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Giovanni Battista Boncori, Campli 1643 - Roma 1699

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L' ATTIVITÀ PITTORICA

DI GIOVANNNI BATTISTA BONCORI

TRA L'ABRUZZO E ROMA

(CAMPLI, 1643 – ROMA, 1699)


Nel progressivo recupero storiografico che ha interessato in anni recenti il secondo Seicento romano

un ruolo di sempre maggiore importanza è stato riconosciuto alla figura di Pierfrancesco Mola,

promotore di una personale fusione tra le tendenze artistiche più innovative e di maggior successo

che ebbero come principale palcoscenico e centro di diffusione la città di Roma. Accanto al

naturalismo caravaggesco, al barocco nei suoi esiti più alti e alle diverse forme di classicismo, da

quella di matrice bolognese a quella marattesca, vi avevano trovato infatti sviluppo forme pittoriche

meno accademiche e per questo considerate minori: i paesaggi, le scene di genere, le bambocciate e

le nature morte. Attorno alla crescente richiesta di pitture da cavalletto si era ben presto organizzato

un commercio con intermediatori in grado di collegarsi con compratori da tutta Europa: un simile

mercato iniziava a sciogliere il pittore dall’obbligo di lavorare su committenza, consentendogli di

lavorare direttamente per il mercato o per una clientela privata. A questa situazione così

diversificata, nella quale all’arte veniva richiesto di essere di volta in volta colta, trionfalistica,

piacevole, decorativa e perfino curiosa, e alla qualità si doveva unire la produttività, alcuni pittori

rispondevano col privilegiare uno di questi aspetti, altri, ed è questo il caso di Mola, cercavano

invece di allestire una bottega in grado di rispondere a tutte le esigenze dei committenti. Proprio il

pittore ticinese fu tra i più abili ad avvantaggiarsi del nuovo gusto riuscendo a realizzare una pittura

accattivante per il mercato, ma anche avvicinando a sé i giovani di maggior talento, che giungevano

a Roma attratti dal patrimonio artistico della città dei papi e dal mercato in espansione, molto spesso

con pochi soldi e disorientati dalla realtà eterogenea dell’Urbe. Mola era riuscito a conquistarsi un

ruolo di grande prestigio sia tra i colleghi, come testimonia la sua fortuna all’interno

dell’Accademia di San Luca, sia tra i collezionisti che le fonti dell’epoca dicono pronti a pagare

cifre molto elevate pur di ottenere una sua opera e tutto ciò attirava giovani pittori nella sua orbita di

influenza: i suoi collaboratori erano sì pronti ad accontentare il gusto e le richieste dei collezioni

stima, ed è da sottolineare, erano artisti tutti di grande valore e qualità, tra i quali figurano Antonio

Gherardi, Giovanni Battista Pace, Francesco Giovane, Giovanni Bonatie ancora Girolamo Troppa e

Ludovico Gimignani i quali continuano a testimoniare con la loro opera le capacità ‘accademiche’

di Mola nell’individuare e coltivare i talenti pittorici. E se fosse anche vero, come affermano le

fonti, che negli ultimi anni Mola si limitasse a rifinire i dipinti portati avanti all’interno della sua

bottega, tali opere mantenevano un livello qualitativo così alto da rendere spesso difficile il

distinguerle da quelle pienamente autografe. Nel novero dei più brillanti allievi del maestro ticinese

è da inserire certamente Giovanni Battista Boncori, nato a Campli nel 1633 e spostatosi a Roma alla

fine degli anni cinquanta riuscendo a frequentare i più importanti artisti dell’epoca e svolgendone

l’Urbe gran parte della sua attività. Nonostante l’alto livello delle sue opere e la buona fama

ottenuta in vita, testimoniata dalle importanti commissioni di pale per chiese romane, note

attraverso le fonti ma purtroppo non più in loco, cui si debbono aggiungere la capacità di cimentarsi

nei generi cosiddetti minori. L’elezione a Principe dell’Accademia di San Luca el’ampio spazio

dedicato alla sua biografia da Lione Pascoli, la figura di Boncori ha conosciuto un lungo oblio e ha

dovuto attendere la fine degli anni ottanta del secolo passato per ottenere una prima rivalutazione

con le ricerche di Rossella Carloni e di Erich Schleier. La carriera di questo artista conosce per

