questi sente tuttavia giustificarne
il dovere di
sia la pubblicazione
— il libro gli è stato rubato prima potesse decidere
che
se «dario alla luce» o meno — sia la composizione: stato scritto, effet
è in
ti, per offrire «un qualche aiuto» Parmenide (boetheia) al logos di (Parm.
iz8c-d). Giustificazione invero insufficiente alla luce del passo del Fedro,
dove è semmai il libro, muto e impotente mani tutti, nelle di ad aver bi
sogno dell’ «aiuto del padre»-autore (Phaedr. z75e). E infine, all’estremo
opposto, c’è il «libro di Platone»: opera tuttavia, significativamente, non
del filosofo ma del tiranno siracusano Dionisio, impadronisce con
che si
un atto di forza dei logos del maestro propria e lo irrigidisce scrittu
nella
ra vii (Ep. 34ib). Ma Platone resiste a questa imposizione tirannica della
forma-libro al suo pensiero: egli non lo ridurrà mai a syngramma, perché
la filosofia non è comunicabile (rheton) come le altre discipline, ma si ac
cende d’improvviso nell’anima dopo dialettica
il travaglio della synousia
341c); nè in questo campo syngrammata possono i valere — come accade
di
di
può
può
può
da
2.2.4
IL POTERE DELLA VERITÀ
NELL’OMBRA DI THEUTH
2.2.5
per gli altri saperi e come il fedro aveva concesso (Phaedr. ;75d)
—
pro
memoria, hypomnemata, perché ciò che davvero è importante in filosofia
non si dimentica più una volta che abbia lasciato la sua traccia nell’anima
(Ep. vii 344d). Se anche accade che un autore “serio” consegni qualcosa
alla scrittura, non si tratterà certo delle sue cose più serie: ritorna il tema
della scrittura per “gioco” (paidia), come tesoro di ricordi destinati innan
zitutto a sé stessi, rimedio contro l’oblio della vecchiaia, di cui aveva par
lato ilfedro (z76d).
Se i manuali delle technai hanno dunque una qualche legittimità, pur
non bastando a generare il sapere, il manuale filosofico non ne ha alcuna,
non può e non deve esistere: quando ciò accade, esso è inevitabilmente
ateo o “tirannico”. Si pone altrettanto inevitabilmente, a questo punto, il
problema della scrittura filosofica di Platone. Il fedro, e ancor più la Lette
ra vii, escludono che essa possa venir presa “sul serio”: la vera filosofia non
accade se non nel «discorso vivente e animato», «scritto con la scienza
nell’anima», di cui quello scritto nel libro è tutt’al più un fratello, o me
glio un eidolon (Phaedr. z76a)’4.
Questo discorso vivente è capace di selezionare i suoi legittimi interlo
cutori — fronte alla anonimia volgare dei lettori di libri —, difendersi
e insegnare — fronte all’opaco mutismo dell’altro’ —, infine deter
minare la cruciale conversione, in cui si gioca l’essenza del platonismo, dal
la parola dialettica alla visione ontologica, dal logos all’eidos. Se tutto ciò
può apparire scontato, alta è tuttavia la posta in palio nello scontro delle
interpretazioni. Non prendere “sul serio” la scrittura di Platone può signi
ficare il rinvio, al di là di essa, a un corpus dottrinale “serio”, dunque chiuso
sistematicamente, dunque ancora metafisico, il cui punto di riferimento
esplicito andrà cercato, più o meno, nel neoplatonismo; oppure — secondo
una prospettiva neokantiana —, significare, all’opposto, una consape
volezza platonica dei limiti del testo scritto, delle sue condizioni d’uso nei
contesti della comunicazione, infine dell’impossibilità di chiusura di qual
siasi sistema filosofico’6. È in gioco, come si vede, il senso del platonismo:
un gioco probabilmente senza fine, di cui si intesse la tradizione filosofica
occidentale, e la cui indecidibilità ermeneutica dice molto circa l’ambigui
tà originaria del platonismo stesso.
A ben guardare, infatti, la Lettera vii non segnala soltanto l’inadegua
tezza della scrittura rispetto al discorso vivente della filosofia, ma insiste
soprattutto sul limite assoluto della parola filosofica, scritta o parlata che
essa sia: un limite connesso al carattere non esprimibile discorsivamente
(rheton) ma solo intuitivamente visibile della verità stessa. C ‘è dunque,
se mai, una doppia sostituzione, che è anche decadenza: della visione con
la parola (e questo fa radicalmente dubitare che Platone possa aver consi
derato le “dottrine orali” come espressione adeguata della verità)’Z; e del
dialogo parlato con la sua trascrizione. Entrambe le sostituzioni sembrano
compensare la loro inadeguatezza con una pari necessità: di rappresenta
zione mimetica del livello superiore’8, e di preparazione educativa a esso.
Su questo si tornerà più avanti; per ora, come si era avvertito, preferiamo
muoverci all’interno del labirinto offerto dalle esplicite dichiarazioni pla
toniche. Leggeremo dunque nel preambolo del Teeteto la regola (ironica)
e il senso della non serietà della scrittura dei dialoghi.
Come viene fabbricato un dialogo platonico, secondo la versione del
narratore del Teeteto, Euclide? A monte del dialogo scritto c’è, beninteso,
un dialogo parlato e “vivente”, quello fra Socrate e Teeteto, che si suppone
accaduto trent’anni prima, e che Euclide non può riferire a viva voce (apo
stomatos), non avendovi assistito. Ma già udendo il primo racconto di So
crate egli aveva scritto appunti, hypomnemata; poi con calma aveva steso
tutto quel che ricordava, chiedendo via via a Socrate di colmare le lacune,
sicché alla fine «tutto il discorso era stato scritto» (Theaet. 143a). Ma non
è in questa forma, nella forma del racconto di Socrate, che il ragazzo leg
gerà il libro dove è depositato il dialogo (ormai divenuto, come di regola
in Platone, un dialogo dei morti). Euclide ha scelto di presentare Socrate
dialogante (diategomenon) con gli altri personaggi: ha cioè eliminato le
parti narrative e utilizzato il solo discorso diretto. Dopo questo complesso
percorso intermedio, la scrittura, originata dalla voce di Socrate, cede di
nuovo il posto a una voce, quella del ragazzo lettore (Theaet. ;43b-c).
Tecnicamente, non c’è dubbio che Euclide-Platone faccia qui riferimen
to esplicito al modello della scrittura teatrale, che è definito con gli stessi
termini nella Repubblica: «Quando si sopprimono le parole intercalate dal
poeta tra un discorso e l’altro e si lasciano i dialoghi [...] si ha la tragedia»
(Resp. III 394b)’9. Ma soprattutto teatrale è l’intera sequenza di genera
zione del dialogo: l’evento originario, il dialogo, situato in un passato non
lontano ma segnato nella sua chiusura dalla morte dei protagonisti; il rac
conto, ossia propriamente il “mito”; la composizione del dialogo scritto;
infine la messa in scena che si attua nella lettura, e riconsegna il dialogo alla
voce (il Teeteto produce anzi un effetto di “teatro nel teatro’ perché i due
protagonisti del primo dialogo, che si suppone parlato, Euclide e Terpsio
ne, sono poi gli spettatori del secondo, di cui Euclide è anche l’autore).
di
della
e
propria,
zz6 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “7
Che il dialogo si definisca nella dimensione teatrale, sia trasformando
i lettori in spettatori-ascoltatori, sia mirando a porsi come la “vera tra
gedia” capace di sostituire quelle della tradizione, è del resto detto più
volte dal vecchio Platone (Criti. io8b; Leg. vii 817b-c). Il suo rapporto
con la verità serve certamente a mettere il dialogo filosofico al riparo dalla
censura che colpisce le altre forme teatrali°. Ma non può nasconderne
altri due aspetti, che esso condivide con l’intera dimensione teatrale cui
appartiene. Il primo è la presenza ineliminabile, costitutiva, della scrittura
come registrazione (immaginaria), supporto, regola della voce dialogante.
Se è impossibile e illegittimo scrivere il manuale filosofico, sarà dunque al
contrario legittimo e possibile scrivere teatro filosofico, che può simulare,
cioè rappresentare, i modi della veritiera comunicazione tra anime. Certo
resta difficile capire come questo teatro possa sottrarsi alla censura psico
logica che la Repubblica muove alla tragedia: un dispositivo che cancella
l’autore, frantuma e pluralizza l’unità sia del narratore sia del soggetto
ascoltatore, inducendo incontrollabili dinamiche di identificazione (Resp.
III 395 ss.).
Il secondo aspetto dà invece conto della necessità, della ragione segreta
di questo teatro filosofico: secondo l’analisi del Gorgia, «nei teatri i poeti
fanno retorica [...] che ha per spettatore tutto il popolo» (Gorg 5ozc-d).
Dal teatro, la replica filosofica spera quindi di derivare efficacia retorica,
capacità persuasiva universale posta al servizio di un progetto di rifonda
zione della città’.
Tanto più che essa è in grado, a differenza della tragedia, di “mettere
sulla scena” lo spettatore che vuole convincere, di farne un protagonista
dell’azione rappresentando e controllando, quindi, non solo lo sforzo del
la persuasione, ma anche i progressivi effetti che esso determina sul suo
destinatario: il i libro della Repubblica è in questo senso il più spettacolare,
ma non certo l’unico esempio di convocazione di “tutto il popolo” sulla
scena del dialogo, di trasformazione del lettore/spettatore in personaggio
dell’azione scenica32.
Scrivere filosofia è necessario per rappresentare persuasivamente la filo
sofia e la sua pretesa al comando; scriverla nella forma del teatro è l’unico
modo possibile per coniugare il massimo di efficacia retorica, nel contesto
della “teatrocrazia” ateniese (Leg. iii 7oIa), con il massimo di negazione
di una presenza tanto inevitabile quanto imbarazzante come quella della
scrittura. L’ambiguità del ricorso platonico alla scrittura filosofica, pur nel
rifiuto esplicito — matrice socratica — possibilità di un libro filoso
fico, ripete dunque l’ambiguità della stessa esperienza teatrale. Questo
non risolve certo i problemi ermeneutici di cui si è detto, ma propone for
se una dimensione diversa per ripensarli.
In ogni caso, l’ironico gioco di specchi tra voce e testo offre a Platone
una via d’uscita per poter scrivere ciò che non si dovrebbe scrivere. Ma la
questione si pone in modo ancora più acuto intorno a un problema decisi
vo come quello della scrittura delle leggi.
Scrivere le leggi?
La biblioteca della città colloca, nel suo posto d’onore, un genere parti
colare di scrittura, quella delle leggi e dei decreti. Gli stessi uomini più
potenti e illustri nelle poteis, che si vergognano di comporre e di lasciare
discorsi scritti perché temono di esser scambiati per sofisti, cioè per autori
e venditori di discorsi per conto d’altri, amano però questa particolare
forma di logografia: i loro syngrammata consistono appunto nelle leggi,
una scrittura in virtù della quale figure come Licurgo, Solone, Dario han
no ottenuto onore eterno (Phaedr. 157d-2.58c). La diffusa approvazione
sociale per la scrittura legislativa, il syngramma potitikon, non la sottrae
tuttavia alla critica del Fedro: essa non possiede né stabilità (bebaiotes) né
certezza (sapheneia), ed è piuttosto motivo di vergogna per il suo autore
perché ha i contorni vaghi del sogno laddove, intorno alle questioni del
giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, occorrerebbe il rigore della veri
tà dialettica (z77d-178a).
È compito del Politico la ripresa e l’approfondimento di questa critica
alla scrittura delle leggi. Ci sono due tipi di legislazione: quella orale, basa
ta sulle tradizioni dei padri — come sappiamo dalle Leggi, dei pri
mitivi e dei barbari — quella costituita da leggi scritte. Rigide, inadattabili
al mutare delle situazioni, ostili per la loro stessa natura a ogni mutamento
verso il meglio, queste ultime sono tali da determinare la sclerosi della vita
sociale, la distruzione delle technai, la paralisi del progresso (PoI. 296a ss.).
Esse sono, al più, un sostituto, un rimedio per l’assenza del vero politico
e legislatore: proprio come un medico, partendo, può lasciare ai pazienti
un promemoria scritto della terapia da seguire, ma appena tornato lo ab
bandona e si adatta alla nuova situazione (195c ss.). La legge scritta non
è che imitazione della verità, laddove, in presenza della techne regia, del
dialettico re, il mimema perde ogni senso e deve lasciar spazio alla piena
su
12.8 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH 12.9
verità della politica, capace di governare le situazioni sempre mutevoli in
rapporto a uno stabile possesso della episteme (300c-e).
C’è tuttavia, nel Politico, una importante concessione rispetto alla rigi
da critica del fedro. Nell’assenza, o nell’attesa, del vero re e della sua scien
za, il meglio è che ogni potiteta si attenga a un rigoroso rispetto della legge
scritta, che può almeno preservarla dall’arbitrio tirannico. Lo spazio della
legge scritta si estende tra il potere del re-filosofo e quello del tiranno, che
ne costituisce la contraffazione (PoI. 300e-3oIc).
Un ulteriore passo in questa direzione è compiuto nel dialogo sulle
Leggi, dove Platone sembra per certi aspetti compiere una confutazione
precisa e puntuale delle tesi estreme del fedro. Le leggi sono i migliori e i
più belli di tutti igrammata esistenti nelle città. Essi dovranno apparire ai
cittadini come padri e madri amorose (è appena il caso di notare che men
tre nel fedro la scrittura aveva bisogno di un padre, qui è padre essa stessa),
non come un tiranno che affigga ai muri i suoi editti dispotici; e per questo
dovranno esser precedute da ampi proemi che persuadano i cittadini e li
educhino all’obbedienza (Leg. ix 858c La funzione delle tradizioni
orali e patrie è qui ridotta a quella di tessuto connettivo, di avvolgimento
protettivo a garanzia del corpus delle leggi vere e proprie, che devono esse
re scritte (vii 793a-b). Le disposizioni scritte delle leggi, in grado in ogni
tempo di dar conto (etenchos) di sé, godono di una stabilità totale (pantos
eremei) (x 891a): anche qui non è difficile misurare la distanza dal fedro,
dove la scrittura, muta e incapace di difendersi, mancava precisamente di
stabilità e certezza. Ma c’è di più: igrammata del legislatore saranno una
sicura pietra di paragone (basanos sapbes) di tutti gli altri discorsi; i giudici
dovranno conservarli in sé come antidoto, alexiha?7nakon, che li proteg
ga dal rumoreggiare delle voci della città (XII 957d).
La scrittura della legge, rifiutata nel fedro, appena tollerata nel Politico
come rimedio all’assenza del re, trionfa dunque nell’ultimo Platone come
regola fondamentale della vita della città, come canone di ogni possibile
discorso. E la città delle Leggi è affollata di scrittura: si scrivono, oltre alle
leggi e ai loro proemi, le tavolette per l’elezione dei magistrati (v 753c), le
loro eventuali condanne (VI 755a), i titoli di proprietà della terra — me
moria scritta per il futuro — (V 741c), i testamenti (xi 913c). È notevole
che la scrittura accompagni nelle Leggi proprio momenti della vita sociale
ignorati o banditi dalla Repubblica, come i meccanismi elettorali e soprat
tutto la proprietà patrimoniale dell’oikos. Ma è ancora più notevole che
questa scrittura delle Leggi può consumare i suoi fasti soltanto al prezzo di
un ritorno alle sue originarie modalità “egizie”• è scrittura del potere e del
sacerdozio, conservata sugli altari e nei templi (741c, 753c, 856a).
Platone sembra dunque recuperare, da ultimo, una piena legittimità
sociale della scrittura ma con una serie di condizioni pesanti, che la se
questrano alla libera circolazione culturale: il controllo della sua produ
zione, affidato al legislatore, dei suoi contenuti, che dovranno consistere
nel comando, nella norma e nell’educazione all’obbedienza, infine degli
spazi della sua pubblicazione. Questa scrittura normalizzata e normativa
pare destinata a riassorbire, nelle Leggi, anche l’ambiguo teatro filosofico,
e costituire essa stessa la “vera tragedia”37. Quanto agli altri libri, che non
possono venir banditi come quelli degli atei — cioè i promemoria delle
arti, le compilazioni poetiche e così via —, di essi pesano la diffidenza
del legislatore, il discredito che colpisce gli autori, l’incertezza della pub
blicazione e della diffusione (basta ricordare il libro “rubato” a Zenone,
quello di Lisia che Fedro nasconde sotto il mantello, l’esecrabile manuale
del tiranno Dionisio).
Ma una valutazione complessiva della presenza e delle dinamiche della
scrittura in Platone non può certamente fermarsi alle Leggi, e alla loro ri
gida codificazione della parola scritta.
Il sistema vicariante
L’analisi fin qui condotta consente, secondo un piano di lettura trasversale
al testo platonico, di ricomporre elementi diversi in un profilo sistematico
del luogo e delle funzioni della scrittura. Un sistema di prossimità e diffe
renze, articolato in una lunga serie di coppie solo in apparenza polari.
Gramma/stoicheion: la lettera non è l’elemento, ma pure la scrittura al
fabetica costituisce il modello del sapere degli elementi.
Scrittura/matematica: un sapere basso e uno alto, che hanno tuttavia la
stessa origine e la stessa forma combinatoria.
Gramma/phone: dove il primato appartiene alla voce, al “discorso vi
vente’ che però tocca alla capacità analitica della scrittura di articolare e
trasformare in “Iingua”
Scrittura/filosofia: il libro filosofico non può esistere ma a sua volta il
discorso della filosofia non può che essere trascritto.
Scrittura/legge: la vera legge è la viva voce del vero re, ma nel suo silen
zio occorre scrivere le leggi.
legate,
a
2.30 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH
2.31
Scrittura/memoria: la scrittura danneggia la memoria individuale n-
al tempo stesso produce e conserva quella sociale.
Scrittura/anima: la scrittura si colloca all’opposto dell’anima, che tut
tavia può esser metaforizzata come un libro scritto da quel grammateus
interiore che sono la nostra memoria e le nostre sensazioni (Phit. 38e-39a)
Sembra dunque che la scrittura tenda punto a punto a riempire gli spazi
lasciati (provvisoriamente?) liberi dall’assenza del vero sapere, della vera
memoria, della vera voce, del vero re. Un sistema provvisorio e vicarian
te, un’ombra, o meglio un “doppio’ del quale va tenuta sotto controllo la
pretesa di sostituire definitivamente l’altra polarità, alta e solare. Recipro
camente, sono l’assenza, il sempre rinviato avvento di quest’altra polarità
a segnare il carattere precario, limitato, umbratile della dimensione della
scrittura, tuttavia insostituibile (proprio come, nella Repubblica, la distan
za siderale dell’idea del bene rendeva insieme provvisorio e indispensabile
il lavoro della dialettica, le sue metafore, i suoi miti). Nell’attesa della tra
sparenza del nome, dell’illuminazione dell’anima, dell’ascesa al potere del
re filosofico, la dimensione della scrittura genera paradigmi di conoscenza,
progetti di sapere, forme di coesione politica, oggetti intellettuali.
Platone elabora una irripetibile fusione di arcaismo e profezia di un
nuovo mondo. Dal punto di vista storico, tuttavia, egli non sfugge a una
collocazione precisa: la sua interrogazione sulla scrittura, la sua pratica di
trascrizione delle parole dei morti (ma di morti recenti, come quasi tutti i
personaggi dei dialoghi), si colloca sul sottile crinale tra due epoche, quella
di Socrate e quella di Aristotele — rispettivamente, al privilegio della
parola e a quello del testo. Un breve intervallo, una condensazione di pos
sibilità aperte: destinate a costituire un miraggio ricorrente per la filosofia,
ma un punto di svolta irreversibile per la storia culturale della scrittura in
Occidente. E anche a consolidare un carattere specifico dell’antico: quello
di essere una civiltà permeata di scrittura che non è tuttavia mai stata una
civiltà del Libro e neppure dei libri’.
Note
i. E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà detta scrittura. Da Omero a Platone (1963),
trad. it. Roma-Bari I983. Per una messa a punto delle discussioni suscitate da
quest’opera cfr. G. Cern, Ilpassaggio dalla cultura orale atta cultura di comunicazione
scritta nell’età di Platone, in “Quaderni Urbinati”, 8, 1969, pp. 119-33.
.. Basti qui rinviare all’ampio bilancio di questa tendenza interpretativa tracciato
da H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti delta metafisica, Milano 1982 (sul quale cfr.
M. Isnardi Parente, Recensione, in “Gnomon”, 1985,
, pp. 120-7). Cfr. ora anche
G. Reale, Platone, Milano 1986. Più problematico e sfumato K. Gaiser, Platone come
scrittorefitosofico. Saggi sutt’ermeneutica dei dialoghiplatonici, Napoli 1984. Molti sag
gi rilevanti di questa tendenza sono raccolti in I. Wippern (Hrsg.), Das Probtem der
ungeschriebenen Lehre Ptatons, Darmstadt 1972. Un quadro dei presupposti culturali
di questa posizione in F. franco Repellini, Gli agrapha dogmata di Platone: la loro
recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme’ I, 1973, pp. 51-84.
Per un bilancio complessivo, cfr. qui CAP.I.
3. Questa analisi si basa in effetti su uno spoglio globale dei passi di Platone relativi
ai diversi aspetti di scrittura e lettura, e i luoghi citati possono costituirne un indice
pressoché completo. È rilevante avvertire che si è considerata autentica la Lettera vii
(per questa opzione basterà qui rinviare a M. Isnardi Parente, filosofia e politica nette
lettere di Platone, Napoli 1970). Occorre anche avvertire che il taglio di lettura segui
to comporta inevitabilmente l’isolamento della scrittura dalle sequenze metafoniche
in cui essa è inserita, e che includono molto spesso l’aritmetica, la musica e altre forme
di apprendimento “elementare”.
4. Quel «certo [tis] Prometeo» di cui parla il filebo (i6c) non è l’inventore della
scrittura ma dell’analisi dei rapporti fra uno e molteplice. Anche in questo dialogo
l’invenzione delle lettere dell’alfabeto è attribuita — secondo «una leggenda egiziana»
— Theuth, o,più vagamente, a «un dio o un uomo divino» (isb). Sulle origini
egiziane della leggenda cfr. R. Eisler, Ptaton und das àgyptische Alpha bet, in “Archiv
ftir Geschichte der Philosophie’ 27, 1912, pp. 3-13.
Primi storici, i sacerdoti egiziani sono anche i primi traduttori. Attraverso la ritra
.
duzione di Solone, i loro grammata avrebbero raggiunto i Crizia (nonno e nipote),
quindi lo stesso ambiente familiare di Platone (Criti., I,3a-b). La scrittura egizia si
fa qui il veicolo della continuità di una storia di casta che salda la remota antichità
dell’Atene dei tempi di Atlantide con il legislatore e il tiranno dell’Atene storica e
con il filosofo che ne progetta la rifondazione. Cfr. in proposito L. Brisson, Platon, tes
mots et tes mythes, Paris 1982, pp. 32-49.
6. Anche gli Egiziani sono infatti barbari: cfr. Resp. IV 435 5.
La prima serie è costruita naturalmente in analogia alla seconda, quale risulta dal
.
libro vi della Repubblica.
8. In quanto sapere specialistico, si può essere agathoi (Prot. 345a) oppure phautoi
(Phaedr. z4zc) nella scrittura; è rilevante ad esempio la rapidità nello scrivere igram
mata (Charm. 159c). A un livello superiore, è da supporre che l’insegnamento della
scrittura si integrasse con quello “metrico”: Ippia è definito maestro della dynamis
dei grammata, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie (Hzpp. mai. z85d). È il caso di
sottolineare, a proposito del passo del Teeteto e altri simili, che gramma oscilla in Pla
tone tra un significato grafico e uno fonetico: cfr. D. Gallop, Plato and the Atphabet,
in “Philosophical Review”, 72, 1963, pp. 3 64-76, che replica a G. Ryle, Letters and
Syllables in Ptato, in “Philosophical Review”, 69, 1960, pp. 431-51.
Sulla condizione sociale del grammatistes, cfr. M. A. Manacorda, Scuola e inse
.
2.32
IL POTERE DELLA VERITÀ
NELL’OMBRA DI THEUTH
2.33
gnanti, in M. Vegetti (a cura di), Oratità scrittura spettacolo, Torino 1983. Per il valore
filosofico in Platone di questa figura, cfr. H. Joly, Platon entre te maitre d’écote et Ief
briquant de mots. Remarques sur lesgrimmata, in Philosophie du langage etgrammaire
dans t’antiquité, Bruxelles 1986, pp. 105-36.
io. Sulla questione del rapporto fra gramma e stoicheton è fondamentale W. Schwa
be, ‘Mischung” und “Etement” im griechischen bis Ptaton, in “Archiv fUr Begriffge
schichte”, Supplementheft 3, 1980, pp. 83, ii6 ss. Cfr. anche T. A. Druart, La stoichéio
logie dePtaton, in “Revue Philosophique de Louvain”, 1975, pp. 143-62..
il paradosso è riecheggiato in Theaet. 198e.
i;. Sulla questione cfr. Schwabe, ‘liischung” und “Element”, cit., pp. 151 ss. Per un
avvicinamento della teoria allo stesso Platone propende M. Burnyeat, The ÌVlaterjal
andSources offlato’sDream, in “Phronesis”, 15, 1970, pp. 1cl-i;.
13. Una classificazione dei grammata secondo il suono (consonanti sonore, conso
nanti afone, vocali) in Theaet. ;o3b; cfr. Phil. ;8b.
14. Per lo sfondo scrittorio di questo problema, cfr. le ricerche sulla scrittura attica di
R. Herder, Die Meisterung der Schrft durch die Griechen (i;), in G. Pfhol (Hrsg.),
DasAlphabet, Darmstadt 1968, pp. 169-9; («Jeder Buchstabe steht als Individuum
fur sich, die Atomisierung ist bis zu letzter Abstraktheit getrieben, die Einheit des
Ganzen beruht nur noch in dem Koordinatentennetz des System», p. z8i); anche
Rottenschrft, in ivi, pp. 311-80 (in particolare pp. 379-80).
i. Le considerazioni che seguono devono molto al contributo presentato al collo
quio sulla scrittura (Parigi 1988) da Gian Arturo Ferrari.
i6. Nell’ambito della vasta bibliografia sul Cratito, occorre rinviare almeno ai saggi
fondamentali: V. Goldschmidt, Essai sur te Cratyle, Paris 1940; A. Pagliaro, Nuovi
saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956; M. Buccellato, Linguaggio e socie
tu alle origini del pensiero greco, in “Rivista critica di storia della filosofia’ 16, 1961,
3J3. 159-77; K. Lorenz, J. Mittelstrass, On RationalPhilosophy ofLanguage: The Pro
gramme in Plato’s Cratylus Reconsidered, in “Mmd”, 75, 1966, pp. i-;; R. Robinson,
Essays in Greek Philosophy, Oxford 1969; J. Derbolav, Platons Sprachphilosophie im
Kratylos und in den spàteren Schrften, Darmstadt 197;; C. H. Kahn, Language and
Ontology in the Cratylus, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exe
gesis and Argument, Assen 1973, pp. 151-76; K. Gaiser, Name und Sache in Platons
Kratylos, Heidelberg 1974; G. Genette, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris 1976;
e i saggi di M. Schofield, B. Williams,J. Annas, in M. Schofield, M. Nussbaum (eds.),
LanguageandLogos, Cambridge 1981, rispettivamente pp. 6i-8i, 83-9 3, 95-114.
17. Cfr. in proposito Schwabe, ‘Mischung” und “Element”, cit., pp. 114 Ss.
i8. Sulla natura “grafica” degli atomi democritei cfr. H. Wismann, Réalité et mature
dans latomisme démocritéen, e G. A. Ferrari, La scritturafine della realttì, in F. Roma
no (a cura di), Democrito e l’atomismo antico, Catania 1980, rispettivamente pp. 6 1-74
e 75-90.
19. Cfr. in proposito analisi e bibliografia di W. Leszl, Linguaggio e discorso, in M. Vegetti
(a cura di), Il sapere degli antichi, Torino 1985, pp. 13-44.
lo. Sulle dimensioni storico-culturali del fenomeno basta qui rinviare a E. G. Tur
ner, Ilibri netl4tene del ve iv secolo a.C. (195;), trad. it. in G. Cavallo (a cura di),
Libri, editori epubblico nel mondo antico, Roma-Bari 1975, pp. s-;; D. Lanza, Lingua
e discorso nell4tene delle professioni, Roma-Bari 1975, pp. 52-87; per la filosofia H.
Cherniss, Ancient forms ofPhilosophic Discourse, in Id., Setected Papers, Leiden 1977,
pp. 14-3; cfr. ancheJ. Goody, I. Watt, The Consequencies ofLiteracy, inJ. Goody (ed.),
Literacy in Traditional Societies, Cambridge 196$, pp. 2.7-68, in particolare pp. 49
Cfr. da ultimo M. Erler, Platons Schrftkritik im historischen Kontext, in “Altsprachli
cher Unterricht”, 2.8,4, 1985, pp. 17-41; G. F. Nieddu, Testo, scrittura, libro nella Grecia
arcaica e classica: note e osservazioni sullaprosa scientfrco-filosofica, in “Scrittura e civil
tà”, 8, 1984, pp. 113-61, in particolare per Zenone e Anassagora pp. 249 SS.
Anche se non esplicitamente nominata, la scrittura è probabilmente responsabile
di quella volgarizzazione (anaphandon) delle dottrine filosofiche sul movimento, un
tempo celate dagli antichi sptto il velo della poesia, che i moderni sapienti mettono a
disposizione anche dei calzolai (Theaet. i8od).
i;. Cfr. in questo senso Herder,DieZvleisterung, cit.,p. 2.91.
23. La controversia del iv secolo sul carattere orale o scritto della retorica costitui
sce certamente uno degli sfondi della riflessione platonica: cfr. P. Friedlànder, Plato
(191$), trad. ingl. New York 1958, voi. ,, pp. III Ss.; 5. Gastaldi, La retorica del wsecolo
tra oralita e scrittura, in “Quaderni di storia”, 14, 1981, pp. 189-116.
2.4. Sul problema si possono consultare le equilibrate considerazioni di H. Joly,
Le renversementplatonicien. Logos, episteme, polis, Paris 1974, pp. xii ss. Cfr. anche
J. Derrida, Lapharmacie dePlaton, in Id., La dissemination, Paris 197;; dilettantesche
le osservazioni di J. M. Charrue, Lecture et écriture dans la civilisation hellénique, in
“Revue de Synthèse”, 83-84, 1976, pp. 119-49; su Platone 131 ss.
;. Sull’incapacità del libro di «interrogare e rispondere», sulla sua costrizione a
«ripetere sempre la stessa cosa», cfr., oltre a Phaedr. z75d, Prot. 3292..
z6. Esemplare in questo senso la posizione recente di W. Wieland, Ptaton und die
formen des Wissens, Gòttingen 19$;, pp. 13 55., 53 55.
27. Mi sembrano ancora valide, in questo senso, le osservazioni di H. Cherniss, The
Riddle oftheEarlyAcademy, New York 1961, p. ii. Secondo Gaiser, Name undSache,
cit., pp. 47-8, principi basilari secondo Platone non sono «del tutto ineffabili. Essi
si possono anzi formulare molto bene verbalmente»: a quanto pare, questo è riusci
to molto meglio alla scuola di Thbingen che allo stesso Platone. Che ci sia qualcosa
che «non può esser trasmesso dalle parole», che non si possa eliminare il «sudden
flash of insight», è concesso anche da T. A. Szlezàk, The Acquiring ofPhilosophical
Knowledge According to Plato’s Seventh Letter, in G. W. Bowersock, W. Burkert, M.
C. J. Putnam (eds.), Arktouros. Hellenic Studies presented to 3. MKnox, Berlin
pp. 354-63, p. 363. È certo, piuttosto, che la soglia dell’ineffabilità viene costantemen
te messa alla prova dal lavoro (anzi, dalla “battaglia”, cfr. Resp. VII 534c) del discorso
dialettico, che ritesse continuamente la sua proposta di senso in attesa, o in luogo,
della visione ultimativa del fondamento.
;$. Come la scrittura è eidolon del logos vivente (Phaedr. 2762.), così il dialogo lo è del
la verità stessa (cfr. ad es. Resp. vii 5332.). Scrittura e dialogo stanno dunque rispetto a
2.34 IL POTERE DELLA VERITÀ
. NELL’OMBRA DI THEUTH ‘35
voce e verità nella posizione dell’eidoton di Elena a Troia, secondo la versione stesjco
rea del mito valorizzata dallo stesso Platone (Resp. Ix 86c). Come la guerra di Troia,
il lavoro filosofico sembra dunque svolgersi attorno al simulacro di ciò che è assente.
Il discorso può assumere una curvatura imprevista se si suppone, come fa E. A. Have
lock, Dike. La nascita detta coscienza (1978), trad. it. Roma-Bari 1981, che il primato
della visione sia un « riflesso della crescente, per quanto inconscia preponderanza del
la parola scritta su quella parlata, della parola vista su quella ascoltata» (pp. 405-6).
L’estremo inferiore della scala determinerebbe così quello superiore. Ma è possibile
attribuire proprio a Platone una tale inconsapevolezza di fronte alla scrittura?
29. Un’analisi delle parti narrative dei dialoghi può dimostrare che in molti casi esse
forniscono all’ascoltatore/spettatore informazioni di tipo “scenico” (cfr. J. Andrieu,
Le diatogue antique, Paris 1954, pp. 306-7, 3,8-9). Su Platone scrittore di tragedie è
appena il caso di ricordare il famoso aneddoto di Diogene Laerzio, 3.5; secondo Tra
sub, Platone avrebbe inoltre pubblicato i dialoghi per tetralogie al modo dei tragici
(DL 3.50). La teatralità dei dialoghi non andrà comunque pensata nel senso che la
loro “pubblicazione” (un problema ancora aperto) avvenisse mediante la recitazione
ai Giochi, con Platone nella parte di Socrate, secondo l’improbabile tesi di G. Ryle,
Ptato’s Progress, Cambridge 1966, pp. 21-54.
30. Cfr. su questo le ampie (ma non del tutto convincenti) osservazioni dij. Labor
derie, Le diatogueptatonicien de la maturité, Paris 1978, pp. 9, ss. (in particolare sul
Teeteto, pp. 395 ss.).
31. Su questi temi occorre rinviare ad alcuni scritti in qualche modo “classici”: R.
Hirzel, Der Diatog, i, Leipzig 1895 (che definisce la forma drammaturgica di Plato
ne «ein Tribut an den herrschenden Zeitgeist», p. zo); Friedlànder, Plato, cit., i,
pp.
121 Ss.; H. G. Gadamer, Platone e i poeti trad. it. in Id., Studi platonici i,
Casale Monferrato 1983, pp. i8-zi; H. Kuhn, The True Tragedy: On the Retationshtp
between Greek Tragedy and Ptato, in “Harvard Studies in Classical Phibology”, sa,
1941, pp. 1-40; 53, 1942,
pp. 37-8 8. Cfr. anche Havelock, Dike, cit., pp. 401 Ss.; e, sul
carattere tragikos del libro viii della Repubblica (545d), ‘W. Janke, Atethestdte tragodia,
in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, 47, 1965, pp. zi-6o. Cfr. da ultimo M. C.
Nussbaum, The fragitity of Goodness, Cambridge 1986 (Plato’s Anti-Tragic Theater,
pJ. 122-35).
32.. Sul tema nietszcheano dello “spettatore sulla scena” in Euripide, cfr. D. Lanza, Lo
spettatore sulla scena, in D. Lanza et al., L’ideologia delta citt,i, Napoli 1977, pp. 57-78;
sulla “messa in scena” della Repubblica cfr. J. Laborderie, Le dialogue platonicien,
pp. 402 Ss.; più in generale sulla città nei dialoghi, P. Vidal-Naquet, La sociétéplato
nicienne des dialogues, in Aux ortgines de t’hellénisme. Hommage ì H. Van Efenterre,
Paris 1984, pp. 273-93. Giuste in questo senso (anche senza che sia necessario accettare
ipotesi “esoteriche”) le osservazioni di T. A. Szlezalc, Dialogform und Esoterik, in “Mu
seum Helveticum”, I, 1978, pp. 18-32: l’autore Platone si addossa anche la responsabilità
dell’interpretazione del suo testo, secondo una modalità arcaica che quest’epoca di cri
nale fra privilegio dell’oralità e dominio della scrittura tende a rendere anacronistica.
3. Cfr. su questo l’importante saggio di Ch. Segal, Tragédie, oratité, écriture, in
“Poétique”, 50, 1982, pp. 131-54.
La traccia che le leggi offrono alla vita della città è paragonata nel Protagora
(3z6d) a quella che i maestri incidono con lo stilo sulla tavoletta per insegnare la scrit
tura ai ragazzi: un’ulteriore connessione metaforica tra legge e scrittura.
il disprezzo della logografia, per il suo aspetto mercenario, è certamente diffu
so nella società ateniese fra v e IV secolo. Platone lo generalizza in un rifiuto della
scrittura politica, che rappresenta tuttavia un problema più complesso: se Pericle non
scrive discorsi, scrivono tuttavia oligarchi come Ctizia e l’autore della Costituzione
degli ateniesi.
36. Platone riformula qui senza dubbio un’esperienza ateniese: i lunghi decreti del
v e IV secolo sono preceduti da un’ampia sintesi del discorso del proponente. Sulla
funzione dei proemi alle leggi, cfr. 5. Gastaldi, Legge e retorica. Iproemi dette “Leggi”
di Platone, in “Quaderni di storia”, 20, 1984, pp. 6 9-109.
37. C’è qui (Leg. VII 8i ie) l’ansia tutta pedagogica di «non lasciar fuggire » il discor
so filosofico sulle leggi, di consegnarbo al circuito della scrittura educativa, quasi che
l’assenza (del maestro-Socrate, della verità, del re legislatore) non sia più sopportabi
le. Prescrive Platone che i nomophylakes e i paideutai, se si imbattono in discorsi non
scritti come quelli messi in scena nelle Leggi, «non se li lascino sfuggire in nessun
modo ma li scrivano [me methienai (...) grophesthai de] » e obblighino i didaskatoi
a impararli e a insegnarli. Cfr, in proposito Gaiser, Name und Sache, cit., pp. 107 SS.
38. Cfr. in questo senso le importanti osservazioni diJ.-P, Vernant, Divinazione e ra
zionatitì (i,7), trad. it. Torino 1982, pp. 15 Ss.
Io
Glaucone e i misteri della dialettica*
L’intervento di Glaucone nel libro VII della Repubblica (532cl-e) svolge,
come spesso accade nel dialogo, un ruolo strategico in rapporto al suo svi
luppo teorico. Glaucone ha ascoltato da Socrate le sue indicazioni sulla
dialettica, e in particolare la stretta connessione con il “buono”, che le asse
gna come ambito specifico il “luogo” più elevato del campo noctico-ideale.
Egli apre il suo intervento rilevando la persistente mancanza di homotogia,
di consenso dialogico sulle argomentazioni di Socrate: «mi paiono cose
estremamente difficili ad ammettersi» (53zd3: cù.rir& v &roxtect),
benché ne ammetta d’altro canto la persuasività («difficili a non ammet
tersi»). Questa assenza di homotogia impone, secondo Glaucone, la ne
cessità di un rinvio a ulteriori e ripetute discussioni, che possano eventual
mente condurre a un più solido livello di consenso: «non se ne deve sentir
parlare solo in questa occasione [53id4 5.: i-v tci trv Trapàvtt]’ ma occorrerà
tornarvi sopra più volte». Per il momento, Glaucone è disposto ad accet
tare le tesi socratiche solo a titolo di ipotesi (53zd6: TcLiiTc 8vrt itrv
-v&v )kyrrai). Ma per sviluppare la discussione, e andar oltre le rapsodiche
indicazioni socratiche sui caratteri, i compiti e i privilegi della dialettica,
Glaucone ha una richiesta precisa da fare, che egli formula con il rigore
concettuale che gli è consueto. Ci siamo finora limitati al “proemio” del
discorso, egli sostiene, e occorre ora entrare nel vero e proprio nomos della
dialettica (53zd6 s.): la metafora musicale rinvia al pieno dispiegamento
argomentativo dell’analisi, alla saturazione metodica dello spazio teorico
che Socrate ha dischiuso.
Glaucone esige dunque che Socrate illustri, a proposito della dynamis
dialettica: a) quale ne sia la modalità specifica (il tropos); b) in quali forme
(eide) si distingua; c) quali ne siano le procedure (bodoi: 531d$-eI). Ciò che
Questo capitolo è già stato pubblicato in f. L. Lisi (ed.), The Ascent to the Good,
Academia Verlag Gmbh, Sankt Augustin 2007.
— destinato
— al
un
si
23$ IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 239
viene richiesto, dunque, è una definizione formale, teoricamente compiu
ta, del metodo dialettico, che ne chiarisca lo statuto epistemologico, allo
stesso modo in cui nel libro VI Adimanto aveva domandato una defini
zione concettualmente precisa dell’idea del buono; anche in questo caso,
l’esigenza di Glaucone è determinata dalla novità della proposta socratica,
e dalla conseguente incertezza dei suoi contenuti, che rendono impossibile
la concessione di un immediato consenso da parte degli interlocutori.
La risposta di Socrate risulta in questo caso (assai più che nella discus
sione sui “buono”) sorprendente per la sua reticenza che assume un tono
quasi aggressivo nel contesto dialogico. Mentre nel caso del “buono” So
crate aveva tentato di evitare una risposta a Glaucone adducendo la propria
inadeguatezza, egli ora addebita in primo luogo questa inadeguatezza pro
prio al suo interlocutore: «non sarai più [...} in grado di seguirmi (015K -r’
[...] oto r’io &Ko)ouOttv), per quanto io non trascurerà certo ogni sforzo
[prothymia]» (VII 533I s.). Nella discussione sull’idea del buono, lo sfor
zo, laprothymia, erano quelli che Socrate si dichiarava disposto a impegna
re nella ricerca, per quanto la sua incapacità (o15 olo r’iooat) rischiasse
di esporlo al ridicolo (VI 5o6d7 s.). Ora invece questo sforzo non è quello
del ricercatore incerto, bensì quello del maestro che ha di fronte un allie
vo inadeguato: una situazione invero assai poco “socratica”, che rovescia
quella in cui Socrate si era trovato di fronte a Diotima nel Simposio. Qui
era la sacerdotessa a temere l’incapacità di Socrate (015K ot’tL oio r’iv Eiv,
zioaz) a seguirla sulla via dell’iniziazione ai misteri dell’eros, nonostante
fosse disposta a impegnarsi con tutta la suaprothymia.
Ma Socrate attenua immediatamente questa posizione “magistrale’
questa violenza dialogica nei confronti del suo interlocutore, introducen
do una seconda ragione della sua reticenza, che questa volta, in modo più
consueto, riguarda la natura stessa del suo sapere: «non scorgeresti più
un’immagine di ciò di cui parliamo, ma la verità stessa [&vtà tà &)O],
almeno come essa mi appare [ -yt & ot ccdvt-ri]. Se è realmente così op
pure no, non è ora il caso di affermarlo recisamente [diischyrizesthai] »
(VII 5333 s.). La condizione del sapere socratico sulla dialettica è dunque
quella stessa, doxastica, che caratterizzava anche le sue vedute sul “buo
no” (T& oIcofrvrc, VI 509c3). Questo può spiegare il tono aggressivo ini
zialmente adottato da Socrate nei riguardi di Glaucone: la sua richiesta è
“impertinente” perché eccede i limiti del contesto dialogico già chiariti in
quella occasione.
Glaucone risulta dunque probabilmente incapace di seguire Socrate su
una via che questi è sì in grado di indicare, ma non di percorrere con il ri
gore epistemico richiesto dalla domanda strategica intorno ai metodi, agli
eide e al tropos della dialettica. Ma perché questa doppia inadeguatezza?
Una compiuta risposta alla domanda di Glaucone appare formulata nel
fedro, senza che la forma della scrittura in quanto tale imponga di per sé
alcuna reticenza. Da un punto di vista “tecnico”, la dynamis dei discorsi
presenta due eide, quelli delle divisioni e delle sintesi (tcv ttpo-tc Kcd
ou’iccyorycsv, ;65c9, z66b4): «qualora io ritenga qualcun altro capace di
indirizzare lo sguardo verso un’unità che sia anche per natura divisibile in
molteplicità, questo io seguo [...] E proprio quelli che sono capaci di fare
ciò, li denomino, e se l’espressione è corretta o no lo sa dio, li chiamo, fino
ad oggi, dialettici» (z66b).
Ricorrere a un diverso contesto dialogico per rispondere a una doman
da formulata nella Repubblica può apparire scorretto, e in effetti lo sarebbe
se anche nel nostro dialogo non fosse chiaramente accennata una conce
zione della dialettica simile a quella più ampiamente sviluppata nel fedro.
In un passo che precede la problematica comparsa dell’idea del buono, il
diategesthai autentico è distinto dall’argomentazione eristica per la sua ca
pacità metodica di operare divisioni, diareseis (V 454a6: r6 [...] t315coOu..t
1cccr’si& tctpo152E-vot tà ).r 6iti,oii 7rtoIco7rE.iv). Una concezione della dia
lettica come tecnica diairetica è dunque già presente nella Repubblica, e an
che il suo secondo eidos, quello sintetico, è in qualche misura implicato dal
carattere sinottico (synopsis, VII 537Cl s.) che le viene assegnato nel dialogo.
Perché dunque Socrate non si inoltra su questo terreno rassicurante
a essere esplorato in forme solidamente epistemiclie nel So
fista — e preferisce arroccarsi in una reticenza attribuita all’inadeguatez
za dapprima riferita aggressivamente a Glaucone e poi anche alle proprie
convinzioni? La risposta a questa domanda non può che rinviare alla pe
culiare architettura teorica della Repubblica. Il sapere dialettico intrattiene
qui — a differenza che in altri dialoghi, come appunto il fedro e il Sofi
sta — rapporto costitutivo con quella enigmatica idea del buono, che ne
costituisce il tetos, l’oggetto privilegiato e al tempo stesso la ragion d’essere
in quanto sapete destinato e legittimato al potere. Se il “buono” è il fonda
mento della supremazia della dialettica, il suo ambiguo statuto ontologico
limite dell’essere e al di là della ousia noetico-ideale — riverbera sullo
statuto epistemologico della dialettica stessa, assicurandone la supremazia
come “fastigio” dell’edificio delle scienze e insieme rendendo incerto il suo
profilo metodico.
benché appaia del tutto ragionevole, risulta a sua volta eccedente rispetto
ai limiti che già la discussione sul “buono” aveva nettamente indicato. Pri
ma ancora che Glaucone la formulasse, Socrate aveva sostenuto che nella
canto che la dialettica esegue» (532a1 5.: OTO &9 cirr6 oriv 6 &v rà
dunque nella Repubblica
—
la sua discorsività “proemiale”, con l’istanza criti
esigenze di Glaucone —
ne nega
etenchos “socratico” —
te “positiva”: non si tratterà in questo caso di un vero e proprio logos tes
(Resp. VII 534b9: top(ovwOcu rc )6y). Questa operazione non significa
ne della sua ineffabilità ma nella sua “delimitazione” nel discorso razionale
propriamente una “definizione” nel senso aristotelico, bensì appunto in
una delimitazione rispetto alle altre idee, che da un lato nega la possibi
lità di identificazioni del tipo “il buono è la giustizia, la verità” e così via,
dall’altro, e di conseguenza, apre la via a una sua descrizione razionalmen
l’identificabilità senza residui con qualsiasi stato dell’essere, sottolinean
Glaucone e Adimanto. Nel libro IV si perviene a una descrizione, a un
Z40 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 2.41
lagos, dell’essenza (ousia) della giustizia (dikaiosyne) oggetto della ricerca,
In altri termini, l’eccedenza della dialettica fa sì che l’insieme delle episte
mai e delle technai, benché riformate e rifondate, non costituisca altro che
un “proemio”, un preludio al “canto”, al nomos che la dialettica deve final
mente eseguire (53id8). Ma la richiesta di Glaucone, di passare finalmente
all’esecuzione di questo nomos dopo la lunga analisi del proemio (3zd6 s.),
«capacità di dare e ricevere ragione» (532e4 s.) consisteva già «proprio il
ta)yro-Ocu 7rtpal-vE1). 11 nomos, il “canto” epistemico della dialettica coincide
differenza che in altri dialoghi e a dispetto delle
con
a
co-fondativa che essa rappresenta nei confronti delle assunzioni “ipotetiche”
tanto nell’ambito dei saperi matematici quanto in quello etico-politico, li
riferimento costitutivo a un oggetto collocato “al di là della ousia” determina
quindi il carattere “insaturo” del sapere dialettico, la sua strutturale apertura
proemiale di cui è impossibile pretendere il compimento nel nomos.
