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ACTA

PHILOSOPHICA

PONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA SANTA CROCE

RIVISTA • INTERNAZIONALE • DI • FILOSOFIA

ARMANDO EDITORE


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Francesco Russo

Le collaborazioni, scambi, libri in saggio vanno indirizzati alla Redazione

Autorizzazione del Tribunale Civile di Roma, n. Reg. 625/91, del 12.11.1991

Iscrizione al Registro Nazionale della Stampa, n. 3873, del 29.11.1992

Le opinioni espresse negli articoli pubblicati in questa rivista rispecchiano unicamente il

pensiero degli autori.

Imprimatur dal Vicariato di Roma, 16 giugno 2000

ISSN 1121-2179

Rivista associata all’Unione Stampa Periodica Italiana


Semestrale, vol. 9 (2000), fasc. 2

Luglio/Dicembre

sommario

Studi

197

223

241

Daniel Gamarra

Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo d’Acquasparta:

conoscenza ed esistenza

Fernando Inciarte

Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line?

Paulin Sabuy

La question du dualisme anthropologique. Une analyse d’après Robert

Spaemann

Note e commenti

267

277

287

313

Javier Aranguren Echevarría

Eudaimonía e historicidad

Gabriel Chalmeta

Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore

Mariano Fazio

Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot)

Juan Andrés Mercado

Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics


319

José Ignacio Murillo

Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo

Cronache di filosofia

339

341

342

344

Estetica della formatività: due saggi recenti (F. RUSSO)

Lezioni e conferenze

Convegni

Società filosofiche

Bibliografia tematica

349

Affettività

Recensioni

353

355

358

364

367

370

R. ALVIRA, La razón de ser hombre e Filosofía de la vida cotidiana (J.A.

Mercado)

M. ARTIGAS, Filosofía de la ciencia (M.A. Vitoria)

G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino (M. Fazio)

A. LLANO, Humanismo cívico (G. Chalmeta)

A.L. TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore. 7:

Filosofia del dolore (F. Russo)

J.J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge

(J.A. Mercado)

Schede bibliografiche

375

376

377

378

380

381

J.J.E. GRACIA (a cura di), Concepciones de la metafísica (M. Pérez de

Laborda)

L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal (F. Russo)

TOMÁS DEAQUINO, Comentario al libro de Aristóteles “Sobre la interpretación”

(J.A. Mercado)

A. VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale (G. Faro)

Pubblicazioni ricevute

Indice del volume 9 (2000)


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 197-221

studi

Un caso di platonismo ed agostinismo medievale. Matteo

d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza

DANIEL GAMARRA *

Sommario: 1. Cenno storico. 2. Il problema della conoscenza. 2.1. La conoscenza del singolare.

2.2. L’illuminazione. 2.3. Il problema della «natura communis». 3. La conoscenza del

non-esistente. 3.1. L’indifferenza dell’essere. 3.2. L’oggetto dell’intelletto.

1. Cenno storico

Matteo d’Acquasparta è un pensatore che raccoglie la lunga tradizione di pensiero

agostiniano, presente in numerosi autori francescani già a partire dal XIII

secolo. Il suo modo di assumere la tradizione agostiniana non è privo però di

originalità giacché i grandi problemi che Matteo studia con accuratezza sono,

sotto forme e contesti diversi, i grandi problemi della filosofia del XIII e del XIV

secolo: fra i maestri francescani, i rapporti fra la conoscenza e il plesso essenzaesistenza

rappresentano un argomento di interesse notevole non soltanto dal

punto di vista della ricerca storica, ma anche come problema suscettibile di essere

posto in modo teoretico. Benché non possiamo dire che siamo davanti ad un

innovatore, tuttavia il fatto di aver proposto con acutezza e chiarezza certi problemi

gnoseologici propri del momento storico in cui è vissuto, fa vedere come,

da una prospettiva agostiniana, alcune questioni trovano soluzioni — al meno

questo è il tentativo di Matteo — che danno materiale di indiscusso interesse per

la riflessione.