molti versi uno scorrimento parallelo a quella di Antonio Gherardi: come il reatino, Boncori nasce

nel quarto decennio del Seicento in una zona periferica il cui contesto artistico non poteva appagare

le aspettative di un giovane pittore di talento, visto che non risulta, perlomeno allo stato attuale

degli studi, che in Abruzzo esistessero personalità di livello tale da guidarlo oltre l’apprendimento

dei primi rudimenti della pittura. Entrambi i pittori sentono dun-que il bisogno di raggiungere Roma

che rappresentava il più grande centro di attrazione e di divulgazione di esperienze artistiche del

tempo. Non conosciamo con esattezza i modi del passaggio di Boncori nell’Urbe, mentre più chiara

è l’occasione offerta al reatino, la protezione del cardinal Bulgarino Bulgarini, governatore di

Rietiche lo vuole a Roma nel 1657. Ambedue i giovani artisti entrano nell’orbita di Pierfrancesco

Mola, a queste date uno dei pittori più ricercati, non ancora segnato dalla contesa intentata al

Pamphilj per i lavori nel palazzo di Valmontone, iniziata nel 1659 e conclusasi solo nel 1664 in

maniera sfavorevole per il pittore, con gli affreschi della Sala dell’Aria, già distrutti tre anni prima,


sostituiti da quelli di Mattia Preti. La lunga e sfortunata controversia con il principe Pamphilj

avrebbe inferto un duro colpo all’ascesa del suo astro, pur non stroncandone completamente la

carriera se, anche per dimostrargli solidarietà, nel 1662 i colleghi lo vorranno Principe

dell’Accademia di San Luca. La collaborazione con il pittore ticinese non impedisce tuttavia a

Boncori e a Gherardi di subire l’influenza del Cortona che offriva una proposta ben diversa da

quella di Mola, anche se la distanza tra i due maestri si era accorciata ai tempi del l’affresco con

Giuseppe riconosciuto dai fratelli realizzato nella galleria di Alessandro VII al Quirinale, all’interno

di una decorazione affidata alla direzione di Berrettini trail 1656 e il 1657. Qui Mola era riuscito

con esiti notevoli a creare una composizione pensata sui modelli classicisti da Raffaello a Poussin,

ma mediata da elementi desunti dai modi del Cortona stesso e della sua scuola. Nei medesimi anni,

che coincidono approssimativamente con quelli successivi alla morte di Mola (1666), Boncori e

Gherardi intraprendono un lungo viaggio al nord, che ha come tappa principale per entrambi la

Venezia di Tiziano e Veronese e che vede Boncori impegnato anche in un lungo soggiorno emiliano

dedicato in particolare allo studio di Guercino. Pur con una comune formazione artistica i due

perverranno ad esiti talvolta molto distanti: così impressionato Gherardi dal Veronese da

distinguersi nel panorama del secondo Seicento romano, quanto strettamente legato Boncori agli

insegnamenti moliani e ai fondamenti della pittura guerciniana, nonché in grado di avvicinarsi col

tempo al classicismo dominante. Alcune opere tuttavia segnano una tale vicinanza tra i due pittori,

ad esempio quelle realizzate a stretto contatto per i Colonna, da registrare come vedremo

un’incertezza attributiva tra l’uno e l’altro. Del periodo di più stretta adesione ai modi del Gherardi

è un importante dipinto ancora inedito raffigurante San Gregorio Armeno che battezza il re Tiridate

III conservato nella chiesa di San Biagio della Pagnotta (Fig.21). Affidata all’Ospizio degli Armeni

da Gregorio XVI con un breve del 1832, la chiesa di San Biagio non è la collocazione originaria

dell’opera, come dimostrano le integrazioni effettuate sulla tela nella parte superiore, in origine

centinata, e in basso: essa proviene dalla chiesa di Santa Maria Egiziaca, anch’essa officiata dagli

Armeni, trasferitavi probabilmente nello stesso anno 1832. Il dipinto rappresenta il momento

iniziale della storia cristiana di questo popolo, tra i primi ad accogliere la nuova religione: San

Gregorio Armeno,detto l’Illuminatore vi è effigiato mentre battezza, dopo averlo convertito, il re