L’unica risposta possibile alla domanda di Glaucone consisterà dunque
nel descrivere il lavoro che costituisce il compito della dialettica, in cui si
esplica la sua efficacia, la sua dynamis, che corrisponde, nella discorsivi
tà umana, a quella dynamis in cui consisteva la supremazia causativa del
“buono” in campo ontologico ed epistemico. E allora questa descrizione,
in luogo di una impossibile definizione di tropos, badai ed eide, che Socrate
proporrà a Glaucone nel contesto del dialogo.
La dialettica inizia dunque il suo lavoro con un approccio critico-ne
gativo, “togliendo le ipotesi” (533c8), mostrandone cioè l’infondatezza e
muovendo dal loro livello in direzione del principio fondativo (vi ii b5).
Questa confutazione delle ipotesi avviene però —
e
qui è stata segnalata
la soglia della separazione fra la dialettica della Repubblica e il consueto
secondo la doxa bensì secondo la ousia (VII
non
534CZ s.): in effetti il movimento della confutazione delle ipotesi appro
da non all’incertezza, all’aporia, bensì alla comprensione (lambanein)
del lagos capace di descrivere la ousia relativa a ogni oggetto di discussio
ne (534b3 s.). I primi quattro libri della Repubblica costituiscono, si può
dire, un esempio dispiegato di questo percorso della dialettica. Nei libri
che la definisce come “il fare le cose proprie”. Questo livello appare ormai
I e ii vengono sottoposte a etenchos le “ipotesi” doxastiche sulla giustizia
proposte da Cefalo, Polemarco, Trasimaco e dalla cultura cui danno voce
non-ipotetico perché inconfutabile da ogni elenchos, vat)tyc6rarov nel
linguaggio del Fedone (85c9).
L’ulteriore e più specifico lavoro della dialettica intorno al “buono”
consta di tre movimenti, che si possono isolare all’interno di una lunga
e a dire il vero troppo condensata battuta di Socrate, per giunta esposta
in forma negativa, cioè con l’intento di descrivere in primo luogo ciò che
non fa chi non è veramente dialettico (534b8 ss.). Il primo movimento è
quello consueto consistente nel “togliere”, mediante l’elenchos, le ipotesi
infondate sui “buono”. È quanto Socrate ha fatto, anche se in modo un
po’ sommario, nel libro VI confutando le identificazioni del “buono” con
il piacere e l’intelligenza. Questo elenchos deve però venir condotto dal
punto di vista della ousia, e nel caso del “buono” non ci si può fermare qui,
perché come è noto esso non è esauribile nel piano noetico-ideale delle
siai. Occorre dunque un secondo e più specifico movimento, che consiste
nell”isolare”, nel separare il “buono” da tutte le altre idee (534b9 s.: &rà
rrv &À)w ir&rcw &pXcivrrot &ycL8o Anche questa operazione
è stata condotta nel contesto della metafora solare del libro VI (5o8e ss.),
allorché il “buono” era stato separato e distinto da scienza, verità ed essen
za. Che cosa significhi esattamente questa “separazione” del “buono” può
venir chiarito confrontandola con l’esortazione, apparentemente simile,
17, 3$: dDE 7r&vrcI.). Plotino intende negare tutte
le determinazioni del Bene-Uno per costruire una teologia negativa del
di Plotino (Enneadì V 3
Principio assolutamente trascendente e quindi ineffabile. Platone chiede
invece di separare il “buono” da tutte le altre idee per rilevarne la diffe
renza, l’ulteriorità, la non riducibilità all’ambito dell’esistente, empirico
o ideale che sia. Questo necessario aphairein del “buono” —
che
done la posizione estrema di causa e tetos —
non nella dichiarazio
culmina
14Z IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA ‘43
ousias, in ragione del carattere iperessenziale del “buono”, quanto di un’a
nalisi della sua dynamis causale, della sua efficacia (se di definizione si vuoi
parlare, essa non dirà dunque “che cosa è il buono”, bensì “che cosa fa il
buono”). È qui il caso di riconsiderare il passo di vi 5o$e3-4, che può veni
re interpretato in questo senso: “ritieni che l’idea del buono è conosciuta
poiché essa è causa di scienza e verità”: la conoscenza del “buono” è dun
que ottenuta non in sé stessa ma attraverso la sua funzione causale, i suoi
effetti epistemico-veritativi.
Il terzo movimento della dialettica è infine quello discendente. Si tratta
qui, dopo aver conosciuto il “buono stesso”, di vedere le “altre cose buone”,
il “resto del buono” (VII 534c5: &)o cycO&v). Questo significa istituire i
corretti rapporti di partecipazione/predicazione, che consentano ad esem
pio di dire secondo verità che “il giusto è buono”, o magari anche — per ri
prendere le hypotheseis confutate nel libro VI —‘ che, se è falso asserire che
“il buono è il piacere”, o “il buono è l’intelligenza”, è invece corretto, a certe
condizioni, dire che “il piacere è buono” o “l’intelligenza è buona”. La co
noscenza dell’idea del buono, ottenuta per via critico-negativa mediante
un processo di separazione/distinzione dal resto dell’esistente, consente
dunque, nel versante discendente/positivo della dialettica, di “fondare” le
ipotesi, di pronunciare, nel campo dello stesso esistente, corretti giudizi
di valore che riconoscano l’eventuale partecipazione al buono (in quanto
causati da esso) di enti ideali o stati di cose.
Fin qui dunque la risposta di Socrate, che pur nella sua concitazione e
l’iniziale reticen
dopo
nella sua forma negativa ha comunque fornito —
za — qualche importante informazione sui tropos e sugli bodoi della dialet
tica (se non proprio sui suoi eide). A essa Glaucone concede, per la prima
volta, un suo energico (sphodra) assenso (534d;).
Eppure, noi possiamo riformulare, per suo conto e dal suo punto di
cioè proseguire l’interro
possiamo
vista, qualche ulteriore domanda —
gazione dialettica che viene qui provvisoriamente sospesa, raccogliendo
quella ingiunzione a “tornarci sopra” che proprio Glaucone aveva rivolto
a Socrate. Le domande riguardano ancora una volta le modaliti della co
noscenza dialettica e una più precisa determinazione dell’oggettoprincipale
di questa conoscenza.
Per quanto riguarda la prima, essa viene descritta a più riprese come una
comprensione (haptesthai, lambanein) ottenuta attraverso un atto noetico
(noesis, cfr. ad es. 53zbi). D’altro canto, essa viene parimenti descritta come
un’operazione logico-discorsiva (“interrogare e rispondere”, togon didonai,
top[ozw9at zc)6y; cfr. ad es. 534b4 s., b9). Molti interpreti hanno indi
viduato in queste due forme di descrizione della conoscenza dialettica una
tensione, o anche un’oscillazione, tra una polarità discorsivo-argomen
tativa (forse riportabile a una matrice “socratica”), e un’altra culminante
in un’intuizione noetico-eidetica, in una Evidenzerlebnis richiesta dalla
natura extralinguistica degli oggetti ideali e/o del loro “principio’ Altri
hanno sostenuto che, al di là di certe suggestioni derivate dagli usi unguistici,
la conoscenza dialettica deve venire concepita come una Ideenbe
stimmung di carattere interamente definitorio-proposizionale. Una linea
di compromesso è stata individuata nell’assegnare alla conclusione noetica
del percorso dialettico il carattere di uno state ofunderstanding stabile cui
si perviene dopo un lungo lavoro critico-confutatorio attuato nell’ambito
dell’argomentazione discorsiva.
È tuttavia necessario tracciare una netta distinzione fra i due diversi
livelli che la conoscenza dialettica è in grado di raggiungere. 11 primo è
quello degli enti ideali: qui la “visione” eidetica dell’essenza è interamente
solidale con la loro Bestimmung definitoria, il logos tes ousias nel linguag
gio platonico, rispetto al quale la prima si presenta come l’acquisita
tezza della inconfutabilità della hypothesis finale perché essa è riferita al
carattere invariante e alla autoidentità dell’idea. Si tratta di una situazione
certo rara ma non assente nei contesti dialogici: si pensi alla “definizione”
rigorosa della giustizia nel libro IV 443c-444a. Tuttavia, questa stessa ra
rità di simili acquisizioni teoriche segnala un doppio ordine di difficoltà.
Difficoltà innanzitutto interne a questo primo livello: la comprensione
definitoria delle essenze ideali risulta nei dialoghi per lo più problemati
ca e precaria in assenza di un preciso metodo di “mappatura” del campo
noetico, di individuazione delle relazioni, delle affinità e delle differenze
che articolano i rapporti fra idee, del tipo di quello che verrà per la prima
volta delineato sia pure in forma ipotetica nel Sofista. Esperimenti di que
sto tipo, ma privi di una solida infrastruttura metodica, vengono in effetti
a più riprese tentati nei dialoghi (si pensi ad esempio alla discussione sul
kalon nell’Ippia maggiore), dando luogo a risultati non del tutto negativi
ma parzialmente aporetici. Resta dunque per lo più senza risposta (salvo il
caso specifico della giustizia) l’ingiunzione che Trasimaco rivolgeva a So
crate nel libro i della Repubblica: «attento a non dirmi che il giusto è l’op
portuno oil giovevole oil vantaggioso o il profittevole o l’utile; ma dimmi
con chiarezza e precisione quello che intendi [oucJ ot iccd cpt)yit
(336cI1 ss.).
&rt&v)yrj]»
sulle
2.44 IL POTERE DELLA VERITÀ
GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA
‘45
Ma il secondo e maggiore ordine di difficoltà è esterno a questo primo
livello, e consiste nella necessità del rinvio a un’ulteriore fondazione di
verità e di valore delle stesse idee alla cui definizione fosse eventualmente
pervenuta la dialettica, come nel caso della giustizia. Questo rinvio com
porta il passaggio al secondo livello della conoscenza dialettica, quello ap
punto del principio ultimo di fondazione. In questo ambito, la domanda
sulle modalità conoscitive proprie della dialettica si intreccia strettamente
con quella relativa alla precisa determinazione del suo oggetto principale;
lo statuto di questo non può che reagire — secondo un nesso tipicamente
platonico — forme della sua comprensione.
Sappiamo che, al di là delle idee, la dialettica culmina (perainei) nel
tetos del suo percorso di conoscenza, che viene inizialmente caratterizza
to come “principio del tutto” (vi 5iib7), che può venire concepito come
univoco oppure, distributivamente, come relativo al problema in esame.
A seconda dell’alternativa esegetica scelta, l’universalità della dialettica
risulta configurata nel primo caso come “intensiva” (perché perviene alla
comprensione del singolo principio dell’universo e/o delle idee), nel se
condo come “estensiva” (perché assume di volta in volta un punto di vista
unitario sull’insieme dei saperi e dei problemi in discussione).
La questione si complica ulteriormente se si accetta di riconoscere nel
“principio del tutto” l’idea del buono, come il testo platonico sembra sug
gerire in modo inequivocabile pur senza dichiararlo in modo esplicito. Ma
anche questa omissione non può essere sorvolata come non problematica.
Se infatti il “principio del tutto” è il “buono’ esso sembra limitare l’univer
salità della dialettica in entrambe le accezioni che ora si sono considerate.
Il “buono” non può costituire, da un lato, il punto più alto cui perviene
il movimento sintetico-sinottico della dialettica nel senso teorizzato dal
fedro della oua’coy tic tiv iccv, perché esso non può in nessun modo
venir considerato un surnmum genus inclusivo delle differenze specifiche.
D’altro lato, è difficile pensare che il “buono” possa costituire il “princi
pio” dell’universo, perché la sua azione sembra circoscritta alla causazione
delle idee come nuclei essenziali di verità e di valore. E anche per quanto
riguarda lo stesso campo noetico-ideale, di cui il “buono” è certamente
causa e fondamento, appare difficile capire come la dialettica, assumendo
lo a “principio’ possa derivarne, nel suo movimento discendente, la fon
dazione dei teoremi propri di saperi, come quelli matematici, che esulano
dall’ambito etico-politico in cui propriamente l’idea del buono svolge il
suo ruolo fondativo.
La decisione platonica di lasciare almeno esplicitamente anonimo il
“principio del tutto” cui perviene la dialettica potrebbe dunque compor
tare una implicita apertura teorica verso due opzioni compossibili sulla
natura della sua conoscenza: a) un sapere sinottico in grado di assumere
un punto di vista d’insieme sui diversi mathemata e sui loro campi argo
mentativi; b) un sapere del “buono” in quanto fondamento del campo
etico-politico. Il livello di sintesi fra queste due opzioni potrebbe consi
stere nel concepire la dialettìca come c) un sapere in grado di comprendere
(logori lambanein), di valutare (logori didonai) e di utilizzare le conoscenze
in ordine all’orientamento etico-politico delle condotte individuali e pub
bliche, insomma un sapere “regio” e di governo.
In ogni caso, se il “principio del tutto’ come suggerisce la dinamica del
testo al di là del suo iniziale, e probabilmente intenzionale, anonimato, va
identificato con l’idea del buono che riempie di un contenuto la formalità
della sua prima apparizione, da questo derivano importanti conseguenze
per la natura della conoscenza dialettica, su cui è ora il caso di tornare a
interrogarsi.
E certamente da escluderne una forma proposizionale-definitoria che
si concluda con l’enunciazione del logos tes ousias: questo è reso impossi
bile, come si è detto, dallo statuto non essenziale/sostanziale del “buono”.
È altrettanto da escludere una ineffabile visione intuitiva, in ragione del
costitutivo assetto intersoggettivo e discorsivo del dialegesthai. Si deve
dunque supporre che il tipo di conoscenza che fa dialettica può acqui
sire intorno al “buono” sia per l’essenziale quello delineato nel vi e nel
vii libro della Repubblica, oppure, da un altro punto di vista, nel filebo:
l’inserimento, per contiguità e differenze, in una rete di idee affini, nella
quale quella del buono costituisce per così dire un “nodo” (verità, scienza,
essenza, e per altri aspetti bello, limite); una o più descrizioni metaforiche,
come l’analogia solare; infine, e soprattutto, la comprensione dell’efficacia
causale, della sua dynamis specifica.
In questo quadro, i movimenti della dialettica nella Repubblica danno
un’ immagine abbastanza precisa del suo lavoro in progress (per quanto è
possibile, cioè non abbastanza per soddisfare le esigenze epistemiche di
Glaucone). C’è un primo versante critico-negativo, elenctico, che consiste
nel dire ciò che il “buono” non è: dunque nel rifiuto degli pseudo-valori
e della sua identificabilità con qualsiasi “stato delle cose’ nell’asserzione
della sua ulteriorità fondativa persino rispetto al piano epistemico-ideale.
Questo versante non può tuttavia restare isolato pena la trasformazione
in
IL POTERE DELLA VERITÀ
GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA ‘47
pen
z
di nichilismo eristico. Esso deve venire inte
‘o, che consiste in primo luogo nella valorizza
tto di utilità, desiderabilità, quindi di intenzio
po delle idee in quanto tali, della verità e della
ambito che si rivolge il movimento conclusivo
Ido di governare la vita degli individui e della
di criticarne gli scopi falsi e infondati, quanto
di delineare un orientamento della praxis etico-politica fondato su di un
principio incontrovertibile di verità del valore, e di valore della verità.
In questa saldatura del versante onto-epistemologico e di quello eticopolitico
consiste la natura della dynamis della dialettica, che costituisce
allora come si è detto il rappresentante intersoggettivo
— nella discorsivi
tà argomentativa fra gli uomini — della dynamis causale del “buono”. Cià
che la dialettica è propriamente chiamata a fondare, a partire da questa
dvnamis, è il nesso imprescindibile tra verità e valore. C’è qui senza dub
bio una sorta di eccedenza del compito della dialettica, che corrisponde
alla eccedenza ontologica del suo “principio” di fondazione: l’assunzione
programmatica di questa doppia eccedenza rende inevitabilmente parziale
ogni sforzo di realizzazione, e confina dunque sempre di nuovo il sapere
dialettico — come temeva Glaucone — una condizione proemiale, incoa
tiva, alla soglia di una compiuta esecuzione di quel nomos destinato a resta
re un orizzonte insaturo. Nel contesto della Repubbtica, la tensione verso
questo compimento
— cioè verso la realizzazione di un sapere dialettico
stabile e totale — è altrettanto essenziale quanto il suo inevitabile arresto
alla condizione di preludio: un preludio tuttavia non sterile, perché carico
di energia intellettuale ed etica, di una dynamis efficace nei saperi e nella
vita.
Nel grande tentativo logico-ontologico di rispondere a Glaucone ela
borato nel Sofista
— che comportava la teoria della dicotomia, l’introdu
zione dei cinque generi massimi, la teoria della comunicazione fra idee
come fondamento per la distinzione fra enunciati veri e falsi — il lavoro del
dialettico veniva chiamato a ripercorrere le scansioni fra livelli noetici e
relazioni fra idee. Doveva essere in grado di
riconoscere adeguatamente [i.1 un’unica idea estesa in ogni direzione fra molte
altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata; [a.] e molte idee, diverse
fra ioro, comprese dall’esterno da una sola idea, [.] che dal canto suo permane
nell’unità benché estesa fra molti insiemi di idee, [4.1 e molte idee che sono se
parate in quanto completamente distinte. Questo significa saper distinguere per
generi, cioè come essi possono comunicare oppure no (z53d).
Il caso i. sembra riferirsi alle idee dei “generi massimi” come essere, iden
tico, diverso; i casi a. e 3. alle idee-classi, come “tecnica” o “animale’ e a
quelle che esse includono, come “pescatore con la lenza” o “uomo”, o anche
alle idee “partecipare”, come “buono”, e a quelle che ne partecipano, come
“giusto”; il caso 4., infine, sembra costituire piuttosto il risultato o l’esito
del lavoro dialettico, l’individuazione di idee semplici in quanto essenze
delimitate come singoli “nodi” della rete di rapporti di comunicazione e di
differenza che le costituiscono.
C’è ora da chiedersi quali fossero i costi e i guadagni teorici di questa
nuova configurazione della dialettica rispetto a quella che era stata propo
sta nella Repubblica. Come “grammatica generale” dell’essere e del pensie
ro, essa non rinunciava alla supremazia e all’universalità nell’ambito dei
saperi che la Repubblica le aveva assegnati. Veniva tuttavia meno la verti
calizzazione del movimento della dialettica verso un “principio del tutto”
contrassegnato dalla priorità in termini di verità e di valore, e con essa la
pretesa della dialettica di detenere il controllo del livello critico e norma
tivo rispetto sia alle scienze sia alle condotte etico-politiche. Con questo,
come si è detto, la dialettica rinunciava a costituire direttamente la “scien
za regale’ in quanto sapere teorico-pratico relativo al senso delle scienze e
ai fini della vita (anche se, come mostrava il Politico, si poteva continuare a
pensare che essa costituisse la forma di sapere in grado di definire chi fosse
il “vero politico’ cioè l”uomo regale”).
In compenso, il nuovo assetto della dialettica era meglio in grado di
rispondere alle esigenze che Glaucone aveva formulato nella Repubblica,
cioè di mettere in chiaro le proprie modalità procedurali (condizioni di
possibilità della comunicazione fra idee, descrizione delle relazioni seletti
ve fra di esse mediante l’analisi dicotomica, discriminazione fra enunciati
veri e falsi). Un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epi
stemico peculiare della forma del pensiero dialettico, dunque. Che forse
non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e
propria scienza, per diverse buone ragioni.
Faceva da ostacolo, in primo luogo, il permanere del carattere appunto
dialettico, cioè dialogico, intersoggettivo, di questo pensiero. Il procedi
mento dicotomico comportava a ogni passo una decisione, convenuta fra
come
della
in
il
2.46 IL POTERE DELLA
GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA
2.47
VERITÀ
della dialettica in una sorta di nichilismo eristico. Esso deve venire inte
grato da un lavoro fondativo, che consiste in primo luogo nella valorizza
zione — cioè nel trasferimento di utilità, desiderabilità, quindi di intenzio
nalità conoscitiva — del campo delle idee in quanto tali, della verità e della
scienza.
Ed è verso quest’ultimo ambito che si rivolge il movimento conclusivo
della dialettica: essa è in grado di governare la vita degli individui e della
città perché è in grado tanto di criticarne gli scopi falsi e infondati, quanto
di delineare un orientamento della praxis etico-politica fondato su di un
principio incontrovertibile di verità del valore, e di valore della verità.
In questa saldatura del versante onto-epistemologico e di quello eticopolitico
consiste la natura della dynamis della dialettica, che costituisce
allora come si è detto il rappresentante intersoggettivo — nella discorsivi
tà argomentativa fra gli uomini — dynamis causale del “buono” Ciò
che la dialettica è propriamente chiamata a fondare, a partire da questa
dynamis, è il flesso imprescindibile tra verità e valore. C’è qui senza dub
bio una sorta di eccedenza del compito della dialettica, che corrisponde
alla eccedenza ontologica del suo “principio” di fondazione: l’assunzione
programmatica di questa doppia eccedenza rende inevitabilmente parziale
ogni sforzo di realizzazione, e confina dunque sempre di nuovo il sapere
dialettico — temeva Glaucone — una condizione proemiale, incoa
tiva, alla soglia di una compiuta esecuzione di quel nomos destinato a resta
re un orizzonte insaturo. Nel contesto della Repubblica, la tensione verso
questo compimento — cioè verso la realizzazione di un sapere dialettico
stabile e totale — è altrettanto essenziale quanto il suo inevitabile arresto
alla condizione di preludio: un preludio tuttavia non sterile, perché carico
di energia intellettuale ed etica, di una dynamis efficace nei saperi e nella
vita.
Nel grande tentativo logico-ontologico di rispondere a Glaucone ela
borato nel Sofista — che comportava la teoria della dicotomia, l’introdu
zione dei cinque generi massimi, la teoria della comunicazione fra idee
come fondamento per la distinzione fra enunciati veri e falsi — lavoro del
dialettico veniva chiamato a ripercorrere le scansioni fra livelli noetici e
relazioni fra idee. Doveva essere in grado di
riconoscere adeguatamente [i.] un’unica idea estesa in ogni direzione fra molte
altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata; [;.] e molte idee, diverse
fra loro, comprese dall’esterno da una sola idea, [a.] che dal canto suo permane
nell’unità benché estesa fra molti insiemi di idee, [4.1 C molte idee che sono se
parate in quanto completamente distinte. Questo significa saper distinguere per
generi, cioè come essi possono comunicare oppure no (z53d).
il caso i. sembra riferirsi alle idee dei “generi massimi” come essere, iden
tico, diverso; i casi 2.. e 3. alle idee-classi, come “tecnica” o “animale’ e a
quelle che esse includono, come “pescatore con la lenza” o “uomo”, o anche
alle idee “partecipate”, come “buono”, e a quelle che ne partecipano, come
“giusto”; il caso ., infine, sembra costituire piuttosto il risultato o l’esito
del lavoro dialettico, l’individuazione di idee semplici in quanto essenze
delimitate come singoli “nodi” della rete di rapporti di comunicazione e di
differenza che le costituiscono.
C’è ora da chiedersi quali fossero i costi e i guadagni teorici di questa
nuova configurazione della dialettica rispetto a quella che era stata propo
sta nella Repubblica. Come “grammatica generale” dell’essere e del pensie
ro, essa non rinunciava alla supremazia e all’universalità nell’ambito dei
saperi che la Repubblica le aveva assegnati. Veniva tuttavia meno la verti
calizzazione del movimento della dialettica verso un “principio del tutto”
contrassegnato dalla priorità in termini di verità e di valore, e con essa la
pretesa della dialettica di detenere il controllo del livello critico e norma
tivo rispetto sia alle scienze sia alle condotte etico-politiche. Con questo,
come si è detto, la dialettica rinunciava a costituire direttamente la “scien
za regale”, in quanto sapere teorico-pratico relativo al senso delle scienze e
ai fini della vita (anche se, come mostrava il Politico, si poteva continuare a
pensare che essa costituisse la forma di sapere in grado di definire chi fosse
il “vero politico”, cioè l”uomo regale”).
In compenso, il nuovo assetto della dialettica era meglio in grado di
rispondere alle esigenze che Glaucone aveva formulato nella Repubblica,
cioè di mettere in chiaro le proprie modalità procedurali (condizioni di
possibilità della comunicazione fra idee, descrizione delle relazioni seletti
ve fra di esse mediante l’analisi dicotomica, discriminazione fra enunciati
veri e falsi). Un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epi
stemico peculiare della forma del pensiero dialettico, dunque. Che forse
non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e
propria scienza, per diverse buone ragioni.
Faceva da ostacolo, in primo luogo, il permanere del carattere appunto
dialettico, cioè dialogico, intersoggettivo, di questo pensiero. Il procedi
mento dicotomico comportava a ogni passo una decisione, convenuta fra
— ma
solo
cioè
che
come
“il
Z48 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA
‘49
gli interlocutori partecipanti alla ricerca, circa l’insieme o il sottoinsjeme
nel quale fosse via via da collocare l’oggetto indagato (nel caso del “sofista”,
esso veniva di volta in volta assegnato a sette “generi” diversi). Ma c’era
anche un ostacolo più cogente sul piano teorico. La dialettica dicotomica
avrebbe potuto costituirsi come una scienza sul modello della geometria
al livello di universalità che le era proprio — a condizione che
fosse risultato possibile costruire un solo albero dicotomico capace di di
videre il “genere” essere nella pluralità di tutte le sue articolazioni
—
in
grado di costruire una sorta di atlante tassonomico di tutta la realtà. Ciò
era tuttavia impossibile perché “essere” non è, a differenza ad esempio di
“tecnica” o “animale’ un’idea-classe suddivisibile in specie, bensì rappre
senta una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Non c’è dunque
una dicotomia dell’essere, e di conseguenza non può esistere una tasso
nomia dicotomica universale (come avrebbe invece tentato di costruire il
neoplatonico Porfirio). Questo vale naturalmente anche, a maggior ragio
ne, per gli altri “generi massimi” come il non essere o il diverso, l’identico,
il movimento e l’immobilità. La dialettica dicotomica restava dunque un
procedimento euristico, che muoveva da un problema determinato, la for
mulazione del “togos della cosa” relativo al particolare oggetto indagato, lo
individuava come un nodo della rete mobile di relazioni fra idee al cui in
terno si collocava, e forniva così una griglia utile a distinguere gli enunciati
veri che potevano venire formulati intorno a esso da quelli falsi. Quanto
alle idee, esse continuavano a fungere in questo procedimento come unità
stabili di significato capaci — nelle loro relazioni reciproche — di rappre
sentare riferimenti ordinativi per la comprensione della realtà (empirica
o noetica che fosse); esse non costituivano cioè ancora — come sarebbe
accaduto con Aristotele — forme di una legalità immanente alla natura,
ma certamente la loro “separazione” rispetto al mondo della pluralità e del
divenire risultava fortemente indebolita e ridotta.
Si poteva dunque ancora pensare che la dialettica — come aveva pre
scritto la Repubblica — si muovesse solo nel campo delle idee; e si poteva
inoltre ritenere che il suo statuto epistemico risultasse ora meglio precisa
to, in risposta alle esigenze di Glaucone (che rispecchiavano probabilmen
te la discussione accademica). La dialettica non rinunciava comunque alla
sua originaria natura di indagine mobile e aperta condotta nel confronto
tra soggetti dialogici diversi; se riduceva le sue aspirazioni immediate alla
“regalità” etico-politica, non si trasformava tuttavia in un astratto sistema
di “scienza universale” o di metafisica dell’essere o dell’uno. Il Parmeni
I
i
de sembra appunto destinato a mostrare l’impossibilità di principio della
chiusura della dialettica, la natura inesauribile del suo compito di analisi
critico-confutatoria delle “ipotesi” Qui, come nel Sofista, il vecchio Plato
ne sembra voler mostrare agli accademici che tanto la pretesa di Glaucone
di una compiuta esecuzione del nomos della dialettica, quanto la tendenza
degli “amici delle idee’ e del “giovanissimo” Socrate, verso la costruzione
di un sistema metafisico delle idee, sono estranee alle potenzialità teoriche
della dialettica.
Semmai, il nomos richiesto da Glaucone viene eseguito — giorno se
guente” alla narrazione della Repubblica — nel Timeo, dove si racconta ap
punto la generazione del mondo a partire da un “principio del tutto” che
è buono, anche se non è il “buono” Questo nomos però — è proprio
della tradizione letteraria
— ha il carattere dell’inno che espone le gesta e
le aretai di una divinità. Esso assume cioè le forme di una grande narra
zione mitico-metaforica, che drammatizza il rapporto fra idee e mondo
incentrandolo sull’opera di una dynamis, di una potenza “buona” quale è
il demiurgo. Ma certamente Glaucone
— infatti qui esce di scena
— non
avrebbe riconosciuto in questo nomos quei metodi, quelle forme e quei
modi del procedimento dialettico, la cui definizione egli aveva reclamato
nella conversazione notturna in casa di Cefalo.
Note
i. Glaucone ripete qui, per rinviare il suo assenso, le stesse formule di reticenza
che Socrate aveva usato nella discussione sul “buono”: ‘rò vfrv, T]V 7rcpofcc àp.ov
(o6ea), v T& 7rcpàrL (5o9c9 s.). Per una formula simile cfr. anche Tim. 48c5.
a. A[’r[cv 8’i7rtTi.o Kc1t )Os(, c yt uoico.Lvv$ .tìv &ccvoo. 5. R. Slings,
Criticat Notes on Ptato’s “Potiteia” vi, in “Mnemosyne”, LIV, 1001, pp. 158-81, ha so
stenuto che il genitivo dipende da hos + dianoou (“verbo di pensiero”), e va dunque
riferito non a atetheias bensì all’idea del buono.
3. Cfr. ad es. vii 53zbi 5.: il dialettico non deve arrestarsi «prima di aver afferrato con
il puro pensiero l’essenza del buono».
Nella
.
formula “teologica” diii 38oc8 s., “il dio” è causa non di “tutto” ma solo dei
“beni”.
fino
I’
Sfida sofistica e progetti di verità in ?latone*
I
Barbara Cassin ha scritto, con buone ragioni, che la sofistica è un’inven
zione di Platone. A parte Gorgia, sui quale disponiamo di testimonianze
indipendenti, ma che è anch’egli protagonista di un importante dialogo
platonico, quasi tutto quello che sappiamo dell’antropologia di Protagora
ci viene dal dialogo a lui intitolato, e la sua epistemologia è interpretata e
discussa nel Teeteto. Altri sofisti importanti, come Callicle (Gorgia) e Tra
simaco (Repubblica) sono in larga misura creazioni di Platone, che non
molto avranno in comune con il personaggio storico che reca quel nome.
E soprattutto, in ogni caso, Platone interpreta le tesi dei sofisti, spesso le
rigorizza, le estende, le unifica concettualmente — a dedicare un dia
logo tardo, com’è appunto il Sofista, composto verso il 360, a interrogarsi
ancora una volta su “che cosa sia veramente il sofista”. Un’interrogazione
dunque ricorrente e sempre aperta, se si pensa che a quell’epoca Protagora
era ormai morto da sessant’anni, Gorgia da una ventina; ma con sofisti
come Antifonte Platone avrebbe continuato a discutere fin nel suo ultimo
dialogo, le Leggi.
Sembra dunque di poter dire che Platone abbia dedicato alla sofisti
ca una buona parte del suo cammino filosofico: un rivale da combattere,
una sfida da comprendere, forse un incubo da esorcizzare, in ogni caso una
presenza tanto prossima da risultare inquietante. Rovesciando l’assunto
iniziale, potremmo allora persino dire che la filosofia platonica è un effetto
della sofistica, cioè lo straordinario sforzo di rispondere a un pensiero che
secondo Platone minacciava la possibilità stessa della filosofia nel momen
*
Questo capitolo, inedito, è l’intervento presentato alla conferenza conclusiva del col
loquio della Sezione mediterranea della International Plato Society, tenutosi a Aix-en
Provence nell’ottobre zoi.
Eppure
Sì
e
2.52. IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 253
to della sua formazione, e peggio ancora rischiava di confondersi con essa
contraffacendone i tratti.
La prossimità inquietante del sofista al filosofo si ha prima di tutto sul
terreno del discorso — cioè di quella confutazione dialogico-dialettica,
l’etenchos, che era l’emblema del socratismo —, poi anche su quello del
la concezione e dell’esercizio del potere. Una vicinanza che somiglia, in
entrambi i casi, a quella fra il cane e il lupo, che condividono, su versanti
diversi, gli stessi territori agonali.
Parlando nel Sofista della tecnica della confutazione, l’elenchos di me
quivocabile matrice socratica, lo Straniero eleate che conduce il discorso
afferma:
Che nome daremo a coloro che posseggono questa tecnica? Ho qualche esitazio
ne a pronunciare la parola “sofisti”. — [replica Teeteto] è il nostro ragiona
mento che ci ha portato a qualcosa di simile. — [risponde lo Straniero] ma anche
il lupo è simile al cane, la bestia più selvaggia all’animale più domestico. Ch vuoi
essere sicuro deve stare in guardia dalle somiglianze: è un campo su cui è facile
scivolare (z31a).
Il Trasimaco ideologo della tirannide nel libro i della Repubblica è a sua
volta presentato come un “lupo” Ed è anche sul terreno del potere che
la vicinanza fra il cane “filosofico’ protettore del suo gregge, e il temibile
predatore, risulta inquietante, tanto da indurre il Socrate legislatore della
Repubblica a temere una pericolosa metamorfosi dei suoi futuri filosofi-re:
La cosa più terribile e vergognosa per dei pastori è di allevare cani da guardia dei
greggi in modo tale che, per indole ribelle, per fame o per qualche altra cattiva abi
tudine, i cani stessi si spingano a far del male alle pecore finendo per comportarsi
da lupi invece che da cani [...] Non dobbiamo dunque sorvegliare in ogni modo
perché le nostre guardie non facciano altrettanto con i cittadini, dal momento
che sono più forti di loro, finendo per trasformarsi da benevoli alleati in selvaggi
padroni? (III 416a-b)
Per evitare la metamorfosi del buon governante in tiranno (che secondo
Trasimaco è inevitabile in ogni forma di potere), Platone si vedrà costretto
a proporre due dei maggiori “scandali” della Repubblica, l’abolizione della
proprietà privata e della famiglia per i membri del gruppo dirigente (i cani
da guardia di cui si paventa la trasformazione in lupi se avessero interessi
privati da perseguire).
J
La minaccia sofistica investiva dunque, secondo Platone, l’ambito del lin
guaggio, della verità e dei valori, e di qui si riverberava fino al campo della
politica e dell’esercizio legittimo del potere.
Vediamone i tratti (così come Platone probabilmente li comprendeva),
a partire da Gorgia.
Il grande sofista siciliano sembra essere stato il primo a fondare teorica
mente l’autonomia della dimensione retorica, persuasiva, dunque performa
tiva del linguaggio, rispetto al suo tradizionale (e parmenideo) riferimento
alla verità dell’essere. Gorgia avrebbe sostenuto, secondo il resoconto dello
scettico Sesto Empirico, queste tre tesi: i. «Nulla esiste» in senso oggettivo
e assoluto; 2.. « se anche qualcosa esistesse, non sarebbe afferrabile dalla co
noscenza umana», cioè resterebbe totalmente estraneo all’esperienza sog
gettiva; non c’è rapporto fra essere e pensare, altrimenti esisterebbe qualsiasi
cosa pensata, come un uomo che vola; 3. «se infine qualcosa esistesse e fosse
comprensibile, esso non sarebbe comunicabile ad altri», perché la “cosa”
esistente è radicalmente altra rispetto alla “parola” comunicativa (Dx B ).
Dunque il linguaggio della comunicazione umana non fa presa sul
mondo oggettivo; esso non possiede veritd se per questa si intende una
fedele descrizione dell’essere in sé, né i discorsi possono venire valutati in
termini di vero/falso. Restano allora al discorso l’efficacia, la capacità per
suasiva, la potenza produttiva di credenze e condotte, insomma, appunto,
]
la dimensione pragmatica.
Sulle rovine delle pretese veritative del discorso, Gorgia poteva cele
brare il trionfo dei suoi effetti retorici. In un esercizio di scuola mirante a
ottenere l’assoluzione postuma di Elena dall’accusa di tradimento per aver
seguito Paride a Troia, diceva Gorgia che se Elena fu convinta a parole non
la si deve ritenere colpevole, perché
i
i
2
la parola è un grande padrone [...J Può infatti far cessare la paura, sopprimere il
dolore, infondere gioia, suscitare compassione [...J Che poi la persuasione, quan
do si aggiunge al discorso, lasci nell’anima l’impronta che vuole, bisogna capir
lo considerando in primo luogo i discorsi dei naturalisti dediti alle cose celesti,
che sostituiscono un’opinione all’altra eliminando questa e sostenendo quella,
in modo che agli occhi dell’opinione vengano a manifestarsi cose incredibili e
oscure; in secondo luogo le cogenti argomentazioni giudiziarie, nelle quali un
solo discorso, scritto secondo i dettami della tecnica retorica, non detto secondo
verità, diverte e convince una grande folla; infine, le dispute dei discorsi filosofici,
secondo
‘54 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE
‘55
in cui si mostra anche la rapidità della mente, capace com’è di rendere instabile e
mutevole la credenza in ogni opinione (DK B si).
Ciò che discrimina fra loro i discorsi della scienza, della morale, della giu
stizia, della politica e della stessa filosofia non è dunque la rispettiva verità
ma la loro efficacia retorica che si esercita in contesti agonali, come quelli
della politica, dei tribunali, delle dispute scientifiche e filosofiche. La parola
persuasiva può indurci a credere, e a fare, qualsiasi cosa essa desideri. Quan
to alle finalità etiche della persuasione, esse sono affidate, secondo il Gorgia
dell’omonimo dialogo platonico, al senso di responsabilità del retore.
Il secondo grande sofista, Protagora di Abdera, non sembra essere sta
to teoricamente altrettanto radicale di Gorgia, ma certo capace di un’in
fluenza intellettuale secondo Platone ancora più pericolosa. A parte le in
terpretazioni platoniche, di lui ci restano soltanto poche righe, fra le quali
compare quella che sembra essere stata la sua tesi principale: «l’uomo è
la misura di tutte le cose, di quelle che sono per il modo in cui sono, di
quelle che non sono per il modo in cui non sono» (DK B ;). Il senso di
questa enigmatica affermazione può forse venire così interpretato (anche
sulla base dell’analisi che Platone ne proponeva nel Teeteto): c’è un mondo
esterno, ma ogni soggetto è giudice inappellabile delle qualità delle cose
che ne fanno parte, secondo come a lui appaiono (dolci o amare, belle o
brutte, giuste o ingiuste); da lui dipende il giudizio se una cosa è X o
oppure non èXo Y. Si tratta, in altre parole, del principio dell’ermeneutica
contemporanea secondo il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni.
Da questo principio seguono alcune importanti conseguenze di ordine
epistemologico, e soprattutto etico-politico. Per quanto riguarda le pri
me, ogni affermazione, in quanto descrive una percezione o valutazione
soggettiva, è “vera”, poiché non si può porre la questione della verità del
discorso come sua corrispondenza allo stato delle cose. Sul piano etico
politico, I”uomo-misura” si trasforma in un’identità collettiva: abbiamo
allora un soggetto plurale, il “noi” della città o della sua maggioranza as
sembleare, come criterio definitivo dei valori pubblici. Perciò, « quello che
ogni città decide sia giusto e bello, tale in effetti è anche per essa, finché
lo consideri così (Theaet. 167c); e commentava Platone che le dottrine di
Protagora «per le cose giuste e ingiuste, morali e immorali, vogliono soste
nere che nessuna di esse possiede in realtà una propria essenza oggettiva,
ma che diventa vero ciò che è sancito dall’opinione collettiva allorché vie
ne opinato e per tutto il tempo in cui è opinato» (Theaet. i7zb). Protagora
non si fermava però a questo esito di relativismo estremo della verità e dei
valori; anche in lui, la dimensione pragmatica del linguaggio giocava un
ruolo centrale. Non è possibile discriminare le opinioni in “vere” o “false”,
bensì in “utili” e “dannose” per l’individuo e per la comunità, in ordine ai
loro interessi individuali e collettivi, ed è a questo miglioramento prag
matico, non veritativo, delle opinioni, che può mirare la convinzione del
retore sofista ( Theaet. 167a-c).
Nichilismo gorgiano e relativismo protagoreo delineavano così, per Pla
tone, una formidabile sfida intellettuale. Sul piano della conoscenza, essi
convergevano nel sostenere l’impossibilità di un sapere universalmente
e oggettivamente valido, capace di descrivere secondo verità lo stato del
mondo al di là delle credenze soggettive. Sul piano etico-politico, essi ab
bandonavano le norme di giustizia all’arbitrio delle decisioni conflittuali di
individui e gruppi, negando l’esistenza di criteri autonomi di riferimento
che consentissero di valutare la giustezza di queste decisioni. Nel libro i del
la Repubblica, Platone fa sostenere al sofista Trasimaco una tesi radicalmen
te relativistica: il “giusto” consiste nella conformità alla legge; ma la legge
è imposta da chi ha il potere per farlo, ed essa è perciò sempre strumentale
alla conservazione del potere; la giustizia, dunque, consiste nell’utile di chi
detiene la forza, e, viceversa, nell’oppressione dei sudditi (I 338c-339a).
Il lavoro filosofico di Platone consistette in buona parte nel tentativo
di rispondere a questa sfida, per ricostituire le condizioni della verita del
sapere e dell’oggettiviti dei criteri di giudizio etico-politico.
3
Per rispondere alla sfida sofistica occorreva secondo Platone in primo luo
go consolidare il linguaggio, ripristinando il suo riferimento alla realtà,
e con questo garantire le condizioni di possibilità del discorso vero, al di
là del fluttuare delle opinioni abbandonate agli effetti retorici della per
suasione. Come ha scritto Hannah Arendt, per Platone «la persuasione
non è l’opposto del dominio mediante la violenza, ma ne è solo un’altra
forma»; meglio allora sostituirla con quella che la stessa Arendt ha chia
mato «la tirannia del vero». Ma per questo era necessario niente meno
che costruire una nuova concezione della realtà, cioè una nuova ontologia,
antieraclitea (quindi fondata sulla stabilità dell’essere anziché sui flussi del
mutamento), e perciò — la decisiva connessione stabilita nel Teete
sia
256 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 257
to fra mobilismo eracliteo ed epistemologia di Protagora — antiprotagorea
e antirelativistica.
L’esigenza di consolidare il riferimento del linguaggio alla realtà, e
quindi di ripristinare una dimensione veritativa del linguaggio stesso,
è particolarmente acuta nel campo dei valori pubblici e privati, come il
bello, il buono, il giusto (dunque dell’etica e della politica), che era stato
il terreno di elezione del relativismo protagoreo. È il caso di leggere per
esteso a questo proposito un memorabile passo del Cratito (439c-440c):
SOCRATE Possiamo dire che sia qualcosa il bello considerato in se stesso; e così
il buono, e ogni singola cosa? O non possiamo?
CRATILO A me pare di sì, Socrate.
SOCRATE A questo dunque teniamo ben ferma la nostra attenzione; intendo
dire, non ad un volto o a qualcosa dcl genere, se ci appaiono belli, e se abbiamo
l’impressione che tutte queste cose trascorrano in un perenne fluire. Perché il bel
lo, diciamo, in sé, non è sempre tale quale è?
CRATILO Necessariamente.
SOCRATE Ma sarà mai possibile assegnargli un nome veramente giusto, se con
tinuamente ci si sottrae nel suo essere e nelle sue qualità? O non è invece neces
sario che, mentre ne stiamo parlando, esso divenga subito qualche altra cosa, e ci
sfugga, e non sia più quale era prima? [...1 Ma neppure potrebbe essere conosciuto
da nessuno. Non appena infatti ci avvicinassimo per conoscerlo, diventerebbe su
bito altro e diverso, né più lo potremmo conoscere, né per ciò che è, né quanto alle
modalità del suo essere. Nessuna conoscenza infatti conosce ciò che conosce, se
questo non è in alcun modo stabile nel suo essere. [... Ma neppure è possibile che
vi sia conoscenza, Cratilo, se tutto trapassa da uno stato all’altro e nulla permane
stabilmente t...] Se invece esiste ciò che conosce, esiste ciò che è conosciuto, esiste
il bello, esiste il buono, esiste ogni singolo ente in sé, allora mi pare che queste
cose di cui stiamo parlando non abbiano niente a che fare con il flusso o con il
movimento.
Se linguaggio e conoscenza devono essere Stabili e veritieri (dunque sal
vati dalle sabbie mobili di nichilismo e relativismo), occorre che esista un
riferimento reale altrettanto stabile e immutabile (cioè posto al riparo dal
mobilismo eracliteo). Scriveva infatti Platone nel Timeo (29b-c):
I discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò
che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e
solidi, e, nella misura in cui, per i discorsi, è possibile e conveniente essere incon
futabili e invincibili, di nulla devono mancare [...] L’essere è rispetto al divenire
nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza.
È precisamente su questo terreno problematico che nasce l’ontologia delle
idee, destinata ad assumere diverse configurazioni nei contesti dialogici
ma costante nell’intenzione di garantire al linguaggio e alla conoscenza
un riferimento oggettivo stabile e invariante. I predicati universali del tipo
“giusto”, “bello’ “grande”, o anche (sebbene questo sia un caso particolar
mente problematico), “uomo’ “cavallo” e così via, costituiscono nuclei di
signqicato unitari e invarianti che possono venire riferiti a una pluralità
mutevole e instabile di soggetti e di circostanze.
Se tuttavia il loro contenuto potesse variare a seconda delle opinioni
soggettive, non si sarebbe ancora superata, secondo Platone, la minaccia
del relativismo sofistico. Questi predicati devono dunque venire pensati
come descrizioni di un referente primario, che possiede in modo ogget
tivo, assoluto e invariante la proprietà che essi enunciano. La referenza di
“giusto” è un oggetto che Platone chiamava “il giusto in sé’ “la giustizia
stessa”, insomma l’idea (oforma) di giustizia che ha con le singole cose di
cui si può predicare la giustizia lo stesso rapporto che il triangolo ideale dei
matematici presenta con i singoli triangoli di volta in volta disegnati sulla
carta o realizzati con il legno.
Non c’è dubbio che l’ontologia di Platone, almeno nella sua forma
“classica” (tra fedone e Repubblica) — diverso può essere il caso della pro
spettiva “dinamica” delineata nel Sofista — un’ontologia a modello geo
metrico. Quale che sia lo statuto ontologico degli enti matematici (un
problema del resto che appartiene piuttosto alla scolastica platonica), essi
costituiscono l’esempio evidente di oggetti dotati delle proprietà dell’in
varianza, dell’autoidentità, della convertibilità fra nome e definizione,
proprietà che Platone traferisce alle idee come loro tratto distintivo. Esse
fanno degli enti matematici oggetti veri, quindi in grado di trasferire questa
caratteristica ai discorsi che li descrivono. Su questo aspetto, che a sua vol
ta viene trasferito alle idee, si fonda la stretta unità platonica fra ontologia
ed epistemologia, secondo il principio, stabilito nella Repubblica (477a),
della connessione inscindibile frapantetos on epantelòsgnoston.