Certo è, d’altra parte, che la bibliografia su questo autore non è troppo ampia

e di solito si può osservare che i diversi studiosi che hanno approfondito il suo

pensiero concentrano quasi esclusivamente la loro attenzione su due problemi

* Universidad Austral, Mariano Acosta s/n°, Derqui (1629) Pilar, Buenos Aires, Argentina

197


studi

intimamente collegati: quello riguardante la questione della conoscenza in generale

e, all’interno di questo, quel che concerne il problema della conoscenza del

singolare. Esistono tuttavia alcune opere di carattere più generale sul suo pensiero

e la sua opera, benché in molti casi non vadano oltre una presentazione abbastanza

schematica e in chiave soprattutto storiografica 1 . Comunque, un fatto evidente

nella sua filosofia è che, nonostante la poca attenzione che in generale

hanno prestato la critica e i diversi studi sul medioevo, Matteo pone il problema

della conoscenza in un modo che implica anche una tematica metafisica, cioè

attraverso la considerazione dell’esistenza e della non-esistenza come positività

logica; così l’orizzonte intellettuale di Matteo si apre a dei problemi di portata

notevolmente maggiore di quanto abitualmente viene in lui sottoposto all’attenzione

dei diversi studiosi.

Come dicevamo, il suo pensiero ha una chiara ispirazione agostiniana, come

quello dei maestri francescani precedenti e contemporanei: Alessandro di Hales,

Tommaso di York, Bonaventura, Vital di Furno, Pietro Olivi, Ruggero Marston,

Riccardo di Mediavilla ed altri 2 . Inoltre in Matteo si vede anche una chiara assimilazione

della filosofia di Avicenna 3 , similmente a quanto accade con Enrico di

Gand e Duns Scoto. Con queste due filosofie, cioè con quella di Agostino e con

quella di Avicenna, realizza un’amalgama di tendenza prevalentemente platonizzante,

anche se non mancano alcuni elementi aristotelici ricevuti attraverso gli

autori che alcuni decenni prima avevano sviluppato le grandi tesi di Aristotele,

come p.e. Tommaso d’Aquino. In verità, è questo un appassionante momento

della storia del pensiero in cui trovano posto tanto i grandi autori dell’antichità

quanto le grandi sintesi che fioriscono con la maturazione della tradizione.

Matteo, senza essere tuttavia uno di quei giganti della filosofia, ha una fine sensibilità

speculativa che gli permette di cogliere i grandi temi e le grandi preoccupazioni

epocali nella luce di una complessa ed armoniosa tradizione filosofica.

Nel 1285, Giovanni Peckam scriveva a Roberto di Grossatesta che, in quel

tempo, c’erano a Parigi due correnti di pensiero che destavano notevoli polemiche

fra quei magistri che s’ispiravano alla filosofia di Tommaso d’Aquino e

quelli che s’ispiravano soprattutto alla dottrina di San Bonaventura; fra loro, a

1 Cfr. G. BONAFEDE, Matteo d’Acquasparta, A.Vento, Trapani 1968; ID., Storia della

Filosofia Medioevale, Pantea, Palermo 1945; ID., Il pensiero francescano nel secolo XIII,

Mori e Figli, Palermo 1952; C. PIANA, Matteo d’Acquasparta, in Enciclopedia Cattolica, t.

VIII, Roma 1952, pp. 488 ss.; E. LONGPRÉ, Matthieu d’Aquasparta, in Dictionnaire de

Théologie Catholique, t. X, col. 375-389; V. DOUCET, Introductio critica de magisterio et

scriptis Matthaei ab Aquasparta, in Quaestiones disputatae de gratia, Ad Claras Aquas,

Florentiae 1935; E. GARIN, Storia della filosofia italiana, vol. I, Einaudi, Torino 1978.