Tiridate III. Si tratta di un episodio accaduto all’incirca nel 301, data che porta quella armena ad

essere la prima chiesa nazionale cristiana della storia. Gregorio è rappresentato in abiti vescovili,

con la tiara e l’omoforio , il pallio a tre croci tipico della tradizione greca, mentre con una

conchiglia fa cadere l’acqua del battesimo sul capo delre, dopo che questi ha posato la corona su un

cuscino. La composizione è poi arricchita da altre figure: un accolito raccoglie l’acqua lustrale in un

bacile, un altro regge le scritture, mentre vari astanti, tra cui la regina Ashken, seguono commossi

l’evento. Il dipinto dovette godere di una certa notorietà se ne esiste una copia fedele nella chiesa

dei padri Mechitaristi dell’isola di San Lazzaro a Venezia, ed è facilmente ri-conducibile all’ambito

di Mola, come indicano i numerosi riferimenti alla Predica di San Barnaba (Fig.22) tuttora in San

Carlo al Corso. Poiché tra i disegni di Mola che sono stati posti in relazione con questo dipinto

alcuni mostrano un vescovo nell’atto di battezzare, è probabile che Boncori avesse avuto accesso al

materiale grafico prodotto dal maestro in vista di quell’impresa, o che avesse addirittura preso parte

alla sua esecuzione se, come sembra, la datazione del dipinto può essere collocata nel settimo

decennio del secolo, allorché la chiesa di San Carlo al Corso venne ultimata grazie all’impulso del

cardinale milanese Luigi Alessandro Omodei (1608-1685), il qua le fu dal 1652 protettore

dell’Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo e dunque fautore della decorazione del

deambulatorio della chiesa romana nella quale fu attivo anche Boncori. Quanto alla paternità di

Boncori, che qui si avanza, essa può essere motivata sulla base del confronto col bellissimo Cristo

appare a Santa Teresa d’Avila (Fig.23) della chiesa di San Giovanni della Pigna, ricondotto alla

mano di Boncori da Schleier dopo che Titi lo aveva ritenuto di Gherardi, e databile come il nostro

intorno alla metà degli anni ottanta del Seicento: prima del riconoscimento qui operato si tratta-va

dell’unica pala d’altare di Boncori a Roma giunta fino a noi. Il riferimento antico della pala di San

Giovanni della Pigna a Gherardi non è peraltro privo di interesse, poiché la ricerca plastica e


classicista che la distingue avvicina di fatto in questa fase la pittura di Boncori a quella del pittore

reatino, così come richiama Gherardi anche l’umanissimo motivo del Cristo che dona a Santa

Teresa uno dei chiodi della propria croce. Solo pochi anni prima i due artisti avevano lavorato a

stretto contatto per i Colonna, eseguendo due sovrapporta in pendant ben documentate e conservate,

oggi come allora, nella sala degli arazzi di Mosè. Sappiamo infatti che l’11 maggio 1677 Boncori

viene pagato trenta scudi per un quadro sovrapporta con una “Regina morta” ed il dipinto è poi

inventariato nel 1679 come “Istoria del Re Assuero et Esther opera di Gio. Batt. a Boncore”

(Fig.17). Solo la sovrapporta compagna, di mano di Gherardi, è però nota tramite riproduzione

fotografica (Fig.18). L’ importante dipinto per i Colonna è la prima tela documentata del pittore

abruzzese, insieme alla decorazione ad affresco di una delle volte del deambulatorio della chiesa di

San Carlo al Corso, pagatagli nel 1679 e contenente le raffigurazioni dell’Umiltà, dell’Orazione,

della Fortezza e della Perfezione (Fig.19). Il 10 luglio1678, tra i due lavori, giungeva la nomina a

accademico di San Luca: Boncori ne sarà sempre assiduo frequentatore e socio attivo, tanto che gli

saranno destinate varie cariche, nonché un ruolo non secondario nell’insegnamento. Il complesso

della decorazione di San Carlo al Corso si andava configurando come uno tra i più importanti nella

Roma della seconda metà del Seicento, con un repertorio di soggetti iconografici derivati da Cesare

Ripa e realizzati sotto la supervisone di Giacinto Brandi da un gruppo di pittori di cui fanno parte i

più o meno noti Giovanni Battista Beinaschi, Fabrizio Chiari, Girolamo Troppa, Carlo Ascenzi,