Anche al livello del metodo, del resto, le potenzialità veritative dei pro
cedimenti delle matematiche forniscono senza dubbio un modello per
quelli dialettici. È vero che, secondo la ben nota critica del libro VI della
Repubblica, l’inferiorità epistemica delle matematiche rispetto alla dialetti
ca consiste nel loro assetto assiomatico-deduttivo, che richiede di assume
re per consenso convenzionale (homotogia) hypotheseis non ulteriormente
fondate e nel dedurne i teoremi conseguenti (ioc-d). La dialettica, al con-
ed
che,
158
IL POTERI DELLA VERITÀ
T
SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE
259
trario, dovrebbe partire da queste hypotheseis e risalire fino a un principio
non ipotetico, anhypotheton. Tuttavia, anche nell’ indagine dialettica un in
dicatore di verità è costituito dalla homotogia conseguita fra i partecipanti
al dialogo; e, come risulta dal fedone (iooa-b), le idee stesse possono venire
considerate come “ipotesi’ bensì difficilmente confutabili (dysexelenchota
toi, 89c-d) ma non del tutto an-ipotetiche. Homotogia e hypotheseis sembra
no dunque avvicinare le procedure dialettiche e matematiche più di quanto
Platone non sembri disposto a riconoscere in modo esplicito.
C’è poi un altro aspetto decisivo nel rapporto fra metodo matematico e
pensiero dialettico. 11 libro vii della Repubblica mostra chiaramente che il
processo astrattivo-idealizzante proposto dai saperi matematici costituisce
la condizione necessaria e sufficiente per l’accesso dialettico alla conoscen
za eidetico-noetica. Esso consente di superare il paradosso gnoseologico
della conoscenza di enti immateriali da parte di un soggetto incorporato,
paradosso che aveva suggerito il regresso anamnestico a una conoscenza
precorporea delle idee. La via matematica alle idee sembra invece costitui
re un’alternativa non mitologica alla reminiscenza, che potrebbe allora ve
nire considerata come la rappresentazione metaforica della comprensione
delle idee come a priori trascendentale di ogni conoscenza possibile.
4
Tutto questo aveva conseguenze decisive anche nell’ambito del governo
della vita pubblica e privata. Dall’ontologia delle idee conseguiva che i “va
lori” (il bene, il giusto, il bello) esistono in modo invariante e indipenden
te dalla mutevolezza delle opinioni, dall’arbitrio delle maggioranze, dal
potere della persuasione retorica. Essi sono l’oggetto di una conoscenza
vera — è proprio questa conoscenza a fondare la differenza tra i filosofi e
i sofisti “filo-dossi’ cioè legati al mondo dell’opinare (doxa).
Questa conoscenza valoriale garantisce la possibilità di pensare, parla
re e agire in vista di scopi universalmente validi, di ciò che è davvero bene
per l’insieme della comunità politica e della personalità individuale. L’e
sistenza di un ordine di valori ideali e la possibilità di una loro conoscenza
sono dunque per Platone la fonte di legittimazione dell’aspirazione dei
filosofi al regno, che viene formulata nella celebre “terza ondata” del li
bro v della Repubblica. Scriveva infatti Platone in questo grande dialogo
(vi 484c-d):
5
Dal momento che fliosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che
resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si
limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà
essere guida della città? [...J Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o
un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa [...J Ti sembra allora
che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della co
noscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e
non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero,
sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in
modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?
Con questa ultima mossa, Platone poteva celebrare la sua vittoria teorica sui
rivali sofisti
— come si diceva all’inizio, egli aveva in qualche modo inte
riorizzato, assorbito nel suo stesso pensiero, fino a farne una sorta di ossessio
ne filosofica e politica. Questa vittoria aveva comportato un complesso siste
ma fondazionale che andava dal linguaggio all’ontologia e all’epistemologia,
e da esse tornava all’uso pragmatico, etico e politico, del linguaggio stesso.
Come ha scritto Main Badiou, questo sistema teorico di protezione
dalla sfida sofistica aveva talvolta effetti “iperbolici’ che andavano persino
oltre lo spirito autentico del platonismo: in sé stesso una filosofia aperta,
critica, dialogica, insomma una filosofia socratica. il timore per il mobi
lismo eracliteo e il relativismo protagoreo rischiava invece di dare luogo
a risultati che potremmo definire di tipo “egizio” nella cultura e nella
politica, cioè a un desiderio di immobilità nelle forme della musica, del
teatro, della costituzione della città. Parallelamente, contro l’individua
lismo dell”uomo misura” si producevano in Platone forme eccessive di
organicismo sociale, di annullamento dell’individuo nella totalità comu
nitaria, come avrebbe denunciato Aristotele nel libro Il della Politica. Se vi
sono ombre di totalitarismo nella filosofia di Platone (e per scorgerle non
è necessario cadere nelle esagerazioni proprie di Karl Popper), risultano
anch’esse un effetto della sofistica, alla maniera delle reazioni immunitarie
il cui eccesso può risultare patologico.
Insomma, sconfiggere la sofistica presentava per la stessa filosofia di
Platone un prezzo molto elevato. Ma il senso, e la grandezza intellettuale,
di questa filosofia, stanno nella sua eccezionale capacità di configurare un
avversario di straordinaria levatura teorica, e di confrontarsi con esso in
260 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE
una discussione tenace e coraggiosa, nella quale noi possiamo riconoscere
l’atto di nascita della tradizione filosofica occidentale.
6
Del resto, il rischio di una reazione “iperbolica” alla sofistica è soltanto
sfiorato da Platone, che se ne tiene lontano per un aspetto essenziale. Cer
tamente, egli insiste sulla necessità, e la possibilità, di acquisire la verità,
come gli indicava il modello delle matematiche. Ma rispetto a questo
modello la sua filosofia presenta una differenza importante. La geometria
lavorava a costruire, fino al compimento con Euclide, un sistema teorema
tico, assiomatico-deduttivo, delle sue verità. E una tendenza a costruire
sistemi di tipo elementare-derivativo è certamente presente anche in Pla
tone: basti pensare alla cosmogonia del Timeo o alle dottrine non scritte
dei principi. Sembra però che la tendenza principale della filosofia plato
nica, come si esprime nei dialoghi, consista nel non chiudere mai il sistema
della verità: il suo sforzo consiste piuttosto nel delineare progetti e regimi
di verità, procedure per la costruzione di discorsi veri.
Questo vale anche per la Repubblica, dove pure la verità è considerata
come l’effetto della descrizione di “oggetti veri’ nell’enunciazione del logos
tes ousias degli enti noetici, in cui consiste il compito assegnato alla dialettica.
Della dialettica però Platone dice più “che cosa fa’ che non “che cosa sa”, la
descrive insomma più come una procedura che come un deposito di verità.
La prima designazione della dialettica è infatti quella di una tecnica, il
dialegesthai, dotata di una sua dynamis, una capacità efficace e in grado di
produrre effetti. C’è poi un’ulteriore e ribadita descrizione che presenta la
dialettica come un “cammino”, un “viaggio” (poreia: 53zb4), cioè un pro
cedimento di ricerca metodicamente organizzato (methodos: 533b3, c7).
La dialettica è presentata inoltre, in modo più forte, come una “scien
za” (episteme). Questo riconoscimento della scientificità del procedimen
to dialettico è formulato per la prima volta da Glaucone (iic), ma esso
viene in seguito confermato da qualche accenno socratico. Si tratta infatti
della capacità di «interrogare e rispondere nel modo più scientifico» (epi
stemonestata, 534d9 s.), che si vale della «incrollabile forza del discorso
razionale» (&7r-rcrtTc)6’yw, 534c3) e che perviene, al suo termine, a quella
“saldezza” (bebaiosetai, 533c7) che è appunto propria dei saperi scientifi
ci. Ma questo consolidamento non è definitivo, e deve venire ogni volta
riconquistato nella « battaglia » (mache, 534c) che il dialettico affronta
nel confronto delle reciproche confutazioni. Lo spazio della dialettica ne
risulta perciò radicalmente configurato come intersoggettivo: il dialettico
ha sempre di fronte a sé altri uomini, altre doxai, di fronte ai quali «dare
e ricevere ragione» (53xe4 5.: &f.vcd TE ICal & cwOct )àyo), e la sua
formazione deve mirare in primo luogo a fargli acquisire questa capacità.
E qui sta la radicale differenza tra dialettica e metodo delle matematiche,
che si configura piuttosto come un monologo teorematico. Il consolida
mento scientifico delle verità dialettiche (la conquista del logos tes ousias)
è possibile e necessario, ma non dà luogo a un sistema chiuso e stabile di
definizioni, piuttosto, come diceva il fedone, a “ipotesi difficilmente con
trovertibili” (è questo ad esempio il caso della definizione della giustizia
nel libro Iv della Repubblica, perfettamente valida nell’ambito politico,
ma che viene rimessa in discussione nel “percorso più lungo”, nzakrotera
periodos, del libro vi).
Nel Sofista la forma della verità non consiste più tanto nella produzio
ne del togos tes ousias di oggetti noetici “veri”, quanto nella costruzione di
enunciati che dicano “le cose che sono come sono’ cioè corrispondano allo
stato delle relazioni reali degli enti noetici tra loro o con gli oggetti empiri
ci. La verità si colloca dunque nell’unione di soggetto e predicato, quando
essa renda conto dell’oggettiva connessione fra i termini reali cui essi si ri
feriscono. La produzione di questo tipo di enunciati è consentita, almeno
a livello degli enti noetici, dalla procedura dicotomica, in grado di reperire
la trama di relazioni di comunicazione che connettono, o separano, i ge
neri ideali fra loro. In linea di principio, la procedura dicotomica sembre
rebbe rappresentare un programma di ricostruzione completa dell’intera
mappa delle relazioni fra generi, e perciò costituire un dispositivo in grado
di produrre tutti i discorsi veri riguardanti la realtà intellegibile.
Questo non è tuttavia il vero progetto della dicotomia così come Plato
ne lo costruisce nel Sofista.
La dicotomia non intende certamente generare un progetto di tasso
nomia universale, una sorta di atlante ontologico di tutta la realtà, come
sembra suggerire qualche sua interpretazione neoplatonica (ad esempio il
celebre “albero” di Porfirio). Questo intento è escluso per principio dall’im
possibilità di dividere il megiston genos dell”essere”, che non costituisce
un’idea-classe inclusiva di un insieme ordinato di enti, come è ad esempio
“animale’ bensì una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Se
l’essere fosse divisibile in specie, dovrebbero esserlo anche gli altri megista
e
epistemologicamente
che
z6z
IL POTERE DELLA VERITÀ
i
gene, come I’ “identico’ il “diverso”, il “movimento” o 1’ “immobilità”, il che
evidentemente è assurdo.
A ciò si aggiunge il divieto di dividere il campo dicotomico “di sinistra”,
che esclude in linea di principio la possibilità di saturare una tassonomia
dicotomica universale.
Ma va soprattutto sottolineato che il campo da dividere è assunto
per ipotesi — per effetto di una homologia fra gli interlocutori (cfr. ad es.
zzzb) — non costituisce il genere aristotelico esistente in natura. Si pensi
ad esempio all’ “arte di condurre animali al pascolo” del Politico, e soprat
tutto ai sei o sette ambiti generali in cui viene via via incluso il “sofista” nel
dialogo omonimo, da cui risultano per via dicotomica altrettante defini
zioni diverse. Il fatto che la validità dei risultati raggiunti dipenda dall’ac
cordo fra gli interlocutori, sia sul punto di partenza sia sull’esito del pro
cesso di divisione, sottolinea il carattere dialettico-dialogico, quindi non
sistematico-tassonomico, dell’intera procedura.
Per Platone la verità è necessaria, e possibile. Questa possibilità è fon
data sul presupposto di una affinità (syngeneia) tra l’anima e l’essere (co
munque poi questa affinità possa venire interpretata, ad esempio nel sen
so aristotelico della passività del nous di fronte ai noeta, oppure in quello
idealistico della produttività del conoscere). La verità può venire acquisita
sia mediante la descrizione di oggetti veri sia mediante la produzione di
enunciati corrispondenti alle relazioni oggettive che organizzano il mon
do. Nell’uno e nell’altro senso, possono venire costruite procedure razio
nali per l’acquisizione della verità, e grazie a esse il relativismo sofistico
può venire sconfitto. Ma né l’eredità di Socrate né la sfida dello stesso sofi
sta possono venire davvero del tutto rimossi.
Si possono costruire progetti e regimi di verità, in grado di dare rispo
ste oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e della praxis eticopolitica.
Il modo in cui queste risposte vengono generate produce segmenti
parziali di verità — ed eticamente decisivi — han
no un orizzonte intenzionale di integrazione conoscitiva. Questo orizzon
te non sembra saturabile — in modo da pervenire a un sistema di verità
chiuso e definitivo — appunto in ragione della natura locale e parziale dei
progetti di verità via via perseguiti, che non si configurano come un pro
cedimento derivativo e teorematico. Se è necessario superare, insieme con
il relativismo sofistico, anche il non sapere socratico, resta il terreno dialet
tico e intersoggettivo in cui si formano e si compiono i progetti di verità.
Confutare Protagora non comporta dunque per Platone precorrere Proclo.
Il
Immortalità personale senza anima immortale:
Diotima e Aristotele*
I
Diotima’ sostiene con molta chiarezza la tesi che il desiderio di possedere
«ciò che è buono» (tagatha) è motivato dall’altro e dominante deside
rio di «essere felici» (tcLt[.u.w urct, 2o4e6 ss.). Eros è dunque rivolto a
«possedere il bene per sempre» (zo6a8-9), e con esso, s’intende, la felici
tà che ne consegue. Questa aspirazione a un possesso perpetuo di bene e
di felicità dà necessariamente luogo a un desiderio erotico di immortalità
(&Gco(c à ctoì tGu.tt!v, 2o6e9 s.)’.
Diotima indica tre percorsi che possono venire seguiti in vista della
soddisfazione di questo desiderio di immortalità.
1.1
La prima via verso l’immortalità riguarda ogni vivente mortale, uomo
o animale che sia (zo7b), e consiste nella procreazione biologica di un
individuo simile al genitore, poiché «in ogni vivente che è mortale vi
è qualcosa di immortale», la gravidanza e la generazione (zo6c6-8):
«la procreazione è ciò che di eterno e immortale spetta a un mortale»
(zo6e8)4.
Infatti, conclude su questo punto Diotima, «la natura mortale cerca
per quanto le è possibile [kata to dynaton] di essere sempre e di essere im
mortale. Ma può farlo solo in questo modo, attraverso la procreazione»
(zo7dx-3).
Questo capitolo è già stato pubblicato in The International Plato Society, x Sympo
sium Platonicum, The Symposium, Proceedings i, Pisa i5th-zoth July zo13, Dipartimento
di Filologia, Letteratura e Linguistica, Università di Pisa, Pisa 1013.
di
a
264
IL POTERE DELLA VERITÀ
IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE
z6
Si tratta in particolare della via seguita da quegli uomini che sono
«gravidi secondo il corpo»: essi si rivolgono alla riproduzione sessuale
«procurandosi attraverso la procreazione di figli immortalità e ricordo e
felicità [&8cnco(wv KcCI n’nyv Kì r q.tov(co] [...] per tutto il tempo a
venire» (zo8e).
1.2
Accanto alla via biologica verso l’immortalità, Diotima ne riconosce al
tre due, queste specificamente umane, che potremmo definire di tipo
“culturale”.
La prima di esse riguarda un tipo d’uomo il cui profilo antropologico è
diverso da quello dedito alla riproduzione biologica. È l’uomo ambizioso,
motivato dalla philotimia, il cui desiderio di immortalità prende la for
ma dell’aspirazione
—
chiara memoria omerica6 —
un kteos athanaton
(1o8c5 s.), che assicuri «l’immortale memoria» delle loro gesta e della
loro areté: «è per una virtù immortale e una fama gloriosa che tutti fanno
tutto, e tanto più quanto migliori essi siano: infatti amano l’immortale»
(1o8d5-ez).
È nell’ambito di questo tipo antropologico che la tensione verso un’im
mortalità culturale si sviluppa, dopo la primitiva ricerca del kteos eroico
dell’epica, in direzione di un lascito eterno di opere memorabili, tanto
nell’ambito della creazione poetica quanto in quello della storia politica.
La vecchia areté eroica lascia ora il passo a un nuovo quadro di virtù che si
inscrivono nello spazio dell’intelligenza, laphronesis (p6vo&v TE ccd rp
&)yv &pEr]v, 2o9a4): quelle virtù, sophrosyne e dikaiosyne, che per Plato
ne sono essenzialmente “politiche” (cfr. Resp. IV 43odi), e che Aristotele
avrebbe preferito chiamare “etiche” Gli eroi eponimi di queste nuove virtù
sono ora i poeti e gli artisti “creativi”, come Omero ed Esiodo, ma ancor
di più coloro che si distinguono nel garantire il buon ordine (diakosmesis)
delle case e delle città, come i protolegislatori Licurgo e Solone. È grazie
alle loro opere nel dominio della cultura e della politica che essi acquista
no, come i vecchi eroi, fama (kleos) e memoria immortali (zo9d)8.
Fin qui, secondo Diotima, il giovane Socrate è in grado di seguire il
percorso dell’iniziazione erotica. La sacerdotessa dubita però che egli sia
in grado di seguirla oltre la soglia dei cosiddetti misteri maggiori, che apre
la via all’iniziazione epoptica, nonostante che si dichiari disposta a dedi
care al discepolo tutto il suo impegno (oic oi’€ oi6 T&v E’ [...] yc
iccì 7rpo6v.LCa oàv &‘it6XEtc,J, zIoaz-4). Torneremo più avanti sul senso
di questa presunta incapacità di Socrate di seguire Diotima nel percor
so iniziatico. Si tratta ora invece di vedere che cosa sta oltre la soglia dei
“grandi misteri’ È certo comunque che a superarla non potrà essere il tipo
antropologico dell’uomo “fi1otimico’ ma una figura umana diversa: evi
dentemente, è il caso di anticipare, quella del filosofo.
1.3
La terza via verso l’immortalità è anch’essa, come la seconda, di ambito
culturale e non biologico, ma sia il suo approccio sia il suo esito sono di
qualità intellettuale del tutto superiore a quelli della via “filotimica Chi
dunque procede correttamente (orthos) per questa via passerà dall’eros ri
volto alla bellezza di un corpo a quello per tutti i corpi che partecipano del
tratto della bellezza, poi a quello rivolto alla superiore bellezza delle ani
me e dei loro prodotti: comportamenti (epitedeumata), leggi, conoscenze
(episternai) (zioa-c). Questo eros riorientato lo metterà di fronte allo spet
tacolo del «vasto mare del bello», la cui contemplazione gli ispirerà la ge
nerazione di «discorsi [logoi] belli e magnifici», nonché di nobili pensieri
(dianoemata) filosofici, il cui orizzonte è la conoscenza unitaria e per così
dire intensiva (mia episteme) del bello (ziod).
A questo punto, giunto ormai al tetos della contemplazione delle cose
belle, l’iniziato perverrà alla visione istantanea ((v 1cwr6fETctt) del
«bello per natura» (lIoe4-6). Tutto ciò suscita naturalmente parecchie
domande, ma importa qui in primo luogo vedere le conseguenze di que
sta visione del bello in sé. Ch la consegue genera non più simulacri di
areté — tali vanno ormai evidentemente considerate tanto le virtù “eroi
che” quanto quelle etico-politiche — ma la «virtù vera» (21224-6), la
cui natura deve essere dunque considerata soltanto contemplativa. A ch
l’ha conseguita spetta di diventare theophites, evidentemente nel doppio
senso di colui che è “caro agli dei” e che è a loro devoto. Certo anche
a questo tipo di uomo toccherebbe di diventare immortale, athanatos,
se mai ciò potesse accadere a un uomo, e nella misura in cui questo per
un uomo è possibile (21za7-8). Questa è la terza e più elevata forma di
immortalità perseguibile dagli uomini, dopo quella biologica e quella
poetica e politica.
z66
IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE
267
1.4
Tutto questo, si diceva, suscita molte domande. Che cosa esattamente co
nosce l’iniziato quando “vede” il bello? Che forma epistemica assume que
sta conoscenza? Perché essa dovrebbe risultare quasi inaccessibile al So
crate allievo di Diotima? C’è continuità o discontinuità fra i diversi passi
verso l’immortalità, e i tipi d’uomo che a essi corrispondono? Che cosa
accade all’iniziato dopo la visione del bello? Infine quella che è per noi la
domanda più importante: di che tipo è l’immortalità acquisita grazie alla
conoscenza del bello?
‘.4.’
il linguaggio con cui Platone descrive il “bello” oggetto della visione epopti
canon lascia dubbi: si tratta dell’idea o forma del bello, cui vengono riferiti
i tratti ricorrenti in quella che si può definire la teoria standard delle idee’°.
È sufficiente leggerne due passi confrontandoli rispettivamente con quelli
paralleli in Repubblica e fedane. Il bello del Simposio « sempre è e non nasce
né muore, non cresce né diminuisce, [...] non è in parte bello e in parte
brutto, né a volte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto ri
spetto a un’altra » (z,Ia,-4). E si veda Repubblica, dove si polemizza contro
il filodosso che «non ritiene esservi il bello in sé né alcuna idea della bellez
za in sé che permanga sempre invariante nella sua identità», e gli si obietta
che delle molteplici cose belle «non ve n’è una che non possa apparire an
che brutta [...], e che le stesse cose appaiono, da diversi punti di vista, ora
belle ora brutte», a differenza dell’identità invariante dell’idea (v 479a1-8).
Ancora, il bello del Simposio si trova « esso stesso tctà iccO ‘T6] in se stes
so, con se stesso, in un’unica forma [monoeides] , eterno, mentre tutte le altre
cose belle partecipano [metechonta] di esso» (z,ibi-3). Il confronto qui è
con il fedone, dove dell’ «uguale in sé, del bello in sé, e di ciascuna cosa che
è in sé» si dice che «ciascuna di queste cose che sono, essendo uniformi
[monoeides] in sé e per sé [a&rò icaO ‘ct6] e nella medesima condizione, in
nessun momento, in nessun luogo ammette alcun mutamento» (78d3-$).
Non c’è dubbio, quindi, che l’oggetto della visione iniziatica possa de
finirsi tecnicamente come l’idea del bello. Il fatto che il contatto con essa
(designato con il verbo haptesthai) rappresenti il culmine e il compimento
del percorso erotico (tetos, zIoe4) può suggerire un’analogia, almeno di
posizione, con l’idea del buono nella Repubblica, collocata anch’esso al
culmine (telos) del mondo ideale, e oggetto di un’apprensione noetica (VII
53zbi s.), che può a sua volta venire indicata con il verbo haptesthai (vi
5xIb6). Ma si tratta di un’analogia che è appunto solo di posizione, per
ché mentre nella Repubblica il primato del buono rispetto alle altre idee è
argomentato con forza, nel Simposio il bello appare come tetos nel quadro
dominante della sublimazione erotica, né è mai in questione il suo rappor
to con le altre forme del dominio eidetico.
1.4.2
Pochi dubbi possono esservi anche circa il modo di apprensione dell’i
dea del bello nel Simposio. 11 linguaggio platonico rinvia inequivocabil
mente all’immediatezza dell’atto intuitivo, che si configura come visio
ne o contatto (exarphnes, kathoran, haptesthai: zioe, z,,b8). Si aggiunge
esplicitamente che in questo atto l’apparizione del bello non prende la
forma né di un logos né di una episteme (zi;a8), è dunque estranea rispet
to all’ambito della conoscenza linguistico-proposizionale”. È persuasivo
il confronto con l’approccio della dialettica all’idea del buono nella Re
pubblica. Benché anche qui non siano assenti accenni a una conoscenza
di tipo intuitivo, l’accento cade sulla definizione discorsiva (top(oOcu
-rc)6yc), sull’etenchos (vii 534b8-c,), sul logos tes ousias, sul logon didonai
(VII 534b3-5). Confesso di non trovare appassionante la discussione in
torno al carattere irrazionale, mistico, oppure razionale e addirittura iper
razionale” di atti conoscitivi extralinguistici. Linguistico/proposizionale
e razionale non sono evidentemente termini sovrapponibili e convertibili,
e la storia dell’idea di Wesenschau nella filosofia del Novecento è lì a dimo
strarlo. Più interessante è la questione, sollevata da Fronterotta’3, se l’atto
di conoscenza intuitiva individualmente sperimentato sia linguisticamen
te trasponibile, comunicabile e universalizzabile: a me pare che, a differen
za della Repubblica, la questione non sia tematizzata nel Simposio e debba
quindi essere lasciata aperta, anche se una risposta positiva potrebbe, con
molta incertezza, venire suggerita dal rapporto maestro-discepolo che reg
ge l’intero percorso iniziatico.
Va piuttosto notato che la piena visione dell’idea del bello è perfet
tamente accessibile in questa vita, e non richiede — a differenza che nel
Fedone — alcuna separazione dell’anima dal corpo, anzi è possibile solo
al termine di un processo di sublimazione nel quale l’attrazione verso la
bellezza corporea è il punto di partenza imprescindibile. Ma su questo do
vremo tornare da un diverso punto di vista.
anche
non
chiede
appunto
che
z68 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 169
‘.4.3
Che cosa significa dunque l’incapacità di seguirla nel viaggio iniziatico che
Diotima attribuisce a Socrate? In essa si è potuto leggere il segno della insu
perabile minorità del filosofo, costretto, almeno in questa vita, ad amare la
sapienza senza poterla conseguire, e dunque confinato nella zona epistemica
dell’ “opinione vera Questa interpretazione sembra tuttavia smentita da un
passo molto simile della Repubblica, dove è però Socrate, una volta giun
to sulla soglia della piena comprensione della dialettica e del suo oggetto
terminale, l’idea del buono, ad attribuire a Glaucone un’analoga incapacità
di procedere oltre’. Socrate usa qui quasi le stesse parole che Diotima gli
aveva indirizzato nel Simposio: «mio caro Glaucone, non sarai più in grado
[oiucé-rt (...) oi6 -r’io-] di seguirmi, per quanto io non trascurerà certo ogni
sforzo Lprothymia] » (VII 533I s.). Il cambio di posizione fra Socrate e Dio
tima può allora far pensare che l’incapacità di Socrate nel Simposio sia dovu
ta alla sua giovinezza’5, superata nella Repubblica quando un Socrate maturo
avrebbe ormai assunto l’atteggiamento del maestro. Anche questa ipotesi
sembra tuttavia messa in dubbio da un confronto con il Parmenide. Qui
il vecchio maestro eleate riconosce come propria del giovanissimo Socrate
una procedura filosofica consistente nel riconoscere tratti comuni a diversi
enti (è il primo passo nella costruzione della teoria delle idee, cioè il ricono
scimento dell’unità oltre la molteplicità, dello ben epipottois, da cui inizia
anche l’ascesa del Simposio, zlob3 s.), e nel separare (choris) questi tratti da
gli enti che ne partecipano, facendone così eide esistenti in sé stessi: «questo
ragionamento vale anche per realtà quali la forma in sé e per sé [rIo c&rà
icO ‘cir6] del giusto, del bello, del buono» (i3obz-9, cfr. 13oe5-131a1).
Quello insomma che il giovanissimo Socrate fa secondo Parmenide è
la costruzione di una forma standard della teoria delle idee mediante una
semplice procedura logico-ontologica che non richiede né iparaphernatia
dell’iniziazione ai misteri erotici propri del Simposio’6, né alcuna visione
oltreterrena delle idee.
Non sembra dunque che la ragione della difficoltà attribuita da Diotima a
Socrate consista nell’aspetto cognitivo dell’accesso all’idea del bello. Ciò che
viene in questo modo enfatizzato e solennizzato è la difficoltà di una scelta
di vita più che di un orientamento epistemico: la scelta di vita che condurrà
a una forma di immortalizzazione individuale diversa sia da quella biologica
sia da quella politica e poetica, e che dunque richiede una piena maturità
morale oltre che intellettuale da parte di chi si avvia in quella direzione.
‘.4.4
Sembra di poter escludere che vi sia una continuità fra i diversi percor
si verso l’immortalità, e che essi possano venir disposti in una sequenza
progressiva’7: quello erotico-filosofico va intrapreso «fin da giovane»
(zioa6), e a esso corrisponde un tipo d’uomo — il filosofo — an
tropologicamente diverso sia da quello dedito alla procreazione biologica
sia dal phitotimos. La scelta del filosofo comporta una forma di vita che gli
è peculiare: «questa è la dimensione della vita che, se mai altra, un uomo
deve vivere [biòton]: contemplando il bello in sé» (z;idi-3).
Il Simposio — a differenza dalla Repubblica — sembra prevedere alcu
na discesa del filosofo una volta raggiunto lo stadio contemplativo’8. È vero
che giunto alla visione del bello, e al tipo di vita che le consegue, il filosofo
ha ancora un’attività generativa, consistente nel «partorire non simulacri
[eidola] di virtù, ma virtù vera, visto che afferra il vero» (z;1a4-6). Questa
areté, proprio in quanto è “vera”, sarà perciò diversa dalle virtù poetiche e
politiche: se possiamo anticipare un linguaggio aristotelico, essa sarà una
virtù dianoetica e non etica, che configura una forma di vita dedicata alla
verità e non alla politica o alla creazione poetica.
B1ondell’ ritiene inevitabile una discesa: «poiché il filosofo non può
esistere permanentemente nella contemplazione delle forme», «il Socra
te temporaneamente solipsistico tornerà presto fra i suoi compagni mor
tali». Questo può essere certamente vero per il filosofo della Repubblica, e
forse anche per il nostro senso comune. Ma è meno vero per la figura del fi
losofo che Platone delinea nel celebre excursus del Teeteto, con la sua esclu
siva dedizione alla pura teoresi (i73d-i75b), per non parlare dell’ascesi del
fedonebo. Del resto, non c’è nulla di impensabile in una vita interamente
dedicata alla comprensione delle strutture del mondo noetico, se si pensa
a esercizi teorici come quelli programmati nel Sofista e nel Parmenide. Che
il bios theoretikos possa costituire una forma di vita pervasiva, lo avrebbe in
dicato con chiarezza Aristotele — se certamente in lui l’oggetto della
contemplazione risulta assai dilatato rispetto a quello platonico.
1.4.5
Queste considerazioni rendono più agevole la risposta alla domanda per
noi più importante, circa il tipo di immortalità personale che consegue
alla visione dell’idea del bello (e per estensione, è lecito supporre, del mon
do delle forme nel suo insieme). «Non trovi — Diotima — a chi
non
270 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 271
partorisce e alleva virtù vera spetta di diventare caro agli dèi [theophites], e
se mai a un uomo toccasse di diventare immortale, dovrebbe toccare anche
a lui?» (112a7 s.). Il senso di questo passo, in cui Platone indica la terza e
più elevata via verso l’immortalità personale, viene chiarito dal confronto
con un più esplicito testo parallelo del Timeo, il cui linguaggio presenta
forti affinità con quello del Simposio:
colui il quale si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto
questa parte di sé ha esercitato, è assotutamente necessario che, quando attinge
alla verità [à)ìiOrtc i4à7rT1rct1, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella
misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’ immortalità, non ne
trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice (9ob6-c6, trad. Fronterotta
leggermente modificata).
il passo del Timeo conferma ciò che risulta già con molta chiarezza nel Sim
posio. Per individui mortali, l’immortalità personale ottenuta mediante l’ac
quisizione, il consolidamento, la trasmissione educativa della conoscenza — al
pari di quella perseguita mediante la prole o la memoria — richiede e non
presume l’immortalità dell’anima individuale. Come ha scritto Casertano,
« ogni singolo uomo è mortale, in suo corpo e sua anima, ma ha la possibili
tà, nella sua vita mortale, di attingere una forma di immortalità, che consiste
precisamente nell’innalzarsi al mondo immortale della conoscenza»21.
Il senso dell’assenza nel Simposio di una teoria dell’immortalità dell’a
nima individuale, in rapporto all’insieme del pensiero platonico, andrà
discusso più avanti.
È ora il caso di considerare una posterità importante, e in qualche mi
sura sorprendente, delle tesi sull’immortalità insegnate da Diotima; reci
procamente, questa posterità servirà a comprendere meglio il senso e la
portata delle osservazioni che abbiamo svolto fin qui.
2.
1.1
C’è una straordinaria somiglianza fra la via riproduttiva all’immortalità in
dicata da Diotima e il modo in cui Aristotele spiega la finalità della riprodu
zione biologica tanto nel De anima quanto nel Degeneratione animatium:
La funzione più naturale [physikòtaton] degli esseri viventi [...] è di produrre un
altro individuo simile a sé: l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per
partecipare [metecho’sin], nella misura del possibile, dell’eterno e del divino. In
effetti è a questo che tutti gli esseri tendono [oregetai] [...] Poiché dunque questi
esseri non possono partecipare con continuità dell’eterno e del divino, in quanto
nessun essere corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di numero,
ciascuno ne partecipa per quanto gli è possibile, chi più e ch meno, e sopravvive
non in se stesso, ma in un individuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella
specie [eidei]» (De an. ii 4 415a25-b7, trad. Movia).
Più brevemente ribadiva Aristotele nel Degeneratione: «poiché non è pos
sibile che la natura del genere degli animali sia eterna, ciò che nasce è eter
no nel modo che gli è dato. Individualmente gli è dunque impossibile [...]
secondo la specie gli è invece possibile. Perciò vi è sempre un genere di uo
mini, di animali e dipiante» (Degen. anim. Il i 731b31-731a1, trad. Lanza).
Aristotele non fa così che generalizzare, estendendola all’intero mondo
vivente, dagli uomini alle piante, la tesi di Diotima sull’immortalità ripro
duttiva. L’estensione comporta però due conseguenze. La prima è una certa
de-psicologizzazione del discorso di Diotima, che sostituisce l’eros con una
pulsione “naturalissima”; resta vero anche per Aristotele che l’aspirazione
(orexis) verso l’eternità divina costituisce una sorta di programma genetico
del vivente, che può però agire in modo del tutto inconsapevole. La secon
da conseguenza è che la scena dell’immortalizzazione riproduttiva si sposta
decisamente dagli individui alla specie, che ne è l’unico ambito possibile.
Aristotele non riprende in modo esplicito la seconda via verso l’immortalità
personale, quella perseguita dal tipo d’uomo “filotimico’ Non c’è dubbio
però che egli delinei questa forma di vita e la sua connessione con la virtù e la
felicità, anche se non direttamente con l’immortalità mediante la memoria.
Si tratta dell’ambito delle virtù che Aristotele chiama etiche, distinguendolo
da quelle “teoriche” definite, com’è noto, “dianoetiche” Le virtù etiche non
sono le prime anche se godono di una loro eccellenza: «L’agire politico e le
azioni di guerra eccellono tra le azioni secondo virtù»; ne derivano «potere
e onori [timas] , e comunque la felicità [eudaimonia] per se stesso e per i pro
pri concittadini» (EE X 7, ii77bi3-i7, trad. Natali modificata). Tuttavia la
felicità conseguente a questa forma di virtù è imperfetta e di secondo rango,
272 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE
perché condizionata da circostanze esterne e indipendenti dall’individuo
agente, al quale viene richiesto un impegno oneroso e dall’esito incerto.
2.3
Inequivocabile invece la ripresa aristotelica della terza via verso l’immor
talità personale, quella filosofica: essa è manifestata in un passo dell’Etica
Nicomachea dal forte rilievo retorico, centrato sul verbo athanatizein, un
hapax nel corpo aristotelico. Nel celebre capitolo del libro x’4, Ari
stotele decreta il primato della vita teoretica, in quanto attività secondo
la migliore virtù umana, quella esercitata dal nous nella conoscenza delle
cose «belle e divine», da cui consegue la sua capacità di pervenire alla
«felicità perfetta» (teleia eudamonia) (;177a;z-;7). Questa vita consi
ste nell’attività dell’elemento divino inerente alla vita umana, appunto il
pensiero. Per questo, aggiunge Aristotele, «non si deve, essendo uomini,
limitarsi a pensare a cose umane, né essendo mortali pensare solo a cose
mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali fin
quanto è possibile [c’ 6oov rrai ctOwvar(Erv] e fare di tutto per vi
vere secondo la parte migliore che è in noi. Anche se è di peso [onchos]
minuscolo, per potere e per onore essa supera di gran lunga tutto il resto »
(1177b31-117$aI). La più alta forma di immortalità personale possibile per
l’essere umano mortale, la virtù più vera, la perfetta felicità: riecheggiano
con molta forza, in questo passo aristotelico, i tratti decisivi riconosciuti
da Diotima alla contemplazione filosofica dell’idea del bello — certo estesa
da Aristotele a tutto il campo dei possibili oggetti del pensiero speculativo.
Sembra dunque certo che Aristotele abbia trovato nel Simposio elemen
ti decisivi per pensare la questione del desiderio di immortalità individuale
da parte di viventi mortali, e dei diversi livelli ai quali questo desiderio può
venire soddisfatto: dall’eternazione riproduttiva fino all’assimilazione
parziale con l’immortalità divina consentito dalla forma di vita teoretica.
2.4
L’elaborazione e l’espansione aristotelica delle prospettive indicate da
Diotima forniscono dal canto loro preziosi chiarimenti che possono veni
re impiegati retroattivamente per l’interpretazione dei problemi cruciali
sollevati da quelle prospettive.
In primo luogo. Considerata dal punto di vista aristotelico, la questio
ne se il percorso “politico” e quello speculativo verso l’immortalizzazio
ne personale vadano considerati come posti in sequenza o piuttosto in
alternativa può venire chiaramente risolta nel secondo senso. La forma
di vita politica e quella teoretica sono nettamente distinte e contrappo
ste da Aristotele’; a esse corrispondono tipi d’uomo diversi, e diverse
virtù gerarchicamente distinte (quella dianoetica e quelle etiche, anche
se naturalmente l’esercizio della virtù maggiore non esclude il possesso
di quelle etiche, richieste dall’interazione quotidiana fra gli uomini)26.
Aristotele considera l’attività politica come un impedimento e un impac
cio per quella speculativa, cui va dedicata per quanto è possibile la vita
intera — anche se essa concerne un’esigua minoranza di uomini, come
del resto presumibilmente accadeva per la perfetta iniziazione erotica del
Simposio.
Questa opposizione tra virtù, forme di vita e tipi umani contiene in sé
anche la risposta che il punto di vista aristotelico offre al secondo quesito
suscitato dal Simposio, circa l’eventuale “discesa” nelle occupazioni uma
ne dopo l’evento della contemplazione dell’idea del bello. Come si era
anticipato, questa risposta non può che essere negativa. A differenza del
ritorno nella caverna dei filosofi della Repubblica, il filosofo aristotelico
rifiuterà il coinvolgimento politico, decidendo di «vivere da straniero»
nella città (Poi. VII a 1324116). La stessa permanenza perpetua nella sfera
dell’attività teoretica sarà dunque da attribuire al filosofo contemplatore
del Simposio.
Ma veniamo alla terza e più importante questione. L’idea di un acces
so biologico all’eternità della specie, e di una conquista culturale dell’im
mortalità personale che non comporta e non richiede alcuna concezione
dell’immortalità dell’anima individuale, si accorda perfettamente con la
psicologia e l’etica perfettamente “mondane” di Aristotele. Reciproca
mente, il fatto che egli possa accogliere senza riserve queste prospettive
sull’immortalizzazione formulate nel Simposio significa che nella lettu
ra aristotelica esse non comportavano alcun impegno nei riguardi delle
convinzioni altrove formulate da Platone circa l’immortalità dell’anima
individuale, convinzioni che Aristotele non avrebbe potuto affatto con
dividere. Aristotele conferma dunque l’assenza nel Simposio di ogni rife
rimento a questo complesso di dottrine e delle loro ricadute sia morali sia
gnoseologiche.
possano
del
‘74 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 175
3
Un’assenza, questa, che non può venire spiegata con ipotesi di tipo evolu
tivo, vista la prossimità del Simposio a dialoghi, come il fedone e il fedro,
dove il pensiero dell’immortalità dell’anima gioca un ruolo centrale. Sem
bra anche piuttosto arbitrario pensare a uno «scetticismo temporaneo»
di Platone intorno a questa convinzione, come ha fatto HackfortW. Ma
neppure sembrano accettabili “spiegazioni” (nel senso inglese di exptain
away) che implicano unapetitioprinciii, di questo tipo: Platone ha sempre
sostenuto la teoria dell’immortalità dell’anima; dunque essa non può risul
tare assente nel Simposio, anche se il testo sembra confermarl&8.
In realtà, anche l’eclissi dell’immortalità dell’anima individuale deve
a mio avviso venire interpretata secondo il criterio prudente e plausibile
formulato da Thomas Robinson:
Il rifiuto manifesto, da parte di Platone, di ridurre a una sembianza d’ordine artifi
ciale una serie di concezioni dell’anima che, intrinsecamente, sono probabilmente
inconciliabili [...J va compreso come un segno della sua potenza filosofica [...] Esso
può venire attribuito a una sua ferma decisione di lasciare una pluralità di opzioni
aperte in caso di dubbio, decisione di un uomo che lungo tutta la sua vita, e fino
alla fine, ha scelto di esprimersi sempre, su ogni argomento, nella forma di un
dialogo aperto e non in quella di un trattato dogmatic&9.
È del resto ben noto quanto sia problematica e tormentata in Platone la
questione dell’immortalità dell’anima individuale, in ragione delle stesse
esigenze cui essa è chiamata a rispondere. C’è da un lato la necessità di
ordine morale di incentivare la condotta giusta in questa vita mediante
un dispositivo di premi e punizioni previsti per l’anima nell’aldilà, che
possono risarcire il giusto per le sue sofferenze mondane e sanzionare
l’ingiusto per le sue prevaricazioni30, dispositivo ampiamente descrit
to nei miti escatologici del Gorgia e del libro x della Repubblica’. C’è
dall’altro lato l’esigenza gnoseologica di spiegare la possibilità di cono
scenza di enti incorporei come le idee da parte di un’anima vincolata agli
organi di senso: essa può essere più facilmente pensata come un contatto
prenatale fra le idee e un’anima non ancora incorporata, secondo la tesi
del Fedone3z.
Le due esigenze tuttavia confliggono su un punto decisivo, che resta
irrisolto in Platone. Una qualche forma di ricordo dell’esperienza conoscitiva
prenatale deve essere conservato nella vita corporea, perché su di
esso si fonda la via anamnestica per il riconoscimento delle idee anche
in questa vita. Al contrario, l’istanza etica esige la cancellazione di ogni
ricordo delle esperienze prenatali, come indica il mito di Er, perché altri
menti non si avrebbero più in questa vita decisioni morali responsabili,
bensì un semplice calcolo di costi e benefici, in base al quale la condotta
giusta verrebbe presumibilmente scelta in vista dei premi decuplicati con
cui essa è remunerata nell’aldilà, e viceversa sarebbe evitata la condotta
ingiusta per timore delle analoghe punizioni. La memoria, necessaria per
la conoscenza delle idee, renderebbe dunque impossibile la scelta morale.
Una contraddizione questa che Platone non risolve e neppure tematizza,
lasciando che i due tipi di discorso si svolgano su piani diversi e non co
municanti.
Considerazioni simili si possono svolgere intorno alla questione
dell’immortalità dell’anima nella sua singolare individualità. L’esigenza
di ordine morale richiede che la vicenda oltreterrena dell’anima la riguardi
nella sua interezza personale (si parlerà dunque dell’anima di Achille o di
Socrate): premi e punizioni non possono che riguardare tutta l’anima che
porta meriti e colpe della vita dell’individuo clii è appartenuta. Ma d’altro
canto è difficile pensare che le parti dell’anima più strettamente legate alla
corporeità, come lo thymoeides e l’epithymetikon — resto esplicitamente
designate come “mortali” nel Timeo — godere della stessa immor
talità che spetta all’elemento divino che è in noi, cioè il principio razionale
che è tuttavia per sua natura impersonale.
Anche questi problemi non trovano in Platone soluzioni univoche, né
vengono esplicitamente tematizzati.
Se si tiene conto di questo quadro complesso e frastagliato, si può dun
que accettare senza eccessiva sorpresa che il Simposio non prenda affatto
in considerazione l’immortalità dell’anima, e proponga di pensare una via
all’ immortalizzazione personale che ne prescinde completamente: questo
va considerato come uno dei molti esperimenti intellettuali di Platone, la
cui importanza è eccezionalmente confermata dalla sua attenta rivisitazio
ne da parte di Aristotele.
È però il caso di mettere in rilievo una conseguenza importante di que
sto esperimento, alla quale non sempre si è dedicata una sufficiente atten
zione: si tratta della rinuncia alla funzione gnoseologica (oltre che a quella
morale) attribuita all’immortalità dell’anima.
che
dai
176 IL POTERI DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 277
4
Fare a meno dell’ immortalità dell’anima significa nel Simposio rinun
ciare alla reminiscenza (anamnesis) come modalità di recupero di una
conoscenza del mondo eidetico ottenuta dall’anima nella sua vita extra
corporea35. L’accesso all’idea del bello in questo dialogo avviene grazie a
un percorso di sublimazione della pulsione erotica che non richiede
fatto la separazione dell’anima dal corpo, anzi ha nel corpo — come sog
getto e oggetto del desiderio di bellezza — il suo imprescindibile punto di
partenza, e l’indispensabile riserva di energie psichiche da investire nella
conversione verso l’idea. Non c’è dubbio, dunque, che secondo il Simposio
una conoscenza delle idee (che qui sembra di tipo prevalentemente
itivo) è possibile anche senza il ricorso all’immortalità dell’anima e alla
relativa reminiscenza.
È indubbiamente vero che in molti dialoghi — dal Fedone6 al Menone37,
per certi aspetti al Fedro — la compiuta visione del mondo eidetico
è fatta dipendere da un’esperienza cognitiva possibile solo per l’anima
disincarnata, che ne conserva una qualche memoria anche dopo la rein
carnazione.
È altrettanto vero, però, che in altri dialoghi non meno importanti,
oltre che nello stesso Simposio, la conoscenza delle idee risulta possibile
anche senza reminiscenza.
Nel Parmenide, il giovane Socrate sembra impiegare con una certa
disinvoltura il metodo — Aristotele avrebbe chiamato ekthesis — con
sistente nell’isolare un tratto predicativo comune a più realtà empiriche
facendone un’entità noetica “separata” e invariante, insomma un’idea. Un
metodo di trattazione delle idee, naturalmente, che non ha nulla a che fare
con l’immortalità e con la reminiscenza.
Ma ciò che più conta è l’assenza della reminiscenza nella Repubbli
ca, che pure offre nel libro VII il più elaborato programma di accesso al
mondo eidetico che Platone abbia mai formulato. È ben poco plausibile
il tentativo di ridurre la portata di questa assenza riconducendola a ragio
ni «essenzialmente letterarie e drammatiche», perché stonerebbe con la
prospettiva unificante della visione del bene’. Al contrario, la conoscenza
delle idee, e al di là di esse dell’idea del buono, è preparata — a partire
dai paradossi dell’esperienza sensibile — processi astrattivo-idealizzanti
delle matematiche, poi dal lavoro critico-costruttivo della dialettica. An
che qui, e forse qui più che altrove, Platone non sembra avvertire alcuna
af
intu
necessità di ricorrere all’ipotesi di una conoscenza prenatale delle idee e
della sua reminiscenza in questa vita.
