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Nel progressivo recupero storiografico che ha interessato in anni recenti il secondo Seicento romano
un ruolo di sempre maggiore importanza è stato riconosciuto alla figura di Pierfrancesco Mola,
promotore di una personale fusione tra le tendenze artistiche più innovative e di maggior successo
che ebbero come principale palcoscenico e centro di diffusione la città di Roma. Accanto al
naturalismo caravaggesco, al barocco nei suoi esiti più alti e alle diverse forme di classicismo, da
quella di matrice bolognese a quella marattesca, vi avevano trovato infatti sviluppo forme pittoriche
meno accademiche e per questo considerate minori: i paesaggi, le scene di genere, le bambocciate e
le nature morte. Attorno alla crescente richiesta di pitture da cavalletto si era ben presto organizzato
un commercio con intermediatori in grado di collegarsi con compratori da tutta Europa: un simile
mercato iniziava a sciogliere il pittore dall’obbligo di lavorare su committenza, consentendogli di
lavorare direttamente per il mercato o per una clientela privata. A questa situazione così
diversificata, nella quale all’arte veniva richiesto di essere di volta in volta colta, trionfalistica,
piacevole, decorativa e perfino curiosa, e alla qualità si doveva unire la produttività, alcuni pittori
rispondevano col privilegiare uno di questi aspetti, altri, ed è questo il caso di Mola, cercavano
invece di allestire una bottega in grado di rispondere a tutte le esigenze dei committenti. Proprio il
pittore ticinese fu tra i più abili ad avvantaggiarsi del nuovo gusto riuscendo a realizzare una pittura
accattivante per il mercato, ma anche avvicinando a sé i giovani di maggior talento, che giungevano
a Roma attratti dal patrimonio artistico della città dei papi e dal mercato in espansione, molto spesso
con pochi soldi e disorientati dalla realtà eterogenea dell’Urbe. Mola era riuscito a conquistarsi un
ruolo di grande prestigio sia tra i colleghi, come testimonia la sua fortuna all’interno
dell’Accademia di San Luca, sia tra i collezionisti che le fonti dell’epoca dicono pronti a pagare
cifre molto elevate pur di ottenere una sua opera e tutto ciò attirava giovani pittori nella sua orbita di
influenza: i suoi collaboratori erano sì pronti ad accontentare il gusto e le richieste dei collezioni
stima, ed è da sottolineare, erano artisti tutti di grande valore e qualità, tra i quali figurano Antonio
Gherardi, Giovanni Battista Pace, Francesco Giovane, Giovanni Bonatie ancora Girolamo Troppa e
Ludovico Gimignani i quali continuano a testimoniare con la loro opera le capacità ‘accademiche’
di Mola nell’individuare e coltivare i talenti pittorici. E se fosse anche vero, come affermano le
fonti, che negli ultimi anni Mola si limitasse a rifinire i dipinti portati avanti all’interno della sua
bottega, tali opere mantenevano un livello qualitativo così alto da rendere spesso difficile il
distinguerle da quelle pienamente autografe. Nel novero dei più brillanti allievi del maestro ticinese
è da inserire certamente Giovanni Battista Boncori, nato a Campli nel 1633 e spostatosi a Roma alla
fine degli anni cinquanta riuscendo a frequentare i più importanti artisti dell’epoca e svolgendone
l’Urbe gran parte della sua attività. Nonostante l’alto livello delle sue opere e la buona fama
ottenuta in vita, testimoniata dalle importanti commissioni di pale per chiese romane, note
attraverso le fonti ma purtroppo non più in loco, cui si debbono aggiungere la capacità di cimentarsi
nei generi cosiddetti minori. L’elezione a Principe dell’Accademia di San Luca el’ampio spazio
dedicato alla sua biografia da Lione Pascoli, la figura di Boncori ha conosciuto un lungo oblio e ha
dovuto attendere la fine degli anni ottanta del secolo passato per ottenere una prima rivalutazione
con le ricerche di Rossella Carloni e di Erich Schleier. La carriera di questo artista conosce per
molti versi uno scorrimento parallelo a quella di Antonio Gherardi: come il reatino, Boncori nasce
nel quarto decennio del Seicento in una zona periferica il cui contesto artistico non poteva appagare
le aspettative di un giovane pittore di talento, visto che non risulta, perlomeno allo stato attuale
degli studi, che in Abruzzo esistessero personalità di livello tale da guidarlo oltre l’apprendimento
dei primi rudimenti della pittura. Entrambi i pittori sentono dun-que il bisogno di raggiungere Roma
che rappresentava il più grande centro di attrazione e di divulgazione di esperienze artistiche del
tempo. Non conosciamo con esattezza i modi del passaggio di Boncori nell’Urbe, mentre più chiara
è l’occasione offerta al reatino, la protezione del cardinal Bulgarino Bulgarini, governatore di
Rietiche lo vuole a Roma nel 1657. Ambedue i giovani artisti entrano nell’orbita di Pierfrancesco
Mola, a queste date uno dei pittori più ricercati, non ancora segnato dalla contesa intentata al
Pamphilj per i lavori nel palazzo di Valmontone, iniziata nel 1659 e conclusasi solo nel 1664 in
maniera sfavorevole per il pittore, con gli affreschi della Sala dell’Aria, già distrutti tre anni prima,