Paolo Albertoni, Ludovico Gimignani, Pio Fabio Paolini, Francesco Rosa e Luigi Garzi,un pittore

quest’ultimo assai vicino a Boncori. È stato ipotizzato, in particolare da Schleier, che l’affresco del

pittore abruzzese, che si distingue all’interno della sua produzione in quanto meno legato agli

insegnamenti di Mola e più aderente ai modi del classicismo marattesco, sia frutto proprio

dell’influenza di Garzi, attivo in due momenti diversi nel cantiere di San Carlo: una prima volta nel

1677 e poi ancora nel 1681, intento alla decorazione della volta centrale del deambulatorio. Ma il

rapporto di dare e avere tra i due pittori non è così scontato: lo schiarimento della tavolozza e la

tendenza classicheggiante sono elementi che si presentano progressivamente nella produzione di

Boncori e nel suo insieme tutta la decorazione, pur realizzata da personalità artistiche diverse,

presenta con costanza tali elementi. Il pittore camplese doveva avere compreso l’importanza e la

visibilità che gli sarebbe stata concessa da quest’occasione e si impegnò a non mancarla:

nell’inventario dei suoi beni risultano due bozzetti preparatori per l’affresco e nella stessa chiesa si

conservavano alcuni quadretti dei pittori impegnati nella decorazione e tra questi una tela “da testa”

con un Ritrovamento di Mosè di mano del pittore abruzzese. Tra i dipinti da cavalletto a queste

stesse date sembra risalire il Riposo nella fuga in Egitto (Fig.20) già in collezione Marefoschi a

Macerata, pubblicato dapprima da Salerno e poi da Busiri Vici. La piccola tela, di cui Schleier ha

rintracciato una seconda versione senza i putti nella parte alta, si lega all’attività del pittore di

Campli per via documentaria e può essere stilisticamente riferita al periodo in cui cominciano a

affievolirsi in lui i ricordi di Mola e Grimaldi alla luce del nuovo classicismo romano. Giunti a

questo punto conviene esaminare quali siano le opere di Boncori precedenti a questa fase

sopravvissute fino a noi. Si tratta a nostro avviso delle opere più fortemente neovenete del suo

catalogo, cominciando dal Profeta Elia soccorso da una n g e l o (Fig.12) presso Altomani a Pesaro,

presentato da Petrucci alla mostra Mola e il suo tempo di Ariccia con il giusto riferimento a Boncori

ma con una datazione tra il 1660 ed il 1665 che ci sembra da posticipare di una decina di anni, a

ridosso del ritorno di Boncori dal viaggio in Italia settentrionale. Vi risultano infatti forti i

riferimenti alla pittura moliana, com’è in particolare evidente dalla libera pennellata alla ve-neta e

dalla plastica evidenza conferita ai panneggi, che rimarrà una costante anche negli anni successivi.

Si deve peraltro a Petrucci l’identificazione della tela con un quadro “di mano del Boncore di 5 e 10

palmi con cornice dorata liscia rappresentante un’Eremita con un Angelo ” ricordato nell’inventario

del già citato cardinale Luigi Alessandro Omodei del 29 marzo 1682. Verso la metà dell’ottavo

decennio del Seicento vanno collocati il tondo con il Riposo nella fuga in Egitto di collezione

privata (Fig.10), già presentato in asta come Giovan Battista Pace, ma da ricondurre, come ha

giustamente suggerito Mario Epif a n i, alla mano del nostro artista, e un Matrimonio mistico di


Santa Caterina conservato presso il Palmer Museum of Art della Penn State University (Fig.13) e

pubblicato come Boncori ancora da Erich Schleier. Le due opere condividono vari elementi: si veda

ad esempio l’assonanza nei due dipinti del gruppo della Madonna col Bambino. La santa Caterina

insieme all’angelo musicante alle sue spalle replica la composizione dei due angeli con il vassoio di

datteri del Riposo, e ancora l’identità di pennellata dona a entrambi i dipinti una simile calda

atmosfera neoveneta. La presenza dei cherubini, ritrovandosi in quasi tutte le sue opere, costituisce

quasi un“marchio di fabbrica” del pittore camplese. È fortissimo poi nel Riposo il richiamo a

un’opera di Mola che a lungo ha segnatola produzione di Boncori, diventandone riferimento

costante per le sue composizioni della Vergine col Bambino, tanto da far pensare ad una

partecipazione del pittore abruzzese nella sua realizzazione: ci riferiamo al Riposo nella Fuga in

Egitto della Galleria Doria Pamphilj (Fig.11), che mostra la tipologia della Vergine tanto cara a

Boncori, nonché gli angeli che adorano il Bambino simili a quelli della piccola tela in esame. Oltre

all’importanza della tela Doria Pamphilj è da sottolineare per ambedue i pittori il rimando comune

al Guercino, in modo particolare alla Maddalena e angeli ora nella Pinacoteca Vaticana e all’Albani.