Il Simposio non è dunque l’unico testimone del fatto che Platone
bia esplorato soluzioni gnoseologiche diverse per l’accesso al mondo
detico°. Ci sono alternative alla rammemorazione anamnestica, e, nel
loro ambito, ci sono modalità differenziate di approccio alla conoscenza
delle idee (nel Simposio l’accento è posto sull’immediatezza della visio
ne, nella Repubblica sul lavoro dialettico, nel Farmenide sulla ekthesis
dell’unità dal molteplice). Le differenze fra queste prospettive non con
sentono di essere spiegate mediante ipotesi evolutive, e possono proba
bilmente venire considerate non incompatibili nel quadro del pensiero
platonico. Non è però accettabile scegliere una di queste prospettive
come dominante o “strutturale”, facendone un letto di Procuste in cui
annullare la ricchezza di esperimenti teorici presenti nei dialoghi. In essi
Platone ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di
pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stes
so in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca. Almeno in un caso
— l’immortalizzazione personale senza immortalità dell’anima — questi
sviluppi avrebbero incontrato il consenso da parte di Aristotele, che era
interessato a mantenere il privilegio straordinario della forma di vita filo
sofica, la sua capacità di athanatizein, senza per questo modificare la sua
dottrina dell’anima come forma del corpo e da esso inseparabile (De an.
III 4izb5, ss.).
Note
4I3l
ab
ei
i. La maggior parte dei commentatori riconosce senza incertezze in Diotima un
portavoce affidabile del pensiero platonico. Dubbi in proposito, da punti di vista
diversi, sono stati espressi ad esempio da D. Sedley, The Ideal of Godtikeness, in G.
Fine (ed.), Ptato 2: Ethics, folitics, Religion and the Sout, Oxford 1999, p. 130, 11. 2.;
e da D. Nails, Tragedy ofStage, in J. H. Lesher, D. Nails, F. C. C. Sheffield (eds.),
Ptato’s “Symposium’ Issues in Interpretation and Reception, Cambridge (MA)-Lon
don zoo6, pp. 191-3. Si tratta di dubbi legittimi, se si tiene conto delle complesse
strategie di distanziamento dal testo presentate nel prologo del dialogo (catena di
narratori poco attendibili), e del carattere anomalo del personaggio (donna, stra
niera, sacerdotessa). È vero tuttavia che Diotima usa a più riprese, come vedremo,
il linguaggio tecnico della teoria delle idee che appartiene senza dubbio a uno dei
nuclei teorici costanti del pensiero di Platone. Se è vero che nessun personaggio
(comprese le diverse raffigurazioni di Socrate) può essere considerato senza riser
ve come “portavoce” autentico di Platone, non credo dunque che Diotima sia da
278 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 279
considerare meno affidabile ad esempio del Socrate del fedone o della Repubblica,
né che le sue tesi vadano corrette sulla base di quelle espresse altrove da altri per
sonaggi autorevoli. Ma della specificità del personaggio nel contesto dialogico, in
particolare per quanto riguarda la retorica erotica, bisognerà tener conto nel seguito
di questa analisi.
a. Per un importante passo parallelo sulla connessione tra immortalità e felicità cfr.
Timeo 9oc, sul quale dovremo tornare. L’accostamento è segnalato da f. Ferrari, fros,
paideia efilosofia: Socratefra Diotima cAlcibiade, in V. Sorge, L. Palumbo (a cura di),
Eros eputchritudo. Tra antico e moderno, Napoli zoiz, p. 38.
3. Cfr. in questo senso G. R. Lear, PermanentBeauty and3ecomingHappy in Plato’s
“Symposium”, in Lesher, Nails, Sheffield, Plato’s “Symposium”, cit., 3. 109.
Le
.
traduzioni del Simposio citate sono di M. Nucci (Torino 2009), con qualche
modifica.
A. Fossi, Tempo, desiderio, generazione. Diotima
.
e Aristofane nel “Simposio” di
Platone, in “Rivista di storia della filosofia”, i, zoo$, segnala tuttavia che nel caso de
gli uomini anche la riproduzione biologica comporta un aspetto culturale, perché
essa comprende le nozioni di famiglia e di memoria conservata nella discendenza
(pp. 6-7). La differenza tra le due forme di immortalizzazione sembra attenuata, o
negata, dal passo di zo6cI-3, dove si afferma che «tutti gli uomini sono gravidi ccd
ccr& Tà O&[Lu iozì )cc/T& Tipi fUV» (ognuno disporrebbe dunque anche di una via
“spirituale” all’immortalità). Ma il passo deve essere confrontato con zo8ez-3, 6,
zo9ax, dove i due gruppi sono chiaramente contrapposti: «quelli che sono gravidi
secondo il corpo [ol tìv K6.LOVE KuT& r& od4tctTc] [...J Quelli invece che sono
gravidi secondo l’anima [ol è Icccr& Tipi ». Anche il primo passo andrà dun
que interpretato nel senso che tutti sono gravidi, sia (alcuni) nel corpo sia (altri)
nell’anima.
6. Sul tono epico di tutto il passo cfr. D. Susanetti, L’anima, l’amore e ilgrande mare
del bello, introduzione a Platone. Il Simposio, Venezia 1992, p. z. La parvenza dell’e
roe è spesso quella di un “dio immortale”: cfr., per Achille, Iliade XXIV 619 s. Sulle
«strategie di sopravvivenza mondana orientate da una tensione verso l’aldiquà» in
epoca arcaica, che sono « sorrette dall’idea che sia possibile sfuggire all’annullamento
totale realizzando forme di permanenza, oltre la vita, nella vita degli uomini: affidate
alla loro parola, alla loro vista, alla loro memoria», cfr. l’importante saggio 5. Nico
sia, Altre vie per l’immortalita nella cultura greca, in Id., Ephemeris. Scritti efimeri,
Soveria Mannelli (cz) 2013, pp. 407-23 (cit. p. 413).
G. R. E Ferrari, Platonic Love, in R. Kraut (ed.),
.
The Cambridge Companion to
Plato, Cambridge 1992, parla in proposito di un «pious roll of cultural heroes»
(p. Anche in Phaedr. z8c Licurgo e Solone, insieme con Dario, vengono consi
derati «logografi immortali».
8. Un interessante passo delle Leggi compatta la prima e la seconda via all’immor
talità. «In qualche misura il genere umano partecipa per sua natura dell’immorta
lità e di questa ognuno ha un desiderio innato: si tratta del desiderio di diventare
I
celebri [kleinon] senza giacere senza nome una volta morti. In effetti il genere uma
no è in qualche modo connato con la totalità del tempo che lo accompagna e lo
accompagnerà sino al termine ed essendo appunto in questo senso immortale, col
lasciare i figli dei figli restando perennemente identico a se stesso e unico, partecipa
mediante la generazione all’immortalità» (iv 7;1b7-c7). È da notare che mentre
l’immortalità attraverso la fama è strettamente individuale, quella riproduttiva si
sposta chiaramente, come sarebbe accaduto in Aristotele (cfr. PAR. z.i) dagli indi
vidui al genere.
9. Anche in Eth. Nicom. x I179a24, 30 massimamente theophiles il sophos dedito
all’attività teoretica.
io. Cfr. in questo senso ad esempio V. Di Benedetto, Eroslconoscenza in Platone, in
Platone. Simposio, Milano 1985, p. 41; F. Fronterotta, La visione dell’idea del bello.
Conoscenza intuitiva e conoscenza proposizionale, in A. Borges de Araùjo, G. Cornelli,
Il “Simposio”di Platone: un banchetto di interpretazioni, Napoli 2012, p. 99.
ii. Cfr. B. Centrone, Introduzione a Platone. Simposio, trad. e commento a cura di
M. Nucci, Torino 2009, p. XXXIII; Nucci, in Platone. Simposio (Torino 2009) n. 269;
Fronterotta, La visione dell’idea del bello, cit., pp. io6-io.
ia. F. Bearzi, Il contesto noetico del “Simposio”, “Études platoniciennes”, I, 2004,
p. zi, parla di «suprema rigorosità razionale». Che non si tratti di una «mysti
sche Erlebnis», perché non c’è alcuna unio mystica fra soggetto e oggetto, è soste
nuto da K. Sier, Die Rede der Diotima. Untersuchungen zum platonischen Symposion,
Stuttgart-Leipzig 1997, pp. 171-2.
13. Fronterotta,La visione dell’idea del bello, cit., p. 109.
14. Qui tuttavia può trattarsi non tanto di un’incapacità soggettiva quanto dell’in
trinseca difficoltà che la dialettica possa costituirsi come un sapere epistemologica
mente completo e saturo, difficoltà che dipende dalla natura ontologicamente ambi
gua del suo oggetto ultimo, l’idea del buono: cfr. in questo senso M. Vegetti, Glaucon
et les mystères de la dialectique, in M. Dixsaut (éd.), Etudes sur la “Republique”de Pla
ton, vo1. Il, Paris 2005, pp. 25-37.
i. Interessanti considerazioni sul “Socrate giovane” nei dialoghi in F. De Luise, Il
sapere di Diotima e la coscienza di Socrate. Note sul ritratto delfilosofo da giovane, in
Borges deAraùjo, Cornelli,Il “Simposio”di Platone, cit.,pp. 115-38.
i6. Giustamente Ch. Rowe, Il rSimposiodi Platone, Sankt Augustin 1998, sottolinea
che quella erotica è solo una delle vie possibili per la conoscenza filosofica.
17. Cfr. in questo senso Centrone, Introduzione, cit., p. XXXIII; e Nucci, cit., n. z6o.
i8. Così Nails, Tragedy ofStage, cit., pp. 193-4: «the ascent in the Symposium ends
at the summit with exclusive contemplation of the kalon ». Nello stesso senso Bearzi,
Il contesto noetico del “Simposio”, cit., p. 234 (che tuttavia cerca di mostrare una in
diretta compatibilità con la Repubblica). Scrive efficacemente Ferrari, Platonic Love,
cit., pp. 259-60: «far from there being any hint that he [l’iniziato] could transfer his
concern from the Beautiful itselfto the beauty ofvirtue, he is explicitly envisaged as
spending his life in contemplation of the former. In marked contrast to the Lesser
180 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE z8i
Mysteries, what virtue amounts to here is not clearly something other than the vision
of the Beautiful that gives it birth».
19. R. Biondeli, [4/bere Is Socrates on the “Ladder ofLove”?, in Lesher, Nails, Shef
field, Plato’s “Symposium”, pp. i, 176. Mi sembra abbastanza simile la posizione di
F. J. Gonzalez, Interrupted Diatogue: Recent Readings ofthe “Symposium”, in “Plato”,
8, zoo$, S 17. Anche A. W. Price, Love andFriendshzp in Ptato andAristotte, Oxford
1989, ritiene che contemplazione non possa significare inazione e indifferenza alle
altre persone, ma come conferma a questa tesi cita prevalentemente passi della Repub
blica! (p. ai). Se tutte le tesi sostenute da Platone in ogni dialogo fossero immediata
mente trasferibili a tutti gli altri, Platone avrebbe scritto un solo libro: un compendio,
o syngramma, della filosofia platonica, opera che egli stesso dichiara impossibile e il
cui primo esemplare storico sembra sia stato composto dal giovane tiranno siracusano
Dionisio li (Ep. VII 341b-c).
zo. Per questa tensione tra diversi profili della vita filosofica cfr. M. Vegetti, Il regno
filosofico, in Id. (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli zooo, vo1. iv, pp. 362-4.
ai. Cfr. G. Casertano, In cerca dell’anima nel “Simposio”, in Borges de Araùjo, Cor
nelli, Il “Simposio”di Platone, cit., pp. 64-5 (anche nota 49 a p. 67). Nello stesso senso
Lear, PermanentBeauty, p. iii, nota a («nel mondo del Simposio le pratiche cultu
rali durano più a lungo delle anime perché le anime sono mortali. E le scienze sono
ancora più “immortali” perché sono associate a oggetti atemporali»); Ferrari, Eros,
paideia efitosofia, cit., p. 39 (l’eternazione del sapere come unica forma di immortalità
umana); Rowe, Il “Simposio” di Platone, cit., pp. 112-3. Per il Timeo cfr. B. Centrone,
L’immortalitd personale: un ‘altra nobile menzogna?, in M. Migliori, L. Napolitano
Valditara, A. Fermani (a cura di), Interioritc e anima. La psyché in Platone, Milano
2007, p. 42. Per posizioni opposte cfr. nota z.
22.. La vicinanza di Aristotele a Platone su questo tema è stata segnalata e discussa da
H. Arendt, Trapassato efuturo (1961), trad. it. Milano 1991, pp. 70-129.
z. Cfr. in proposito M. Vegetti, Athanatizein. Strategie di immortalitì nel pen
siero greco, in Id., Dialoghi con gli antichi, Sankt Augustin zoo6, pp. i6-6, 174-6,
dove si ricostruisce inoltre la preistoria del tema dello athanatizein (pp. 167-70).
La capacità dei medici seguaci del trace Zalmoxis di “rendere immortali” (apatha
natizein) è ironicamente menzionata in Carmide i56d6. Un percorso che va dalla
immortalizzazione magica dei Traci a quella “epistemica” in Platone e Aristotele
(senza bisogno della sopravvivenza dell’anima individuale) è tracciato da F. Ferrari,
L’incantesimo del Trace: Zalmoxis, la terapia dell’anima e l’immortalitii nel “Car
mide” di Platone, in M. Taufer (a cura di), Sguardi interdisciptinari sulla religiositii
dei Geto-Daci, Freiburg i.B. 2013, pp. 2.1-41. Un accenno all’influsso di Simposio e
Timeo oc su questo passo aristotelico è formulato da Sier, Die Rede derDiotima,
cit., pp. 187-8.
24. La critica ha spesso rilevato il carattere anomalo di questo e del seguente capitolo
rispetto al tono generale del trattato etico: la discussione relativa in M. Vegetti, L’etica
degli antichi (1989), Laterza, Roma ;oio, pp.
z. Cfr. in proposito le puntuali analisi di 5. Gastaldi, Bios hairetotatos. Generi di vita
efelicità in Aristotele, Napoli 2003, pp. 109-31.
z6. Cfr. in questo senso Eth. Nicom. x 8 ii78bz-7.
z. R. Hackforth, Immortality in Plato’s “Symposium”, in “Classical Review”, 64,
1950, pp. 43-5.
z8. Mi sembra che di questo tipo sia l’argomentazione in Centrone, Introduzione,
cit., pp. LIX-LX: «La negazione dell’immortalità personale implicita nelle parole
di Diotima a zo7c-zo8b non può essere in contrasto con la teoria dell’immortalità
dell’anima, cosmica o individuale, di cui Platone è costantemente strenuo e convinto
sostenitore; il mortale di cui si parla è il corpo e probabilmente il composto di anima
e corpo». Un ragionamento simile anche in M. A. Fierro, Symp. 212a2-7: Desirefor
the Truth and Desirefor Death and a God-Like Immortality, in “Methexis”, 14, 20 01,
pp. 23-43, la cui interpretazione del Simposio è interamente derivata dal Fedone. Po
nendosi da un punto di vista “compatibilista” (ad es. tra Fedone e Simposio), Price,
Love and friendshzp, cit., si chiede: «The question becomes how best characterize an
immortality within mortality whose achievement is desirable even for souls that are
themselves fully immortal»; e conclude: «Plato, regrettably, leaves us to speculate
about an answer» (pp. Per un’ampia discussione problematica cfr. Sier, Die
Rede der Diotima, cit., pp. 185-97. Tra l’interpretazione secondo la quale «l’indivi
dualità della persona può perpetuarsi solo per sostituzione, attraverso la “creazione”
spirituale», e quella di una immortalità piena, non vicariante, per l’anima del filoso
fo, Sier propende con molta cautela per la seconda, soprattutto sulla base dell’opina
bile riferimento indicato da O’Brien a Resp. x 6Ize-614a. Il saggio di M. O’Brien,
“Becominglmmortal” in Plato’s “Symposium”, in D. E. Gerber (ed.), Greek Poetry and
Philosophy, Chico (CA) 1984, pp. i8-zo, costituisce probabilmente il migliore sforzo
in senso “compatibilista’ perché non si nasconde le difficoltà di interpolare nel Sim
posio una dottrina dell’immortalità dell’anima senza sovrapporvi altri dialoghi come
il fedone (p. i86), benché egli stesso ricorra poi ripetutamente al libro x della Repub
blica. O’Brien scrive che la topica dell’immortalità è evitata, piuttosto che assenta o
negata, nel discorso di Diotima (p. 192), ma vede nella sua frase finale un riferimen
to alla «immortalità letterale del filosofo in comunione con la Bellezza assoluta»
(pp. 196-7, 197 n. Tuttavia O’Brien si rende conto di due anomalie di questa
interpretazione: che l’immortalità è una prospettiva, un achievement, concesso solo
al filosofo, la cui anima non è immortale per natura ma può diventarlo; ed è presen
tata come un dono divino al filosofo, non come un attributo necessario dell’anima
(pp. 199-lo,). O’Brien spiega queste anomalie come l’effetto della strategia retorica
(psicagogica) di Diotima, ma di fatto esse sembrano caratterizzare l’intero assetto
teorico del discorso sull’immortalità, che per questo probabilmente avrebbe attratto
l’interesse di Aristotele. Credo comunque di aver dimostrato (M. Vegetti, Introduzio
ne al libro x, in Id., a cura di, Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voI. vii, pp. 13-34)
che il libro x della Repubblica, o le parti di cui è composto, non possa essere conside
rato come “l’ultima parola” della filosofia platonica su questo e altri temi.
seppure
il
z8z IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 183
2.9. Th. M. Robinson, Caractères constitut/i du duatisme %me-corps dans te “Corpus
platonicum”, in “Cahiers du Centre d’études sur la pensée antique ‘kairos kai logos’ “,
11, 1997, 2.
z6.
30. Un passo della Lettera Vii (334e3-335e6) conferma sia l’utilità morale della cre
denza nell’immortalità dell’anima sia il suo carattere extrateorico. Premesso che
«nessuno di noi è per natura immortale», e che la questione del bene e del male si
pone solo riguardo all’anima, «che sia congiunta al corpo oppure separata da esso»,
Platone aggiunge: «Bisogna in ogni caso credere davvero [r&iOtoeut ì 6vru cdti
xpJ agli antichi e sacri racconti che ci ammoniscono che la nostra anima è immor
tale, e che, una volta separata dal corpo, può venire giudicata e subire le punizioni
più gravi».
31. Cfr. in proposito Centrone, L’imniortatitd personale, cit., pp. 3 6-7.
32.. Cfr. in questo senso F. Ferrari, L’anamneszs delpassato tra storia e ontotogia. limito
platonico come pharmakon contro utopismo e scetticismo, in Migliori, Napolitano Vai
ditara, Fermani, Interioritd e anima, cit., pp. 80-3. li contatto prenatale può essere in
terpretato come una “interpretazione” mitica della syngeneia (affinità o parentela) fra
l’anima e le idee (Phaed. 79d3, Resp. vi 49ob4) che in linguaggio moderno si direbbe
“condizione trascendentale” della conoscenza (cfr. sul tema F. Aronadio, Procedure e
verita in Platone, Napoli ZOOL, pp.
Per una discussione più ampia in proposito rinvio a M. Vegetti, Quindici lezioni
su Platone, Torino 2.003, pp. 119-3 I.
Il problema è discusso in Centrone, L’immortalita personale, cit., pp. 35-5o; e in
M. Migliori, La prova dell’immortalitd dell’anima (6oc-6r2c), in M. Vegetti (a cura
di), Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voi. VII, pp. 2.73-5.
s. Il punto è stato sottolineato da Di Benedetto, Eros/conoscenza in Platone, cit.,
p. 40. L’assenza nel Simposio deli’Anamnesis-Modellè sottolineata anche da Sier, Die
Rede derDiotima, pp. 147-8, 190.
36. Secondo la nota tesi di Th. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis
in Platons “Phaidon”, Stuttgart 1994, in questo dialogo la reminiscenza appartereb
be più alla dottrina pitagorica che a quella platonica. In senso opposto va la discus
sione di F. Trabattoni, Introduzione, in Id. (a cura di), Platone, fedone, Torino zoii,
pp. XXXIV-XLVIII, con ampi riferimenti alla bibliografia recente.
Ma sulle differenze fra questi due dialoghi cfr. le interessanti osservazioni di
Y. Lafrance, Les puissances cognitives de l’dme: la réminiscence et les formes intetligi
bles dans te “Ménon” (goa-6d) et le “Phe’don” (72e-77a), in “Études platoniciennes’
4, 2.007, 3. 2.39-52..
38. È la tesi di Ch. H. Kahn, Pourquoi la doctrine de la réminiscence est-elle absen
te dans la “Re’publique”?, in Dixsaut (éd.), Études sur la ‘République” de Platon, cit.,
p. ioo. Anche questo autore sembra incorrere in una sorta di petitio princzpii, quan
do riconosce una “struttura profonda” del pensiero di Platone in «ciò che è comune
a Simposio, fedone e alla Repubblica» (p. 98), attribuendo poi le varianti di questa
struttura a ragioni letterarie. Ma perché allora la reminiscenza, assente in Simposio e
Repubblica, non dovrebbe essere attribuita a “ragioni letterarie” nel fedone, anziché
ipotizzare che essa sia “strutturale” sulla base del solo Fedone?
39. Sul ruolo delle matematiche nella Repubblica cfr. E. Catranei, Le matema
tiche al tempo di Platone e la loro riforma, in Platone, La Repubblica, cit., voi. v,
f22. 473-539.
40. Nella stessa Repubblica del resto è presente — in secondo piano — tema
della sublimazione della pulsione erotica come impulso verso la conversione teorica
(cfr. VI 485d6-e,, 49oa$-b8).
l’aggressività
nella
zo o IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 lo I
della propria conservazione. Dunque, se la giustizia è rispetto delle leggi,
e se le leggi sono strumenti del potere, ne consegue, conclude Trasimaco
che la giustizia non è altro che il vantaggio del più forte, tou kreitton05
xympheron.
Partito da un positivismo giuridico largamente condiviso, Trasimaco
dunque ne smaschera l’inganno ideologico leggendo dietro a esso il posi
tivismo del potere (egli passa cioè da un Rechtpositivismus a un Machtposi
tivismus). Platone riassumerà così le sue tesi nelle Leggi (iv 714c-d): «Le
leggi, dicono, le impone sempre nella città la parte più forte [to kratoun].
E credi tu, dicono, che mai democrazia vittoriosa, o altra forza politica, o
anche un tiranno, credi che vorranno dare leggi per altro scopo principale
se non per il vantaggio di mantenere il proprio potere [arche] ?».
La forza teorica di questa prima tesi di Trasimaco è tale, come vedremo,
da non poter essere seriamente confutata da Socrate, e da richiedere, per
una sua reinterpretazione se non per il suo rifiuto, l’intero sviluppo del
dialogo fino al libro ix.
La seconda tesi di Trasimaco (344a-c) deriva dalla prima non per con
seguenza logica ma per un effetto retorico, risulta più debole sul piano teo
rico e meno originale, finendo per avvicinarsi alle posizioni di Callicle (il
cui atteggiamento viene del resto in parte ripreso dal rifiuto di Trasimaco
di continuare la discussione con Socrate verso la fine del libro i).
Secondo la prima tesi, il potere, essendo anteriore alla legge, era per de
finizione esterno alla norma di giustizia. Si stabilisce così una polarità po
tere/giustizia dalla quale, in modo appunto retorico, è possibile derivare
le equazioni potere = ingiustizia, suddito = giusto. Di qui la tesi secondo
cui la giustizia, praticata dai sudditi, è un “bene altrui’ cioè è funzionale
all’interesse dei potenti ingiusti che li opprimono. La figura perfetta del
potere ingiusto torna quindi a essere quella dellapleonexia del tiranno, l’u
nico uomo che sia veramente “libero” in quanto “padrone” di sé e degli
altri: questa immagine di uomo eteutherios perché dispotikos rievoca diret
tamente le nostalgie “eroiche” di Callicle.
Perché Platone attribuisce al personaggio Trasimaco queste due tesi,
che non sono logicamente connesse e rappresentano due livelli di pensie
ro molto diversi? Si può tentare una risposta ipotetica a questa doman
da: forse Platone intendeva suggerire che la seconda tesi costituiva per la
cultura contemporanea la “verità”, non teorica ma psicologica e appunto
retorica, della prima; che cioè il rigore logico di una “teoria critica” come
quella attribuita a Trasimaco finiva inevitabilmente, se essa non veniva
reinterpretata in modo adeguato, per lasciare il campo allapteonexia tiran
nica alla maniera di Callicle, e soprattutto — concretezza storica — di
Crizia e di Alcibiade.
6
Dal canto suo, Glaucone deriva dal paradigma della pleonexia una teoria
critica della giustizia che assume la forma di una genealogia della morale.
Come per Callicle e per Trasimaco, lapulsione primaria e naturale dell’uo
mo è quella di adikein, di esercitare una violenta sopraffazione sugli altri
per conquistare potere, gloria e ricchezza (358e). Ma — e qui sta l’originalità
della tesi di Glaucone, che ne fa uno straordinario precursore di Hobbes e
del pensiero contrattualistico — naturale genera un altrettan
to universale sentimento di paura: non ci sono superuomini alla maniera
di quello evocato da Callicle, ognuno è troppo debole per poter sperare di
esercitare la violenza sugli altri senza doverne subire una ancora maggiore.
Nasce così il patto (syntheke) di giustizia, che consiste in una reciproca ri
nuncia alla violenza e nell’impegno comune a rispettare le leggi. La legge e
la giustizia costituiscono dunque la protezione dei deboli, ma non ci sono,
come pensava ancora arcaicamente Callicle, deboli e forti “per natura”:
la debolezza, e la paura che ne consegue, sono una condizione universale
degli uomini in società, che li costringe a rinunciare alla pulsione primaria,
al basic instinct della violenza.
Almeno in apparenza, perché la rinuncia allapteonexia riguarda solo la
superficie civilizzata e socializzata del cittadino che ha bisogno dell’appro
vazione (eudokimesis) degli altri. Sotto questa superficie, resta la ferocia
originaria del «vero uomo» (359b). La pulsione della pleonexia sceglie
allora la via della segretezza, del complotto, della società segreta (hetairia,
synousia), sotto la protezione pubblica dell’abilità oratoria e dell’esibizio
ne di virtù civiche. Il conflitto pleonectico si sposta dunque dall’atmosfera
“eroica” di un Callicle, dall’evocazione tirannica di Trasimaco, alla realtà
quotidiana della trama segreta, dell’intrigo, della menzogna.
Dietro la tesi di Glaucone sta probabilmente la figura di un “cattivo
maestro” del pensiero e della politica quale fu, verso la fine del v secolo,
l’ateniese Antifonte. Le ricerche papirologiche di Fernanda Decleva Caiz
zi e le analisi storiografiche di Michel Narcy hanno ormai mostrato l’unità
202 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA FLEONEXL4 203
di questa figura, che veniva di solito scissa fra il sofista “democratico’ che
avrebbe contrapposto l’egualitarismo naturale alle gerarchie arbitrarie im
poste dalle convenzioni e dalle leggi, e l’oligarchico golpista di cui testimo
nia Tucidide (viii 66-70). Antifonte aveva in realtà descritto la reciproca
rinuncia all’adikein nella vita pubblica, che costituiva il contratto (homo
logia) su cui si fondano la società e le sue leggi; aveva però denunciato l’in
sopportabile violenza che queste leggi recano alla vera natura dell’uomo,
pretendendo di regolarne il comportamento i desideri (epithymiai), per
sino i gesti e le funzioni del corpo. Egli aveva quindi rivendicato l’utilità
della violazione segreta (tathra) delle leggi in nome del ristabilimento dei
diritti di natura (DK B fr. iA). Nella vita politica, come ci informa Tu
cidide, egli aveva organizzato grazie alla sua intelligenza e protetto dalla
sua deinotes oratoria, il colpo di stato dei Quattrocento, preparato dalle
società segrete e portato a termine grazie a una alternanza di intimidazio
ne e di violenza. È probabile che Platone si riferisse proprio ad Antifonte
quando denunciava nelle Leggi quei cattivi maestri che insegnano ai giova
ni che «in verità» la cosa più giusta è «vincere commettendo violenza»,
e promuovono staseis al fine di vivere « una vita corretta secondo natura»,
che consiste nel dominare gli altri e non servirli come vorrebbe la legge
(x 8$9e s.).
Crizia per un verso, Antifonte per l’altro, sembrano dunque essere
stati i maestri di pensiero e di azione della pteonexia, sullo sfondo storico
dell’imperialismo ateniese, della stasis nelle città, della rivolta oligarchica
contro la legge egualitaria della democrazia.
Platone ne elabora le posizioni teoriche, sovente, credo, le rende sul
piano filosofico più rigorose di quanto fossero in origine, ne produce di
verse versioni, che articolano tutto il ventaglio di possibilità di pensiero
che era implicito nel paradigma della pteonexia, e le porta sulla scena del
suo teatro filosofico attraverso la voce di grandi personaggi dialogici come
Callicle, Trasimaco e Glaucone.
lutto ciò rappresenta una formidabile sfida per la confutazione socra
tica: una sfida dalla quale, occorre dirlo subito, il personaggio Socrate, al
del Gorgia e dei primi due
quella
meno nella sua configurazione iniziale —
perdente.
esce
libri della Repubblica
—
La confutazione socratica fallisce a più riprese. fallisce di fronte al si
lenzio di Callicle, che oppone la forza di una scelta di vita a quella degli
argomenti e costringe Socrate a un monologo che si conclude con il mito
del giudizio delle anime: un mito, appunto, e non una teoria, del tipo di
quelli cui Adimanto gli proibirà di fare ricorso nel libro ii della Repubblica
(36 5d-3 66b).
La confutazione fallisce a più riprese anche di fronte a Trasimaco,
come Socrate riconosce apertamente alla fine del libro i della Repubblica.
Qui il fallimento è dovuto soprattutto all’impotenza del paradigma delle
technai, cui Socrate fa come al solito ricorso, a dire qualcosa intorno alla
logica del potere: il medico e il pastore non sono buoni esempi per con
futare il rapporto fra kratos, arche e nornos, e del resto Trasimaco non ha
difficoltà a svelare l’interesse pleonectico che sta anche dietro le maschere
di questi buoni artigiani (e l’usurpatore Gige della favola di Glaucone era
lui stesso un pastore).
Ed è proprio Socrate, nel libro 11, a dichiararsi incapace di “portare aiu
to” alla giustizia di fronte all’attacco sferrato da quei “figli di Trasimaco”
che sono secondo lui, sul piano intellettuale se non su quello morale, i
fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto. Non ne è capace, se non a condi
zione di abbandonare il livello della morale individuale che gli era consue
to e di accettare la sfida dellapteonexia sul terreno che le è proprio, quello
antropologico e quindi politico.
7
A dire il vero, anche su questo terreno Socrate va incontro inizialmente a
uno scacco, che è talvolta sfuggito all’attenzione degli interpreti. Socrate
apre il suo passaggio alla dimensione politica con la proposta di un’altra
antropologia, che non confuta quella pleonectica ma la sostituisce. Si tratta
di un’antropologia collaborativa, secondo la quale gli uomini sono spinti a
unirsi in società dalla necessità di soddisfare i loro bisogni primari (chreia).
Ci sono probabilmente riflessi democritei in questa nuova antropologia
socratica, da cui si origina una società prevalentemente economica, basata
sul principio della collaborazione produttiva, della divisione del lavoro,
dello scambio paritario di beni e servizi. Una società semplice, sana, a suo
giusta. Come
al livello di un’economia elementare —
cioè
anche
modo —
è noto, questa ipotesi antropologica di Socrate e il modello di società che
ne deriva vengono liquidati da Glaucone con una secca battuta: si tratte
rebbe, egli dice, di «una società di porci» (37zd), dove il termine non va
inteso naturalmente in senso morale ma in quello dell’eccessiva semplici
tà, dell’ignoranza e della stupidità. Ma perché Socrate ritiene che questa
— che
204 IL POTERE DELLA VERITÀ
battuta sia sufficiente a fargli abbandonare il suo primo modello sociale?
Quello di Glaucone non è evidentemente un argomento ma ha, ancora
una volta, la forza della testimonianza di una scelta di vita: e in questo caso
chi la propone è troppo importante perché il suo dissenso possa venire
ignorato. Il ceto che Glaucone rappresenta — quello stesso al quale vie
ne indirizzato l’intero sforzo persuasivo della Repubblica — non potrebbe
mai accettare un mondo primitivo e regressivo come quello delineato da
Socrate, che non soddisfa le sue esigenze urbane, i suoi ideali di una vita
colta, raffinata, abbellita dalle arti e premiata con il prestigio di un potere
politico e militare giusto, certo, ma accompagnato dalla time, dal ricono
scimento sociale cui quel ceto “signorile” si sente destinato.
Di fronte all’opposizione radicale di Glaucone, il primo progetto so
cratico di un’antropologia e di una società non pleonectiche è dunque
destinato ad abortire. È allora necessario intraprendere una via più lun
ga, che accetti come dati primari della condizione umana il bisogno del
lusso, la tryphe, dunque quella pleonexia dalla quale si origina la guerra
fra le città. La necessità della guerra produce a sua volta la formazione
di un ceto politico-militare che era assente nel primo modello. È la ri
educazione di questo ceto, che affonda le sue radici nella tryphe e nella
pteonexia, che porterà finalmente alla formazione della città giusta, nella
quale il conflitto pleonectico sarà superato da una struttura sociale ge
rarchizzata e governata da un potere razionale (tutto questo almeno nel
togos; nel tempo storico questa rieducazione potrebbe configurarsi — se
condo le prospettive formulate nei libri V e VI — come la conversione
di dynastai politici e militari ad opera di un piccolo gruppo di autentici
filosofi-legislatori).
8
Un conflitto superato e governato, ma non certo estinto. Al contrario, il
libro IV della Repubblica offre una potente fondazione psicologica all’an
tropologia della pleonexia. Per la prima volta, la concezione della “natura
umana” che essa evocava viene giustificata da una teoria dell’anima, che
mostra come il conflitto pleonectico sia radicato nell’apparato psichico
di ogni uomo in modo tale che ogni sforzo di governarlo non può che
risultare precario.
ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 205
Bisogna qui premettere un’osservazione di metodo che troppo spesso
è trascurata dai commentatori. La tripartizione del corpo sociale su cui si
fonda l’equilibrio della città giusta è, nel testo platonico, un progetto deli
neato dal logos, un modello normativo affidato ai fondatori e ai legislatori
della kattzotis, filosofi o dynastai che essi siano. Per contro, la tripartizione
dell’anima è il risultato di una descrizione dell’effettiva realtà psichica, di
una fenomenologia dei processi decisionali e delle fonti motivazionali da
cui essi dipendono (il “conflitto tragico” gioca un ruolo importante nel
sapere psicologico che sta alla base di questa fenomenologia). Questa dif
ferenza di punti di vista (il dover essere sociale da una parte, la realtà psi
cologica dall’altra) spiega molte delle difficoltà nella costruzione di una
perfetta omologia fra le due tripartizioni, che Bernard Williams ha analiz
zato in modo magistrale.
La fenomenologia dell’anima rivela che in essa sono presenti due com
ponenti, due masse energetiche destinate a riprodurre senza sosta l’insor
gere della pulsione pleonectica: lo thymos, il desiderio di autoaffermazione,
l’aggressività rivolta allo spirito di vendetta, alla gloria e al potere; e lo
epithymetikon, la fonte dei desideri di piacere e di ricchezza. Lo thymos
può, grazie a una strategia educativa complessa, venire indotto ad allearsi
con la parte razionale dell’anima, convincendosi che solo nel governo del
la ragione esso può trovare l’autentica realizzazione dei suoi bisogni (ma
anche in questo caso si tratta di un’alleanza precaria ed esposta al pericolo
di una stasis psichica). Al contrario lo epithymetikon è una irriducibile mi
naccia per il potere della ragione. Scrive Platone:
queste due parti [logos e thymos], così allevate e veramente educate in modo da
apprendere ciò che è loro proprio, prenderanno il controllo di quella desiderante
è la più grande nell’anima di ciascuno e per sua natura la più insaziabile di
ricchezze. Essa va sorvegliata per evitare che, diventata grande e forte gonfiandosi
dei cosiddetti piaceri connessi al corpo, cessi di svolgere la propria funzione e tenti
di ridurre in servitù e sotto il suo potere le altre parti, ciò che non le si addice per la
sua origine, sovvertendo così l’intero modo di vita di ognuno (442a-b).
Lapleonexia non è dunque una concezione antropologica arbitraria, con
cepita da qualche storico, sofista e oligarca impressionato dalla lezione
di quel «maestro violento» che era stata la guerra del Peloponneso, alla
quale contrapporre, come faceva Socrate nel libro Il, un’antropologia col
laborativa del lavoro e dello scambio. Si tratta piuttosto, secondo Platone,
non
è
zo6 IL POTERE DELLA VERITÀ ANTROPOLOGIE DELLA PLEONEXL4 107
di una realtà psicologica insuperabile, che può essere controllata, ma non
soppressa, da un tenace sforzo di condizionamento educativo dell’anima
e della città.
Uno sforzo, tuttavia, i cui successi non possono essere che parziali e
precari. Questa è la lezione di quel paradossale rovesciamento di pro
spettiva che Platone opera nei libri viii e ix della Repubblica. Secondo
i teorici della pteonexia, all’origine stava uno stato di natura, appunto
pleonectico, che l’inganno delle leggi e della giustizia cercava in qualche
modo di reprimere e di celare, a protezione dei deboli. Secondo Platone,
invece, la “natura” che sta al principio — una natura che costituisce evi
dentemente un concetto non descrittivo ma normativo, e un inizio che
non è storico o cronologico, ma per così dire fenomenologico — la città
giusta, la katliolis. Essa subisce un inevitabile processo di deformazione
e decadenza sotto la pressione delle pulsioni pleonectiche, quella timica
prima, quella epithymetica in seguito. È dunque il tempo storico, non
la natura delle origini, che costituisce il luogo fenomenologico di realiz
zazione della pleonexia. Ma il risultato non cambia: esso si conclude, in
una paradossale “fine” antiteleologica, nella tirannia, la forma di vita e di
potere che Platone aborriva e che costituiva invece l’oggetto del deside
rio di Callicle e di Trasimaco, la segreta aspirazione di ogni “vero uomo”
secondo Glaucone.
Le leggi storiche — quelle dell’oligarchia, della democrazia, natural
mente della tirannide — sono allora secondo Platone freni per lapleo
nexia ma suoi strumenti. Trasimaco (e soprattutto il Trasimaco della sua
prima tesi) aveva dunque ragione. La realtà inevitabile della storia delle
società umane consiste nel trionfo, in forme diverse, della violenza e della
sopraffazione reciproca, nell’asservimento dei poveri da parte dei ricchi, o
dei ricchi da parte dei poveri, fino all’assoggettamento universale rappre
sentato dalla tirannide.
Se questa è, ancora una volta, la “verità delle cose’ Platone non ha che
una sola risposta, e una sola proposta. È necessario accettare, con Trasi
maco, la centralità della questione del potere, to archon. Si può tuttavia
tentare di costruire un gruppo di potere non trasimacheo, cioè relati
vamente immune dallo spirito di pleonexia, mediante un’operazione di
chirurgia politico-morale che ne estirpi le radici, cioè la proprietà, la fa
miglia, la privatezza del patrimonio e degli affetti (come Platone avrebbe
ricordato nelle Leggi, si tratta insomma di far sì che «con ogni mezzo
tutto ciò che si definisce privato venga da ogni parte sradicato dalla vita
dell’uomo», V 739c): tutto ciò insomma che altrimenti trasforma inevi
tabilmente il cane da guardia in un feroce predatore come il lupo (il pe
ricolo evocato nel terzo libro della Repubblica). Questo gruppo di potere
dovrebbe subire una indelebile tintura educativa, al tempo stesso etica e
intellettuale, capace di garantire che il suo sia un potere di servizio e non
di oppressione. Esso dovrebbe infine venir dotato della forza necessaria
grazie all’alleanza con un ceto guerriero le cui aspirazioni all’autoaffer
mazione possano venire sublimate in direzione della ricerca della felicità
universale del corpo sociale, compresa come unica possibile garanzia an
che per una vera felicità delle sue singole componenti: una finalità eu
daimonistica, dunque, che non si contrappone alla deontologia ma ne è
strettamente implicata.
A questo punto, tutto funzionerebbe secondo lo schema di Trasimaco:
è vero che le leggi saranno in ultima istanza strumento della conservazione
del potere di questo gruppo, to archon, ma è anche vero che esso lavorerà
per la felicità dell’intero corpo sociale anziché per la sua spoliazione. La
questione del potere, di “chi comanda’ resta dunque primaria e centrale:
ma è possibile pensare che la destinazione del potere stesso cambi di senso,
si orienti verso il bene comune, facendo diventare la giustizia un “bene
proprio” anziché altrui.
Trasimaco non è allora confutato ma almeno corretto. Tuttavia anche
questa correzione risulta, come si è visto, provvisoria e instabile. L’im
menso sforzo di ricondizionamento intellettuale e morale dellapleonexia,
ispirato dal “paradigma in cielo” della giustizia, dà luogo a una costru
zione artificiale, che si appoggia su di un terrain vague. La realtà psichica
dell’uomo, la mutevolezza delle circostanze storiche, il conflitto sempre
riprodotto dalle condizioni stesse della vita sociale, determinano una
malattia perpetua, una aezatheia del genere umano, che è appunto la
pleonexia. Vale la pena di combatterla, come dicono le righe finali del
la Repubblica, per «star bene» (eu prattein), in questo e magari anche
nell’altro mondo, in un viaggio che può durare mille anni. Ma la guarigio
ne dell’anima e della città, la loro salute, non sono stati che si possano mai
considerare stabili e acquisiti per sempre. Per sempre, c’è solo la “verità”
della pteonexia.
Il peggior torto che si possa allora fare a Platone è di considerarlo un
pensatore edificante, affrancandolo da quel lato oscuro del suo pensiero
cui danno voce personaggi come Callicle, Trasimaco e Glaucone, e che
costituisce una parte non piccola della sua “verità”
2.0$ IL POTERE DELLA VERITÀ
Riferimenti bibliografici
Sul ruolo dei personaggi dialogici cfr. G. A. Press (ed.), Who Speaksfor Plato?, Lanham
zooo (che comprende il citato saggio di E. Ostenfeld); cfr. anche M. Vegetti,
Societri diatogica e strategie argomentative nella “Repubblica” (e contro la ‘Repubblica”),
in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogoplatonico, Napoli zooo, pp. 74-85
Su Callicle cfr. 5. Gastaldi, La giustizia e laforza. Le tesi di Catlicte nel “Gorgia”
di Platone, in “Quaderni di storia”, z, zooo, pp. 85-105. Per Trasimaco cfr. M. Veget
ti, in Platone, La Repubblica, trad. e commento, vo1. i, Napoli 199$, 133-56; su
Glaucone ivi, vo1. il, pp. 151-71.
Per Antifonte cfr. F. Decleva Caizzi, “Hysteron Proteron”: la nature de la toi seton
Ptaton etAntzphon, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, xci, 1986, 191-310;
M. Narcy, Les interprétations de tapenséepolitique d%lntiphon au xxsiècle, in “Revue
Franaise d’Histoire des Idées politiques’ III, 1996, pp. 3i-45; su Tucidide e il dibat
tito sofistico intorno apteonexia cfr. anche G. Giorgini, Idoni di Pandora, Bologna
1001, capp. I, VII.
Sulla teoria della giustizia e l’omologia anima-città nel Iv libro della Repubblica
si è fatto riferimento a B. Williams, The Anatogy of City and Soul in Ptato’s ‘Repu
blic”, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exegesis andArgument,
Assen 1973, pp. 196-lo 6. Sulla questione cfr. anche Vegetti, Platone, La Repubblica,
cit., vo1. III, pp. 11-45.
Interessanti osservazioni critiche sulle tesi discusse in questo saggio sono state
formulate da F. Decleva Caizzi, Glaucone, Socrate e t’antropologia della pteonexia, in
“Elenchos”, XXIV, 1, 2003, pp. 361-73.
Parte quarta
La verità
Socrate
che
il
9
Nell’ombra di Theuth.
Dinamiche della scrittura in Platone*
La prima e maggiore ambiguità del corpus filosofico di Platone sta nella sua
stessa esistenza. Si tratta di un insieme di scritti teorici senza precedenti,
per dimensione e qualità, nell’esperienza culturale greca — che però ven
gono presentati come progetto mimetico di trascrizione della parola di un
—
filosofo — aveva sempre rifiutato la scrittura. Non solo: questi
scritti contengono anche elementi di una teoria sistematica del rifiuto della
scrittura nei suoi valori comunicativi (fedro), legislativi (Politico), conosci
tivi (Lettera vii). L’ambiguità rischia di paralizzare sul nascere un’indagine
sulle forme e le dinamiche della scrittura in Platone. Se si privilegia il dato
di fatto dell’esistenza del corpus platonico, si può vedere in Platone — con
tro le sue stesse parole — l’artefice di una rivoluzione scritturale, lo scopri
tore delle virtualità concettuali insite nella messa per iscritto del pensiero:
è la proposta, fondamentale ma anche paradossale, avanzata da Havelock’.
Se ci si tiene, all’opposto, alla lettera dei passi ora ricordati, leggendovi i
luoghi forti della costituzione di una teoria unificata della negatività della
scrittura, occorre declassare l’intero corpus allo statuto di un gioco lettera
rio, non più che propedeutico rispetto all’esercizio della vera filosofia, le
cui tracce andranno allora cercate in direzione delle dottrine non scritte: è
questa la via su cui si sono mossi, con un rilevante sforzo argomentativo, gli
interpreti della scuola di Thbingen, Gaiser e Kràmer in particolare.
Per sfuggire alla trappola che Platone ha teso al suo lettore — cui senso,
tuttavia, andrà interpretato — si è scelto qui di muoversi a monte rispetto
alle strettoie di questa alternativa. Si tenterà cioè di seguire, in modo esten
sivo3, i numerosi segmenti di interrogazione platonica sulla scrittura, nelle
loro direzioni disperse e anche divergenti: una tortuosa linea di crinale fra
l’impatto arcaico dell’esperienza grafica e le mature teorie della lingua e
Questo capitolo è già stato pubblicato in Ivi. Detienne (a cura di), Sapere e scrittura in
Grecta, Laterza, Roma-Bari 1989.
una
a
appunto
elementare
al
2.12. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “3
del testo proprie del iv secolo. Se ne potranno definire alcuni profili locali:
il mito ambiguo delle origini della scrittura, la sua assunzione metaforica
nella figura di un sapere elementare che rinvia a un possibile sapere degli
elementi, la costruzione di un modello di conoscenza analitico-sintetica
messo alla prova innanzitutto sulla phone, lo strumento di una circola
zione culturale e di una pratica legislativa che si tratta di controllare e di
governare, infine il problema del testo filosofico. Altrettanti elementi che
rendono la riflessione platonica sulla scrittura — monte della sua eventua
le chiusura teorica — produttiva, nella sua autonomia, di nuove forme di
sapere possibile, di nuove esplorazioni intellettuali.
L’invenzione della scrittura
Platone toglie agli dei e agli eroi della tradizione greca, come Prometeo
o Palamede, la responsabilità preoccupante dell’invenzione di un ritrovato
ambiguo come la scrittura. Essa viene piuttosto collocata nell’antichità im
memorabile dell’Egitto dei re, dei sacerdoti e dei templi: qui si sviluppa una
scrittura sacra (hiera grammata) e capace di conservare una memoria on
nicomprensiva (paniagegrammena) (Tim l3a-d). All’opposto del vecchio
Egitto, barbaro6 a suo modo per eccesso di antichità e di civilizzazione, si
situano i barbari privi digrammata, legati alla tradizione orale delle leggi dei
padri, il cui prototipo sono i Ciclopi omerici (Leg. III 68ob). Nello spazio
intermedio tra questa barbarie “orientale” e “occidentale’ segnata rispettiva
mente dall’abuso e dal difetto della scrittura, si collocano i Greci: sottoposti
come sono alla vicenda delle catastrofi alluvionali, essi ciclicamente scopro
no e riperdono i grammata, avvicinandosi di volta in volta alla condizione
egizia e a quella “ciclopica’ costretti comunque a una memoria lacunosa e
intermittente, e a un rapporto difficile con la scrittura (Tim. za SS.; Leg.
iii 6$oa), in qualche modo indicativo dello stesso atteggiamento platonico.