Pagine di grande interesse ed essenziali sono quelle di É. GILSON, Lo spirito della filosofia

medioevale, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 293-300. Fatta eccezione del Gilson, la bibliografia

è tendenzialmente generica.

2 Cfr. C. BÉRUBÉ, Henri de Gand et Matthieu d’Aquasparta, interprètes de Saint

Bonaventure, «Naturaleza y Gracia», 21 (1974), pp. 131-172.

3 Cfr. A. MAURER, Being and Knowing, PIMS, Toronto 1990, p. 377.

198


Daniel Gamarra

detta di Peckam, «in omnibus dubitabilibus sibi pene penitus hodie adversari

exceptis fidei fundamentis» 4 : discutevano infatti di tutto ciò che consideravano

materia adatta alla polemica, mentre l’unico punto di accordo che trovavano era

quello della fede. Non è senz’altro una inesattezza storica pensare che Matteo

non soltanto conosceva queste polemiche ma addirittura era inserito in questo

vivace ambiente intellettuale 5 , non in un modo qualsiasi ma con una idea precisa

riguardante i grandi problemi filosofici. Come ha anche ben segnalato L. Mauro,

«nell’ambito del neo-agostinismo egli sembra peraltro essersi assunto il preciso

compito di riproporre in modo puntuale ed organico i capisaldi della visione cristiana

del mondo, dopo le aspre controversie che ne avevano profondamente

scosso i consolidati quadri culturali» 6 .

Le sue opere 7 , peraltro numerose, mostrano con chiarezza che Matteo conosceva

con profondità i problemi centrali del dibattito parigino dell’ultimo periodo

del XIII secolo; infatti di fronte ad essi dimostra un’intenzione altrettanto

chiara di rispondere anche nei particolari a quelle discussioni che interessavano

le sue preoccupazioni filosofiche e teologiche. Il noto studioso F. Ehrle non esita

ad affermare che «in Matteo si manifestano a gran luce una conoscenza ed una

penetrazione non comune degli scritti di Sant’Agostino» 8 , fatto che gli permette

di trovare risposte adatte, cioè non generiche, in diretta connessione e ispirazione

col pensiero appunto del vescovo d’Ippona.

Nato intorno al 1240, originario di Acquasparta, in Umbria, abita a Roma dal

1279 fino alla morte, avvenuta nel 1302. Viene eletto generale dell’ordine francescano

nel 1287, carica che occupa per circa due anni, cioè fino alla sua nomina

di cardinale nel 1288. Dal suo arrivo a Roma inizia a svolgere la mansione di lettore

della curia. Le sue quaestiones disputatae sono numerose, nonché i suoi

commenti alla Sacra Scrittura, oltre ad un Commentarium super sententias, opere

che corrispondono anche al suo soggiorno romano. Dopo essere stato nominato

cardinale, ebbe un importante ruolo nella soluzione di alcuni problemi sorti fra

4 Registrum epistolarium J. Peckam, ed. C.T. Martin, London 1885, t. III, p. 896.

5 MATTEO D’ACQUASPARTA, Il cosmo e la legge (Quaestiones disputatae de legibus), a cura di

L. Mauro (Introduzione; Nota biografica; Nota bibliografica), Nardini Editore, Firenze

1990. E scrive L. Mauro nell’Introduzione: «Curriculum accademico e produzione esegetica

e filosofico-teologica del magister francescano si collocano infatti pressoché interamente

sullo sfondo di cruciali eventi culturali, che hanno avuto al loro centro l’intervento censorio

del 7 marzo 1277 da parte dell’autorità ecclesiastica parigina» (pp. 7-8).

6 L. MAURO, Introduzione, cit., p. 27.

7 Cfr. V. DOUCET, o.c., pp. XXV-CLV.

8 F. EHRLE, L’agostinismo e l’aristotelismo nella scolastica del secolo XIII, «Xenia

Thomistica» (1925), pp. 63-75 (68). Una citazione sostanzialmente simile, ma tratta dal

Longpré, compare in E. GARIN, Storia della filosofia italiana, cit., vol. I, p. 118. Cfr. O.M.