Pur mantenendo evidente la forte componente neoveneta che, come si è detto, è predominante in

questo momento della produzione del pittore, il dipinto del Palmer Museum non rinuncia però ad

una nitida costruzione delle masse, realizzata tramite un preciso disegno, proprio della cultura

romana. Si noti anche in questo caso, come nella Fuga in Egitto, l’attenzione riservata alle

architetture, che ha fatto ottenere a Boncori le lodi dei più antichi commentatori. Gli angeli

musicanti, come quello bellissimo di spalle nel Matrimonio mistico, mostrano il pittore camplese

non estraneo a quell’interesse, particolarmente sviluppato nel Seicento, per la musica e gli strumenti

musicali, che entrano con sempre maggiore frequenza tra i soggetti preferiti della pittura del tempo.

È già stata sottolineata la novità di queste scelte, che Mola e il suo allievo Gherardi hanno

sviluppato in modo del tutto peculiare. In tale contesto si inserisce anche il bellissimo Concerto

(Fig.14) del Chrysler Museum of Art di Norfolk, in Virginia, segnalatomi come opera di Boncori da

Daniele Benati. Un quartetto di giovani vi è intento a provare un brano all’aperto, in una luminosa

giornata di sole. Agli strumenti suonati dai musicisti si aggiunge la siringa entro cui soffia il dio Pan

raffigurato in una statua alle loro spalle, a simboleggiare la forza e la capacità di muovere le

passioni propria della musica. La grande qualità, nonché il chiaro retroterra culturale emiliano

hanno indotto fin qui a cercare l’autore di quest’opera tra i pittori bolognesi di fine Seicento, in

particolare tra quelli che avevano ricevuto la propria formazione nella bottega di Lorenzo Pasinelli.

Bertina Manning è stata la prima a suggerire che l’autore fosse Donato Creti, seguita da Dwight C.

Miller e Renato Roli. In seguito questi due studiosi hanno proposto il nome di Domenico Maria

Muratori, anche se Miller è poi tornato sulla prima ipotesi,giungendo alla conclusione che “the

Musical group is by far the most impressive work from the early phase of Creti’s development”.

Sono invece numerosi gli elementi che permettono di ricondurlo alla mano di Boncori, in prossimità

cronologica con la pala della Penn State University. Non vi compaiono solo tipologie assai simili(si

veda l’affinità tra la Vergine e la suonatrice di spinetta al centro) e partiti di panneggio pressoché

identici, ma assai prossimo risulta anche il modo di comprimere i personaggi in uno spazio ristretto,

che pone in evidenza gli eleganti contrapposti dei gesti. Tipico del pittore risulta poi il repertorio di

conci, pilastri e colonne, oltre i quali si apre, incorniciata dalla massa scura degli alberi, la visione

del cielo luminoso. All’interno della cronologia proposta si collocano a questo punto e in rapida

successione le due opere realizzate da Boncori per il territorio Piceno, la pala raffigurante la

Madonna col Bambino adorata da san Giovanni Evangelista, San Luca e San Tommaso (Fig.15),

conservata ancora oggi nell’altare di San Tommaso nella cosiddetta chiesa dei Templari (Santa

Maria al Borgo) di Castignano (Ascoli Piceno), riconosciuta come Boncori da Daniela Ferriani

(comunicazione orale), e la Madonna in trono con San Giacinto e san Vincenzo Ferrer (Fig.16) della

chiesa di San Pietro Martire ad Ascoli Piceno, da sempre uno dei punti fermi per la ricostruzione

dell’attività del camplese perché già riferitagli nel Settecento da Tullio Lazzari e da Baldassarre