Com’è ben noto, l’inventore della scrittura che Platone sostituisce a
Prometeo e Palamede è un dio egiziano, Theuth, che sottopone il suo heu
rema al re Thamus e ne viene rimproverato, perché esso è nocivo alla me
moria e al vero sapere (?haedr. za ss.). La capacità inventiva di Theuth
è coerente ma ambigua. I suoi ritrovati — variante platonica della lista
altrove attribuita a Palamede — si possono disporre in due serie; la prima,
“alta”, comprende aritmetica, geometria, astronomia — le discipli
ne che la Repubblica indica come essenziali per la formazione del filosofo;
a essa ne segue una “bassa”, che include la dama (petteiai), i dadi (kybeiai)
e appunto le lettere scritte, igrammata (Phaedr. z74d). La coerenza fra le
due serie sta nel fatto che tutte le discipline comprese si basano su elementi
semplici (numeri, figure, solidi nel primo caso, pedine, dadi, lettere nel
secondo), e ne utilizzano le proprietà combinatorie. Quanto all’ambigui
tà dell’invenzione della scrittura, essa risulta evidente se si riscrivono le
due serie in ordine di crescente complessità conoscitiva7: otterremo allora
la sequenza di dama, dadi, grammata, aritmetica, geometria, astronomia.
Nel campo generale delle invenzioni elementari-combinatorie, la scrittura
si colloca dunque al limite tra la serie dei giochi, di cui fa parte, e quella dei
saperi produttivi di verità, ai quali prelude.
L’invenzione di Theuth non è del resto abbandonata alla condanna del
re Thamus. Nella sua collocazione mitica, essa anticipa la produttività co
noscitiva dell’impiego metaforico e paradigmatico dei grammata, precisa
mente nell’esplorazione della possibilità di costruire una forma generale di
sapere elementare-combinatorio.
Sapere elementare, sapere degli elementi
Impiego metaforico e paradigmatico, si è detto. In sé stessa, la tecnica della
scrittura (e quella connessa della lettura) non rappresenta più per Platone
un fenomeno culturale emergente e innovativo, e neppure un formatore
dell’immaginario scientifico, come poteva accadere ancora per gli atomi
sti. Scrittura e lettura costituiscono certo un sapere, che ha i suoi specia
listi, i grammatistai. Senza questo sapere noi avremmo la pura percezione
della figura e del colore delle lettere ma non le conosceremmo, come udia
mo il suono della phone dei barbari senza comprenderla (Theaet. i63b)8.
Ma si tratta di un sapere di grado minimo, ovvio e declassato
— pari dei
suoi specialisti —, nel senso che è il primo cui i ragazzi accedo
no e di conseguenza il più diffuso. Il grammatistes occupa sempre il primo
posto nelle sequenze di insegnanti elementari formulate da Platone, che
gli affianca nell’ordine kitharistes e paidotribes (cfr. ad es. Prot. 3izb); il
primo apprendimento dei ragazzi consiste nel passare dalla comprensio
ne della voce a quella dei grammata (Prot. 325e), ed è a loro che spesso i
genitori affidano il compito minimo di leggere o scrivere qualcosa (Lys.
214
rispecchia probabil
ignorano ancora?
—
—
IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THIUTH 215
zo9a-b). Platone non fa che registrare questa situazione quando prescrive
nelle Leggi che i futuri cittadini debbano apprendere “con precisione” i
grammata fra i io e i i anni di età (Leg. vii 809c ss.).
Capacità minima e diffusa, e come tale agevolmente fruibile a un livello
metaforico elementare, la scrittura gode tuttavia di una serie di proprietà
interessanti. È ripetibile a piacere (Rpp. mi. 366c), ha capacità referenzialj
(quando un ragazzo scrive o legge un nome altrui «non fa le cose pro
prie», Charm. i6id-e). li segno grafico rimane identico anche nel variare
delle sue dimensioni (Resp. ii 36$d); forma un piccolo gruppo di stoichefa
che restano riconoscibili in tutte le combinazioni in cui vengono a tro
varsi (peripheromena) (Resp. iii 401a). Il gramma è dunque stoicheion, ele
mento primo, semplice e invariante della scrittura; stoichelon esso stesso,
può venir assunto a paradigma estensibile a qualsiasi elemento cui pos
sano venir ridotte, e da cui possano venir derivate, strutture complesse’°.
Sapere elementare, la lettura può quindi a sua volta essere concepita come
il paradigma universale di una conoscenza degli elementi. Un passo del
Potitico (277e-z78b) offre la chiave di questa estensione paradigmatica del
gramma/stoicheton e della scrittura/lettura:
Noi in qualche modo sappiamo che i fanciulli, appena sono divenuti esperti delle
lettere [grammata] {...] discernono bene ciascun elemento [stoicheton] quando
si trova nelle sillabe più brevi e più semplici, e sono capaci di esprimerli corret
tamente [...]. Ma in altre sillabe non li distinguono più chiaramente e allora su
di essi le loro opinioni e i loro discorsi sono falsi [...]. E non credi allora che sarà
facilissimo ed efficacissimo questo modo per guidarli alla conoscenza di ciò che
[trnagein] prima davanti a quelle sillabe
Quale?
in cui essi li riconoscevano correttamente, poi porre questi di fronte a quelli non
Riportarli
che
secondo
stesso.
è in gioco un pensiero degli elementi. A chiunque si debba la teoria, essa
mette in opera, secondo Platone, il paradigma dei grammata/stoicheia e
tn dei Megarici, posizioni comunque non estranee all’orizzonte socratico
se non certo esenti da un’eco atomistica, come sempre, del resto, quando
ticolazione teorica del discorso platonico è troppo complessa perché sia
qui possibile ricostruirla analiticamente; altrettanto difficile è il problema
storiografico di identificare i sostenitori di questa dottrina, cui Platone al
platonico, forse condivise problematicamente dallo stesso Platone, anche
mdc molto vagament&. Si tratta secondo alcuni di Antistene, secondo al
za basata sulla riduzione delle strutture complesse agli elementi semplici
enunciati o dei nomi nominando gli stoicheia onde essi sono generati. L’ar
che le compongono; in particolare, di ottenere la definizione (logos) degli
Il primo di questi esperimenti, condotto nel Teeteto, è di ordine episte
mologico. In questione è la possibilità di ottenere una forma di conoscen
menti. La produttività teorica di questo paradigma viene messa alla prova
definizione del modello scrittorio come possibile infrastruttura teorica di
una episteme analitico-combinatoria: invarianza degli elementi primi, ri
da Platone, con una serie di esperimenti concettuali, in direzioni diverse e
ducibilità a essi dei composti, regole di derivazione dei composti dagli ele
funzione vocalica e del sapere grammaticale. Ma intanto, si è completata la
allora il problema di individuare gli equivalenti metaforici generali della
nazione di lettere sarebbe possibile; e la grammatica rappresenta il sapere
specifico relativo a questo campo di combinazioni (Soph. 253a). Si apre
che regolino le combinazioni possibili. Alcune lettere, infatti, possono dar
le vocali, in particolare, fungono da legame senza il quale nessuna combi
solo per quanto riguarda la riducibilità delle strutture complesse ai loro
elementi primi, ma anche in vista della produzione di criteri di selezione
luogo a mescolanze perché si accordano (synarmottei) fra loro, altre no;
significherà conoscere qualsiasi testo possibile; il possesso di questo sapere
Più seriamente, il paradigma dei grammata può venire utilizzato non
un nome qualsiasi significa immediatamente diventare più esperto in tutta
il quale, poiché ogni testo è composto da grammata, conoscere le lettere
quanta la tecnica (grammatikoteros, i8c-d). Su questa via, non è difficile
primario riduce qualsiasi ulteriore conoscenza a un semplice riconosci
mente una sorpresa più arcaica di fronte all’esperienza scrittoria —
per il sofista Eutidemo giungere al paradosso —
con risultati contrastanti.
mento (Euth. ziia)”.
ancora conosciuti, e finalmente comparando i primi ai secondi mostrare che in
entrambe le serie di combinazioni {symptokai] sono presenti elementi simili e del
la stessa natura, fino a che accanto a tutti quelli ignorati siano posti e mostrati gli
elementi corrispondenti da loro interpretati correttamente, e questi elementi, una
volta mostrati così e divenendo quindi modelli [paradergmata], diano modo di
denominare ogni elemento in ogni sillaba, quando è diverso, come diverso dagli
altri, quando identico, come identico sempre dallo stesso punto di vista con se
A prima vista, la proprietà più sorprendente della conoscenza per elementi
fondata sul paradigma del gramma è la sua indefinita ripetibilità e quindi
estensibilità. Il Politico osserva che riconoscere le lettere di cui è formato
con
come
zx6 IL POTERE DELLA VERITÀ I
NELL’OMBRA DI THEUTH 217
della loro relazione con le sillabe: queste hanno un logos, una definibilità
che consiste precisamente nella risoluzione nelle lettere che le compongo..
no; il processo si arresta qui, perché gli stoicheta non sono ulteriormente
definibili (atoga) ma solo nominabili con il loro suono o classificabifi se
condo i tipi’3. Lo stoicheion non è dunque conoscibile (gnoston) in sé stes
so: come lo sarà allora la sillaba se la sua conoscenza dovrebbe risultare
dalla scomposizione in lettere e dalla enumerazione/nominazione di que
ste ultime? D’altra parte, se si dovesse inferire (tekmairesthai) dal modello
addotto per lo sviluppo della teoria, le lettere-elementi dovrebbero posse
dere una conoscibilità più evidente e sicura delle sillabe che ne derivano.
La conclusione, come è noto, è dubitativa e aporetica: chi non combina le
lettere nelle sillabe non ha conoscenza, ma anche scrivendo ordinatamen
te tutti gli stoicheia del nome “Teeteto” se ne otterrà una retta opinione
basata su un logos definitorio, ma non ancora una conoscenza scientifica,
una episteme (Theaet. zoie-zo8a).
Per quanto ci interessa più da vicino, i dubbi epistemologici tematizzati
da Platone
— molta cautela e anche rispetto per la teoria discussa —
sembrano essere di due tipi. Il primo riguarda la legittimità conoscitiva
generale di un metodo “elementaristico”, analitico-scompositivo, che non
è rifiutato tout-court ma che sembra incapace di comprendere l’originalità
formale del composto rispetto ai suoi elementi (cfr. soprattutto zo3e)’4, o
la sua referenzialità, come nel caso del nome “Teeteto” (zo8b). Il secondo
riguarda più da vicino la legittimità del,gramma a fungere da metafora del
lo stoicheton: in quanto non definibile in sé, ma solo nominabile, ilgramma
sembra mancare della trasparenza conoscitiva, della ricchezza di significa
zione che un elemento dovrebbe possedere perché le sue combinazioni sia
no suscettibili di conoscenza ulteriore e più elevata. Le possibilità offerte
in questo senso dal gramma verranno ulteriormente esplorate nel Cratito.
Ma il tema viene ripreso in modo diretto nel Timeo, dove Platone si chiede
esplicitamente con quali caratteri sia scritto il libro del mondo. Quelli che
una lunga tradizione considera “elementi”, l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco,
non solo non vanno considerati stoicheia, ma neppure sillabe dell’alfabeto
cosmologico (Tim. 4$b-c). La piramide, ad esempio, è lo stoicheion del
fuoco, ma essa — ogni altro solido — risulta a sua volta una “sillaba”, il
composto (systasis) dei veri elementi, i triangoli rettangoli scaleni ed equi
lateri (56b-57c).
Come si vede, il Timeo non rifiuta affatto il modello analitico-com
binatorio, ma sostituisce la suggestione metaforica del gramma con il ri
ferimento almeno parzialmente non metaforico alle figure geometriche
“prime” come costituenti elementari del mondo. Rispetto ai grammata,
i triangoli presentano per Platone l’incommensurabile vantaggio episte
mologico di una totale definibilità, di una trasparenza senza residui alla
visione conoscitiva, quindi la capacità di fondare un edificio conoscitivo
sempre più complesso ma sempre linearmente riducibile alle proprietà dei
suoi elementi primi.
Quanto al Sofista, Platone vi sperimenta, come è noto, un particolare
metodo scompositivo e quindi definitorio degli aggregati ideali complessi,
quello dicotomico. Qui gli elementi in cui si conclude la scomposizione
non sono grammata e neppure triangoli, bensì forme semplici e indivisibi
li, gli atoma eide (Soph. ;;9d). A parte l’andamento generale del metodo,
sembra interessante rilevare la formazione di nuovi nomi corrispondenti a
livelli intermedi di realtà, che la dicotomia mette in luce e che sono restati
finora anonimi (z67d).
L’onomaturgia platonica procede utilizzando le parole del linguaggio
comune come stoicheia dalla cui composizione risultano i nuovi termini;
reciprocamente, la definizione di questi ultimi consisterà nella somma del
le definizioni dei termini elementari in cui possono venire scomposti (si
pensi a parole di conio platonico come zootherike,pezotherikon, anthropo
theria, mathematopolike ecc.: Soph. zzoa ss.).
Anche qui, come per altri aspetti nel Timeo, il paradigma analitico
combinatorio dell’episteme scrittoria resta attivo e produttivo, nonostante
le aporie del Teeteto e la negazione al gramma della dignità di stoicheion
universale.
Ma è naturalmente sul terreno della lingua, del rapporto phone
gramma, che le potenzialità conoscitive della scrittura possono venire spe
rimentate più a fondo’.
Decisiva è in questo senso l’analisi del Fitebo (17a-b, i8b-d). L’emissione
vocale costituisce un continuum, unitario per un certo aspetto, e per un al
tro anche indefinitamente molteplice (apeiron). L’unico modo per gover
nare conoscitivamente questo continuo paradossale sono appunto le lettere
dell’alfabeto, i ,grammata: esse rappresentano uno strumento analizzatore
che mediante i grafemi scompone la voce nei suoni-fonemi elementari che
la costituiscono. 11 gramma è dunque il termine medio tra la voce, una e
indefinita, e l’insieme discreto e numerabile dei suoni che la compongo
no. Mediante questa analisi, Platone elabora al tempo stesso una conquista
concettuale e un modello epistemologico. La prima consiste nel compiuto
219
NELL’OMBRA DI THEUTH
risponderanno così al flusso e al movimento, delta e tau alla immobilità e
alla quiete (426c SS., 434C ss.). Ma che cosa significa questa corrisponden
za? La prima possibilità esplorata in questa direzione da Platone consiste
nel far corrispondere a ogni fonema-grafema un semantema, cioè a ogni
elemento della scrittura fonetica un radicale semantico immediatamente
referenziale rispetto alla struttura fine della realtà stessa. L’aggregazione di
questi radicali nei nomi primi, e di essi nei nomi composti, darebbe final
mente luogo a un linguaggio “naturale” o normale, cioè adeguato alla sua
funzione di strumento di simulazione/rivelazione delle cose stesse.
Questa prima possibilità semantica di adeguazione del linguaggio al
mondo è esemplificata da Platone con i nomi delle lettere: per quanto
compositi, essi devono sempre contenere la dynamis della cosa-lettera si
gnificata, come è ad esempio B nel nome beta (393e). Il nome corretto
si appropria dunque della “potenza” della cosa, e la significa. C’è indub
biamente un sapore arcaico in questo nesso elementare di significazione
tra parola e cosa; Platone lo esemplifica tuttavia, almeno nel suo versante
compositivo, che va dal semplice al complesso, con un sapere relativamen
te “moderno” qual è quello dei metrici orhythmikoi del V secolo. Essi sono
in grado di riconoscere e quantificare la dynamis degli stoicheia risalendo
da questi alle sillabe e poi al ritmo nel suo insieme (424c: con le stesse pa
role era definito il sapere di Ippia, maestro della dynamis di lettere, sillabe,
ritmi e armonie, in Hzpp. ma. i85d)’7.
Ma che cosa può garantire che la dynamis della cosa sia davvero cattura
ta dal segno fonico-grafico, e che il nome ce la restituisca, ce la “manifesti”
grazie alla sua potenza semantica? Platone è sistematicamente consapevo
le, attraverso tutto il Cratito, dell’arbitrarietà del nesso semantico che si
presume immediato tra sistema degli stoicheia, dei nomi primi e dei nomi
composti da un lato, e l’essenza delle cose, lo stato del mondo dall’altro.
Tanto è vero che egli produce due differenti analisi dei “radicali semantici”
IL POTERI DELLA VERITÀ
iis
riconoscimento della struttura e della funzione dell’alfabeto fonetico: la
cui invenzione è attribuita a «un dio o un uomo divino», Theuth secondo
la leggenda egiziana (lo sfondo egiziano, dunque semi-ideografico, appare
qui incongruo al ritrovato alfabetico, ma, come si vedrà, l’insistenza su di
esso non è priva di senso in rapporto ad alcuni sviluppi del Cratito).
Per quanto a suo modo definitiva, la teoria della scrittura fonetica inte
ressa qui a Platone per la sua fruibilità come modello; e precisamente per
una forma di sapere che
una volta —
ancora
a
la sua capacità di alludere —
non si smarrisca sterilmente nella polarità uno-infinito, ma che sia in gra
do, attraverso il processo analitico di elementazione e numerazione degli
stoicheia, e quello ricompositivo di aggregazione ordinata degli stoicheia
stessi, di muoversi nello spazio intermedio fra quella polarità, di passare
da una concezione indifferenziata a una articolata e composita dell’unità
via dell’esemplarità scritturale— si
la
quella
che rinviano a due opposte visioni del mondo, una delle quali —
sicuramente errata.
“eraclitea”, centrata sul dominio del movimento —
Di fronte all’esaustione e allo scacco di questo primo esperimento in
è
tellettuale, Platone imbocca, se pure meno sistematicamente, un’altra via,
quella suggerita dal grafismo della tradizione atomistica’8. In questa nuova
prospettiva il segno grafico, sciolto dalla connessione organica con il fone
ma, conta per la sua forma materiale e visibile. Il nome corretto sarà quello
che contiene ed esibisce, nei segni che lo compongono, il “typos della cosa”,
il suo sigillo, la sua impronta: un marchio di riconoscimento ridotto all’es
(fhit. i8a-b). Anche per questa via —
giunge al “parmenicidio”, si ricostruisce uno spazio discorsivo pur sempre
epistemologicamente controllabile e collocato tra la tautologia eleatica e il
suo orrore per la molteplicità indefinita: il sapere della dialettica viene così
strettamente metaforizzato da quello della grammatike (i$d).
Ma è certo nel Cratito che Platone compie l’esperimento intellettuale
più radicale e più esaustivo sulle possibilità conoscitive della scrittura in
quanto tale, fonetica e no.
Come è ben noto, il problema del Cratito consiste nel saggiare la tenuta
del legame fra linguaggio e realtà, la consistenza del rapporto fra i nomi e
le cosel6. Si tratta in altri termini di verificare se sia possibile, e pensabile,
una “normalità” corretta del linguaggio tale da stabilire una sequenza tra
l’essenza della cosa stessa (ousia toupragmatos), la forma del «nome per
natura» (onomaphysei), e la trascrizione di quest’ultimo in elementi (stoi
cheia) fonetico-grafici, quindi in grammata e sillabe. Se questa sequenza
fosse possibile, essa sarebbe allora ripercorribile all’inverso: lettere e silla
be, con i nomi che ne risultano, sarebbero leggibili come simulazione (mi
mesis), o meglio ancora come rivelazione (detoma) della ousia della cosa
stessa (Crat. 39od, 393d, 423e, 433b).
Questo nesso immediato fra il nome e la cosa non può venir rivelato
al livello dei nomi composti o aggregati. Un primo passo analitico dovrà
ridurli ai loro componenti primi, ai nomi-stoichela, quali possono essere,
nel contesto di un pensiero del movimento di tipo eracliteo, rhoe, flusso,
o ienai, andare (Crat. 4zza, 424a). Ma un secondo passo è in grado di
ridurre questi nomi ai loro radicali alfabetici: lettere come rho e iota cor
— con
il
per
12.0 IL POTERE DELLA VERITÀ
NELL’OMBRA DI THEUTH 12.1
senziale ma ben visibile (Crat. 431e). Torna in questo nuovo contesto, e
non a caso, l’esempio dei nomi delle lettere; solo che ora il nome beta non
è tanto il veicolo semantico della dynamis di B, quanto il suo rappresentan
te figurale, perché ne racchiude in sé la forma. Gli stoicheta dei nomi primi
dovranno dunque essere non significativi, ma riproduttivi della cosa, do
vranno essere homoia (uguali o simili) a essa, proprio come i colori della
pittura stanno alla cosa raffigurata (434a).
È difficile interpretare il senso di questo secondo esperimento plato
nico, direttamente centrato sul segno grafico, se non riportandosi, al di là
degli stessi stoicheia dell’atomismo, in direzione di un immaginario ideo
grafico. In una drastica quanto provvisoria rinuncia all’orizzonte della
scrittura fonetica elaborato nel fitebo, il geroglifico egiziano sembra di
ventare ora il modello possibile dello stoicheton del nome primo “corretto”
E questo può gettare nuova luce sull’insistenza platonica circa le origini
della scrittura in terra d’Egitto.
Rinuncia tuttavia provvisoria, si diceva. Anche l’esperimento di sosti
tuzione dei radicali semantici con radicali (ideo-)grafici per garantire la
consistenza del nesso fra il nome e la cosa viene portato rapidamente al suo
scacco. Il controesempio immediatamente evocato è quello dei nomi dei
numeri, altrettanto primi quanto quelli delle lettere ma incapaci di esibire
nella loro configurazione il typos della cosa (435c ss.).
Di fronte a questo duplice fallimento, non resta a Platone che proporre
un rincrescimento che non è soltanto ironico — ritorno a un crite
rio più “grossolano” (phortikon), e soprattutto più debole, di garanzia del
rapporto fra linguaggio e stato del mondo: quello della convenzione se
mantica tra i parlanti. Si apre così la via per il ripiegamento, al di là dell’in
chiesta sul linguaggio e sulla sua infrastruttura grafica, verso la riflessione
diretta sulle “cose stesse’
Che cosa rimane di quell’inchiesta? In negativo, la rinuncia alla pretesa
arcaica di catturare nel segno grafico, per una via o per l’altra, l’essenza e la
potenza delle cose. In positivo, ancora una volta, un paradigma “gramma
ticale” che costituisce il modello forte di un sapere analitico-combinatorio
non senza rapporti, come si è visto, con lo stesso programma dell’impresa
dialettica; e ancora, una mossa potente in direzione della costituzione di
una nuova scienza, la linguistica, che nasce nello spazio del rapporto fra
voce e scrittura, con la consapevolezza della capacità di quest’ultima di
oggettivare, articolare, dominare la voce parlata, e dell’autonomia — per
quanto malvolentieri accettata — della lingua rispetto alla realtà’.
i
Dalla scrittura al libro
Accanto alle sue potenzialità come paradigma teorico, c’è sicuramente un
incentivo esterno che spinge Platone alla sua riflessione intorno alla scrit
tura. Non più certamente l’arcano di una techne da poco inventata, com’e
ra accaduto in tempi ormai lontani; ma una vera e recente “rivoluzione
culturale’ la diffusione del libro e la sua generale accessibilitàbo. Questo
fenomeno appare a Platone capace di alterare profondamente i modi, i
contenuti e i destinatari della comunicazione culturale.
Come l’esperienza del v secolo aveva dimostrato, la scrittura è uno
strumento flessibile e accessibile a molti (mentre la forma orale della co
municazione richiede la preliminare credibilità del parlante, la sua capaci
tà di attirare e dominare un uditorio). Il libro consente inoltre una libertà
pressoché illimitata di discorso, non sottoposta alla censura immediata da
parte dell’uditorio; e, soprattutto, esso si offre a una fruizione non selet
tiva, né per quanto riguarda la cerchia dei lettori né per le circostanze e le
ragioni della letturahl. In questo modo, il libro da un lato “democratizza” la
circolazione culturale, dall’altro la rende anche a-sociale — chi punti a
un modello di socialità chiuso e coeso — perché isola il suo lettore dal con
testo e dal controllo del corpo sociale cui appartiene’. Per tutte queste ra
gioni, la circolazione dei libri appare a Platone eversiva in rapporto al suo
progetto di ricostruzione di una città fondata sull’educazione collettiva e
sulla coesione culturale che le è necessaria; una potenzialità dei libri con
fermata, come vedremo, dai loro effettivi contenuti, spesso irresponsabili,
talvolta decisamente pericolosi nei riguardi dei temi centrali del progetto
platonico: la vera filosofia, le giuste leggi, le credenze sugli dei.
Il fenomeno è preoccupante anche perché ormai radicato e diffuso in
modo irreversibile: gli ateniesi sono abbastanza esperti di g?ammata per
poter leggere il libro di Anassagora sugli astri (Apot. z6d). Sullo stesso
Socrate, che pure rifiuta tenacemente la scrittura, il libro agisce irresisti
bilmente come un’esca sugli animali (Phaedr. z3od): non gli basta sentir
leggere i libri di Anassagora, ma li acquista e li legge avidamente, con la
maggior rapidità possibile (Phaed. 98b). La diffusione e la fascinazione
del libro richiedono allora uno sforzo rivolto non a una impossibile ri
mozione, ma a limitarne, controllarne, governarne l’impatto per renderlo
compatibile con le strategie di fondo del programma platonico.
I dialoghi offrono intanto, sia pure in modo sporadico, un censimento
degli scaffali di quella che potremmo definire la “biblioteca d’Atene”.
2,2,2. IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’ OMBRA DI THEUTH “3
afferma
Platone introducendo il problema della Scrit
«Nelle poteis» —
«ci
tura delle leggi —
sono opere scritte e discorsi scritti che sono opera di
molti autori» (Leg. Ix 858c). Questa biblioteca comprende libri comun
que “profani’ ma che possono spingersi fino alla profanazione, all’empietà
e all’ateismo.
Ci sono innanzitutto «opere scritte, senza metro o col metro, di poe
ti e quanti altri hanno voluto deporre nella memoria il loro parere sulla
vita», da Omero e Tirteo a Licurgo e Solone (Leg. ix 88d-e). Ci sono poi
opere poetiche scritte ma non musicate, in versi o in prosa, e syngrammata
antologici tratti da esse, che i giovani devono imparare a memoria: sphale..
ragrammata, scritti pericolosi, dice Platone, per l’irresponsabilità dei loro
autori e la inattendibilità dei contenuti (Leg. vii 8iob-8iib). Ci sono i libri
dei retori, come quello di Lisia, altrettanto irresponsabili e per giunta ca
paci di uccidere la memoria, secondo il rimprovero mosso dal re Thamus
a Theuth. Fedro tenta infatti di apprendere a memoria il discorso di Lisia,
ma poi abbandona questo sforzo “arcaico” di memorizzazione della comu
nicazione bocca-orecchio e si impadronisce del libro, che desidera recitare
a memoria; alla fine, premuto da Socrate, rinuncia anche a questo esercizio
e si arrende alla lettura (Phaedr ,,8a-e): un preambolo ironico, che prelu
de appunto alla grande discussione del Fedro tra l’inventore della scrittura
e il suo re in terra d’ Egitto.
Nella biblioteca d’Atene sono poi numerosi i manuali delle arti, della
retorica in primo luogo (?haedr. 66d), genere letterario che si immagi
na inaugurato da Nestore e Odisseo durante gli ozi sotto le mura di Troia
(zCib), e inoltre di medicina (z68c): manuali naturalmente incapaci ditta
sformare i loro lettori in buoni retori o in buoni medici, perché contengo
no tutt’al più le sole premesse dell’arte (z68a ss.).
Più futili ancora i libri dei sofisti come l’elogio di Eracle, dovuto a Prodico,
o quello del sale (Symp. i77b). Ma questi scritti diventano grotteschi
e pericolosi quando sfiorano i grandi temi della verità filosofica e religiosa.
Grotteschi, come l’Atétheia di Protagora che profetizza dall’adyton non di
un tempio, ma di un libro oscuro (Theaet. i6za); o come le formule enig
matiche (ainittontai) degli autori di scritti «sulla natura e sul tutto» alla
maniera di Empedocle (Lys. zi4b-d). Ma soprattutto pericolosi, come la
biblioteca ateniese dell’ateismo, prodotto di una «ignoranza tanto più
espongono la nascita degli dei e
grave in quanto pare essere il massimo dell’intelligenza» (Leg. x $86b).
«Ci sono da noi discorsi scritti nei libri, alcuni in versi, altri in prosa
che parlano degli dei. I più antichi narrano come in principio fu la prima
natura del cielo e delle altre cose, [...]
come venuti all’essere gli dei ebbero rapporti fra di loro» x (Leg. 886c).
Questi scritti non sono nè lodevoli nè utili né tantomeno veritieri, anche
se meritano una qualche indulgenza per la loro antichità. «Ma lasciamo e
diciamo addio a ciò che riguarda queste cose antiche [...] Noi ora dobbia
mo accusare le opere dei nostri moderni sapienti quanto sono e in causa
dei mali» (Leg. x 8$ Cd): questi libri negano, noto, divinità come è la degli
astri e l’esistenza di una qualsiasi provvidenza divina.
Tutto ciò che esiste negli scaffali della potis, tutto ciò che la scrittura
offre a una circolazione culturale diffusa e indiscriminata, risulta dunque
inutile o nocivo: questi libri indeboliscono la memoria, offrono al consu
mo giochi intellettuali futili, danno alloro lettore l’illusione non ma la re
altà del sapere, minano le credenze tradizionali poterle sostituire senza con
altre più vere. Quando si pone la questione libro cruciale del filosofico — il
chiarisce come la cattiva qualità
libro per eccellenza della verità —
Platone
della biblioteca d’Atene non dipenda soltanto irresponsabilità dalla teo
rica e morale a un tempo dei autori, più intrinsecamente suoi bensì dalla
stessa forma-libro, dal guasto che la scrittura opera contenuti.
sui suoi
Tre opere possono rappresentare la tipologia libro del filosofico par (a
te gli scritti sofistici di cui si è già detto). un libro Anas
A estremo, c’è il di
sagora, vero best seller dell’ateismo nella presentazione Platone
che ne fa
(Apot. 6d, Phaed. 97b ss.).
Accanto a esso, un libro non ignobile, dovuto a un autore “serio” (spou
daios) come Zenone di Elea: questi sente tuttavia giustificarne
il dovere di
sia la pubblicazione
— il libro gli è stato rubato prima potesse decidere
che
se «dario alla luce» o meno — sia la composizione: stato scritto, effet
è in
ti, per offrire «un qualche aiuto» Parmenide (boetheia) al logos di (Parm.
iz8c-d). Giustificazione invero insufficiente alla luce del passo del Fedro,
dove è semmai il libro, muto e impotente mani tutti, nelle di ad aver bi
sogno dell’ «aiuto del padre»-autore (Phaedr. z75e). E infine, all’estremo
opposto, c’è il «libro di Platone»: opera tuttavia, significativamente, non
del filosofo ma del tiranno siracusano Dionisio, impadronisce con
che si
un atto di forza dei logos del maestro propria e lo irrigidisce scrittu
nella
ra vii (Ep. 34ib). Ma Platone resiste a questa imposizione tirannica della
forma-libro al suo pensiero: egli non lo ridurrà mai a syngramma, perché
la filosofia non è comunicabile (rheton) come le altre discipline, ma si ac
cende d’improvviso nell’anima dopo dialettica
il travaglio della synousia
341c); nè in questo campo syngrammata possono i valere — come accade
di
di
può
può
può
da
2.2.4
IL POTERE DELLA VERITÀ
NELL’OMBRA DI THEUTH
2.2.5
per gli altri saperi e come il fedro aveva concesso (Phaedr. ;75d)
—
pro
memoria, hypomnemata, perché ciò che davvero è importante in filosofia
non si dimentica più una volta che abbia lasciato la sua traccia nell’anima
(Ep. vii 344d). Se anche accade che un autore “serio” consegni qualcosa
alla scrittura, non si tratterà certo delle sue cose più serie: ritorna il tema
della scrittura per “gioco” (paidia), come tesoro di ricordi destinati innan
zitutto a sé stessi, rimedio contro l’oblio della vecchiaia, di cui aveva par
lato ilfedro (z76d).
Se i manuali delle technai hanno dunque una qualche legittimità, pur
non bastando a generare il sapere, il manuale filosofico non ne ha alcuna,
non può e non deve esistere: quando ciò accade, esso è inevitabilmente
ateo o “tirannico”. Si pone altrettanto inevitabilmente, a questo punto, il
problema della scrittura filosofica di Platone. Il fedro, e ancor più la Lette
ra vii, escludono che essa possa venir presa “sul serio”: la vera filosofia non
accade se non nel «discorso vivente e animato», «scritto con la scienza
nell’anima», di cui quello scritto nel libro è tutt’al più un fratello, o me
glio un eidolon (Phaedr. z76a)’4.
Questo discorso vivente è capace di selezionare i suoi legittimi interlo
cutori — fronte alla anonimia volgare dei lettori di libri —, difendersi
e insegnare — fronte all’opaco mutismo dell’altro’ —, infine deter
minare la cruciale conversione, in cui si gioca l’essenza del platonismo, dal
la parola dialettica alla visione ontologica, dal logos all’eidos. Se tutto ciò
può apparire scontato, alta è tuttavia la posta in palio nello scontro delle
interpretazioni. Non prendere “sul serio” la scrittura di Platone può signi
ficare il rinvio, al di là di essa, a un corpus dottrinale “serio”, dunque chiuso
sistematicamente, dunque ancora metafisico, il cui punto di riferimento
esplicito andrà cercato, più o meno, nel neoplatonismo; oppure — secondo
una prospettiva neokantiana —, significare, all’opposto, una consape
volezza platonica dei limiti del testo scritto, delle sue condizioni d’uso nei
contesti della comunicazione, infine dell’impossibilità di chiusura di qual
siasi sistema filosofico’6. È in gioco, come si vede, il senso del platonismo:
un gioco probabilmente senza fine, di cui si intesse la tradizione filosofica
occidentale, e la cui indecidibilità ermeneutica dice molto circa l’ambigui
tà originaria del platonismo stesso.
A ben guardare, infatti, la Lettera vii non segnala soltanto l’inadegua
tezza della scrittura rispetto al discorso vivente della filosofia, ma insiste
soprattutto sul limite assoluto della parola filosofica, scritta o parlata che
essa sia: un limite connesso al carattere non esprimibile discorsivamente
(rheton) ma solo intuitivamente visibile della verità stessa. C ‘è dunque,
se mai, una doppia sostituzione, che è anche decadenza: della visione con
la parola (e questo fa radicalmente dubitare che Platone possa aver consi
derato le “dottrine orali” come espressione adeguata della verità)’Z; e del
dialogo parlato con la sua trascrizione. Entrambe le sostituzioni sembrano
compensare la loro inadeguatezza con una pari necessità: di rappresenta
zione mimetica del livello superiore’8, e di preparazione educativa a esso.
Su questo si tornerà più avanti; per ora, come si era avvertito, preferiamo
muoverci all’interno del labirinto offerto dalle esplicite dichiarazioni pla
toniche. Leggeremo dunque nel preambolo del Teeteto la regola (ironica)
e il senso della non serietà della scrittura dei dialoghi.
Come viene fabbricato un dialogo platonico, secondo la versione del
narratore del Teeteto, Euclide? A monte del dialogo scritto c’è, beninteso,
un dialogo parlato e “vivente”, quello fra Socrate e Teeteto, che si suppone
accaduto trent’anni prima, e che Euclide non può riferire a viva voce (apo
stomatos), non avendovi assistito. Ma già udendo il primo racconto di So
crate egli aveva scritto appunti, hypomnemata; poi con calma aveva steso
tutto quel che ricordava, chiedendo via via a Socrate di colmare le lacune,
sicché alla fine «tutto il discorso era stato scritto» (Theaet. 143a). Ma non
è in questa forma, nella forma del racconto di Socrate, che il ragazzo leg
gerà il libro dove è depositato il dialogo (ormai divenuto, come di regola
in Platone, un dialogo dei morti). Euclide ha scelto di presentare Socrate
dialogante (diategomenon) con gli altri personaggi: ha cioè eliminato le
parti narrative e utilizzato il solo discorso diretto. Dopo questo complesso
percorso intermedio, la scrittura, originata dalla voce di Socrate, cede di
nuovo il posto a una voce, quella del ragazzo lettore (Theaet. ;43b-c).
Tecnicamente, non c’è dubbio che Euclide-Platone faccia qui riferimen
to esplicito al modello della scrittura teatrale, che è definito con gli stessi
termini nella Repubblica: «Quando si sopprimono le parole intercalate dal
poeta tra un discorso e l’altro e si lasciano i dialoghi [...] si ha la tragedia»
(Resp. III 394b)’9. Ma soprattutto teatrale è l’intera sequenza di genera
zione del dialogo: l’evento originario, il dialogo, situato in un passato non
lontano ma segnato nella sua chiusura dalla morte dei protagonisti; il rac
conto, ossia propriamente il “mito”; la composizione del dialogo scritto;
infine la messa in scena che si attua nella lettura, e riconsegna il dialogo alla
voce (il Teeteto produce anzi un effetto di “teatro nel teatro’ perché i due
protagonisti del primo dialogo, che si suppone parlato, Euclide e Terpsio
ne, sono poi gli spettatori del secondo, di cui Euclide è anche l’autore).
di
della
e
propria,
zz6 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH “7
Che il dialogo si definisca nella dimensione teatrale, sia trasformando
i lettori in spettatori-ascoltatori, sia mirando a porsi come la “vera tra
gedia” capace di sostituire quelle della tradizione, è del resto detto più
volte dal vecchio Platone (Criti. io8b; Leg. vii 817b-c). Il suo rapporto
con la verità serve certamente a mettere il dialogo filosofico al riparo dalla
censura che colpisce le altre forme teatrali°. Ma non può nasconderne
altri due aspetti, che esso condivide con l’intera dimensione teatrale cui
appartiene. Il primo è la presenza ineliminabile, costitutiva, della scrittura
come registrazione (immaginaria), supporto, regola della voce dialogante.
Se è impossibile e illegittimo scrivere il manuale filosofico, sarà dunque al
contrario legittimo e possibile scrivere teatro filosofico, che può simulare,
cioè rappresentare, i modi della veritiera comunicazione tra anime. Certo
resta difficile capire come questo teatro possa sottrarsi alla censura psico
logica che la Repubblica muove alla tragedia: un dispositivo che cancella
l’autore, frantuma e pluralizza l’unità sia del narratore sia del soggetto
ascoltatore, inducendo incontrollabili dinamiche di identificazione (Resp.
III 395 ss.).
Il secondo aspetto dà invece conto della necessità, della ragione segreta
di questo teatro filosofico: secondo l’analisi del Gorgia, «nei teatri i poeti
fanno retorica [...] che ha per spettatore tutto il popolo» (Gorg 5ozc-d).
Dal teatro, la replica filosofica spera quindi di derivare efficacia retorica,
capacità persuasiva universale posta al servizio di un progetto di rifonda
zione della città’.
Tanto più che essa è in grado, a differenza della tragedia, di “mettere
sulla scena” lo spettatore che vuole convincere, di farne un protagonista
dell’azione rappresentando e controllando, quindi, non solo lo sforzo del
la persuasione, ma anche i progressivi effetti che esso determina sul suo
destinatario: il i libro della Repubblica è in questo senso il più spettacolare,
ma non certo l’unico esempio di convocazione di “tutto il popolo” sulla
scena del dialogo, di trasformazione del lettore/spettatore in personaggio
dell’azione scenica32.
Scrivere filosofia è necessario per rappresentare persuasivamente la filo
sofia e la sua pretesa al comando; scriverla nella forma del teatro è l’unico
modo possibile per coniugare il massimo di efficacia retorica, nel contesto
della “teatrocrazia” ateniese (Leg. iii 7oIa), con il massimo di negazione
di una presenza tanto inevitabile quanto imbarazzante come quella della
scrittura. L’ambiguità del ricorso platonico alla scrittura filosofica, pur nel
rifiuto esplicito — matrice socratica — possibilità di un libro filoso
fico, ripete dunque l’ambiguità della stessa esperienza teatrale. Questo
non risolve certo i problemi ermeneutici di cui si è detto, ma propone for
se una dimensione diversa per ripensarli.
In ogni caso, l’ironico gioco di specchi tra voce e testo offre a Platone
una via d’uscita per poter scrivere ciò che non si dovrebbe scrivere. Ma la
questione si pone in modo ancora più acuto intorno a un problema decisi
vo come quello della scrittura delle leggi.
Scrivere le leggi?
La biblioteca della città colloca, nel suo posto d’onore, un genere parti
colare di scrittura, quella delle leggi e dei decreti. Gli stessi uomini più
potenti e illustri nelle poteis, che si vergognano di comporre e di lasciare
discorsi scritti perché temono di esser scambiati per sofisti, cioè per autori
e venditori di discorsi per conto d’altri, amano però questa particolare
forma di logografia: i loro syngrammata consistono appunto nelle leggi,
una scrittura in virtù della quale figure come Licurgo, Solone, Dario han
no ottenuto onore eterno (Phaedr. 157d-2.58c). La diffusa approvazione
sociale per la scrittura legislativa, il syngramma potitikon, non la sottrae
tuttavia alla critica del Fedro: essa non possiede né stabilità (bebaiotes) né
certezza (sapheneia), ed è piuttosto motivo di vergogna per il suo autore
perché ha i contorni vaghi del sogno laddove, intorno alle questioni del
giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, occorrerebbe il rigore della veri
tà dialettica (z77d-178a).
È compito del Politico la ripresa e l’approfondimento di questa critica
alla scrittura delle leggi. Ci sono due tipi di legislazione: quella orale, basa
ta sulle tradizioni dei padri — come sappiamo dalle Leggi, dei pri
mitivi e dei barbari — quella costituita da leggi scritte. Rigide, inadattabili
al mutare delle situazioni, ostili per la loro stessa natura a ogni mutamento
verso il meglio, queste ultime sono tali da determinare la sclerosi della vita
sociale, la distruzione delle technai, la paralisi del progresso (PoI. 296a ss.).
Esse sono, al più, un sostituto, un rimedio per l’assenza del vero politico
e legislatore: proprio come un medico, partendo, può lasciare ai pazienti
un promemoria scritto della terapia da seguire, ma appena tornato lo ab
bandona e si adatta alla nuova situazione (195c ss.). La legge scritta non
è che imitazione della verità, laddove, in presenza della techne regia, del
dialettico re, il mimema perde ogni senso e deve lasciar spazio alla piena
su
12.8 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH 12.9
verità della politica, capace di governare le situazioni sempre mutevoli in
rapporto a uno stabile possesso della episteme (300c-e).
C’è tuttavia, nel Politico, una importante concessione rispetto alla rigi
da critica del fedro. Nell’assenza, o nell’attesa, del vero re e della sua scien
za, il meglio è che ogni potiteta si attenga a un rigoroso rispetto della legge
scritta, che può almeno preservarla dall’arbitrio tirannico. Lo spazio della
legge scritta si estende tra il potere del re-filosofo e quello del tiranno, che
ne costituisce la contraffazione (PoI. 300e-3oIc).
Un ulteriore passo in questa direzione è compiuto nel dialogo sulle
Leggi, dove Platone sembra per certi aspetti compiere una confutazione
precisa e puntuale delle tesi estreme del fedro. Le leggi sono i migliori e i
più belli di tutti igrammata esistenti nelle città. Essi dovranno apparire ai
cittadini come padri e madri amorose (è appena il caso di notare che men
tre nel fedro la scrittura aveva bisogno di un padre, qui è padre essa stessa),
non come un tiranno che affigga ai muri i suoi editti dispotici; e per questo
dovranno esser precedute da ampi proemi che persuadano i cittadini e li
educhino all’obbedienza (Leg. ix 858c La funzione delle tradizioni
orali e patrie è qui ridotta a quella di tessuto connettivo, di avvolgimento
protettivo a garanzia del corpus delle leggi vere e proprie, che devono esse
re scritte (vii 793a-b). Le disposizioni scritte delle leggi, in grado in ogni
tempo di dar conto (etenchos) di sé, godono di una stabilità totale (pantos
eremei) (x 891a): anche qui non è difficile misurare la distanza dal fedro,
dove la scrittura, muta e incapace di difendersi, mancava precisamente di
stabilità e certezza. Ma c’è di più: igrammata del legislatore saranno una
sicura pietra di paragone (basanos sapbes) di tutti gli altri discorsi; i giudici
dovranno conservarli in sé come antidoto, alexiha?7nakon, che li proteg
ga dal rumoreggiare delle voci della città (XII 957d).
La scrittura della legge, rifiutata nel fedro, appena tollerata nel Politico
come rimedio all’assenza del re, trionfa dunque nell’ultimo Platone come
regola fondamentale della vita della città, come canone di ogni possibile
discorso. E la città delle Leggi è affollata di scrittura: si scrivono, oltre alle
leggi e ai loro proemi, le tavolette per l’elezione dei magistrati (v 753c), le
loro eventuali condanne (VI 755a), i titoli di proprietà della terra — me
moria scritta per il futuro — (V 741c), i testamenti (xi 913c). È notevole
che la scrittura accompagni nelle Leggi proprio momenti della vita sociale
ignorati o banditi dalla Repubblica, come i meccanismi elettorali e soprat
tutto la proprietà patrimoniale dell’oikos. Ma è ancora più notevole che
questa scrittura delle Leggi può consumare i suoi fasti soltanto al prezzo di
un ritorno alle sue originarie modalità “egizie”• è scrittura del potere e del
sacerdozio, conservata sugli altari e nei templi (741c, 753c, 856a).
Platone sembra dunque recuperare, da ultimo, una piena legittimità
sociale della scrittura ma con una serie di condizioni pesanti, che la se
questrano alla libera circolazione culturale: il controllo della sua produ
zione, affidato al legislatore, dei suoi contenuti, che dovranno consistere
nel comando, nella norma e nell’educazione all’obbedienza, infine degli
spazi della sua pubblicazione. Questa scrittura normalizzata e normativa
pare destinata a riassorbire, nelle Leggi, anche l’ambiguo teatro filosofico,
e costituire essa stessa la “vera tragedia”37. Quanto agli altri libri, che non
possono venir banditi come quelli degli atei — cioè i promemoria delle
arti, le compilazioni poetiche e così via —, di essi pesano la diffidenza
del legislatore, il discredito che colpisce gli autori, l’incertezza della pub
blicazione e della diffusione (basta ricordare il libro “rubato” a Zenone,
quello di Lisia che Fedro nasconde sotto il mantello, l’esecrabile manuale
del tiranno Dionisio).
Ma una valutazione complessiva della presenza e delle dinamiche della
scrittura in Platone non può certamente fermarsi alle Leggi, e alla loro ri
gida codificazione della parola scritta.
Il sistema vicariante
L’analisi fin qui condotta consente, secondo un piano di lettura trasversale
al testo platonico, di ricomporre elementi diversi in un profilo sistematico
del luogo e delle funzioni della scrittura. Un sistema di prossimità e diffe
renze, articolato in una lunga serie di coppie solo in apparenza polari.
Gramma/stoicheion: la lettera non è l’elemento, ma pure la scrittura al
fabetica costituisce il modello del sapere degli elementi.
Scrittura/matematica: un sapere basso e uno alto, che hanno tuttavia la
stessa origine e la stessa forma combinatoria.
Gramma/phone: dove il primato appartiene alla voce, al “discorso vi
vente’ che però tocca alla capacità analitica della scrittura di articolare e
trasformare in “Iingua”
Scrittura/filosofia: il libro filosofico non può esistere ma a sua volta il
discorso della filosofia non può che essere trascritto.
Scrittura/legge: la vera legge è la viva voce del vero re, ma nel suo silen
zio occorre scrivere le leggi.
legate,
a
2.30 IL POTERE DELLA VERITÀ NELL’OMBRA DI THEUTH
2.31
Scrittura/memoria: la scrittura danneggia la memoria individuale n-
al tempo stesso produce e conserva quella sociale.