BELMOND, À l’école de S. Agustin, «Études Franciscaines», 32 (1921), pp. 7-26 e 145-173;

E. BETTONI, Matteo d’Acquasparta e il suo posto nella scolastica post-tomistica, in Atti del

IV Convegno di Studi Umbri (Gubbio, 22-26 maggio 1966), Facoltà di Lettere di Perugia,

Perugia 1967, pp. 231-248.

199


studi

guelfi e ghibellini; e per incarico diretto di papa Bonifacio VIII lavorò alla

ricomposizione delle relazioni fra la Sede Apostolica e Filippo, re di Francia 9 .

Nonostante la sua attività pubblica, Matteo trovò anche il modo per continuare

le sue disputationes durante il periodo romano. Dopo la morte, tuttavia,

le sue opere e la sua figura persero di importanza o, per lo meno, destarono poca

attenzione e solo di rado si trovano autori a lui poco posteriori che facciano uso

dei suoi scritti. Per quanto riguarda il tema che abbiamo intenzione di studiare,

Matteo rappresenta un momento caratteristico del pensiero scolastico-agostiniano,

e questa personalità poco nota nella storia della filosofia del XIII secolo ci

offre materiale certamente interessante per una riflessione teoretica sia sulla

natura della conoscenza dal punto di vista che oggi potremmo chiamare della

teoria del contenuto, sia sui nessi tra oggettività ed esistenza.

2. Il problema della conoscenza

Per quanto presente in diversi testi, al problema della conoscenza Matteo

dedica un’intera disputatio 10 , nella quale sono affrontati i grandi problemi che

nella filosofia scolastica occupano tradizionalmente un posto di rilievo nella trattazione

di questo argomento. Il suo punto di vista è, in un certo senso, un punto

di vista duplice: adopera prospettive e soluzioni proprie tanto dell’aristotelismo

quanto del pensiero agostiniano. Si potrebbe anche descrivere tale simbiosi come

esigenza di sintesi tra, da un lato, l’attività dell’intelletto che può arrivare con la

propria operazione e per se stesso alla conoscenza della realtà, e, dall’altro, il

tema dell’illuminazione come causa della presenza delle idee nell’intelligenza

stessa 11 . Matteo cerca una via intermedia: la sua è una posizione eclettica e

misurata che mantiene un certo equilibrio, anche se problematico, fra l’aristotelismo

classico e la teoria della conoscenza d’ispirazione agostiniana. Ciò nonostante,

la sua preferenza per soluzioni agostiniane si manifesta in maniera assai

chiara a livello di tesi fondamentali e convinzioni profonde, sebbene talvolta il

modo di argomentare lasci pensare piuttosto a un metodo più aristotelico-scolastico.

La tesi della passività dell’intelletto — in quanto riceve la species intelligibilis

— e allo stesso tempo quella della sua attività — in quanto produce un’operazione

diversa dalla pura ricezione della species e per la quale si definisce in

9 Cfr. una breve ma precisa biografia in L. MAURO, Nota biografica, cit., pp. 33-43.

10 MATTEO DE AQUASPARTA, Quaestiones disputatae de fide et cognitione, Ad Claras Aquas,

Florentiae 1957. Da qui in poi le citazioni verrano fatte: QQC, numero di quaestio, numero

di pagina e numero di riga.

11 Cfr. C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri de Gand et Olivi, Edizioni

Collegio S. Lorenzo, Roma 1983, pp. 231 ss., dove segnala come Matteo si trova in una

situazione di una certa perplessità davanti a soluzioni diverse dello stesso problema dell’illuminazione.

200


Daniel Gamarra

senso stretto il conoscere come tale —, manifesta questa tensione fra elementi

trovati in filosofie che certamente hanno in comune un sottofondo antropologico

di notevole spessore, ma che differiscono nel modo di descrivere il manifestarsi

dell’attività animica.