Orsini. Pur setale riferimento non è mai stato messo in dubbio, appare degna di menzione la

presenza, fino ad ora non evidenziata, della sigla “GBBF” sul coperchio del paiolo in


basso a destra in cui un giovane miracolato era accidentalmente caduto. Nello splendore barocco e

nella pennellata alla veneta che caratterizza la pala di Castignano si apprezzano anche bellissimi

particolari: in primis la presentazione di San Luca come pittore che regge in mano gli strumenti del

mestiere, il pennello e la tavolozza, resi con nitida accuratezza. L’evangelista si getta alle spalle la

sapienza antica, rappresentata da un torso di statua su cui siede, identico a quello nel quadro del

Palmer Museum: egli ha appena scritto l’incipit del suo Vangelo, “in principio era il verbo”, ed è

raffigurato mentre ammira estatico l’incarnazione della parola divina nel Bambino. Sebbene le

affinità tipologiche tra i dipinti di Castignano, del Chrysler Museumof Art, del Palmer Museum of

Art e di Ascoli siano strettissime, la pennellata pacata e la maggiore costruzione lineare e plastica

delle figure tendono a posticipare di qualche anno l’esecuzione della pala ascolana, che si deve

collocare a ridosso della già citata decorazione di una delle volte del deambulatorio della chiesa di

San Carlo al Corso del 1679. Per quanto riguarda l’importanza della lezione dell’arte veneta

sull’opera del pittore abruzzese credo sia interessante sottolineare come la composizione delle pale

di Ascoli e del Palmer Museum si rifaccia chiaramente a Veronese, in particolare al Matrimoni o

mistico di santa Caterina dipinto per la chiesa veneziana dedicata a Santa Caterina, ora presso le

Gallerie dell’Accademia, e alla pala con la Madonna col Bambino, santi e devoti commissionata dai

fratelli Marogna per la cappella di famiglia nella chiesa di San Paolo a Verona. È da considerare

come Boncori ripensi tutti gli elementi desunti dalle opere del pittore veneto tanto da non rendere

immediato il riconoscimento delle sue fonti. Ma basti guardare, nei due dipinti col matrimonio

mistico di Santa Caterina, la presenza di uno stesso trono architettonico, di un’assai simile posa

della Vergine, della santa che si sporge verso il Bambino e degli angeli. E ancora assai simile appare

l’idea dell’arco che si contrappone in lontananza al trono, presente oltre che nella tela oggi negli

Stati Uniti anche in quella di Ascoli e derivato dalla citata pala di Verona. Con l’intelligente ripresa

dal pittore veneto, Boncori palesa qui la capacità di fondere i riferimenti alla pittura veneta e a

quella bolognese che spesso venivano unificate nel Seicento sotto il termine di ‘scuola lombarda’.

Non è qui richiamato solo l’originale verone siano del Matrimonio mistico di santa Caterina, ma la

sua ripresa realizzata da Annibale Carracci per la chiesa di San Prospero a Reggio Emilia ed ora

conservata nella Gemäl de galerie di Dresda. Della tela di Annibale, così profondamente

neocorreggesca, il pittore camplese trae sicuro spunto per la figura scolpita nel trono marmoreo e

per gli angeli e i cherubini in alto. Queste opere erano ancora nelle loro collocazioni originarie al

tempo del viaggio di studi di Boncori che poté dunque averne conoscenza diretta. È da sottolineare

inoltre come dei dipinti di Veronese egli colga soprattutto l’aspetto compositivo, dimostrandosi

estraneo al suo gusto pittorico, che ha colpito invece la maggior parte dei pittori neoveneti del

tempo, tra i quali, come testimonia ad esempio questo poco noto Trionfo di Galatea, lo stesso

Gherardi (Fig.24). Il lento sviluppo della pittura di Boncori, partito dalle opere legate

all’apprendistato presso Mola per giungere al momento di vicinanza con Gherardi, ha il suo naturale

svolgimento in una maggiore adesione al classicismo marattesco come evidenziano la pala d’altare

di Campli con la Presentazione della Vergine al tempio (Fig.25 ) e la tela conservata al Musée des

Augustines di Tolosa con Mosè che calpesta la corona del faraone (Fig.26), assegnatagli da

Petrucci. Il dipinto di Campli è sottoposto in questo momento a un restauro in vista della sua

collocazione nell’erigendo Museo d’Arte Sacra, dopo essere stato rimosso dall’altare maggiore

della piccola chiesa di Santa Maria della Misericordia nella quale era stato segnalato come opera di