Scrittura/anima: la scrittura si colloca all’opposto dell’anima, che tut
tavia può esser metaforizzata come un libro scritto da quel grammateus
interiore che sono la nostra memoria e le nostre sensazioni (Phit. 38e-39a)
Sembra dunque che la scrittura tenda punto a punto a riempire gli spazi
lasciati (provvisoriamente?) liberi dall’assenza del vero sapere, della vera
memoria, della vera voce, del vero re. Un sistema provvisorio e vicarian
te, un’ombra, o meglio un “doppio’ del quale va tenuta sotto controllo la
pretesa di sostituire definitivamente l’altra polarità, alta e solare. Recipro
camente, sono l’assenza, il sempre rinviato avvento di quest’altra polarità
a segnare il carattere precario, limitato, umbratile della dimensione della
scrittura, tuttavia insostituibile (proprio come, nella Repubblica, la distan
za siderale dell’idea del bene rendeva insieme provvisorio e indispensabile
il lavoro della dialettica, le sue metafore, i suoi miti). Nell’attesa della tra
sparenza del nome, dell’illuminazione dell’anima, dell’ascesa al potere del
re filosofico, la dimensione della scrittura genera paradigmi di conoscenza,
progetti di sapere, forme di coesione politica, oggetti intellettuali.
Platone elabora una irripetibile fusione di arcaismo e profezia di un
nuovo mondo. Dal punto di vista storico, tuttavia, egli non sfugge a una
collocazione precisa: la sua interrogazione sulla scrittura, la sua pratica di
trascrizione delle parole dei morti (ma di morti recenti, come quasi tutti i
personaggi dei dialoghi), si colloca sul sottile crinale tra due epoche, quella
di Socrate e quella di Aristotele — rispettivamente, al privilegio della
parola e a quello del testo. Un breve intervallo, una condensazione di pos
sibilità aperte: destinate a costituire un miraggio ricorrente per la filosofia,
ma un punto di svolta irreversibile per la storia culturale della scrittura in
Occidente. E anche a consolidare un carattere specifico dell’antico: quello
di essere una civiltà permeata di scrittura che non è tuttavia mai stata una
civiltà del Libro e neppure dei libri’.
Note
i. E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà detta scrittura. Da Omero a Platone (1963),
trad. it. Roma-Bari I983. Per una messa a punto delle discussioni suscitate da
quest’opera cfr. G. Cern, Ilpassaggio dalla cultura orale atta cultura di comunicazione
scritta nell’età di Platone, in “Quaderni Urbinati”, 8, 1969, pp. 119-33.
.. Basti qui rinviare all’ampio bilancio di questa tendenza interpretativa tracciato
da H. J. Kràmer, Platone e ifondamenti delta metafisica, Milano 1982 (sul quale cfr.
M. Isnardi Parente, Recensione, in “Gnomon”, 1985,
, pp. 120-7). Cfr. ora anche
G. Reale, Platone, Milano 1986. Più problematico e sfumato K. Gaiser, Platone come
scrittorefitosofico. Saggi sutt’ermeneutica dei dialoghiplatonici, Napoli 1984. Molti sag
gi rilevanti di questa tendenza sono raccolti in I. Wippern (Hrsg.), Das Probtem der
ungeschriebenen Lehre Ptatons, Darmstadt 1972. Un quadro dei presupposti culturali
di questa posizione in F. franco Repellini, Gli agrapha dogmata di Platone: la loro
recente ricostruzione e i suoi presupposti storico-filosofici, in “Acme’ I, 1973, pp. 51-84.
Per un bilancio complessivo, cfr. qui CAP.I.
3. Questa analisi si basa in effetti su uno spoglio globale dei passi di Platone relativi
ai diversi aspetti di scrittura e lettura, e i luoghi citati possono costituirne un indice
pressoché completo. È rilevante avvertire che si è considerata autentica la Lettera vii
(per questa opzione basterà qui rinviare a M. Isnardi Parente, filosofia e politica nette
lettere di Platone, Napoli 1970). Occorre anche avvertire che il taglio di lettura segui
to comporta inevitabilmente l’isolamento della scrittura dalle sequenze metafoniche
in cui essa è inserita, e che includono molto spesso l’aritmetica, la musica e altre forme
di apprendimento “elementare”.
4. Quel «certo [tis] Prometeo» di cui parla il filebo (i6c) non è l’inventore della
scrittura ma dell’analisi dei rapporti fra uno e molteplice. Anche in questo dialogo
l’invenzione delle lettere dell’alfabeto è attribuita — secondo «una leggenda egiziana»
— Theuth, o,più vagamente, a «un dio o un uomo divino» (isb). Sulle origini
egiziane della leggenda cfr. R. Eisler, Ptaton und das àgyptische Alpha bet, in “Archiv
ftir Geschichte der Philosophie’ 27, 1912, pp. 3-13.
Primi storici, i sacerdoti egiziani sono anche i primi traduttori. Attraverso la ritra
.
duzione di Solone, i loro grammata avrebbero raggiunto i Crizia (nonno e nipote),
quindi lo stesso ambiente familiare di Platone (Criti., I,3a-b). La scrittura egizia si
fa qui il veicolo della continuità di una storia di casta che salda la remota antichità
dell’Atene dei tempi di Atlantide con il legislatore e il tiranno dell’Atene storica e
con il filosofo che ne progetta la rifondazione. Cfr. in proposito L. Brisson, Platon, tes
mots et tes mythes, Paris 1982, pp. 32-49.
6. Anche gli Egiziani sono infatti barbari: cfr. Resp. IV 435 5.
La prima serie è costruita naturalmente in analogia alla seconda, quale risulta dal
.
libro vi della Repubblica.
8. In quanto sapere specialistico, si può essere agathoi (Prot. 345a) oppure phautoi
(Phaedr. z4zc) nella scrittura; è rilevante ad esempio la rapidità nello scrivere igram
mata (Charm. 159c). A un livello superiore, è da supporre che l’insegnamento della
scrittura si integrasse con quello “metrico”: Ippia è definito maestro della dynamis
dei grammata, delle sillabe, dei ritmi e delle armonie (Hzpp. mai. z85d). È il caso di
sottolineare, a proposito del passo del Teeteto e altri simili, che gramma oscilla in Pla
tone tra un significato grafico e uno fonetico: cfr. D. Gallop, Plato and the Atphabet,
in “Philosophical Review”, 72, 1963, pp. 3 64-76, che replica a G. Ryle, Letters and
Syllables in Ptato, in “Philosophical Review”, 69, 1960, pp. 431-51.
Sulla condizione sociale del grammatistes, cfr. M. A. Manacorda, Scuola e inse
.
2.32
IL POTERE DELLA VERITÀ
NELL’OMBRA DI THEUTH
2.33
gnanti, in M. Vegetti (a cura di), Oratità scrittura spettacolo, Torino 1983. Per il valore
filosofico in Platone di questa figura, cfr. H. Joly, Platon entre te maitre d’écote et Ief
briquant de mots. Remarques sur lesgrimmata, in Philosophie du langage etgrammaire
dans t’antiquité, Bruxelles 1986, pp. 105-36.
io. Sulla questione del rapporto fra gramma e stoicheton è fondamentale W. Schwa
be, ‘Mischung” und “Etement” im griechischen bis Ptaton, in “Archiv fUr Begriffge
schichte”, Supplementheft 3, 1980, pp. 83, ii6 ss. Cfr. anche T. A. Druart, La stoichéio
logie dePtaton, in “Revue Philosophique de Louvain”, 1975, pp. 143-62..
il paradosso è riecheggiato in Theaet. 198e.
i;. Sulla questione cfr. Schwabe, ‘liischung” und “Element”, cit., pp. 151 ss. Per un
avvicinamento della teoria allo stesso Platone propende M. Burnyeat, The ÌVlaterjal
andSources offlato’sDream, in “Phronesis”, 15, 1970, pp. 1cl-i;.
13. Una classificazione dei grammata secondo il suono (consonanti sonore, conso
nanti afone, vocali) in Theaet. ;o3b; cfr. Phil. ;8b.
14. Per lo sfondo scrittorio di questo problema, cfr. le ricerche sulla scrittura attica di
R. Herder, Die Meisterung der Schrft durch die Griechen (i;), in G. Pfhol (Hrsg.),
DasAlphabet, Darmstadt 1968, pp. 169-9; («Jeder Buchstabe steht als Individuum
fur sich, die Atomisierung ist bis zu letzter Abstraktheit getrieben, die Einheit des
Ganzen beruht nur noch in dem Koordinatentennetz des System», p. z8i); anche
Rottenschrft, in ivi, pp. 311-80 (in particolare pp. 379-80).
i. Le considerazioni che seguono devono molto al contributo presentato al collo
quio sulla scrittura (Parigi 1988) da Gian Arturo Ferrari.
i6. Nell’ambito della vasta bibliografia sul Cratito, occorre rinviare almeno ai saggi
fondamentali: V. Goldschmidt, Essai sur te Cratyle, Paris 1940; A. Pagliaro, Nuovi
saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956; M. Buccellato, Linguaggio e socie
tu alle origini del pensiero greco, in “Rivista critica di storia della filosofia’ 16, 1961,
3J3. 159-77; K. Lorenz, J. Mittelstrass, On RationalPhilosophy ofLanguage: The Pro
gramme in Plato’s Cratylus Reconsidered, in “Mmd”, 75, 1966, pp. i-;; R. Robinson,
Essays in Greek Philosophy, Oxford 1969; J. Derbolav, Platons Sprachphilosophie im
Kratylos und in den spàteren Schrften, Darmstadt 197;; C. H. Kahn, Language and
Ontology in the Cratylus, in E. N. Lee, A. P. D. Mourelatos, R. M. Rorty (eds.), Exe
gesis and Argument, Assen 1973, pp. 151-76; K. Gaiser, Name und Sache in Platons
Kratylos, Heidelberg 1974; G. Genette, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Paris 1976;
e i saggi di M. Schofield, B. Williams,J. Annas, in M. Schofield, M. Nussbaum (eds.),
LanguageandLogos, Cambridge 1981, rispettivamente pp. 6i-8i, 83-9 3, 95-114.
17. Cfr. in proposito Schwabe, ‘Mischung” und “Element”, cit., pp. 114 Ss.
i8. Sulla natura “grafica” degli atomi democritei cfr. H. Wismann, Réalité et mature
dans latomisme démocritéen, e G. A. Ferrari, La scritturafine della realttì, in F. Roma
no (a cura di), Democrito e l’atomismo antico, Catania 1980, rispettivamente pp. 6 1-74
e 75-90.
19. Cfr. in proposito analisi e bibliografia di W. Leszl, Linguaggio e discorso, in M. Vegetti
(a cura di), Il sapere degli antichi, Torino 1985, pp. 13-44.
lo. Sulle dimensioni storico-culturali del fenomeno basta qui rinviare a E. G. Tur
ner, Ilibri netl4tene del ve iv secolo a.C. (195;), trad. it. in G. Cavallo (a cura di),
Libri, editori epubblico nel mondo antico, Roma-Bari 1975, pp. s-;; D. Lanza, Lingua
e discorso nell4tene delle professioni, Roma-Bari 1975, pp. 52-87; per la filosofia H.
Cherniss, Ancient forms ofPhilosophic Discourse, in Id., Setected Papers, Leiden 1977,
pp. 14-3; cfr. ancheJ. Goody, I. Watt, The Consequencies ofLiteracy, inJ. Goody (ed.),
Literacy in Traditional Societies, Cambridge 196$, pp. 2.7-68, in particolare pp. 49
Cfr. da ultimo M. Erler, Platons Schrftkritik im historischen Kontext, in “Altsprachli
cher Unterricht”, 2.8,4, 1985, pp. 17-41; G. F. Nieddu, Testo, scrittura, libro nella Grecia
arcaica e classica: note e osservazioni sullaprosa scientfrco-filosofica, in “Scrittura e civil
tà”, 8, 1984, pp. 113-61, in particolare per Zenone e Anassagora pp. 249 SS.
Anche se non esplicitamente nominata, la scrittura è probabilmente responsabile
di quella volgarizzazione (anaphandon) delle dottrine filosofiche sul movimento, un
tempo celate dagli antichi sptto il velo della poesia, che i moderni sapienti mettono a
disposizione anche dei calzolai (Theaet. i8od).
i;. Cfr. in questo senso Herder,DieZvleisterung, cit.,p. 2.91.
23. La controversia del iv secolo sul carattere orale o scritto della retorica costitui
sce certamente uno degli sfondi della riflessione platonica: cfr. P. Friedlànder, Plato
(191$), trad. ingl. New York 1958, voi. ,, pp. III Ss.; 5. Gastaldi, La retorica del wsecolo
tra oralita e scrittura, in “Quaderni di storia”, 14, 1981, pp. 189-116.
2.4. Sul problema si possono consultare le equilibrate considerazioni di H. Joly,
Le renversementplatonicien. Logos, episteme, polis, Paris 1974, pp. xii ss. Cfr. anche
J. Derrida, Lapharmacie dePlaton, in Id., La dissemination, Paris 197;; dilettantesche
le osservazioni di J. M. Charrue, Lecture et écriture dans la civilisation hellénique, in
“Revue de Synthèse”, 83-84, 1976, pp. 119-49; su Platone 131 ss.
;. Sull’incapacità del libro di «interrogare e rispondere», sulla sua costrizione a
«ripetere sempre la stessa cosa», cfr., oltre a Phaedr. z75d, Prot. 3292..
z6. Esemplare in questo senso la posizione recente di W. Wieland, Ptaton und die
formen des Wissens, Gòttingen 19$;, pp. 13 55., 53 55.
27. Mi sembrano ancora valide, in questo senso, le osservazioni di H. Cherniss, The
Riddle oftheEarlyAcademy, New York 1961, p. ii. Secondo Gaiser, Name undSache,
cit., pp. 47-8, principi basilari secondo Platone non sono «del tutto ineffabili. Essi
si possono anzi formulare molto bene verbalmente»: a quanto pare, questo è riusci
to molto meglio alla scuola di Thbingen che allo stesso Platone. Che ci sia qualcosa
che «non può esser trasmesso dalle parole», che non si possa eliminare il «sudden
flash of insight», è concesso anche da T. A. Szlezàk, The Acquiring ofPhilosophical
Knowledge According to Plato’s Seventh Letter, in G. W. Bowersock, W. Burkert, M.
C. J. Putnam (eds.), Arktouros. Hellenic Studies presented to 3. MKnox, Berlin
pp. 354-63, p. 363. È certo, piuttosto, che la soglia dell’ineffabilità viene costantemen
te messa alla prova dal lavoro (anzi, dalla “battaglia”, cfr. Resp. VII 534c) del discorso
dialettico, che ritesse continuamente la sua proposta di senso in attesa, o in luogo,
della visione ultimativa del fondamento.
;$. Come la scrittura è eidolon del logos vivente (Phaedr. 2762.), così il dialogo lo è del
la verità stessa (cfr. ad es. Resp. vii 5332.). Scrittura e dialogo stanno dunque rispetto a
2.34 IL POTERE DELLA VERITÀ
. NELL’OMBRA DI THEUTH ‘35
voce e verità nella posizione dell’eidoton di Elena a Troia, secondo la versione stesjco
rea del mito valorizzata dallo stesso Platone (Resp. Ix 86c). Come la guerra di Troia,
il lavoro filosofico sembra dunque svolgersi attorno al simulacro di ciò che è assente.
Il discorso può assumere una curvatura imprevista se si suppone, come fa E. A. Have
lock, Dike. La nascita detta coscienza (1978), trad. it. Roma-Bari 1981, che il primato
della visione sia un « riflesso della crescente, per quanto inconscia preponderanza del
la parola scritta su quella parlata, della parola vista su quella ascoltata» (pp. 405-6).
L’estremo inferiore della scala determinerebbe così quello superiore. Ma è possibile
attribuire proprio a Platone una tale inconsapevolezza di fronte alla scrittura?
29. Un’analisi delle parti narrative dei dialoghi può dimostrare che in molti casi esse
forniscono all’ascoltatore/spettatore informazioni di tipo “scenico” (cfr. J. Andrieu,
Le diatogue antique, Paris 1954, pp. 306-7, 3,8-9). Su Platone scrittore di tragedie è
appena il caso di ricordare il famoso aneddoto di Diogene Laerzio, 3.5; secondo Tra
sub, Platone avrebbe inoltre pubblicato i dialoghi per tetralogie al modo dei tragici
(DL 3.50). La teatralità dei dialoghi non andrà comunque pensata nel senso che la
loro “pubblicazione” (un problema ancora aperto) avvenisse mediante la recitazione
ai Giochi, con Platone nella parte di Socrate, secondo l’improbabile tesi di G. Ryle,
Ptato’s Progress, Cambridge 1966, pp. 21-54.
30. Cfr. su questo le ampie (ma non del tutto convincenti) osservazioni dij. Labor
derie, Le diatogueptatonicien de la maturité, Paris 1978, pp. 9, ss. (in particolare sul
Teeteto, pp. 395 ss.).
31. Su questi temi occorre rinviare ad alcuni scritti in qualche modo “classici”: R.
Hirzel, Der Diatog, i, Leipzig 1895 (che definisce la forma drammaturgica di Plato
ne «ein Tribut an den herrschenden Zeitgeist», p. zo); Friedlànder, Plato, cit., i,
pp.
121 Ss.; H. G. Gadamer, Platone e i poeti trad. it. in Id., Studi platonici i,
Casale Monferrato 1983, pp. i8-zi; H. Kuhn, The True Tragedy: On the Retationshtp
between Greek Tragedy and Ptato, in “Harvard Studies in Classical Phibology”, sa,
1941, pp. 1-40; 53, 1942,
pp. 37-8 8. Cfr. anche Havelock, Dike, cit., pp. 401 Ss.; e, sul
carattere tragikos del libro viii della Repubblica (545d), ‘W. Janke, Atethestdte tragodia,
in “Archiv fùr Geschichte der Philosophie”, 47, 1965, pp. zi-6o. Cfr. da ultimo M. C.
Nussbaum, The fragitity of Goodness, Cambridge 1986 (Plato’s Anti-Tragic Theater,
pJ. 122-35).
32.. Sul tema nietszcheano dello “spettatore sulla scena” in Euripide, cfr. D. Lanza, Lo
spettatore sulla scena, in D. Lanza et al., L’ideologia delta citt,i, Napoli 1977, pp. 57-78;
sulla “messa in scena” della Repubblica cfr. J. Laborderie, Le dialogue platonicien,
pp. 402 Ss.; più in generale sulla città nei dialoghi, P. Vidal-Naquet, La sociétéplato
nicienne des dialogues, in Aux ortgines de t’hellénisme. Hommage ì H. Van Efenterre,
Paris 1984, pp. 273-93. Giuste in questo senso (anche senza che sia necessario accettare
ipotesi “esoteriche”) le osservazioni di T. A. Szlezalc, Dialogform und Esoterik, in “Mu
seum Helveticum”, I, 1978, pp. 18-32: l’autore Platone si addossa anche la responsabilità
dell’interpretazione del suo testo, secondo una modalità arcaica che quest’epoca di cri
nale fra privilegio dell’oralità e dominio della scrittura tende a rendere anacronistica.
3. Cfr. su questo l’importante saggio di Ch. Segal, Tragédie, oratité, écriture, in
“Poétique”, 50, 1982, pp. 131-54.
La traccia che le leggi offrono alla vita della città è paragonata nel Protagora
(3z6d) a quella che i maestri incidono con lo stilo sulla tavoletta per insegnare la scrit
tura ai ragazzi: un’ulteriore connessione metaforica tra legge e scrittura.
il disprezzo della logografia, per il suo aspetto mercenario, è certamente diffu
so nella società ateniese fra v e IV secolo. Platone lo generalizza in un rifiuto della
scrittura politica, che rappresenta tuttavia un problema più complesso: se Pericle non
scrive discorsi, scrivono tuttavia oligarchi come Ctizia e l’autore della Costituzione
degli ateniesi.
36. Platone riformula qui senza dubbio un’esperienza ateniese: i lunghi decreti del
v e IV secolo sono preceduti da un’ampia sintesi del discorso del proponente. Sulla
funzione dei proemi alle leggi, cfr. 5. Gastaldi, Legge e retorica. Iproemi dette “Leggi”
di Platone, in “Quaderni di storia”, 20, 1984, pp. 6 9-109.
37. C’è qui (Leg. VII 8i ie) l’ansia tutta pedagogica di «non lasciar fuggire » il discor
so filosofico sulle leggi, di consegnarbo al circuito della scrittura educativa, quasi che
l’assenza (del maestro-Socrate, della verità, del re legislatore) non sia più sopportabi
le. Prescrive Platone che i nomophylakes e i paideutai, se si imbattono in discorsi non
scritti come quelli messi in scena nelle Leggi, «non se li lascino sfuggire in nessun
modo ma li scrivano [me methienai (...) grophesthai de] » e obblighino i didaskatoi
a impararli e a insegnarli. Cfr, in proposito Gaiser, Name und Sache, cit., pp. 107 SS.
38. Cfr. in questo senso le importanti osservazioni diJ.-P, Vernant, Divinazione e ra
zionatitì (i,7), trad. it. Torino 1982, pp. 15 Ss.
Io
Glaucone e i misteri della dialettica*
L’intervento di Glaucone nel libro VII della Repubblica (532cl-e) svolge,
come spesso accade nel dialogo, un ruolo strategico in rapporto al suo svi
luppo teorico. Glaucone ha ascoltato da Socrate le sue indicazioni sulla
dialettica, e in particolare la stretta connessione con il “buono”, che le asse
gna come ambito specifico il “luogo” più elevato del campo noctico-ideale.
Egli apre il suo intervento rilevando la persistente mancanza di homotogia,
di consenso dialogico sulle argomentazioni di Socrate: «mi paiono cose
estremamente difficili ad ammettersi» (53zd3: cù.rir& v &roxtect),
benché ne ammetta d’altro canto la persuasività («difficili a non ammet
tersi»). Questa assenza di homotogia impone, secondo Glaucone, la ne
cessità di un rinvio a ulteriori e ripetute discussioni, che possano eventual
mente condurre a un più solido livello di consenso: «non se ne deve sentir
parlare solo in questa occasione [53id4 5.: i-v tci trv Trapàvtt]’ ma occorrerà
tornarvi sopra più volte». Per il momento, Glaucone è disposto ad accet
tare le tesi socratiche solo a titolo di ipotesi (53zd6: TcLiiTc 8vrt itrv
-v&v )kyrrai). Ma per sviluppare la discussione, e andar oltre le rapsodiche
indicazioni socratiche sui caratteri, i compiti e i privilegi della dialettica,
Glaucone ha una richiesta precisa da fare, che egli formula con il rigore
concettuale che gli è consueto. Ci siamo finora limitati al “proemio” del
discorso, egli sostiene, e occorre ora entrare nel vero e proprio nomos della
dialettica (53zd6 s.): la metafora musicale rinvia al pieno dispiegamento
argomentativo dell’analisi, alla saturazione metodica dello spazio teorico
che Socrate ha dischiuso.
Glaucone esige dunque che Socrate illustri, a proposito della dynamis
dialettica: a) quale ne sia la modalità specifica (il tropos); b) in quali forme
(eide) si distingua; c) quali ne siano le procedure (bodoi: 531d$-eI). Ciò che
Questo capitolo è già stato pubblicato in f. L. Lisi (ed.), The Ascent to the Good,
Academia Verlag Gmbh, Sankt Augustin 2007.
— destinato
— al
un
si
23$ IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 239
viene richiesto, dunque, è una definizione formale, teoricamente compiu
ta, del metodo dialettico, che ne chiarisca lo statuto epistemologico, allo
stesso modo in cui nel libro VI Adimanto aveva domandato una defini
zione concettualmente precisa dell’idea del buono; anche in questo caso,
l’esigenza di Glaucone è determinata dalla novità della proposta socratica,
e dalla conseguente incertezza dei suoi contenuti, che rendono impossibile
la concessione di un immediato consenso da parte degli interlocutori.
La risposta di Socrate risulta in questo caso (assai più che nella discus
sione sui “buono”) sorprendente per la sua reticenza che assume un tono
quasi aggressivo nel contesto dialogico. Mentre nel caso del “buono” So
crate aveva tentato di evitare una risposta a Glaucone adducendo la propria
inadeguatezza, egli ora addebita in primo luogo questa inadeguatezza pro
prio al suo interlocutore: «non sarai più [...} in grado di seguirmi (015K -r’
[...] oto r’io &Ko)ouOttv), per quanto io non trascurerà certo ogni sforzo
[prothymia]» (VII 533I s.). Nella discussione sull’idea del buono, lo sfor
zo, laprothymia, erano quelli che Socrate si dichiarava disposto a impegna
re nella ricerca, per quanto la sua incapacità (o15 olo r’iooat) rischiasse
di esporlo al ridicolo (VI 5o6d7 s.). Ora invece questo sforzo non è quello
del ricercatore incerto, bensì quello del maestro che ha di fronte un allie
vo inadeguato: una situazione invero assai poco “socratica”, che rovescia
quella in cui Socrate si era trovato di fronte a Diotima nel Simposio. Qui
era la sacerdotessa a temere l’incapacità di Socrate (015K ot’tL oio r’iv Eiv,
zioaz) a seguirla sulla via dell’iniziazione ai misteri dell’eros, nonostante
fosse disposta a impegnarsi con tutta la suaprothymia.
Ma Socrate attenua immediatamente questa posizione “magistrale’
questa violenza dialogica nei confronti del suo interlocutore, introducen
do una seconda ragione della sua reticenza, che questa volta, in modo più
consueto, riguarda la natura stessa del suo sapere: «non scorgeresti più
un’immagine di ciò di cui parliamo, ma la verità stessa [&vtà tà &)O],
almeno come essa mi appare [ -yt & ot ccdvt-ri]. Se è realmente così op
pure no, non è ora il caso di affermarlo recisamente [diischyrizesthai] »
(VII 5333 s.). La condizione del sapere socratico sulla dialettica è dunque
quella stessa, doxastica, che caratterizzava anche le sue vedute sul “buo
no” (T& oIcofrvrc, VI 509c3). Questo può spiegare il tono aggressivo ini
zialmente adottato da Socrate nei riguardi di Glaucone: la sua richiesta è
“impertinente” perché eccede i limiti del contesto dialogico già chiariti in
quella occasione.
Glaucone risulta dunque probabilmente incapace di seguire Socrate su
una via che questi è sì in grado di indicare, ma non di percorrere con il ri
gore epistemico richiesto dalla domanda strategica intorno ai metodi, agli
eide e al tropos della dialettica. Ma perché questa doppia inadeguatezza?
Una compiuta risposta alla domanda di Glaucone appare formulata nel
fedro, senza che la forma della scrittura in quanto tale imponga di per sé
alcuna reticenza. Da un punto di vista “tecnico”, la dynamis dei discorsi
presenta due eide, quelli delle divisioni e delle sintesi (tcv ttpo-tc Kcd
ou’iccyorycsv, ;65c9, z66b4): «qualora io ritenga qualcun altro capace di
indirizzare lo sguardo verso un’unità che sia anche per natura divisibile in
molteplicità, questo io seguo [...] E proprio quelli che sono capaci di fare
ciò, li denomino, e se l’espressione è corretta o no lo sa dio, li chiamo, fino
ad oggi, dialettici» (z66b).
Ricorrere a un diverso contesto dialogico per rispondere a una doman
da formulata nella Repubblica può apparire scorretto, e in effetti lo sarebbe
se anche nel nostro dialogo non fosse chiaramente accennata una conce
zione della dialettica simile a quella più ampiamente sviluppata nel fedro.
In un passo che precede la problematica comparsa dell’idea del buono, il
diategesthai autentico è distinto dall’argomentazione eristica per la sua ca
pacità metodica di operare divisioni, diareseis (V 454a6: r6 [...] t315coOu..t
1cccr’si& tctpo152E-vot tà ).r 6iti,oii 7rtoIco7rE.iv). Una concezione della dia
lettica come tecnica diairetica è dunque già presente nella Repubblica, e an
che il suo secondo eidos, quello sintetico, è in qualche misura implicato dal
carattere sinottico (synopsis, VII 537Cl s.) che le viene assegnato nel dialogo.
Perché dunque Socrate non si inoltra su questo terreno rassicurante
a essere esplorato in forme solidamente epistemiclie nel So
fista — e preferisce arroccarsi in una reticenza attribuita all’inadeguatez
za dapprima riferita aggressivamente a Glaucone e poi anche alle proprie
convinzioni? La risposta a questa domanda non può che rinviare alla pe
culiare architettura teorica della Repubblica. Il sapere dialettico intrattiene
qui — a differenza che in altri dialoghi, come appunto il fedro e il Sofi
sta — rapporto costitutivo con quella enigmatica idea del buono, che ne
costituisce il tetos, l’oggetto privilegiato e al tempo stesso la ragion d’essere
in quanto sapete destinato e legittimato al potere. Se il “buono” è il fonda
mento della supremazia della dialettica, il suo ambiguo statuto ontologico
limite dell’essere e al di là della ousia noetico-ideale — riverbera sullo
statuto epistemologico della dialettica stessa, assicurandone la supremazia
come “fastigio” dell’edificio delle scienze e insieme rendendo incerto il suo
profilo metodico.
benché appaia del tutto ragionevole, risulta a sua volta eccedente rispetto
ai limiti che già la discussione sul “buono” aveva nettamente indicato. Pri
ma ancora che Glaucone la formulasse, Socrate aveva sostenuto che nella
canto che la dialettica esegue» (532a1 5.: OTO &9 cirr6 oriv 6 &v rà
dunque nella Repubblica
—
la sua discorsività “proemiale”, con l’istanza criti
esigenze di Glaucone —
ne nega
etenchos “socratico” —
te “positiva”: non si tratterà in questo caso di un vero e proprio logos tes
(Resp. VII 534b9: top(ovwOcu rc )6y). Questa operazione non significa
ne della sua ineffabilità ma nella sua “delimitazione” nel discorso razionale
propriamente una “definizione” nel senso aristotelico, bensì appunto in
una delimitazione rispetto alle altre idee, che da un lato nega la possibi
lità di identificazioni del tipo “il buono è la giustizia, la verità” e così via,
dall’altro, e di conseguenza, apre la via a una sua descrizione razionalmen
l’identificabilità senza residui con qualsiasi stato dell’essere, sottolinean
Glaucone e Adimanto. Nel libro IV si perviene a una descrizione, a un
Z40 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA 2.41
lagos, dell’essenza (ousia) della giustizia (dikaiosyne) oggetto della ricerca,
In altri termini, l’eccedenza della dialettica fa sì che l’insieme delle episte
mai e delle technai, benché riformate e rifondate, non costituisca altro che
un “proemio”, un preludio al “canto”, al nomos che la dialettica deve final
mente eseguire (53id8). Ma la richiesta di Glaucone, di passare finalmente
all’esecuzione di questo nomos dopo la lunga analisi del proemio (3zd6 s.),
«capacità di dare e ricevere ragione» (532e4 s.) consisteva già «proprio il
ta)yro-Ocu 7rtpal-vE1). 11 nomos, il “canto” epistemico della dialettica coincide
differenza che in altri dialoghi e a dispetto delle
con
a
co-fondativa che essa rappresenta nei confronti delle assunzioni “ipotetiche”
tanto nell’ambito dei saperi matematici quanto in quello etico-politico, li
riferimento costitutivo a un oggetto collocato “al di là della ousia” determina
quindi il carattere “insaturo” del sapere dialettico, la sua strutturale apertura
proemiale di cui è impossibile pretendere il compimento nel nomos.
L’unica risposta possibile alla domanda di Glaucone consisterà dunque
nel descrivere il lavoro che costituisce il compito della dialettica, in cui si
esplica la sua efficacia, la sua dynamis, che corrisponde, nella discorsivi
tà umana, a quella dynamis in cui consisteva la supremazia causativa del
“buono” in campo ontologico ed epistemico. E allora questa descrizione,
in luogo di una impossibile definizione di tropos, badai ed eide, che Socrate
proporrà a Glaucone nel contesto del dialogo.
La dialettica inizia dunque il suo lavoro con un approccio critico-ne
gativo, “togliendo le ipotesi” (533c8), mostrandone cioè l’infondatezza e
muovendo dal loro livello in direzione del principio fondativo (vi ii b5).
Questa confutazione delle ipotesi avviene però —
e
qui è stata segnalata
la soglia della separazione fra la dialettica della Repubblica e il consueto
secondo la doxa bensì secondo la ousia (VII
non
534CZ s.): in effetti il movimento della confutazione delle ipotesi appro
da non all’incertezza, all’aporia, bensì alla comprensione (lambanein)
del lagos capace di descrivere la ousia relativa a ogni oggetto di discussio
ne (534b3 s.). I primi quattro libri della Repubblica costituiscono, si può
dire, un esempio dispiegato di questo percorso della dialettica. Nei libri
che la definisce come “il fare le cose proprie”. Questo livello appare ormai
I e ii vengono sottoposte a etenchos le “ipotesi” doxastiche sulla giustizia
proposte da Cefalo, Polemarco, Trasimaco e dalla cultura cui danno voce
non-ipotetico perché inconfutabile da ogni elenchos, vat)tyc6rarov nel
linguaggio del Fedone (85c9).
L’ulteriore e più specifico lavoro della dialettica intorno al “buono”
consta di tre movimenti, che si possono isolare all’interno di una lunga
e a dire il vero troppo condensata battuta di Socrate, per giunta esposta
in forma negativa, cioè con l’intento di descrivere in primo luogo ciò che
non fa chi non è veramente dialettico (534b8 ss.). Il primo movimento è
quello consueto consistente nel “togliere”, mediante l’elenchos, le ipotesi
infondate sui “buono”. È quanto Socrate ha fatto, anche se in modo un
po’ sommario, nel libro VI confutando le identificazioni del “buono” con
il piacere e l’intelligenza. Questo elenchos deve però venir condotto dal
punto di vista della ousia, e nel caso del “buono” non ci si può fermare qui,
perché come è noto esso non è esauribile nel piano noetico-ideale delle
siai. Occorre dunque un secondo e più specifico movimento, che consiste
nell”isolare”, nel separare il “buono” da tutte le altre idee (534b9 s.: &rà
rrv &À)w ir&rcw &pXcivrrot &ycL8o Anche questa operazione
è stata condotta nel contesto della metafora solare del libro VI (5o8e ss.),
allorché il “buono” era stato separato e distinto da scienza, verità ed essen
za. Che cosa significhi esattamente questa “separazione” del “buono” può
venir chiarito confrontandola con l’esortazione, apparentemente simile,
17, 3$: dDE 7r&vrcI.). Plotino intende negare tutte
le determinazioni del Bene-Uno per costruire una teologia negativa del
di Plotino (Enneadì V 3
Principio assolutamente trascendente e quindi ineffabile. Platone chiede
invece di separare il “buono” da tutte le altre idee per rilevarne la diffe
renza, l’ulteriorità, la non riducibilità all’ambito dell’esistente, empirico
o ideale che sia. Questo necessario aphairein del “buono” —
che
done la posizione estrema di causa e tetos —
non nella dichiarazio
culmina
14Z IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA ‘43
ousias, in ragione del carattere iperessenziale del “buono”, quanto di un’a
nalisi della sua dynamis causale, della sua efficacia (se di definizione si vuoi
parlare, essa non dirà dunque “che cosa è il buono”, bensì “che cosa fa il
buono”). È qui il caso di riconsiderare il passo di vi 5o$e3-4, che può veni
re interpretato in questo senso: “ritieni che l’idea del buono è conosciuta
poiché essa è causa di scienza e verità”: la conoscenza del “buono” è dun
que ottenuta non in sé stessa ma attraverso la sua funzione causale, i suoi
effetti epistemico-veritativi.
Il terzo movimento della dialettica è infine quello discendente. Si tratta
qui, dopo aver conosciuto il “buono stesso”, di vedere le “altre cose buone”,
il “resto del buono” (VII 534c5: &)o cycO&v). Questo significa istituire i
corretti rapporti di partecipazione/predicazione, che consentano ad esem
pio di dire secondo verità che “il giusto è buono”, o magari anche — per ri
prendere le hypotheseis confutate nel libro VI —‘ che, se è falso asserire che
“il buono è il piacere”, o “il buono è l’intelligenza”, è invece corretto, a certe
condizioni, dire che “il piacere è buono” o “l’intelligenza è buona”. La co
noscenza dell’idea del buono, ottenuta per via critico-negativa mediante
un processo di separazione/distinzione dal resto dell’esistente, consente
dunque, nel versante discendente/positivo della dialettica, di “fondare” le
ipotesi, di pronunciare, nel campo dello stesso esistente, corretti giudizi
di valore che riconoscano l’eventuale partecipazione al buono (in quanto
causati da esso) di enti ideali o stati di cose.
Fin qui dunque la risposta di Socrate, che pur nella sua concitazione e
l’iniziale reticen
dopo
nella sua forma negativa ha comunque fornito —
za — qualche importante informazione sui tropos e sugli bodoi della dialet
tica (se non proprio sui suoi eide). A essa Glaucone concede, per la prima
volta, un suo energico (sphodra) assenso (534d;).
Eppure, noi possiamo riformulare, per suo conto e dal suo punto di
cioè proseguire l’interro
possiamo
vista, qualche ulteriore domanda —
gazione dialettica che viene qui provvisoriamente sospesa, raccogliendo
quella ingiunzione a “tornarci sopra” che proprio Glaucone aveva rivolto
a Socrate. Le domande riguardano ancora una volta le modaliti della co
noscenza dialettica e una più precisa determinazione dell’oggettoprincipale
di questa conoscenza.
Per quanto riguarda la prima, essa viene descritta a più riprese come una
comprensione (haptesthai, lambanein) ottenuta attraverso un atto noetico
(noesis, cfr. ad es. 53zbi). D’altro canto, essa viene parimenti descritta come
un’operazione logico-discorsiva (“interrogare e rispondere”, togon didonai,
top[ozw9at zc)6y; cfr. ad es. 534b4 s., b9). Molti interpreti hanno indi
viduato in queste due forme di descrizione della conoscenza dialettica una
tensione, o anche un’oscillazione, tra una polarità discorsivo-argomen
tativa (forse riportabile a una matrice “socratica”), e un’altra culminante
in un’intuizione noetico-eidetica, in una Evidenzerlebnis richiesta dalla
natura extralinguistica degli oggetti ideali e/o del loro “principio’ Altri
hanno sostenuto che, al di là di certe suggestioni derivate dagli usi unguistici,
la conoscenza dialettica deve venire concepita come una Ideenbe
stimmung di carattere interamente definitorio-proposizionale. Una linea
di compromesso è stata individuata nell’assegnare alla conclusione noetica
del percorso dialettico il carattere di uno state ofunderstanding stabile cui
si perviene dopo un lungo lavoro critico-confutatorio attuato nell’ambito
dell’argomentazione discorsiva.
È tuttavia necessario tracciare una netta distinzione fra i due diversi
livelli che la conoscenza dialettica è in grado di raggiungere. 11 primo è
quello degli enti ideali: qui la “visione” eidetica dell’essenza è interamente
solidale con la loro Bestimmung definitoria, il logos tes ousias nel linguag
gio platonico, rispetto al quale la prima si presenta come l’acquisita
tezza della inconfutabilità della hypothesis finale perché essa è riferita al
carattere invariante e alla autoidentità dell’idea. Si tratta di una situazione
certo rara ma non assente nei contesti dialogici: si pensi alla “definizione”
rigorosa della giustizia nel libro IV 443c-444a. Tuttavia, questa stessa ra
rità di simili acquisizioni teoriche segnala un doppio ordine di difficoltà.
Difficoltà innanzitutto interne a questo primo livello: la comprensione
definitoria delle essenze ideali risulta nei dialoghi per lo più problemati
ca e precaria in assenza di un preciso metodo di “mappatura” del campo
noetico, di individuazione delle relazioni, delle affinità e delle differenze
che articolano i rapporti fra idee, del tipo di quello che verrà per la prima
volta delineato sia pure in forma ipotetica nel Sofista. Esperimenti di que
sto tipo, ma privi di una solida infrastruttura metodica, vengono in effetti
a più riprese tentati nei dialoghi (si pensi ad esempio alla discussione sul
kalon nell’Ippia maggiore), dando luogo a risultati non del tutto negativi
ma parzialmente aporetici. Resta dunque per lo più senza risposta (salvo il
caso specifico della giustizia) l’ingiunzione che Trasimaco rivolgeva a So
crate nel libro i della Repubblica: «attento a non dirmi che il giusto è l’op
portuno oil giovevole oil vantaggioso o il profittevole o l’utile; ma dimmi
con chiarezza e precisione quello che intendi [oucJ ot iccd cpt)yit
(336cI1 ss.).
&rt&v)yrj]»
sulle
2.44 IL POTERE DELLA VERITÀ
GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA
‘45
Ma il secondo e maggiore ordine di difficoltà è esterno a questo primo
livello, e consiste nella necessità del rinvio a un’ulteriore fondazione di
verità e di valore delle stesse idee alla cui definizione fosse eventualmente
pervenuta la dialettica, come nel caso della giustizia. Questo rinvio com
porta il passaggio al secondo livello della conoscenza dialettica, quello ap
punto del principio ultimo di fondazione. In questo ambito, la domanda
sulle modalità conoscitive proprie della dialettica si intreccia strettamente
con quella relativa alla precisa determinazione del suo oggetto principale;
lo statuto di questo non può che reagire — secondo un nesso tipicamente
platonico — forme della sua comprensione.
Sappiamo che, al di là delle idee, la dialettica culmina (perainei) nel
tetos del suo percorso di conoscenza, che viene inizialmente caratterizza
to come “principio del tutto” (vi 5iib7), che può venire concepito come
univoco oppure, distributivamente, come relativo al problema in esame.
A seconda dell’alternativa esegetica scelta, l’universalità della dialettica
risulta configurata nel primo caso come “intensiva” (perché perviene alla
comprensione del singolo principio dell’universo e/o delle idee), nel se
condo come “estensiva” (perché assume di volta in volta un punto di vista
unitario sull’insieme dei saperi e dei problemi in discussione).
La questione si complica ulteriormente se si accetta di riconoscere nel
“principio del tutto” l’idea del buono, come il testo platonico sembra sug
gerire in modo inequivocabile pur senza dichiararlo in modo esplicito. Ma
anche questa omissione non può essere sorvolata come non problematica.
Se infatti il “principio del tutto” è il “buono’ esso sembra limitare l’univer
salità della dialettica in entrambe le accezioni che ora si sono considerate.
Il “buono” non può costituire, da un lato, il punto più alto cui perviene
il movimento sintetico-sinottico della dialettica nel senso teorizzato dal
fedro della oua’coy tic tiv iccv, perché esso non può in nessun modo
venir considerato un surnmum genus inclusivo delle differenze specifiche.
D’altro lato, è difficile pensare che il “buono” possa costituire il “princi
pio” dell’universo, perché la sua azione sembra circoscritta alla causazione
delle idee come nuclei essenziali di verità e di valore. E anche per quanto
riguarda lo stesso campo noetico-ideale, di cui il “buono” è certamente
causa e fondamento, appare difficile capire come la dialettica, assumendo
lo a “principio’ possa derivarne, nel suo movimento discendente, la fon
dazione dei teoremi propri di saperi, come quelli matematici, che esulano
dall’ambito etico-politico in cui propriamente l’idea del buono svolge il
suo ruolo fondativo.
La decisione platonica di lasciare almeno esplicitamente anonimo il
“principio del tutto” cui perviene la dialettica potrebbe dunque compor
tare una implicita apertura teorica verso due opzioni compossibili sulla
natura della sua conoscenza: a) un sapere sinottico in grado di assumere
un punto di vista d’insieme sui diversi mathemata e sui loro campi argo
mentativi; b) un sapere del “buono” in quanto fondamento del campo
etico-politico. Il livello di sintesi fra queste due opzioni potrebbe consi
stere nel concepire la dialettìca come c) un sapere in grado di comprendere
(logori lambanein), di valutare (logori didonai) e di utilizzare le conoscenze
in ordine all’orientamento etico-politico delle condotte individuali e pub
bliche, insomma un sapere “regio” e di governo.
In ogni caso, se il “principio del tutto’ come suggerisce la dinamica del
testo al di là del suo iniziale, e probabilmente intenzionale, anonimato, va
identificato con l’idea del buono che riempie di un contenuto la formalità
della sua prima apparizione, da questo derivano importanti conseguenze
per la natura della conoscenza dialettica, su cui è ora il caso di tornare a
interrogarsi.
E certamente da escluderne una forma proposizionale-definitoria che
si concluda con l’enunciazione del logos tes ousias: questo è reso impossi
bile, come si è detto, dallo statuto non essenziale/sostanziale del “buono”.
È altrettanto da escludere una ineffabile visione intuitiva, in ragione del
costitutivo assetto intersoggettivo e discorsivo del dialegesthai. Si deve
dunque supporre che il tipo di conoscenza che fa dialettica può acqui
sire intorno al “buono” sia per l’essenziale quello delineato nel vi e nel
vii libro della Repubblica, oppure, da un altro punto di vista, nel filebo:
l’inserimento, per contiguità e differenze, in una rete di idee affini, nella
quale quella del buono costituisce per così dire un “nodo” (verità, scienza,
essenza, e per altri aspetti bello, limite); una o più descrizioni metaforiche,
come l’analogia solare; infine, e soprattutto, la comprensione dell’efficacia
causale, della sua dynamis specifica.
In questo quadro, i movimenti della dialettica nella Repubblica danno
un’ immagine abbastanza precisa del suo lavoro in progress (per quanto è
possibile, cioè non abbastanza per soddisfare le esigenze epistemiche di
Glaucone). C’è un primo versante critico-negativo, elenctico, che consiste
nel dire ciò che il “buono” non è: dunque nel rifiuto degli pseudo-valori
e della sua identificabilità con qualsiasi “stato delle cose’ nell’asserzione
della sua ulteriorità fondativa persino rispetto al piano epistemico-ideale.
Questo versante non può tuttavia restare isolato pena la trasformazione
come
della
in
il
2.46 IL POTERE DELLA
GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA
2.47
VERITÀ
della dialettica in una sorta di nichilismo eristico. Esso deve venire inte
grato da un lavoro fondativo, che consiste in primo luogo nella valorizza
zione — cioè nel trasferimento di utilità, desiderabilità, quindi di intenzio
nalità conoscitiva — del campo delle idee in quanto tali, della verità e della
scienza.
Ed è verso quest’ultimo ambito che si rivolge il movimento conclusivo
della dialettica: essa è in grado di governare la vita degli individui e della
città perché è in grado tanto di criticarne gli scopi falsi e infondati, quanto
di delineare un orientamento della praxis etico-politica fondato su di un
principio incontrovertibile di verità del valore, e di valore della verità.
In questa saldatura del versante onto-epistemologico e di quello eticopolitico
consiste la natura della dynamis della dialettica, che costituisce
allora come si è detto il rappresentante intersoggettivo — nella discorsivi
tà argomentativa fra gli uomini — dynamis causale del “buono” Ciò
che la dialettica è propriamente chiamata a fondare, a partire da questa
dynamis, è il flesso imprescindibile tra verità e valore. C’è qui senza dub
bio una sorta di eccedenza del compito della dialettica, che corrisponde
alla eccedenza ontologica del suo “principio” di fondazione: l’assunzione
programmatica di questa doppia eccedenza rende inevitabilmente parziale
ogni sforzo di realizzazione, e confina dunque sempre di nuovo il sapere
dialettico — temeva Glaucone — una condizione proemiale, incoa
tiva, alla soglia di una compiuta esecuzione di quel nomos destinato a resta
re un orizzonte insaturo. Nel contesto della Repubblica, la tensione verso
questo compimento — cioè verso la realizzazione di un sapere dialettico
stabile e totale — è altrettanto essenziale quanto il suo inevitabile arresto
alla condizione di preludio: un preludio tuttavia non sterile, perché carico
di energia intellettuale ed etica, di una dynamis efficace nei saperi e nella
vita.