La forma della cosa, afferma Matteo, è in se stessa insufficiente a spiegare la

conoscenza, giacché ha una certa incapacità di illuminare, di irrompere per se

stessa nell’ambito intellettuale per muovere l’intelletto oppure per manifestarsi

in esso. Allo stesso tempo Dio ha dato all’intelligenza una certa luce attraverso la

quale si realizza la conoscenza. Neanche questa luce è però sufficiente se non

interviene un’illuminazione (che non è né la forma che appartiene alla cosa né è

azione del solo intelletto) da parte di Dio. C’è infatti una doppia provenienza

della luce, cioè da parte della cosa e da parte dell’intelletto, ma sia l’una che l’altra

hanno bisogno di un complemento che renda possibile la conoscenza e permetta

la manifestazione della cosa come intelligibilità.

Affinché la presenza della luce divina possa trovare una presenza giustificata

nell’atto umano di conoscere, Matteo fa appello essenzialmente a tre motivi. In

primo luogo, poiché il soggetto è stato creato ad immagine di Dio, Matteo afferma

che esiste una certa connaturalità fra la facoltà intellettiva e la luce che essa

riceve. Questo aspetto va però strettamente collegato col secondo dei motivi considerati:

da parte dell’oggetto stesso c’è anche una certa necessità dell’illuminazione

divina. Infatti, sia l’intelletto che la cosa sono imperfetti e non

hanno in sé la capacità di pervenire alla piena luce, benché si tratti, in un caso e

nell’altro, di una capacità e di una luce diversa 12 . In entrambi i casi (cioè riguardo

all’intelletto e riguardo all’oggetto), tuttavia appare in maniera esistenzialmente

evidente la finitezza che limita sia la soggettività sia l’oggetto in quanto

creato. Ma proprio perché l’uomo è stato creato da Dio a sua immagine, il suo

essere si trova aperto alla possibilità di ricevere la luce da Dio stesso, che con

l’illuminazione adatta l’intelligenza creata a conoscere ciò che le si presenta nell’oscurità

della propria finitezza, ma a sua volta illuminata. Il terzo motivo, infine,

che propone Matteo è che la vera conoscenza diventa tale nel giudizio, o nel

giudicare la somiglianza tra la cosa conosciuta e l’idea o modello esemplare che

Dio ne ha. Così, l’intelligenza può anche arrivare a valutare la gradazione

dell’essere della cosa attraverso tale giudizio comparativo, nella misura in cui

l’intelletto può stabilire la vicinanza o la lontananza della cosa, in quanto alla sua

perfezione, con la verità eterna.

Appare così con maggiore chiarezza nella filosofia di Matteo non soltanto la

possibilità ma soprattutto la necessità dell’illuminazione, giacché la luce per

vedere l’esemplare eterno della cosa conosciuta proviene da Dio, che a propria

12 Si potrebbe anche dire che la luce dovuta, per quanto riguarda l’intelletto, è quella di portare

all’intelligibilità compiuta l’essenza della cosa, mentre la luce dovuta per quanto riguarda

la cosa stessa è in coincidenza con la sua perfezione ontologica e, con ciò, sarà più o

meno intelligibile a seconda della sua perfezione entitativa.

201


studi

volta perfeziona la luce intellettuale e la medesima intelligibilità dell’oggetto.

Tale luce è, da un lato, pura luce, dall’altro è però un certo contenuto oggettivo,

perché la verità eterna non è soltanto capacità di vedere, ma anche qualcosa che

si vede nell’illuminazione, oppure nella sua propria luce 13 .

In questa maniera è possibile indicare in quale direzione Matteo tenta di integrare

la dottrina aristotelica della forma con quella agostiniana dell’illuminazione.