Boncori in una visita pastorale del 1833. Nella speranza che l’intervento ne migliori la leggibilità,

credo che abbiamo abbastanza elementi, anche alla luce delle recenti integrazioni del catalogo del

pittore, per proporne una cronologia più attardata rispetto a quella fino ad oggi accettata. Se aveva

ragione la Carloni nel notarvi un forte accento neoveneto, unito ad elementi derivanti dalla

conoscenza di Maratta e Cortona, è pur vero che questi elementi, ai quali si può aggiungere il

consueto rimando alla Predica di San Barnaba di Mola, non implicano di necessità una collocazione

del’opera a ridosso del viaggio nel Nord e dunque intorno al 1670, visto che ciò che vi appare

particolarmente rilevante è proprio il preponderante classicismo accademico e marattesco, raggiunto

al culmine del percorso di allontanamento dal naturalismo che si era notato nelle opere più precoci.


Il dipinto biblico di Tolosa, riferito a Gherardi prima di essere ricondotto a Boncori da Petrucci,

rappresenta un importante tassello per la ricostruzione del suo percorso. Il dipinto mostra tutti i

caratteri stilistici del pittore, oltre a una vicinanza notevole con la Presentazione nel modo tagliente

e plastico di condurre i panneggi. Si noti ancora che la figura femminile in basso a destra si assimila

in modo assai stretto a quella che regge le colombe nella pala di Campli. Il dipinto di Tolosa non

può essere datato prima dell’ultimo decennio del Seicento, data la presenza di caratteri e tipologie

già settecentesche ed è possibile che esso sia il “quadro, con l’istoria di Moisè che calpestò la

corona di faraone, di Giovan Battista Boncori, vinto al lotto di Santa Marta e Sensini” che fu

esposto a San Salvatore in Lauro nel 1703 da Giovanni Andrea Piscina, che lo aveva avuto dallo

spedizioniere Francesco Alessandro Sensini, committente nel 1692 di altre due pitture all’artista

camplese. Ristabilito così il percorso verosimile dell’attività di Boncori sarà possibile ampliarlo in

futuro con altri ritrovamenti.

10 - Giovan Battista Boncori “Riposo nella fuga in Egitto” Roma, collezione privata


11 - Pierfrancesco Mola “Riposo nella fuga in Egitto” Roma, Galleria Doria Pamphilj


12 - Giovan Battista Boncori “Profeta Elia soccorso da un angelo” Persaro, Altomani


13 - Giovan Battista Boncori “Matrimonio mistico di Santa Caterina”

Penn State University (PA), Palmer Museum of Art


14 - Giovan Battista Boncori “Concerto” Norfolk (VA), Chrysler Museum of Art


15 - Giovan Battista Boncori “Madonna col bambino, San Giovanni Evangelista,

San Luca e San Tommaso, Castignano, Santa Maria al Borgo


16 - Giovan Battista Boncori “Madonna in trono con San Giacinto e San Vincenzo Ferrer”

Ascoli Piceno, San Pietro Martire


17 - Giovan Battista Boncori “Esther e Assuero” Roma, Palazzo Colonna

18 - Giovan Battista Boncori “Mosè consegnato alla balia” Roma, Palazzo Colonna


19 - Giovan Battista Boncori “L'Unità, l'Orazione, la Fortezza e la Pefezione”

Roma, Santi Ambrogio e Carlo al Corso

20 - Giovan Battista Boncori “Riposo nella fuga in Egitto” collezione privata


21 - Giovan Battista Boncori “San Gregorio Armeno battezza il Re”

Tiridate III, Roma , San Biagio della Pagnotta


22 - Pierfrancesco Mola “Presica di San Barnabà”

Roma, Santi Ambrogio e Carlo al Corso


23 - Giovan Battista Boncori “Cristo appare a Santa Teresa dìAvilla”

Roma, San Giovanni della Pigna


24 - Antonio Gherardi “Trionfo di Galatea” ubicazione sconosciuta

25 - Giovan Battista Boncori “Presentazione alla Vergine al Tempio”

Campli, Chiesa della Misericordia


26 - Giovanni Battista Boncori “Mosè che calpesta la corona del faraone”

Tolosa, Musèe des Augustines


Giovanni Battista Boncori

Giovanni Battista Boncori


Giovanni Battista Boncori “La parabola del figliol prodigo”


Giovanni Battista Boncori “ Santa Caterina”


Giovanni Battista Boncori “natura morta”


Giovanni Battista Boncori

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