Nel grande tentativo logico-ontologico di rispondere a Glaucone ela
borato nel Sofista — che comportava la teoria della dicotomia, l’introdu
zione dei cinque generi massimi, la teoria della comunicazione fra idee
come fondamento per la distinzione fra enunciati veri e falsi — lavoro del
dialettico veniva chiamato a ripercorrere le scansioni fra livelli noetici e
relazioni fra idee. Doveva essere in grado di
riconoscere adeguatamente [i.] un’unica idea estesa in ogni direzione fra molte
altre, pur restando ognuna di queste unitaria e separata; [;.] e molte idee, diverse
fra loro, comprese dall’esterno da una sola idea, [a.] che dal canto suo permane
nell’unità benché estesa fra molti insiemi di idee, [4.1 C molte idee che sono se
parate in quanto completamente distinte. Questo significa saper distinguere per
generi, cioè come essi possono comunicare oppure no (z53d).
il caso i. sembra riferirsi alle idee dei “generi massimi” come essere, iden
tico, diverso; i casi 2.. e 3. alle idee-classi, come “tecnica” o “animale’ e a
quelle che esse includono, come “pescatore con la lenza” o “uomo”, o anche
alle idee “partecipate”, come “buono”, e a quelle che ne partecipano, come
“giusto”; il caso ., infine, sembra costituire piuttosto il risultato o l’esito
del lavoro dialettico, l’individuazione di idee semplici in quanto essenze
delimitate come singoli “nodi” della rete di rapporti di comunicazione e di
differenza che le costituiscono.
C’è ora da chiedersi quali fossero i costi e i guadagni teorici di questa
nuova configurazione della dialettica rispetto a quella che era stata propo
sta nella Repubblica. Come “grammatica generale” dell’essere e del pensie
ro, essa non rinunciava alla supremazia e all’universalità nell’ambito dei
saperi che la Repubblica le aveva assegnati. Veniva tuttavia meno la verti
calizzazione del movimento della dialettica verso un “principio del tutto”
contrassegnato dalla priorità in termini di verità e di valore, e con essa la
pretesa della dialettica di detenere il controllo del livello critico e norma
tivo rispetto sia alle scienze sia alle condotte etico-politiche. Con questo,
come si è detto, la dialettica rinunciava a costituire direttamente la “scien
za regale”, in quanto sapere teorico-pratico relativo al senso delle scienze e
ai fini della vita (anche se, come mostrava il Politico, si poteva continuare a
pensare che essa costituisse la forma di sapere in grado di definire chi fosse
il “vero politico”, cioè l”uomo regale”).
In compenso, il nuovo assetto della dialettica era meglio in grado di
rispondere alle esigenze che Glaucone aveva formulato nella Repubblica,
cioè di mettere in chiaro le proprie modalità procedurali (condizioni di
possibilità della comunicazione fra idee, descrizione delle relazioni seletti
ve fra di esse mediante l’analisi dicotomica, discriminazione fra enunciati
veri e falsi). Un deciso passo in avanti nella definizione dello statuto epi
stemico peculiare della forma del pensiero dialettico, dunque. Che forse
non giungeva tuttavia a trasformare la dialettica finalmente in una vera e
propria scienza, per diverse buone ragioni.
Faceva da ostacolo, in primo luogo, il permanere del carattere appunto
dialettico, cioè dialogico, intersoggettivo, di questo pensiero. Il procedi
mento dicotomico comportava a ogni passo una decisione, convenuta fra
— ma
solo
cioè
che
come
“il
Z48 IL POTERE DELLA VERITÀ GLAUCONE E I MISTERI DELLA DIALETTICA
‘49
gli interlocutori partecipanti alla ricerca, circa l’insieme o il sottoinsjeme
nel quale fosse via via da collocare l’oggetto indagato (nel caso del “sofista”,
esso veniva di volta in volta assegnato a sette “generi” diversi). Ma c’era
anche un ostacolo più cogente sul piano teorico. La dialettica dicotomica
avrebbe potuto costituirsi come una scienza sul modello della geometria
al livello di universalità che le era proprio — a condizione che
fosse risultato possibile costruire un solo albero dicotomico capace di di
videre il “genere” essere nella pluralità di tutte le sue articolazioni
—
in
grado di costruire una sorta di atlante tassonomico di tutta la realtà. Ciò
era tuttavia impossibile perché “essere” non è, a differenza ad esempio di
“tecnica” o “animale’ un’idea-classe suddivisibile in specie, bensì rappre
senta una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Non c’è dunque
una dicotomia dell’essere, e di conseguenza non può esistere una tasso
nomia dicotomica universale (come avrebbe invece tentato di costruire il
neoplatonico Porfirio). Questo vale naturalmente anche, a maggior ragio
ne, per gli altri “generi massimi” come il non essere o il diverso, l’identico,
il movimento e l’immobilità. La dialettica dicotomica restava dunque un
procedimento euristico, che muoveva da un problema determinato, la for
mulazione del “togos della cosa” relativo al particolare oggetto indagato, lo
individuava come un nodo della rete mobile di relazioni fra idee al cui in
terno si collocava, e forniva così una griglia utile a distinguere gli enunciati
veri che potevano venire formulati intorno a esso da quelli falsi. Quanto
alle idee, esse continuavano a fungere in questo procedimento come unità
stabili di significato capaci — nelle loro relazioni reciproche — di rappre
sentare riferimenti ordinativi per la comprensione della realtà (empirica
o noetica che fosse); esse non costituivano cioè ancora — come sarebbe
accaduto con Aristotele — forme di una legalità immanente alla natura,
ma certamente la loro “separazione” rispetto al mondo della pluralità e del
divenire risultava fortemente indebolita e ridotta.
Si poteva dunque ancora pensare che la dialettica — come aveva pre
scritto la Repubblica — si muovesse solo nel campo delle idee; e si poteva
inoltre ritenere che il suo statuto epistemico risultasse ora meglio precisa
to, in risposta alle esigenze di Glaucone (che rispecchiavano probabilmen
te la discussione accademica). La dialettica non rinunciava comunque alla
sua originaria natura di indagine mobile e aperta condotta nel confronto
tra soggetti dialogici diversi; se riduceva le sue aspirazioni immediate alla
“regalità” etico-politica, non si trasformava tuttavia in un astratto sistema
di “scienza universale” o di metafisica dell’essere o dell’uno. Il Parmeni
I
i
de sembra appunto destinato a mostrare l’impossibilità di principio della
chiusura della dialettica, la natura inesauribile del suo compito di analisi
critico-confutatoria delle “ipotesi” Qui, come nel Sofista, il vecchio Plato
ne sembra voler mostrare agli accademici che tanto la pretesa di Glaucone
di una compiuta esecuzione del nomos della dialettica, quanto la tendenza
degli “amici delle idee’ e del “giovanissimo” Socrate, verso la costruzione
di un sistema metafisico delle idee, sono estranee alle potenzialità teoriche
della dialettica.
Semmai, il nomos richiesto da Glaucone viene eseguito — giorno se
guente” alla narrazione della Repubblica — nel Timeo, dove si racconta ap
punto la generazione del mondo a partire da un “principio del tutto” che
è buono, anche se non è il “buono” Questo nomos però — è proprio
della tradizione letteraria
— ha il carattere dell’inno che espone le gesta e
le aretai di una divinità. Esso assume cioè le forme di una grande narra
zione mitico-metaforica, che drammatizza il rapporto fra idee e mondo
incentrandolo sull’opera di una dynamis, di una potenza “buona” quale è
il demiurgo. Ma certamente Glaucone
— infatti qui esce di scena
— non
avrebbe riconosciuto in questo nomos quei metodi, quelle forme e quei
modi del procedimento dialettico, la cui definizione egli aveva reclamato
nella conversazione notturna in casa di Cefalo.
Note
i. Glaucone ripete qui, per rinviare il suo assenso, le stesse formule di reticenza
che Socrate aveva usato nella discussione sul “buono”: ‘rò vfrv, T]V 7rcpofcc àp.ov
(o6ea), v T& 7rcpàrL (5o9c9 s.). Per una formula simile cfr. anche Tim. 48c5.
a. A[’r[cv 8’i7rtTi.o Kc1t )Os(, c yt uoico.Lvv$ .tìv &ccvoo. 5. R. Slings,
Criticat Notes on Ptato’s “Potiteia” vi, in “Mnemosyne”, LIV, 1001, pp. 158-81, ha so
stenuto che il genitivo dipende da hos + dianoou (“verbo di pensiero”), e va dunque
riferito non a atetheias bensì all’idea del buono.
3. Cfr. ad es. vii 53zbi 5.: il dialettico non deve arrestarsi «prima di aver afferrato con
il puro pensiero l’essenza del buono».
Nella
.
formula “teologica” diii 38oc8 s., “il dio” è causa non di “tutto” ma solo dei
“beni”.
fino
I’
Sfida sofistica e progetti di verità in ?latone*
I
Barbara Cassin ha scritto, con buone ragioni, che la sofistica è un’inven
zione di Platone. A parte Gorgia, sui quale disponiamo di testimonianze
indipendenti, ma che è anch’egli protagonista di un importante dialogo
platonico, quasi tutto quello che sappiamo dell’antropologia di Protagora
ci viene dal dialogo a lui intitolato, e la sua epistemologia è interpretata e
discussa nel Teeteto. Altri sofisti importanti, come Callicle (Gorgia) e Tra
simaco (Repubblica) sono in larga misura creazioni di Platone, che non
molto avranno in comune con il personaggio storico che reca quel nome.
E soprattutto, in ogni caso, Platone interpreta le tesi dei sofisti, spesso le
rigorizza, le estende, le unifica concettualmente — a dedicare un dia
logo tardo, com’è appunto il Sofista, composto verso il 360, a interrogarsi
ancora una volta su “che cosa sia veramente il sofista”. Un’interrogazione
dunque ricorrente e sempre aperta, se si pensa che a quell’epoca Protagora
era ormai morto da sessant’anni, Gorgia da una ventina; ma con sofisti
come Antifonte Platone avrebbe continuato a discutere fin nel suo ultimo
dialogo, le Leggi.
Sembra dunque di poter dire che Platone abbia dedicato alla sofisti
ca una buona parte del suo cammino filosofico: un rivale da combattere,
una sfida da comprendere, forse un incubo da esorcizzare, in ogni caso una
presenza tanto prossima da risultare inquietante. Rovesciando l’assunto
iniziale, potremmo allora persino dire che la filosofia platonica è un effetto
della sofistica, cioè lo straordinario sforzo di rispondere a un pensiero che
secondo Platone minacciava la possibilità stessa della filosofia nel momen
*
Questo capitolo, inedito, è l’intervento presentato alla conferenza conclusiva del col
loquio della Sezione mediterranea della International Plato Society, tenutosi a Aix-en
Provence nell’ottobre zoi.
Eppure
Sì
e
2.52. IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 253
to della sua formazione, e peggio ancora rischiava di confondersi con essa
contraffacendone i tratti.
La prossimità inquietante del sofista al filosofo si ha prima di tutto sul
terreno del discorso — cioè di quella confutazione dialogico-dialettica,
l’etenchos, che era l’emblema del socratismo —, poi anche su quello del
la concezione e dell’esercizio del potere. Una vicinanza che somiglia, in
entrambi i casi, a quella fra il cane e il lupo, che condividono, su versanti
diversi, gli stessi territori agonali.
Parlando nel Sofista della tecnica della confutazione, l’elenchos di me
quivocabile matrice socratica, lo Straniero eleate che conduce il discorso
afferma:
Che nome daremo a coloro che posseggono questa tecnica? Ho qualche esitazio
ne a pronunciare la parola “sofisti”. — [replica Teeteto] è il nostro ragiona
mento che ci ha portato a qualcosa di simile. — [risponde lo Straniero] ma anche
il lupo è simile al cane, la bestia più selvaggia all’animale più domestico. Ch vuoi
essere sicuro deve stare in guardia dalle somiglianze: è un campo su cui è facile
scivolare (z31a).
Il Trasimaco ideologo della tirannide nel libro i della Repubblica è a sua
volta presentato come un “lupo” Ed è anche sul terreno del potere che
la vicinanza fra il cane “filosofico’ protettore del suo gregge, e il temibile
predatore, risulta inquietante, tanto da indurre il Socrate legislatore della
Repubblica a temere una pericolosa metamorfosi dei suoi futuri filosofi-re:
La cosa più terribile e vergognosa per dei pastori è di allevare cani da guardia dei
greggi in modo tale che, per indole ribelle, per fame o per qualche altra cattiva abi
tudine, i cani stessi si spingano a far del male alle pecore finendo per comportarsi
da lupi invece che da cani [...] Non dobbiamo dunque sorvegliare in ogni modo
perché le nostre guardie non facciano altrettanto con i cittadini, dal momento
che sono più forti di loro, finendo per trasformarsi da benevoli alleati in selvaggi
padroni? (III 416a-b)
Per evitare la metamorfosi del buon governante in tiranno (che secondo
Trasimaco è inevitabile in ogni forma di potere), Platone si vedrà costretto
a proporre due dei maggiori “scandali” della Repubblica, l’abolizione della
proprietà privata e della famiglia per i membri del gruppo dirigente (i cani
da guardia di cui si paventa la trasformazione in lupi se avessero interessi
privati da perseguire).
J
La minaccia sofistica investiva dunque, secondo Platone, l’ambito del lin
guaggio, della verità e dei valori, e di qui si riverberava fino al campo della
politica e dell’esercizio legittimo del potere.
Vediamone i tratti (così come Platone probabilmente li comprendeva),
a partire da Gorgia.
Il grande sofista siciliano sembra essere stato il primo a fondare teorica
mente l’autonomia della dimensione retorica, persuasiva, dunque performa
tiva del linguaggio, rispetto al suo tradizionale (e parmenideo) riferimento
alla verità dell’essere. Gorgia avrebbe sostenuto, secondo il resoconto dello
scettico Sesto Empirico, queste tre tesi: i. «Nulla esiste» in senso oggettivo
e assoluto; 2.. « se anche qualcosa esistesse, non sarebbe afferrabile dalla co
noscenza umana», cioè resterebbe totalmente estraneo all’esperienza sog
gettiva; non c’è rapporto fra essere e pensare, altrimenti esisterebbe qualsiasi
cosa pensata, come un uomo che vola; 3. «se infine qualcosa esistesse e fosse
comprensibile, esso non sarebbe comunicabile ad altri», perché la “cosa”
esistente è radicalmente altra rispetto alla “parola” comunicativa (Dx B ).
Dunque il linguaggio della comunicazione umana non fa presa sul
mondo oggettivo; esso non possiede veritd se per questa si intende una
fedele descrizione dell’essere in sé, né i discorsi possono venire valutati in
termini di vero/falso. Restano allora al discorso l’efficacia, la capacità per
suasiva, la potenza produttiva di credenze e condotte, insomma, appunto,
]
la dimensione pragmatica.
Sulle rovine delle pretese veritative del discorso, Gorgia poteva cele
brare il trionfo dei suoi effetti retorici. In un esercizio di scuola mirante a
ottenere l’assoluzione postuma di Elena dall’accusa di tradimento per aver
seguito Paride a Troia, diceva Gorgia che se Elena fu convinta a parole non
la si deve ritenere colpevole, perché
i
i
2
la parola è un grande padrone [...J Può infatti far cessare la paura, sopprimere il
dolore, infondere gioia, suscitare compassione [...J Che poi la persuasione, quan
do si aggiunge al discorso, lasci nell’anima l’impronta che vuole, bisogna capir
lo considerando in primo luogo i discorsi dei naturalisti dediti alle cose celesti,
che sostituiscono un’opinione all’altra eliminando questa e sostenendo quella,
in modo che agli occhi dell’opinione vengano a manifestarsi cose incredibili e
oscure; in secondo luogo le cogenti argomentazioni giudiziarie, nelle quali un
solo discorso, scritto secondo i dettami della tecnica retorica, non detto secondo
verità, diverte e convince una grande folla; infine, le dispute dei discorsi filosofici,
secondo
‘54 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE
‘55
in cui si mostra anche la rapidità della mente, capace com’è di rendere instabile e
mutevole la credenza in ogni opinione (DK B si).
Ciò che discrimina fra loro i discorsi della scienza, della morale, della giu
stizia, della politica e della stessa filosofia non è dunque la rispettiva verità
ma la loro efficacia retorica che si esercita in contesti agonali, come quelli
della politica, dei tribunali, delle dispute scientifiche e filosofiche. La parola
persuasiva può indurci a credere, e a fare, qualsiasi cosa essa desideri. Quan
to alle finalità etiche della persuasione, esse sono affidate, secondo il Gorgia
dell’omonimo dialogo platonico, al senso di responsabilità del retore.
Il secondo grande sofista, Protagora di Abdera, non sembra essere sta
to teoricamente altrettanto radicale di Gorgia, ma certo capace di un’in
fluenza intellettuale secondo Platone ancora più pericolosa. A parte le in
terpretazioni platoniche, di lui ci restano soltanto poche righe, fra le quali
compare quella che sembra essere stata la sua tesi principale: «l’uomo è
la misura di tutte le cose, di quelle che sono per il modo in cui sono, di
quelle che non sono per il modo in cui non sono» (DK B ;). Il senso di
questa enigmatica affermazione può forse venire così interpretato (anche
sulla base dell’analisi che Platone ne proponeva nel Teeteto): c’è un mondo
esterno, ma ogni soggetto è giudice inappellabile delle qualità delle cose
che ne fanno parte, secondo come a lui appaiono (dolci o amare, belle o
brutte, giuste o ingiuste); da lui dipende il giudizio se una cosa è X o
oppure non èXo Y. Si tratta, in altre parole, del principio dell’ermeneutica
contemporanea secondo il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni.
Da questo principio seguono alcune importanti conseguenze di ordine
epistemologico, e soprattutto etico-politico. Per quanto riguarda le pri
me, ogni affermazione, in quanto descrive una percezione o valutazione
soggettiva, è “vera”, poiché non si può porre la questione della verità del
discorso come sua corrispondenza allo stato delle cose. Sul piano etico
politico, I”uomo-misura” si trasforma in un’identità collettiva: abbiamo
allora un soggetto plurale, il “noi” della città o della sua maggioranza as
sembleare, come criterio definitivo dei valori pubblici. Perciò, « quello che
ogni città decide sia giusto e bello, tale in effetti è anche per essa, finché
lo consideri così (Theaet. 167c); e commentava Platone che le dottrine di
Protagora «per le cose giuste e ingiuste, morali e immorali, vogliono soste
nere che nessuna di esse possiede in realtà una propria essenza oggettiva,
ma che diventa vero ciò che è sancito dall’opinione collettiva allorché vie
ne opinato e per tutto il tempo in cui è opinato» (Theaet. i7zb). Protagora
non si fermava però a questo esito di relativismo estremo della verità e dei
valori; anche in lui, la dimensione pragmatica del linguaggio giocava un
ruolo centrale. Non è possibile discriminare le opinioni in “vere” o “false”,
bensì in “utili” e “dannose” per l’individuo e per la comunità, in ordine ai
loro interessi individuali e collettivi, ed è a questo miglioramento prag
matico, non veritativo, delle opinioni, che può mirare la convinzione del
retore sofista ( Theaet. 167a-c).
Nichilismo gorgiano e relativismo protagoreo delineavano così, per Pla
tone, una formidabile sfida intellettuale. Sul piano della conoscenza, essi
convergevano nel sostenere l’impossibilità di un sapere universalmente
e oggettivamente valido, capace di descrivere secondo verità lo stato del
mondo al di là delle credenze soggettive. Sul piano etico-politico, essi ab
bandonavano le norme di giustizia all’arbitrio delle decisioni conflittuali di
individui e gruppi, negando l’esistenza di criteri autonomi di riferimento
che consentissero di valutare la giustezza di queste decisioni. Nel libro i del
la Repubblica, Platone fa sostenere al sofista Trasimaco una tesi radicalmen
te relativistica: il “giusto” consiste nella conformità alla legge; ma la legge
è imposta da chi ha il potere per farlo, ed essa è perciò sempre strumentale
alla conservazione del potere; la giustizia, dunque, consiste nell’utile di chi
detiene la forza, e, viceversa, nell’oppressione dei sudditi (I 338c-339a).
Il lavoro filosofico di Platone consistette in buona parte nel tentativo
di rispondere a questa sfida, per ricostituire le condizioni della verita del
sapere e dell’oggettiviti dei criteri di giudizio etico-politico.
3
Per rispondere alla sfida sofistica occorreva secondo Platone in primo luo
go consolidare il linguaggio, ripristinando il suo riferimento alla realtà,
e con questo garantire le condizioni di possibilità del discorso vero, al di
là del fluttuare delle opinioni abbandonate agli effetti retorici della per
suasione. Come ha scritto Hannah Arendt, per Platone «la persuasione
non è l’opposto del dominio mediante la violenza, ma ne è solo un’altra
forma»; meglio allora sostituirla con quella che la stessa Arendt ha chia
mato «la tirannia del vero». Ma per questo era necessario niente meno
che costruire una nuova concezione della realtà, cioè una nuova ontologia,
antieraclitea (quindi fondata sulla stabilità dell’essere anziché sui flussi del
mutamento), e perciò — la decisiva connessione stabilita nel Teete
sia
256 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE 257
to fra mobilismo eracliteo ed epistemologia di Protagora — antiprotagorea
e antirelativistica.
L’esigenza di consolidare il riferimento del linguaggio alla realtà, e
quindi di ripristinare una dimensione veritativa del linguaggio stesso,
è particolarmente acuta nel campo dei valori pubblici e privati, come il
bello, il buono, il giusto (dunque dell’etica e della politica), che era stato
il terreno di elezione del relativismo protagoreo. È il caso di leggere per
esteso a questo proposito un memorabile passo del Cratito (439c-440c):
SOCRATE Possiamo dire che sia qualcosa il bello considerato in se stesso; e così
il buono, e ogni singola cosa? O non possiamo?
CRATILO A me pare di sì, Socrate.
SOCRATE A questo dunque teniamo ben ferma la nostra attenzione; intendo
dire, non ad un volto o a qualcosa dcl genere, se ci appaiono belli, e se abbiamo
l’impressione che tutte queste cose trascorrano in un perenne fluire. Perché il bel
lo, diciamo, in sé, non è sempre tale quale è?
CRATILO Necessariamente.
SOCRATE Ma sarà mai possibile assegnargli un nome veramente giusto, se con
tinuamente ci si sottrae nel suo essere e nelle sue qualità? O non è invece neces
sario che, mentre ne stiamo parlando, esso divenga subito qualche altra cosa, e ci
sfugga, e non sia più quale era prima? [...1 Ma neppure potrebbe essere conosciuto
da nessuno. Non appena infatti ci avvicinassimo per conoscerlo, diventerebbe su
bito altro e diverso, né più lo potremmo conoscere, né per ciò che è, né quanto alle
modalità del suo essere. Nessuna conoscenza infatti conosce ciò che conosce, se
questo non è in alcun modo stabile nel suo essere. [... Ma neppure è possibile che
vi sia conoscenza, Cratilo, se tutto trapassa da uno stato all’altro e nulla permane
stabilmente t...] Se invece esiste ciò che conosce, esiste ciò che è conosciuto, esiste
il bello, esiste il buono, esiste ogni singolo ente in sé, allora mi pare che queste
cose di cui stiamo parlando non abbiano niente a che fare con il flusso o con il
movimento.
Se linguaggio e conoscenza devono essere Stabili e veritieri (dunque sal
vati dalle sabbie mobili di nichilismo e relativismo), occorre che esista un
riferimento reale altrettanto stabile e immutabile (cioè posto al riparo dal
mobilismo eracliteo). Scriveva infatti Platone nel Timeo (29b-c):
I discorsi sono congeneri a ciò di cui parlano: da un lato, dunque, i discorsi su ciò
che è stabile, saldo ed evidente al pensiero, bisogna che siano anch’essi stabili e
solidi, e, nella misura in cui, per i discorsi, è possibile e conveniente essere incon
futabili e invincibili, di nulla devono mancare [...] L’essere è rispetto al divenire
nello stesso rapporto in cui è la verità rispetto alla credenza.
È precisamente su questo terreno problematico che nasce l’ontologia delle
idee, destinata ad assumere diverse configurazioni nei contesti dialogici
ma costante nell’intenzione di garantire al linguaggio e alla conoscenza
un riferimento oggettivo stabile e invariante. I predicati universali del tipo
“giusto”, “bello’ “grande”, o anche (sebbene questo sia un caso particolar
mente problematico), “uomo’ “cavallo” e così via, costituiscono nuclei di
signqicato unitari e invarianti che possono venire riferiti a una pluralità
mutevole e instabile di soggetti e di circostanze.
Se tuttavia il loro contenuto potesse variare a seconda delle opinioni
soggettive, non si sarebbe ancora superata, secondo Platone, la minaccia
del relativismo sofistico. Questi predicati devono dunque venire pensati
come descrizioni di un referente primario, che possiede in modo ogget
tivo, assoluto e invariante la proprietà che essi enunciano. La referenza di
“giusto” è un oggetto che Platone chiamava “il giusto in sé’ “la giustizia
stessa”, insomma l’idea (oforma) di giustizia che ha con le singole cose di
cui si può predicare la giustizia lo stesso rapporto che il triangolo ideale dei
matematici presenta con i singoli triangoli di volta in volta disegnati sulla
carta o realizzati con il legno.
Non c’è dubbio che l’ontologia di Platone, almeno nella sua forma
“classica” (tra fedone e Repubblica) — diverso può essere il caso della pro
spettiva “dinamica” delineata nel Sofista — un’ontologia a modello geo
metrico. Quale che sia lo statuto ontologico degli enti matematici (un
problema del resto che appartiene piuttosto alla scolastica platonica), essi
costituiscono l’esempio evidente di oggetti dotati delle proprietà dell’in
varianza, dell’autoidentità, della convertibilità fra nome e definizione,
proprietà che Platone traferisce alle idee come loro tratto distintivo. Esse
fanno degli enti matematici oggetti veri, quindi in grado di trasferire questa
caratteristica ai discorsi che li descrivono. Su questo aspetto, che a sua vol
ta viene trasferito alle idee, si fonda la stretta unità platonica fra ontologia
ed epistemologia, secondo il principio, stabilito nella Repubblica (477a),
della connessione inscindibile frapantetos on epantelòsgnoston.
Anche al livello del metodo, del resto, le potenzialità veritative dei pro
cedimenti delle matematiche forniscono senza dubbio un modello per
quelli dialettici. È vero che, secondo la ben nota critica del libro VI della
Repubblica, l’inferiorità epistemica delle matematiche rispetto alla dialetti
ca consiste nel loro assetto assiomatico-deduttivo, che richiede di assume
re per consenso convenzionale (homotogia) hypotheseis non ulteriormente
fondate e nel dedurne i teoremi conseguenti (ioc-d). La dialettica, al con-
ed
che,
158
IL POTERI DELLA VERITÀ
T
SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE
259
trario, dovrebbe partire da queste hypotheseis e risalire fino a un principio
non ipotetico, anhypotheton. Tuttavia, anche nell’ indagine dialettica un in
dicatore di verità è costituito dalla homotogia conseguita fra i partecipanti
al dialogo; e, come risulta dal fedone (iooa-b), le idee stesse possono venire
considerate come “ipotesi’ bensì difficilmente confutabili (dysexelenchota
toi, 89c-d) ma non del tutto an-ipotetiche. Homotogia e hypotheseis sembra
no dunque avvicinare le procedure dialettiche e matematiche più di quanto
Platone non sembri disposto a riconoscere in modo esplicito.
C’è poi un altro aspetto decisivo nel rapporto fra metodo matematico e
pensiero dialettico. 11 libro vii della Repubblica mostra chiaramente che il
processo astrattivo-idealizzante proposto dai saperi matematici costituisce
la condizione necessaria e sufficiente per l’accesso dialettico alla conoscen
za eidetico-noetica. Esso consente di superare il paradosso gnoseologico
della conoscenza di enti immateriali da parte di un soggetto incorporato,
paradosso che aveva suggerito il regresso anamnestico a una conoscenza
precorporea delle idee. La via matematica alle idee sembra invece costitui
re un’alternativa non mitologica alla reminiscenza, che potrebbe allora ve
nire considerata come la rappresentazione metaforica della comprensione
delle idee come a priori trascendentale di ogni conoscenza possibile.
4
Tutto questo aveva conseguenze decisive anche nell’ambito del governo
della vita pubblica e privata. Dall’ontologia delle idee conseguiva che i “va
lori” (il bene, il giusto, il bello) esistono in modo invariante e indipenden
te dalla mutevolezza delle opinioni, dall’arbitrio delle maggioranze, dal
potere della persuasione retorica. Essi sono l’oggetto di una conoscenza
vera — è proprio questa conoscenza a fondare la differenza tra i filosofi e
i sofisti “filo-dossi’ cioè legati al mondo dell’opinare (doxa).
Questa conoscenza valoriale garantisce la possibilità di pensare, parla
re e agire in vista di scopi universalmente validi, di ciò che è davvero bene
per l’insieme della comunità politica e della personalità individuale. L’e
sistenza di un ordine di valori ideali e la possibilità di una loro conoscenza
sono dunque per Platone la fonte di legittimazione dell’aspirazione dei
filosofi al regno, che viene formulata nella celebre “terza ondata” del li
bro v della Repubblica. Scriveva infatti Platone in questo grande dialogo
(vi 484c-d):
5
Dal momento che fliosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che
resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si
limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà
essere guida della città? [...J Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o
un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa [...J Ti sembra allora
che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della co
noscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e
non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero,
sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in
modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?
Con questa ultima mossa, Platone poteva celebrare la sua vittoria teorica sui
rivali sofisti
— come si diceva all’inizio, egli aveva in qualche modo inte
riorizzato, assorbito nel suo stesso pensiero, fino a farne una sorta di ossessio
ne filosofica e politica. Questa vittoria aveva comportato un complesso siste
ma fondazionale che andava dal linguaggio all’ontologia e all’epistemologia,
e da esse tornava all’uso pragmatico, etico e politico, del linguaggio stesso.
Come ha scritto Main Badiou, questo sistema teorico di protezione
dalla sfida sofistica aveva talvolta effetti “iperbolici’ che andavano persino
oltre lo spirito autentico del platonismo: in sé stesso una filosofia aperta,
critica, dialogica, insomma una filosofia socratica. il timore per il mobi
lismo eracliteo e il relativismo protagoreo rischiava invece di dare luogo
a risultati che potremmo definire di tipo “egizio” nella cultura e nella
politica, cioè a un desiderio di immobilità nelle forme della musica, del
teatro, della costituzione della città. Parallelamente, contro l’individua
lismo dell”uomo misura” si producevano in Platone forme eccessive di
organicismo sociale, di annullamento dell’individuo nella totalità comu
nitaria, come avrebbe denunciato Aristotele nel libro Il della Politica. Se vi
sono ombre di totalitarismo nella filosofia di Platone (e per scorgerle non
è necessario cadere nelle esagerazioni proprie di Karl Popper), risultano
anch’esse un effetto della sofistica, alla maniera delle reazioni immunitarie
il cui eccesso può risultare patologico.
Insomma, sconfiggere la sofistica presentava per la stessa filosofia di
Platone un prezzo molto elevato. Ma il senso, e la grandezza intellettuale,
di questa filosofia, stanno nella sua eccezionale capacità di configurare un
avversario di straordinaria levatura teorica, e di confrontarsi con esso in
260 IL POTERE DELLA VERITÀ SFIDA SOFISTICA E PROGETTI DI VERITÀ IN PLATONE
una discussione tenace e coraggiosa, nella quale noi possiamo riconoscere
l’atto di nascita della tradizione filosofica occidentale.
6
Del resto, il rischio di una reazione “iperbolica” alla sofistica è soltanto
sfiorato da Platone, che se ne tiene lontano per un aspetto essenziale. Cer
tamente, egli insiste sulla necessità, e la possibilità, di acquisire la verità,
come gli indicava il modello delle matematiche. Ma rispetto a questo
modello la sua filosofia presenta una differenza importante. La geometria
lavorava a costruire, fino al compimento con Euclide, un sistema teorema
tico, assiomatico-deduttivo, delle sue verità. E una tendenza a costruire
sistemi di tipo elementare-derivativo è certamente presente anche in Pla
tone: basti pensare alla cosmogonia del Timeo o alle dottrine non scritte
dei principi. Sembra però che la tendenza principale della filosofia plato
nica, come si esprime nei dialoghi, consista nel non chiudere mai il sistema
della verità: il suo sforzo consiste piuttosto nel delineare progetti e regimi
di verità, procedure per la costruzione di discorsi veri.
Questo vale anche per la Repubblica, dove pure la verità è considerata
come l’effetto della descrizione di “oggetti veri’ nell’enunciazione del logos
tes ousias degli enti noetici, in cui consiste il compito assegnato alla dialettica.
Della dialettica però Platone dice più “che cosa fa’ che non “che cosa sa”, la
descrive insomma più come una procedura che come un deposito di verità.
La prima designazione della dialettica è infatti quella di una tecnica, il
dialegesthai, dotata di una sua dynamis, una capacità efficace e in grado di
produrre effetti. C’è poi un’ulteriore e ribadita descrizione che presenta la
dialettica come un “cammino”, un “viaggio” (poreia: 53zb4), cioè un pro
cedimento di ricerca metodicamente organizzato (methodos: 533b3, c7).
La dialettica è presentata inoltre, in modo più forte, come una “scien
za” (episteme). Questo riconoscimento della scientificità del procedimen
to dialettico è formulato per la prima volta da Glaucone (iic), ma esso
viene in seguito confermato da qualche accenno socratico. Si tratta infatti
della capacità di «interrogare e rispondere nel modo più scientifico» (epi
stemonestata, 534d9 s.), che si vale della «incrollabile forza del discorso
razionale» (&7r-rcrtTc)6’yw, 534c3) e che perviene, al suo termine, a quella
“saldezza” (bebaiosetai, 533c7) che è appunto propria dei saperi scientifi
ci. Ma questo consolidamento non è definitivo, e deve venire ogni volta
riconquistato nella « battaglia » (mache, 534c) che il dialettico affronta
nel confronto delle reciproche confutazioni. Lo spazio della dialettica ne
risulta perciò radicalmente configurato come intersoggettivo: il dialettico
ha sempre di fronte a sé altri uomini, altre doxai, di fronte ai quali «dare
e ricevere ragione» (53xe4 5.: &f.vcd TE ICal & cwOct )àyo), e la sua
formazione deve mirare in primo luogo a fargli acquisire questa capacità.
E qui sta la radicale differenza tra dialettica e metodo delle matematiche,
che si configura piuttosto come un monologo teorematico. Il consolida
mento scientifico delle verità dialettiche (la conquista del logos tes ousias)
è possibile e necessario, ma non dà luogo a un sistema chiuso e stabile di
definizioni, piuttosto, come diceva il fedone, a “ipotesi difficilmente con
trovertibili” (è questo ad esempio il caso della definizione della giustizia
nel libro Iv della Repubblica, perfettamente valida nell’ambito politico,
ma che viene rimessa in discussione nel “percorso più lungo”, nzakrotera
periodos, del libro vi).
Nel Sofista la forma della verità non consiste più tanto nella produzio
ne del togos tes ousias di oggetti noetici “veri”, quanto nella costruzione di
enunciati che dicano “le cose che sono come sono’ cioè corrispondano allo
stato delle relazioni reali degli enti noetici tra loro o con gli oggetti empiri
ci. La verità si colloca dunque nell’unione di soggetto e predicato, quando
essa renda conto dell’oggettiva connessione fra i termini reali cui essi si ri
feriscono. La produzione di questo tipo di enunciati è consentita, almeno
a livello degli enti noetici, dalla procedura dicotomica, in grado di reperire
la trama di relazioni di comunicazione che connettono, o separano, i ge
neri ideali fra loro. In linea di principio, la procedura dicotomica sembre
rebbe rappresentare un programma di ricostruzione completa dell’intera
mappa delle relazioni fra generi, e perciò costituire un dispositivo in grado
di produrre tutti i discorsi veri riguardanti la realtà intellegibile.
Questo non è tuttavia il vero progetto della dicotomia così come Plato
ne lo costruisce nel Sofista.
La dicotomia non intende certamente generare un progetto di tasso
nomia universale, una sorta di atlante ontologico di tutta la realtà, come
sembra suggerire qualche sua interpretazione neoplatonica (ad esempio il
celebre “albero” di Porfirio). Questo intento è escluso per principio dall’im
possibilità di dividere il megiston genos dell”essere”, che non costituisce
un’idea-classe inclusiva di un insieme ordinato di enti, come è ad esempio
“animale’ bensì una proprietà comune a tutti gli enti in quanto tali. Se
l’essere fosse divisibile in specie, dovrebbero esserlo anche gli altri megista
e
epistemologicamente
che
z6z
IL POTERE DELLA VERITÀ
i
gene, come I’ “identico’ il “diverso”, il “movimento” o 1’ “immobilità”, il che
evidentemente è assurdo.
A ciò si aggiunge il divieto di dividere il campo dicotomico “di sinistra”,
che esclude in linea di principio la possibilità di saturare una tassonomia
dicotomica universale.
Ma va soprattutto sottolineato che il campo da dividere è assunto
per ipotesi — per effetto di una homologia fra gli interlocutori (cfr. ad es.
zzzb) — non costituisce il genere aristotelico esistente in natura. Si pensi
ad esempio all’ “arte di condurre animali al pascolo” del Politico, e soprat
tutto ai sei o sette ambiti generali in cui viene via via incluso il “sofista” nel
dialogo omonimo, da cui risultano per via dicotomica altrettante defini
zioni diverse. Il fatto che la validità dei risultati raggiunti dipenda dall’ac
cordo fra gli interlocutori, sia sul punto di partenza sia sull’esito del pro
cesso di divisione, sottolinea il carattere dialettico-dialogico, quindi non
sistematico-tassonomico, dell’intera procedura.
Per Platone la verità è necessaria, e possibile. Questa possibilità è fon
data sul presupposto di una affinità (syngeneia) tra l’anima e l’essere (co
munque poi questa affinità possa venire interpretata, ad esempio nel sen
so aristotelico della passività del nous di fronte ai noeta, oppure in quello
idealistico della produttività del conoscere). La verità può venire acquisita
sia mediante la descrizione di oggetti veri sia mediante la produzione di
enunciati corrispondenti alle relazioni oggettive che organizzano il mon
do. Nell’uno e nell’altro senso, possono venire costruite procedure razio
nali per l’acquisizione della verità, e grazie a esse il relativismo sofistico
può venire sconfitto. Ma né l’eredità di Socrate né la sfida dello stesso sofi
sta possono venire davvero del tutto rimossi.
Si possono costruire progetti e regimi di verità, in grado di dare rispo
ste oggettivamente vere ai problemi della conoscenza e della praxis eticopolitica.
Il modo in cui queste risposte vengono generate produce segmenti
parziali di verità — ed eticamente decisivi — han
no un orizzonte intenzionale di integrazione conoscitiva. Questo orizzon
te non sembra saturabile — in modo da pervenire a un sistema di verità
chiuso e definitivo — appunto in ragione della natura locale e parziale dei
progetti di verità via via perseguiti, che non si configurano come un pro
cedimento derivativo e teorematico. Se è necessario superare, insieme con
il relativismo sofistico, anche il non sapere socratico, resta il terreno dialet
tico e intersoggettivo in cui si formano e si compiono i progetti di verità.
Confutare Protagora non comporta dunque per Platone precorrere Proclo.
Il
Immortalità personale senza anima immortale:
Diotima e Aristotele*
I
Diotima’ sostiene con molta chiarezza la tesi che il desiderio di possedere
«ciò che è buono» (tagatha) è motivato dall’altro e dominante deside
rio di «essere felici» (tcLt[.u.w urct, 2o4e6 ss.). Eros è dunque rivolto a
«possedere il bene per sempre» (zo6a8-9), e con esso, s’intende, la felici
tà che ne consegue. Questa aspirazione a un possesso perpetuo di bene e
di felicità dà necessariamente luogo a un desiderio erotico di immortalità
(&Gco(c à ctoì tGu.tt!v, 2o6e9 s.)’.
Diotima indica tre percorsi che possono venire seguiti in vista della
soddisfazione di questo desiderio di immortalità.
1.1
La prima via verso l’immortalità riguarda ogni vivente mortale, uomo
o animale che sia (zo7b), e consiste nella procreazione biologica di un
individuo simile al genitore, poiché «in ogni vivente che è mortale vi
è qualcosa di immortale», la gravidanza e la generazione (zo6c6-8):
«la procreazione è ciò che di eterno e immortale spetta a un mortale»
(zo6e8)4.
Infatti, conclude su questo punto Diotima, «la natura mortale cerca
per quanto le è possibile [kata to dynaton] di essere sempre e di essere im
mortale. Ma può farlo solo in questo modo, attraverso la procreazione»
(zo7dx-3).
Questo capitolo è già stato pubblicato in The International Plato Society, x Sympo
sium Platonicum, The Symposium, Proceedings i, Pisa i5th-zoth July zo13, Dipartimento
di Filologia, Letteratura e Linguistica, Università di Pisa, Pisa 1013.
di
a
264
IL POTERE DELLA VERITÀ
IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE
z6
Si tratta in particolare della via seguita da quegli uomini che sono
«gravidi secondo il corpo»: essi si rivolgono alla riproduzione sessuale
«procurandosi attraverso la procreazione di figli immortalità e ricordo e
felicità [&8cnco(wv KcCI n’nyv Kì r q.tov(co] [...] per tutto il tempo a
venire» (zo8e).
1.2
Accanto alla via biologica verso l’immortalità, Diotima ne riconosce al
tre due, queste specificamente umane, che potremmo definire di tipo
“culturale”.
La prima di esse riguarda un tipo d’uomo il cui profilo antropologico è
diverso da quello dedito alla riproduzione biologica. È l’uomo ambizioso,
motivato dalla philotimia, il cui desiderio di immortalità prende la for
ma dell’aspirazione
—
chiara memoria omerica6 —
un kteos athanaton
(1o8c5 s.), che assicuri «l’immortale memoria» delle loro gesta e della
loro areté: «è per una virtù immortale e una fama gloriosa che tutti fanno
tutto, e tanto più quanto migliori essi siano: infatti amano l’immortale»
(1o8d5-ez).
È nell’ambito di questo tipo antropologico che la tensione verso un’im
mortalità culturale si sviluppa, dopo la primitiva ricerca del kteos eroico
dell’epica, in direzione di un lascito eterno di opere memorabili, tanto
nell’ambito della creazione poetica quanto in quello della storia politica.
La vecchia areté eroica lascia ora il passo a un nuovo quadro di virtù che si
inscrivono nello spazio dell’intelligenza, laphronesis (p6vo&v TE ccd rp
&)yv &pEr]v, 2o9a4): quelle virtù, sophrosyne e dikaiosyne, che per Plato
ne sono essenzialmente “politiche” (cfr. Resp. IV 43odi), e che Aristotele
avrebbe preferito chiamare “etiche” Gli eroi eponimi di queste nuove virtù
sono ora i poeti e gli artisti “creativi”, come Omero ed Esiodo, ma ancor
di più coloro che si distinguono nel garantire il buon ordine (diakosmesis)
delle case e delle città, come i protolegislatori Licurgo e Solone. È grazie
alle loro opere nel dominio della cultura e della politica che essi acquista
no, come i vecchi eroi, fama (kleos) e memoria immortali (zo9d)8.
Fin qui, secondo Diotima, il giovane Socrate è in grado di seguire il
percorso dell’iniziazione erotica. La sacerdotessa dubita però che egli sia
in grado di seguirla oltre la soglia dei cosiddetti misteri maggiori, che apre
la via all’iniziazione epoptica, nonostante che si dichiari disposta a dedi
care al discepolo tutto il suo impegno (oic oi’€ oi6 T&v E’ [...] yc
iccì 7rpo6v.LCa oàv &‘it6XEtc,J, zIoaz-4). Torneremo più avanti sul senso
di questa presunta incapacità di Socrate di seguire Diotima nel percor
so iniziatico. Si tratta ora invece di vedere che cosa sta oltre la soglia dei
“grandi misteri’ È certo comunque che a superarla non potrà essere il tipo
antropologico dell’uomo “fi1otimico’ ma una figura umana diversa: evi
dentemente, è il caso di anticipare, quella del filosofo.
1.3
La terza via verso l’immortalità è anch’essa, come la seconda, di ambito
culturale e non biologico, ma sia il suo approccio sia il suo esito sono di
qualità intellettuale del tutto superiore a quelli della via “filotimica Chi
dunque procede correttamente (orthos) per questa via passerà dall’eros ri
volto alla bellezza di un corpo a quello per tutti i corpi che partecipano del
tratto della bellezza, poi a quello rivolto alla superiore bellezza delle ani
me e dei loro prodotti: comportamenti (epitedeumata), leggi, conoscenze
(episternai) (zioa-c). Questo eros riorientato lo metterà di fronte allo spet
tacolo del «vasto mare del bello», la cui contemplazione gli ispirerà la ge
nerazione di «discorsi [logoi] belli e magnifici», nonché di nobili pensieri
(dianoemata) filosofici, il cui orizzonte è la conoscenza unitaria e per così
dire intensiva (mia episteme) del bello (ziod).
A questo punto, giunto ormai al tetos della contemplazione delle cose
belle, l’iniziato perverrà alla visione istantanea ((v 1cwr6fETctt) del
«bello per natura» (lIoe4-6). Tutto ciò suscita naturalmente parecchie
domande, ma importa qui in primo luogo vedere le conseguenze di que
sta visione del bello in sé. Ch la consegue genera non più simulacri di
areté — tali vanno ormai evidentemente considerate tanto le virtù “eroi
che” quanto quelle etico-politiche — ma la «virtù vera» (21224-6), la
cui natura deve essere dunque considerata soltanto contemplativa. A ch
l’ha conseguita spetta di diventare theophites, evidentemente nel doppio
senso di colui che è “caro agli dei” e che è a loro devoto. Certo anche
a questo tipo di uomo toccherebbe di diventare immortale, athanatos,
se mai ciò potesse accadere a un uomo, e nella misura in cui questo per
un uomo è possibile (21za7-8). Questa è la terza e più elevata forma di
immortalità perseguibile dagli uomini, dopo quella biologica e quella
poetica e politica.
z66
IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE
267
1.4
Tutto questo, si diceva, suscita molte domande. Che cosa esattamente co
nosce l’iniziato quando “vede” il bello? Che forma epistemica assume que
sta conoscenza? Perché essa dovrebbe risultare quasi inaccessibile al So
crate allievo di Diotima? C’è continuità o discontinuità fra i diversi passi
verso l’immortalità, e i tipi d’uomo che a essi corrispondono? Che cosa
accade all’iniziato dopo la visione del bello? Infine quella che è per noi la
domanda più importante: di che tipo è l’immortalità acquisita grazie alla
conoscenza del bello?
‘.4.’
il linguaggio con cui Platone descrive il “bello” oggetto della visione epopti
canon lascia dubbi: si tratta dell’idea o forma del bello, cui vengono riferiti
i tratti ricorrenti in quella che si può definire la teoria standard delle idee’°.
È sufficiente leggerne due passi confrontandoli rispettivamente con quelli
paralleli in Repubblica e fedane. Il bello del Simposio « sempre è e non nasce
né muore, non cresce né diminuisce, [...] non è in parte bello e in parte
brutto, né a volte bello e a volte no, né bello rispetto a una cosa e brutto ri
spetto a un’altra » (z,Ia,-4). E si veda Repubblica, dove si polemizza contro
il filodosso che «non ritiene esservi il bello in sé né alcuna idea della bellez
za in sé che permanga sempre invariante nella sua identità», e gli si obietta
che delle molteplici cose belle «non ve n’è una che non possa apparire an
che brutta [...], e che le stesse cose appaiono, da diversi punti di vista, ora
belle ora brutte», a differenza dell’identità invariante dell’idea (v 479a1-8).
Ancora, il bello del Simposio si trova « esso stesso tctà iccO ‘T6] in se stes
so, con se stesso, in un’unica forma [monoeides] , eterno, mentre tutte le altre
cose belle partecipano [metechonta] di esso» (z,ibi-3). Il confronto qui è
con il fedone, dove dell’ «uguale in sé, del bello in sé, e di ciascuna cosa che
è in sé» si dice che «ciascuna di queste cose che sono, essendo uniformi
[monoeides] in sé e per sé [a&rò icaO ‘ct6] e nella medesima condizione, in
nessun momento, in nessun luogo ammette alcun mutamento» (78d3-$).
Non c’è dubbio, quindi, che l’oggetto della visione iniziatica possa de
finirsi tecnicamente come l’idea del bello. Il fatto che il contatto con essa
(designato con il verbo haptesthai) rappresenti il culmine e il compimento
del percorso erotico (tetos, zIoe4) può suggerire un’analogia, almeno di
posizione, con l’idea del buono nella Repubblica, collocata anch’esso al
culmine (telos) del mondo ideale, e oggetto di un’apprensione noetica (VII
53zbi s.), che può a sua volta venire indicata con il verbo haptesthai (vi
5xIb6). Ma si tratta di un’analogia che è appunto solo di posizione, per
ché mentre nella Repubblica il primato del buono rispetto alle altre idee è
argomentato con forza, nel Simposio il bello appare come tetos nel quadro
dominante della sublimazione erotica, né è mai in questione il suo rappor
to con le altre forme del dominio eidetico.
1.4.2
Pochi dubbi possono esservi anche circa il modo di apprensione dell’i
dea del bello nel Simposio. 11 linguaggio platonico rinvia inequivocabil
mente all’immediatezza dell’atto intuitivo, che si configura come visio
ne o contatto (exarphnes, kathoran, haptesthai: zioe, z,,b8). Si aggiunge
esplicitamente che in questo atto l’apparizione del bello non prende la
forma né di un logos né di una episteme (zi;a8), è dunque estranea rispet
to all’ambito della conoscenza linguistico-proposizionale”. È persuasivo
il confronto con l’approccio della dialettica all’idea del buono nella Re
pubblica. Benché anche qui non siano assenti accenni a una conoscenza
di tipo intuitivo, l’accento cade sulla definizione discorsiva (top(oOcu
-rc)6yc), sull’etenchos (vii 534b8-c,), sul logos tes ousias, sul logon didonai
(VII 534b3-5). Confesso di non trovare appassionante la discussione in
torno al carattere irrazionale, mistico, oppure razionale e addirittura iper
razionale” di atti conoscitivi extralinguistici. Linguistico/proposizionale
e razionale non sono evidentemente termini sovrapponibili e convertibili,
e la storia dell’idea di Wesenschau nella filosofia del Novecento è lì a dimo
strarlo. Più interessante è la questione, sollevata da Fronterotta’3, se l’atto
di conoscenza intuitiva individualmente sperimentato sia linguisticamen
te trasponibile, comunicabile e universalizzabile: a me pare che, a differen
za della Repubblica, la questione non sia tematizzata nel Simposio e debba
quindi essere lasciata aperta, anche se una risposta positiva potrebbe, con
molta incertezza, venire suggerita dal rapporto maestro-discepolo che reg
ge l’intero percorso iniziatico.
Va piuttosto notato che la piena visione dell’idea del bello è perfet
tamente accessibile in questa vita, e non richiede — a differenza che nel
Fedone — alcuna separazione dell’anima dal corpo, anzi è possibile solo
al termine di un processo di sublimazione nel quale l’attrazione verso la
bellezza corporea è il punto di partenza imprescindibile. Ma su questo do
vremo tornare da un diverso punto di vista.
anche
non
chiede
appunto
che
z68 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 169
‘.4.3
Che cosa significa dunque l’incapacità di seguirla nel viaggio iniziatico che
Diotima attribuisce a Socrate? In essa si è potuto leggere il segno della insu
perabile minorità del filosofo, costretto, almeno in questa vita, ad amare la
sapienza senza poterla conseguire, e dunque confinato nella zona epistemica
dell’ “opinione vera Questa interpretazione sembra tuttavia smentita da un
passo molto simile della Repubblica, dove è però Socrate, una volta giun
to sulla soglia della piena comprensione della dialettica e del suo oggetto
terminale, l’idea del buono, ad attribuire a Glaucone un’analoga incapacità
di procedere oltre’. Socrate usa qui quasi le stesse parole che Diotima gli
aveva indirizzato nel Simposio: «mio caro Glaucone, non sarai più in grado
[oiucé-rt (...) oi6 -r’io-] di seguirmi, per quanto io non trascurerà certo ogni
sforzo Lprothymia] » (VII 533I s.). Il cambio di posizione fra Socrate e Dio
tima può allora far pensare che l’incapacità di Socrate nel Simposio sia dovu
ta alla sua giovinezza’5, superata nella Repubblica quando un Socrate maturo
avrebbe ormai assunto l’atteggiamento del maestro. Anche questa ipotesi
sembra tuttavia messa in dubbio da un confronto con il Parmenide. Qui
il vecchio maestro eleate riconosce come propria del giovanissimo Socrate
una procedura filosofica consistente nel riconoscere tratti comuni a diversi
enti (è il primo passo nella costruzione della teoria delle idee, cioè il ricono
scimento dell’unità oltre la molteplicità, dello ben epipottois, da cui inizia
anche l’ascesa del Simposio, zlob3 s.), e nel separare (choris) questi tratti da
gli enti che ne partecipano, facendone così eide esistenti in sé stessi: «questo
ragionamento vale anche per realtà quali la forma in sé e per sé [rIo c&rà
icO ‘cir6] del giusto, del bello, del buono» (i3obz-9, cfr. 13oe5-131a1).
Quello insomma che il giovanissimo Socrate fa secondo Parmenide è
la costruzione di una forma standard della teoria delle idee mediante una
semplice procedura logico-ontologica che non richiede né iparaphernatia
dell’iniziazione ai misteri erotici propri del Simposio’6, né alcuna visione
oltreterrena delle idee.
Non sembra dunque che la ragione della difficoltà attribuita da Diotima a
Socrate consista nell’aspetto cognitivo dell’accesso all’idea del bello. Ciò che
viene in questo modo enfatizzato e solennizzato è la difficoltà di una scelta
di vita più che di un orientamento epistemico: la scelta di vita che condurrà
a una forma di immortalizzazione individuale diversa sia da quella biologica
sia da quella politica e poetica, e che dunque richiede una piena maturità
morale oltre che intellettuale da parte di chi si avvia in quella direzione.
‘.4.4
Sembra di poter escludere che vi sia una continuità fra i diversi percor
si verso l’immortalità, e che essi possano venir disposti in una sequenza
progressiva’7: quello erotico-filosofico va intrapreso «fin da giovane»
(zioa6), e a esso corrisponde un tipo d’uomo — il filosofo — an
tropologicamente diverso sia da quello dedito alla procreazione biologica
sia dal phitotimos. La scelta del filosofo comporta una forma di vita che gli
è peculiare: «questa è la dimensione della vita che, se mai altra, un uomo
deve vivere [biòton]: contemplando il bello in sé» (z;idi-3).
Il Simposio — a differenza dalla Repubblica — sembra prevedere alcu
na discesa del filosofo una volta raggiunto lo stadio contemplativo’8. È vero
che giunto alla visione del bello, e al tipo di vita che le consegue, il filosofo
ha ancora un’attività generativa, consistente nel «partorire non simulacri
[eidola] di virtù, ma virtù vera, visto che afferra il vero» (z;1a4-6). Questa
areté, proprio in quanto è “vera”, sarà perciò diversa dalle virtù poetiche e
politiche: se possiamo anticipare un linguaggio aristotelico, essa sarà una
virtù dianoetica e non etica, che configura una forma di vita dedicata alla
verità e non alla politica o alla creazione poetica.
B1ondell’ ritiene inevitabile una discesa: «poiché il filosofo non può
esistere permanentemente nella contemplazione delle forme», «il Socra
te temporaneamente solipsistico tornerà presto fra i suoi compagni mor
tali». Questo può essere certamente vero per il filosofo della Repubblica, e
forse anche per il nostro senso comune. Ma è meno vero per la figura del fi
losofo che Platone delinea nel celebre excursus del Teeteto, con la sua esclu
siva dedizione alla pura teoresi (i73d-i75b), per non parlare dell’ascesi del
fedonebo. Del resto, non c’è nulla di impensabile in una vita interamente
dedicata alla comprensione delle strutture del mondo noetico, se si pensa
a esercizi teorici come quelli programmati nel Sofista e nel Parmenide. Che
il bios theoretikos possa costituire una forma di vita pervasiva, lo avrebbe in
dicato con chiarezza Aristotele — se certamente in lui l’oggetto della
contemplazione risulta assai dilatato rispetto a quello platonico.
1.4.5
Queste considerazioni rendono più agevole la risposta alla domanda per
noi più importante, circa il tipo di immortalità personale che consegue
alla visione dell’idea del bello (e per estensione, è lecito supporre, del mon
do delle forme nel suo insieme). «Non trovi — Diotima — a chi
non
270 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 271
partorisce e alleva virtù vera spetta di diventare caro agli dèi [theophites], e
se mai a un uomo toccasse di diventare immortale, dovrebbe toccare anche
a lui?» (112a7 s.). Il senso di questo passo, in cui Platone indica la terza e
più elevata via verso l’immortalità personale, viene chiarito dal confronto
con un più esplicito testo parallelo del Timeo, il cui linguaggio presenta
forti affinità con quello del Simposio:
colui il quale si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto
questa parte di sé ha esercitato, è assotutamente necessario che, quando attinge
alla verità [à)ìiOrtc i4à7rT1rct1, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella
misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’ immortalità, non ne
trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice (9ob6-c6, trad. Fronterotta
leggermente modificata).
il passo del Timeo conferma ciò che risulta già con molta chiarezza nel Sim
posio. Per individui mortali, l’immortalità personale ottenuta mediante l’ac
quisizione, il consolidamento, la trasmissione educativa della conoscenza — al
pari di quella perseguita mediante la prole o la memoria — richiede e non
presume l’immortalità dell’anima individuale. Come ha scritto Casertano,
« ogni singolo uomo è mortale, in suo corpo e sua anima, ma ha la possibili
tà, nella sua vita mortale, di attingere una forma di immortalità, che consiste
precisamente nell’innalzarsi al mondo immortale della conoscenza»21.
Il senso dell’assenza nel Simposio di una teoria dell’immortalità dell’a
nima individuale, in rapporto all’insieme del pensiero platonico, andrà
discusso più avanti.
È ora il caso di considerare una posterità importante, e in qualche mi
sura sorprendente, delle tesi sull’immortalità insegnate da Diotima; reci
procamente, questa posterità servirà a comprendere meglio il senso e la
portata delle osservazioni che abbiamo svolto fin qui.
2.
1.1
C’è una straordinaria somiglianza fra la via riproduttiva all’immortalità in
dicata da Diotima e il modo in cui Aristotele spiega la finalità della riprodu
zione biologica tanto nel De anima quanto nel Degeneratione animatium:
La funzione più naturale [physikòtaton] degli esseri viventi [...] è di produrre un
altro individuo simile a sé: l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per
partecipare [metecho’sin], nella misura del possibile, dell’eterno e del divino. In
effetti è a questo che tutti gli esseri tendono [oregetai] [...] Poiché dunque questi
esseri non possono partecipare con continuità dell’eterno e del divino, in quanto
nessun essere corruttibile è in grado di sopravvivere identico e uno di numero,
ciascuno ne partecipa per quanto gli è possibile, chi più e ch meno, e sopravvive
non in se stesso, ma in un individuo simile a sé, non uno di numero, ma uno nella
specie [eidei]» (De an. ii 4 415a25-b7, trad. Movia).
Più brevemente ribadiva Aristotele nel Degeneratione: «poiché non è pos
sibile che la natura del genere degli animali sia eterna, ciò che nasce è eter
no nel modo che gli è dato. Individualmente gli è dunque impossibile [...]
secondo la specie gli è invece possibile. Perciò vi è sempre un genere di uo
mini, di animali e dipiante» (Degen. anim. Il i 731b31-731a1, trad. Lanza).
Aristotele non fa così che generalizzare, estendendola all’intero mondo
vivente, dagli uomini alle piante, la tesi di Diotima sull’immortalità ripro
duttiva. L’estensione comporta però due conseguenze. La prima è una certa
de-psicologizzazione del discorso di Diotima, che sostituisce l’eros con una
pulsione “naturalissima”; resta vero anche per Aristotele che l’aspirazione
(orexis) verso l’eternità divina costituisce una sorta di programma genetico
del vivente, che può però agire in modo del tutto inconsapevole. La secon
da conseguenza è che la scena dell’immortalizzazione riproduttiva si sposta
decisamente dagli individui alla specie, che ne è l’unico ambito possibile.
Aristotele non riprende in modo esplicito la seconda via verso l’immortalità
personale, quella perseguita dal tipo d’uomo “filotimico’ Non c’è dubbio
però che egli delinei questa forma di vita e la sua connessione con la virtù e la
felicità, anche se non direttamente con l’immortalità mediante la memoria.
Si tratta dell’ambito delle virtù che Aristotele chiama etiche, distinguendolo
da quelle “teoriche” definite, com’è noto, “dianoetiche” Le virtù etiche non
sono le prime anche se godono di una loro eccellenza: «L’agire politico e le
azioni di guerra eccellono tra le azioni secondo virtù»; ne derivano «potere
e onori [timas] , e comunque la felicità [eudaimonia] per se stesso e per i pro
pri concittadini» (EE X 7, ii77bi3-i7, trad. Natali modificata). Tuttavia la
felicità conseguente a questa forma di virtù è imperfetta e di secondo rango,
272 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE
perché condizionata da circostanze esterne e indipendenti dall’individuo
agente, al quale viene richiesto un impegno oneroso e dall’esito incerto.
2.3
Inequivocabile invece la ripresa aristotelica della terza via verso l’immor
talità personale, quella filosofica: essa è manifestata in un passo dell’Etica
Nicomachea dal forte rilievo retorico, centrato sul verbo athanatizein, un
hapax nel corpo aristotelico. Nel celebre capitolo del libro x’4, Ari
stotele decreta il primato della vita teoretica, in quanto attività secondo
la migliore virtù umana, quella esercitata dal nous nella conoscenza delle
cose «belle e divine», da cui consegue la sua capacità di pervenire alla
«felicità perfetta» (teleia eudamonia) (;177a;z-;7). Questa vita consi
ste nell’attività dell’elemento divino inerente alla vita umana, appunto il
pensiero. Per questo, aggiunge Aristotele, «non si deve, essendo uomini,
limitarsi a pensare a cose umane, né essendo mortali pensare solo a cose
mortali, come dicono i consigli tradizionali, ma rendersi immortali fin
quanto è possibile [c’ 6oov rrai ctOwvar(Erv] e fare di tutto per vi
vere secondo la parte migliore che è in noi. Anche se è di peso [onchos]
minuscolo, per potere e per onore essa supera di gran lunga tutto il resto »
(1177b31-117$aI). La più alta forma di immortalità personale possibile per
l’essere umano mortale, la virtù più vera, la perfetta felicità: riecheggiano
con molta forza, in questo passo aristotelico, i tratti decisivi riconosciuti
da Diotima alla contemplazione filosofica dell’idea del bello — certo estesa
da Aristotele a tutto il campo dei possibili oggetti del pensiero speculativo.
Sembra dunque certo che Aristotele abbia trovato nel Simposio elemen
ti decisivi per pensare la questione del desiderio di immortalità individuale
da parte di viventi mortali, e dei diversi livelli ai quali questo desiderio può
venire soddisfatto: dall’eternazione riproduttiva fino all’assimilazione
parziale con l’immortalità divina consentito dalla forma di vita teoretica.
2.4
L’elaborazione e l’espansione aristotelica delle prospettive indicate da
Diotima forniscono dal canto loro preziosi chiarimenti che possono veni
re impiegati retroattivamente per l’interpretazione dei problemi cruciali
sollevati da quelle prospettive.
In primo luogo. Considerata dal punto di vista aristotelico, la questio
ne se il percorso “politico” e quello speculativo verso l’immortalizzazio
ne personale vadano considerati come posti in sequenza o piuttosto in
alternativa può venire chiaramente risolta nel secondo senso. La forma
di vita politica e quella teoretica sono nettamente distinte e contrappo
ste da Aristotele’; a esse corrispondono tipi d’uomo diversi, e diverse
virtù gerarchicamente distinte (quella dianoetica e quelle etiche, anche
se naturalmente l’esercizio della virtù maggiore non esclude il possesso
di quelle etiche, richieste dall’interazione quotidiana fra gli uomini)26.
Aristotele considera l’attività politica come un impedimento e un impac
cio per quella speculativa, cui va dedicata per quanto è possibile la vita
intera — anche se essa concerne un’esigua minoranza di uomini, come
del resto presumibilmente accadeva per la perfetta iniziazione erotica del
Simposio.
Questa opposizione tra virtù, forme di vita e tipi umani contiene in sé
anche la risposta che il punto di vista aristotelico offre al secondo quesito
suscitato dal Simposio, circa l’eventuale “discesa” nelle occupazioni uma
ne dopo l’evento della contemplazione dell’idea del bello. Come si era
anticipato, questa risposta non può che essere negativa. A differenza del
ritorno nella caverna dei filosofi della Repubblica, il filosofo aristotelico
rifiuterà il coinvolgimento politico, decidendo di «vivere da straniero»
nella città (Poi. VII a 1324116). La stessa permanenza perpetua nella sfera
dell’attività teoretica sarà dunque da attribuire al filosofo contemplatore
del Simposio.
Ma veniamo alla terza e più importante questione. L’idea di un acces
so biologico all’eternità della specie, e di una conquista culturale dell’im
mortalità personale che non comporta e non richiede alcuna concezione
dell’immortalità dell’anima individuale, si accorda perfettamente con la
psicologia e l’etica perfettamente “mondane” di Aristotele. Reciproca
mente, il fatto che egli possa accogliere senza riserve queste prospettive
sull’immortalizzazione formulate nel Simposio significa che nella lettu
ra aristotelica esse non comportavano alcun impegno nei riguardi delle
convinzioni altrove formulate da Platone circa l’immortalità dell’anima
individuale, convinzioni che Aristotele non avrebbe potuto affatto con
dividere. Aristotele conferma dunque l’assenza nel Simposio di ogni rife
rimento a questo complesso di dottrine e delle loro ricadute sia morali sia
gnoseologiche.
possano
del
‘74 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 175
3
Un’assenza, questa, che non può venire spiegata con ipotesi di tipo evolu
tivo, vista la prossimità del Simposio a dialoghi, come il fedone e il fedro,
dove il pensiero dell’immortalità dell’anima gioca un ruolo centrale. Sem
bra anche piuttosto arbitrario pensare a uno «scetticismo temporaneo»
di Platone intorno a questa convinzione, come ha fatto HackfortW. Ma
neppure sembrano accettabili “spiegazioni” (nel senso inglese di exptain
away) che implicano unapetitioprinciii, di questo tipo: Platone ha sempre
sostenuto la teoria dell’immortalità dell’anima; dunque essa non può risul
tare assente nel Simposio, anche se il testo sembra confermarl&8.
In realtà, anche l’eclissi dell’immortalità dell’anima individuale deve
a mio avviso venire interpretata secondo il criterio prudente e plausibile
formulato da Thomas Robinson:
Il rifiuto manifesto, da parte di Platone, di ridurre a una sembianza d’ordine artifi
ciale una serie di concezioni dell’anima che, intrinsecamente, sono probabilmente
inconciliabili [...J va compreso come un segno della sua potenza filosofica [...] Esso
può venire attribuito a una sua ferma decisione di lasciare una pluralità di opzioni
aperte in caso di dubbio, decisione di un uomo che lungo tutta la sua vita, e fino
alla fine, ha scelto di esprimersi sempre, su ogni argomento, nella forma di un
dialogo aperto e non in quella di un trattato dogmatic&9.
È del resto ben noto quanto sia problematica e tormentata in Platone la
questione dell’immortalità dell’anima individuale, in ragione delle stesse
esigenze cui essa è chiamata a rispondere. C’è da un lato la necessità di
ordine morale di incentivare la condotta giusta in questa vita mediante
un dispositivo di premi e punizioni previsti per l’anima nell’aldilà, che
possono risarcire il giusto per le sue sofferenze mondane e sanzionare
l’ingiusto per le sue prevaricazioni30, dispositivo ampiamente descrit
to nei miti escatologici del Gorgia e del libro x della Repubblica’. C’è
dall’altro lato l’esigenza gnoseologica di spiegare la possibilità di cono
scenza di enti incorporei come le idee da parte di un’anima vincolata agli
organi di senso: essa può essere più facilmente pensata come un contatto
prenatale fra le idee e un’anima non ancora incorporata, secondo la tesi
del Fedone3z.
Le due esigenze tuttavia confliggono su un punto decisivo, che resta
irrisolto in Platone. Una qualche forma di ricordo dell’esperienza conoscitiva
prenatale deve essere conservato nella vita corporea, perché su di
esso si fonda la via anamnestica per il riconoscimento delle idee anche
in questa vita. Al contrario, l’istanza etica esige la cancellazione di ogni
ricordo delle esperienze prenatali, come indica il mito di Er, perché altri
menti non si avrebbero più in questa vita decisioni morali responsabili,
bensì un semplice calcolo di costi e benefici, in base al quale la condotta
giusta verrebbe presumibilmente scelta in vista dei premi decuplicati con
cui essa è remunerata nell’aldilà, e viceversa sarebbe evitata la condotta
ingiusta per timore delle analoghe punizioni. La memoria, necessaria per
la conoscenza delle idee, renderebbe dunque impossibile la scelta morale.
Una contraddizione questa che Platone non risolve e neppure tematizza,
lasciando che i due tipi di discorso si svolgano su piani diversi e non co
municanti.
Considerazioni simili si possono svolgere intorno alla questione
dell’immortalità dell’anima nella sua singolare individualità. L’esigenza
di ordine morale richiede che la vicenda oltreterrena dell’anima la riguardi
nella sua interezza personale (si parlerà dunque dell’anima di Achille o di
Socrate): premi e punizioni non possono che riguardare tutta l’anima che
porta meriti e colpe della vita dell’individuo clii è appartenuta. Ma d’altro
canto è difficile pensare che le parti dell’anima più strettamente legate alla
corporeità, come lo thymoeides e l’epithymetikon — resto esplicitamente
designate come “mortali” nel Timeo — godere della stessa immor
talità che spetta all’elemento divino che è in noi, cioè il principio razionale
che è tuttavia per sua natura impersonale.
Anche questi problemi non trovano in Platone soluzioni univoche, né
vengono esplicitamente tematizzati.
Se si tiene conto di questo quadro complesso e frastagliato, si può dun
que accettare senza eccessiva sorpresa che il Simposio non prenda affatto
in considerazione l’immortalità dell’anima, e proponga di pensare una via
all’ immortalizzazione personale che ne prescinde completamente: questo
va considerato come uno dei molti esperimenti intellettuali di Platone, la
cui importanza è eccezionalmente confermata dalla sua attenta rivisitazio
ne da parte di Aristotele.
È però il caso di mettere in rilievo una conseguenza importante di que
sto esperimento, alla quale non sempre si è dedicata una sufficiente atten
zione: si tratta della rinuncia alla funzione gnoseologica (oltre che a quella
morale) attribuita all’immortalità dell’anima.
che
dai
176 IL POTERI DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 277
4
Fare a meno dell’ immortalità dell’anima significa nel Simposio rinun
ciare alla reminiscenza (anamnesis) come modalità di recupero di una
conoscenza del mondo eidetico ottenuta dall’anima nella sua vita extra
corporea35. L’accesso all’idea del bello in questo dialogo avviene grazie a
un percorso di sublimazione della pulsione erotica che non richiede
fatto la separazione dell’anima dal corpo, anzi ha nel corpo — come sog
getto e oggetto del desiderio di bellezza — il suo imprescindibile punto di
partenza, e l’indispensabile riserva di energie psichiche da investire nella
conversione verso l’idea. Non c’è dubbio, dunque, che secondo il Simposio
una conoscenza delle idee (che qui sembra di tipo prevalentemente
itivo) è possibile anche senza il ricorso all’immortalità dell’anima e alla
relativa reminiscenza.
È indubbiamente vero che in molti dialoghi — dal Fedone6 al Menone37,
per certi aspetti al Fedro — la compiuta visione del mondo eidetico
è fatta dipendere da un’esperienza cognitiva possibile solo per l’anima
disincarnata, che ne conserva una qualche memoria anche dopo la rein
carnazione.
È altrettanto vero, però, che in altri dialoghi non meno importanti,
oltre che nello stesso Simposio, la conoscenza delle idee risulta possibile
anche senza reminiscenza.
Nel Parmenide, il giovane Socrate sembra impiegare con una certa
disinvoltura il metodo — Aristotele avrebbe chiamato ekthesis — con
sistente nell’isolare un tratto predicativo comune a più realtà empiriche
facendone un’entità noetica “separata” e invariante, insomma un’idea. Un
metodo di trattazione delle idee, naturalmente, che non ha nulla a che fare
con l’immortalità e con la reminiscenza.
Ma ciò che più conta è l’assenza della reminiscenza nella Repubbli
ca, che pure offre nel libro VII il più elaborato programma di accesso al
mondo eidetico che Platone abbia mai formulato. È ben poco plausibile
il tentativo di ridurre la portata di questa assenza riconducendola a ragio
ni «essenzialmente letterarie e drammatiche», perché stonerebbe con la
prospettiva unificante della visione del bene’. Al contrario, la conoscenza
delle idee, e al di là di esse dell’idea del buono, è preparata — a partire
dai paradossi dell’esperienza sensibile — processi astrattivo-idealizzanti
delle matematiche, poi dal lavoro critico-costruttivo della dialettica. An
che qui, e forse qui più che altrove, Platone non sembra avvertire alcuna
af
intu
necessità di ricorrere all’ipotesi di una conoscenza prenatale delle idee e
della sua reminiscenza in questa vita.
Il Simposio non è dunque l’unico testimone del fatto che Platone
bia esplorato soluzioni gnoseologiche diverse per l’accesso al mondo
detico°. Ci sono alternative alla rammemorazione anamnestica, e, nel
loro ambito, ci sono modalità differenziate di approccio alla conoscenza
delle idee (nel Simposio l’accento è posto sull’immediatezza della visio
ne, nella Repubblica sul lavoro dialettico, nel Farmenide sulla ekthesis
dell’unità dal molteplice). Le differenze fra queste prospettive non con
sentono di essere spiegate mediante ipotesi evolutive, e possono proba
bilmente venire considerate non incompatibili nel quadro del pensiero
platonico. Non è però accettabile scegliere una di queste prospettive
come dominante o “strutturale”, facendone un letto di Procuste in cui
annullare la ricchezza di esperimenti teorici presenti nei dialoghi. In essi
Platone ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di
pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stes
so in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca. Almeno in un caso
— l’immortalizzazione personale senza immortalità dell’anima — questi
sviluppi avrebbero incontrato il consenso da parte di Aristotele, che era
interessato a mantenere il privilegio straordinario della forma di vita filo
sofica, la sua capacità di athanatizein, senza per questo modificare la sua
dottrina dell’anima come forma del corpo e da esso inseparabile (De an.
III 4izb5, ss.).
Note
4I3l
ab
ei
i. La maggior parte dei commentatori riconosce senza incertezze in Diotima un
portavoce affidabile del pensiero platonico. Dubbi in proposito, da punti di vista
diversi, sono stati espressi ad esempio da D. Sedley, The Ideal of Godtikeness, in G.
Fine (ed.), Ptato 2: Ethics, folitics, Religion and the Sout, Oxford 1999, p. 130, 11. 2.;
e da D. Nails, Tragedy ofStage, in J. H. Lesher, D. Nails, F. C. C. Sheffield (eds.),
Ptato’s “Symposium’ Issues in Interpretation and Reception, Cambridge (MA)-Lon
don zoo6, pp. 191-3. Si tratta di dubbi legittimi, se si tiene conto delle complesse
strategie di distanziamento dal testo presentate nel prologo del dialogo (catena di
narratori poco attendibili), e del carattere anomalo del personaggio (donna, stra
niera, sacerdotessa). È vero tuttavia che Diotima usa a più riprese, come vedremo,
il linguaggio tecnico della teoria delle idee che appartiene senza dubbio a uno dei
nuclei teorici costanti del pensiero di Platone. Se è vero che nessun personaggio
(comprese le diverse raffigurazioni di Socrate) può essere considerato senza riser
ve come “portavoce” autentico di Platone, non credo dunque che Diotima sia da
278 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 279
considerare meno affidabile ad esempio del Socrate del fedone o della Repubblica,
né che le sue tesi vadano corrette sulla base di quelle espresse altrove da altri per
sonaggi autorevoli. Ma della specificità del personaggio nel contesto dialogico, in
particolare per quanto riguarda la retorica erotica, bisognerà tener conto nel seguito
di questa analisi.
a. Per un importante passo parallelo sulla connessione tra immortalità e felicità cfr.
Timeo 9oc, sul quale dovremo tornare. L’accostamento è segnalato da f. Ferrari, fros,
paideia efilosofia: Socratefra Diotima cAlcibiade, in V. Sorge, L. Palumbo (a cura di),
Eros eputchritudo. Tra antico e moderno, Napoli zoiz, p. 38.
3. Cfr. in questo senso G. R. Lear, PermanentBeauty and3ecomingHappy in Plato’s
“Symposium”, in Lesher, Nails, Sheffield, Plato’s “Symposium”, cit., 3. 109.
Le
.
traduzioni del Simposio citate sono di M. Nucci (Torino 2009), con qualche
modifica.
A. Fossi, Tempo, desiderio, generazione. Diotima
.
e Aristofane nel “Simposio” di
Platone, in “Rivista di storia della filosofia”, i, zoo$, segnala tuttavia che nel caso de
gli uomini anche la riproduzione biologica comporta un aspetto culturale, perché
essa comprende le nozioni di famiglia e di memoria conservata nella discendenza
(pp. 6-7). La differenza tra le due forme di immortalizzazione sembra attenuata, o
negata, dal passo di zo6cI-3, dove si afferma che «tutti gli uomini sono gravidi ccd
ccr& Tà O&[Lu iozì )cc/T& Tipi fUV» (ognuno disporrebbe dunque anche di una via
“spirituale” all’immortalità). Ma il passo deve essere confrontato con zo8ez-3, 6,
zo9ax, dove i due gruppi sono chiaramente contrapposti: «quelli che sono gravidi
secondo il corpo [ol tìv K6.LOVE KuT& r& od4tctTc] [...J Quelli invece che sono
gravidi secondo l’anima [ol è Icccr& Tipi ». Anche il primo passo andrà dun
que interpretato nel senso che tutti sono gravidi, sia (alcuni) nel corpo sia (altri)
nell’anima.
6. Sul tono epico di tutto il passo cfr. D. Susanetti, L’anima, l’amore e ilgrande mare
del bello, introduzione a Platone. Il Simposio, Venezia 1992, p. z. La parvenza dell’e
roe è spesso quella di un “dio immortale”: cfr., per Achille, Iliade XXIV 619 s. Sulle
«strategie di sopravvivenza mondana orientate da una tensione verso l’aldiquà» in
epoca arcaica, che sono « sorrette dall’idea che sia possibile sfuggire all’annullamento
totale realizzando forme di permanenza, oltre la vita, nella vita degli uomini: affidate
alla loro parola, alla loro vista, alla loro memoria», cfr. l’importante saggio 5. Nico
sia, Altre vie per l’immortalita nella cultura greca, in Id., Ephemeris. Scritti efimeri,
Soveria Mannelli (cz) 2013, pp. 407-23 (cit. p. 413).
G. R. E Ferrari, Platonic Love, in R. Kraut (ed.),
.
The Cambridge Companion to
Plato, Cambridge 1992, parla in proposito di un «pious roll of cultural heroes»
(p. Anche in Phaedr. z8c Licurgo e Solone, insieme con Dario, vengono consi
derati «logografi immortali».
8. Un interessante passo delle Leggi compatta la prima e la seconda via all’immor
talità. «In qualche misura il genere umano partecipa per sua natura dell’immorta
lità e di questa ognuno ha un desiderio innato: si tratta del desiderio di diventare
I
celebri [kleinon] senza giacere senza nome una volta morti. In effetti il genere uma
no è in qualche modo connato con la totalità del tempo che lo accompagna e lo
accompagnerà sino al termine ed essendo appunto in questo senso immortale, col
lasciare i figli dei figli restando perennemente identico a se stesso e unico, partecipa
mediante la generazione all’immortalità» (iv 7;1b7-c7). È da notare che mentre
l’immortalità attraverso la fama è strettamente individuale, quella riproduttiva si
sposta chiaramente, come sarebbe accaduto in Aristotele (cfr. PAR. z.i) dagli indi
vidui al genere.
9. Anche in Eth. Nicom. x I179a24, 30 massimamente theophiles il sophos dedito
all’attività teoretica.
io. Cfr. in questo senso ad esempio V. Di Benedetto, Eroslconoscenza in Platone, in
Platone. Simposio, Milano 1985, p. 41; F. Fronterotta, La visione dell’idea del bello.
Conoscenza intuitiva e conoscenza proposizionale, in A. Borges de Araùjo, G. Cornelli,
Il “Simposio”di Platone: un banchetto di interpretazioni, Napoli 2012, p. 99.
ii. Cfr. B. Centrone, Introduzione a Platone. Simposio, trad. e commento a cura di
M. Nucci, Torino 2009, p. XXXIII; Nucci, in Platone. Simposio (Torino 2009) n. 269;
Fronterotta, La visione dell’idea del bello, cit., pp. io6-io.
ia. F. Bearzi, Il contesto noetico del “Simposio”, “Études platoniciennes”, I, 2004,
p. zi, parla di «suprema rigorosità razionale». Che non si tratti di una «mysti
sche Erlebnis», perché non c’è alcuna unio mystica fra soggetto e oggetto, è soste
nuto da K. Sier, Die Rede der Diotima. Untersuchungen zum platonischen Symposion,
Stuttgart-Leipzig 1997, pp. 171-2.
13. Fronterotta,La visione dell’idea del bello, cit., p. 109.
14. Qui tuttavia può trattarsi non tanto di un’incapacità soggettiva quanto dell’in
trinseca difficoltà che la dialettica possa costituirsi come un sapere epistemologica
mente completo e saturo, difficoltà che dipende dalla natura ontologicamente ambi
gua del suo oggetto ultimo, l’idea del buono: cfr. in questo senso M. Vegetti, Glaucon
et les mystères de la dialectique, in M. Dixsaut (éd.), Etudes sur la “Republique”de Pla
ton, vo1. Il, Paris 2005, pp. 25-37.
i. Interessanti considerazioni sul “Socrate giovane” nei dialoghi in F. De Luise, Il
sapere di Diotima e la coscienza di Socrate. Note sul ritratto delfilosofo da giovane, in
Borges deAraùjo, Cornelli,Il “Simposio”di Platone, cit.,pp. 115-38.
i6. Giustamente Ch. Rowe, Il rSimposiodi Platone, Sankt Augustin 1998, sottolinea
che quella erotica è solo una delle vie possibili per la conoscenza filosofica.
17. Cfr. in questo senso Centrone, Introduzione, cit., p. XXXIII; e Nucci, cit., n. z6o.
i8. Così Nails, Tragedy ofStage, cit., pp. 193-4: «the ascent in the Symposium ends
at the summit with exclusive contemplation of the kalon ». Nello stesso senso Bearzi,
Il contesto noetico del “Simposio”, cit., p. 234 (che tuttavia cerca di mostrare una in
diretta compatibilità con la Repubblica). Scrive efficacemente Ferrari, Platonic Love,
cit., pp. 259-60: «far from there being any hint that he [l’iniziato] could transfer his
concern from the Beautiful itselfto the beauty ofvirtue, he is explicitly envisaged as
spending his life in contemplation of the former. In marked contrast to the Lesser
180 IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE z8i
Mysteries, what virtue amounts to here is not clearly something other than the vision
of the Beautiful that gives it birth».
19. R. Biondeli, [4/bere Is Socrates on the “Ladder ofLove”?, in Lesher, Nails, Shef
field, Plato’s “Symposium”, pp. i, 176. Mi sembra abbastanza simile la posizione di
F. J. Gonzalez, Interrupted Diatogue: Recent Readings ofthe “Symposium”, in “Plato”,
8, zoo$, S 17. Anche A. W. Price, Love andFriendshzp in Ptato andAristotte, Oxford
1989, ritiene che contemplazione non possa significare inazione e indifferenza alle
altre persone, ma come conferma a questa tesi cita prevalentemente passi della Repub
blica! (p. ai). Se tutte le tesi sostenute da Platone in ogni dialogo fossero immediata
mente trasferibili a tutti gli altri, Platone avrebbe scritto un solo libro: un compendio,
o syngramma, della filosofia platonica, opera che egli stesso dichiara impossibile e il
cui primo esemplare storico sembra sia stato composto dal giovane tiranno siracusano
Dionisio li (Ep. VII 341b-c).
zo. Per questa tensione tra diversi profili della vita filosofica cfr. M. Vegetti, Il regno
filosofico, in Id. (a cura di), Platone, La Repubblica, Napoli zooo, vo1. iv, pp. 362-4.
ai. Cfr. G. Casertano, In cerca dell’anima nel “Simposio”, in Borges de Araùjo, Cor
nelli, Il “Simposio”di Platone, cit., pp. 64-5 (anche nota 49 a p. 67). Nello stesso senso
Lear, PermanentBeauty, p. iii, nota a («nel mondo del Simposio le pratiche cultu
rali durano più a lungo delle anime perché le anime sono mortali. E le scienze sono
ancora più “immortali” perché sono associate a oggetti atemporali»); Ferrari, Eros,
paideia efitosofia, cit., p. 39 (l’eternazione del sapere come unica forma di immortalità
umana); Rowe, Il “Simposio” di Platone, cit., pp. 112-3. Per il Timeo cfr. B. Centrone,
L’immortalitd personale: un ‘altra nobile menzogna?, in M. Migliori, L. Napolitano
Valditara, A. Fermani (a cura di), Interioritc e anima. La psyché in Platone, Milano
2007, p. 42. Per posizioni opposte cfr. nota z.
22.. La vicinanza di Aristotele a Platone su questo tema è stata segnalata e discussa da
H. Arendt, Trapassato efuturo (1961), trad. it. Milano 1991, pp. 70-129.
z. Cfr. in proposito M. Vegetti, Athanatizein. Strategie di immortalitì nel pen
siero greco, in Id., Dialoghi con gli antichi, Sankt Augustin zoo6, pp. i6-6, 174-6,
dove si ricostruisce inoltre la preistoria del tema dello athanatizein (pp. 167-70).
La capacità dei medici seguaci del trace Zalmoxis di “rendere immortali” (apatha
natizein) è ironicamente menzionata in Carmide i56d6. Un percorso che va dalla
immortalizzazione magica dei Traci a quella “epistemica” in Platone e Aristotele
(senza bisogno della sopravvivenza dell’anima individuale) è tracciato da F. Ferrari,
L’incantesimo del Trace: Zalmoxis, la terapia dell’anima e l’immortalitii nel “Car
mide” di Platone, in M. Taufer (a cura di), Sguardi interdisciptinari sulla religiositii
dei Geto-Daci, Freiburg i.B. 2013, pp. 2.1-41. Un accenno all’influsso di Simposio e
Timeo oc su questo passo aristotelico è formulato da Sier, Die Rede derDiotima,
cit., pp. 187-8.
24. La critica ha spesso rilevato il carattere anomalo di questo e del seguente capitolo
rispetto al tono generale del trattato etico: la discussione relativa in M. Vegetti, L’etica
degli antichi (1989), Laterza, Roma ;oio, pp.
z. Cfr. in proposito le puntuali analisi di 5. Gastaldi, Bios hairetotatos. Generi di vita
efelicità in Aristotele, Napoli 2003, pp. 109-31.
z6. Cfr. in questo senso Eth. Nicom. x 8 ii78bz-7.
z. R. Hackforth, Immortality in Plato’s “Symposium”, in “Classical Review”, 64,
1950, pp. 43-5.
z8. Mi sembra che di questo tipo sia l’argomentazione in Centrone, Introduzione,
cit., pp. LIX-LX: «La negazione dell’immortalità personale implicita nelle parole
di Diotima a zo7c-zo8b non può essere in contrasto con la teoria dell’immortalità
dell’anima, cosmica o individuale, di cui Platone è costantemente strenuo e convinto
sostenitore; il mortale di cui si parla è il corpo e probabilmente il composto di anima
e corpo». Un ragionamento simile anche in M. A. Fierro, Symp. 212a2-7: Desirefor
the Truth and Desirefor Death and a God-Like Immortality, in “Methexis”, 14, 20 01,
pp. 23-43, la cui interpretazione del Simposio è interamente derivata dal Fedone. Po
nendosi da un punto di vista “compatibilista” (ad es. tra Fedone e Simposio), Price,
Love and friendshzp, cit., si chiede: «The question becomes how best characterize an
immortality within mortality whose achievement is desirable even for souls that are
themselves fully immortal»; e conclude: «Plato, regrettably, leaves us to speculate
about an answer» (pp. Per un’ampia discussione problematica cfr. Sier, Die
Rede der Diotima, cit., pp. 185-97. Tra l’interpretazione secondo la quale «l’indivi
dualità della persona può perpetuarsi solo per sostituzione, attraverso la “creazione”
spirituale», e quella di una immortalità piena, non vicariante, per l’anima del filoso
fo, Sier propende con molta cautela per la seconda, soprattutto sulla base dell’opina
bile riferimento indicato da O’Brien a Resp. x 6Ize-614a. Il saggio di M. O’Brien,
“Becominglmmortal” in Plato’s “Symposium”, in D. E. Gerber (ed.), Greek Poetry and
Philosophy, Chico (CA) 1984, pp. i8-zo, costituisce probabilmente il migliore sforzo
in senso “compatibilista’ perché non si nasconde le difficoltà di interpolare nel Sim
posio una dottrina dell’immortalità dell’anima senza sovrapporvi altri dialoghi come
il fedone (p. i86), benché egli stesso ricorra poi ripetutamente al libro x della Repub
blica. O’Brien scrive che la topica dell’immortalità è evitata, piuttosto che assenta o
negata, nel discorso di Diotima (p. 192), ma vede nella sua frase finale un riferimen
to alla «immortalità letterale del filosofo in comunione con la Bellezza assoluta»
(pp. 196-7, 197 n. Tuttavia O’Brien si rende conto di due anomalie di questa
interpretazione: che l’immortalità è una prospettiva, un achievement, concesso solo
al filosofo, la cui anima non è immortale per natura ma può diventarlo; ed è presen
tata come un dono divino al filosofo, non come un attributo necessario dell’anima
(pp. 199-lo,). O’Brien spiega queste anomalie come l’effetto della strategia retorica
(psicagogica) di Diotima, ma di fatto esse sembrano caratterizzare l’intero assetto
teorico del discorso sull’immortalità, che per questo probabilmente avrebbe attratto
l’interesse di Aristotele. Credo comunque di aver dimostrato (M. Vegetti, Introduzio
ne al libro x, in Id., a cura di, Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voI. vii, pp. 13-34)
che il libro x della Repubblica, o le parti di cui è composto, non possa essere conside
rato come “l’ultima parola” della filosofia platonica su questo e altri temi.
seppure
il
z8z IL POTERE DELLA VERITÀ IMMORTALITÀ PERSONALE SENZA ANIMA IMMORTALE 183
2.9. Th. M. Robinson, Caractères constitut/i du duatisme %me-corps dans te “Corpus
platonicum”, in “Cahiers du Centre d’études sur la pensée antique ‘kairos kai logos’ “,
11, 1997, 2.
z6.
30. Un passo della Lettera Vii (334e3-335e6) conferma sia l’utilità morale della cre
denza nell’immortalità dell’anima sia il suo carattere extrateorico. Premesso che
«nessuno di noi è per natura immortale», e che la questione del bene e del male si
pone solo riguardo all’anima, «che sia congiunta al corpo oppure separata da esso»,
Platone aggiunge: «Bisogna in ogni caso credere davvero [r&iOtoeut ì 6vru cdti
xpJ agli antichi e sacri racconti che ci ammoniscono che la nostra anima è immor
tale, e che, una volta separata dal corpo, può venire giudicata e subire le punizioni
più gravi».
31. Cfr. in proposito Centrone, L’imniortatitd personale, cit., pp. 3 6-7.
32.. Cfr. in questo senso F. Ferrari, L’anamneszs delpassato tra storia e ontotogia. limito
platonico come pharmakon contro utopismo e scetticismo, in Migliori, Napolitano Vai
ditara, Fermani, Interioritd e anima, cit., pp. 80-3. li contatto prenatale può essere in
terpretato come una “interpretazione” mitica della syngeneia (affinità o parentela) fra
l’anima e le idee (Phaed. 79d3, Resp. vi 49ob4) che in linguaggio moderno si direbbe
“condizione trascendentale” della conoscenza (cfr. sul tema F. Aronadio, Procedure e
verita in Platone, Napoli ZOOL, pp.
Per una discussione più ampia in proposito rinvio a M. Vegetti, Quindici lezioni
su Platone, Torino 2.003, pp. 119-3 I.
Il problema è discusso in Centrone, L’immortalita personale, cit., pp. 35-5o; e in
M. Migliori, La prova dell’immortalitd dell’anima (6oc-6r2c), in M. Vegetti (a cura
di), Platone, La Repubblica, Napoli 2.007, voi. VII, pp. 2.73-5.
s. Il punto è stato sottolineato da Di Benedetto, Eros/conoscenza in Platone, cit.,
p. 40. L’assenza nel Simposio deli’Anamnesis-Modellè sottolineata anche da Sier, Die
Rede derDiotima, pp. 147-8, 190.
36. Secondo la nota tesi di Th. Ebert, Sokrates als Pythagoreer und die Anamnesis
in Platons “Phaidon”, Stuttgart 1994, in questo dialogo la reminiscenza appartereb
be più alla dottrina pitagorica che a quella platonica. In senso opposto va la discus
sione di F. Trabattoni, Introduzione, in Id. (a cura di), Platone, fedone, Torino zoii,
pp. XXXIV-XLVIII, con ampi riferimenti alla bibliografia recente.
Ma sulle differenze fra questi due dialoghi cfr. le interessanti osservazioni di
Y. Lafrance, Les puissances cognitives de l’dme: la réminiscence et les formes intetligi
bles dans te “Ménon” (goa-6d) et le “Phe’don” (72e-77a), in “Études platoniciennes’
4, 2.007, 3. 2.39-52..
38. È la tesi di Ch. H. Kahn, Pourquoi la doctrine de la réminiscence est-elle absen
te dans la “Re’publique”?, in Dixsaut (éd.), Études sur la ‘République” de Platon, cit.,
p. ioo. Anche questo autore sembra incorrere in una sorta di petitio princzpii, quan
do riconosce una “struttura profonda” del pensiero di Platone in «ciò che è comune
a Simposio, fedone e alla Repubblica» (p. 98), attribuendo poi le varianti di questa
struttura a ragioni letterarie. Ma perché allora la reminiscenza, assente in Simposio e
Repubblica, non dovrebbe essere attribuita a “ragioni letterarie” nel fedone, anziché
ipotizzare che essa sia “strutturale” sulla base del solo Fedone?
39. Sul ruolo delle matematiche nella Repubblica cfr. E. Catranei, Le matema
tiche al tempo di Platone e la loro riforma, in Platone, La Repubblica, cit., voi. v,
f22. 473-539.
40. Nella stessa Repubblica del resto è presente — in secondo piano — tema
della sublimazione della pulsione erotica come impulso verso la conversione teorica
(cfr. VI 485d6-e,, 49oa$-b8).