È infatti necessaria l’esperienza della realtà extramentale, e accanto ad essa la

capacità naturale della ragione, affinché la conoscenza si verifichi. La congiunzione

di entrambe ha però il suo punto conclusivo nella conoscenza delle verità

eterne 14 . In ogni caso, rimane chiaro il fatto che conoscere è un atto del conoscente,

poiché la luce di Dio non sostituisce né l’intelletto né l’oggetto. Si tratta

piuttosto della necessità di una luce che interviene nell’atto conoscitivo affinché

l’uomo che conosce possa andare oltre la contingenza e possa contemplare l’intera

realtà come ordine divino.

D’altro canto, c’è a questo punto una flessione non priva di interesse nella

gnoseologia di Matteo, che merita almeno di essere sottolineata. Infatti, simile

maniera di conoscere rende notevolmente problematico il riconoscimento

dell’individualità stessa dell’oggetto in quanto tale, sia perché l’intelligenza

coglie la cosa sotto la sua forma intelligibile — ed in questo modo conosce quello

che di universale e necessario c’è nell’oggetto —, sia perché l’illuminazione

fornisce al soggetto un certo contenuto che anch’esso è a sua volta universale ed

eterno. Le aeternae veritates non ammettono certamente una singolarizzazione

gnoseologica, se direttamente attinte. Qual è quindi la situazione gnoseologica

del singolare? Quale esperienza se ne potrebbe avere? Prima però di passare

all’analisi dei testi di Matteo riguardanti i problemi fin qui riassunti, sembra

opportuno considerarne alcuni aspetti teoretici che ne costituiscono in certo

senso il presupposto.

a) Da una parte, la conoscenza diretta del singolare 15 , sia nel pensiero di Matteo

13 Siamo parzialmente d’accordo con C. BÉRUBÉ, De l’homme à Dieu selon Duns Scot, Henri

de Gand et Olivi, cit., p. 55, quando afferma che «Matthieu insiste, après Eustache d’Arras

et Henri de Gand, sur l’atteinte des raisons éternelles seulement comme ratio cognoscendi

et non comme ratio objecti. La lumière éternelle est un pur objectum motivum, jamais un

objectum proprement dit. Elle fait tout voir, mais sans faire voir elle-même. […] Il n’est

donc pas question, pour Matthieu, de la priorité de la connaissance de Dieu sur celle du

créé, puisque Dieu n’est en aucune façon objet de connaissance, mais seulement principe»;

anche se ci sembra troppo tassativa la sua affermazione giacché il modello divino è conosciuto

quando la conoscenza è essenziale; il fatto che forse non sia immediatamente conosciuto

spiega appunto la necessità della realtà della cosa affinché sia conosciuta, e si possa

anche dire che si conosce veramente la realtà e non soltanto Dio. Comunque il punto resta

fondamentalmente ambiguo in Matteo.

14 Cfr. G. BONAFEDE, Storia della Filosofia Medioevale, cit., p. 217.

15 Lo studio di questa tesi in Matteo sarà svolto nelle prossime pagine; per il momento intendo

soltanto indicare il problema attraverso l’esplicitazione di alcuni presupposti, precisando

così anche una chiave ermeneutica.

202


Daniel Gamarra

che più in generale, presenta due aspetti che devono essere studiati insieme e sollevano

a loro volta una domanda che va al di là della gnoseologia stessa e arriva fino

alla metafisica. Il primo aspetto potrebbe essere definito come la determinazione

del concetto di esistenza intenzionale, mentre il secondo riguarderebbe soprattutto

l’aspetto contenutistico della presenza intenzionale in quanto tale; vale a dire che

se entrambi gli aspetti, cioè esistenza e contenuto, appartenessero alla stessa unità

dell’atto intenzionale, il singolo reale potrebbe essere sostituito in maniera completa

attraverso una forma di presenza, sufficiente in ordine alla sua comprensione. E

questa, come vedremo, sembra essere la tesi di Matteo.

b) Il secondo aspetto, si potrebbe formulare nel seguente modo: l’intenzione,

ossia la presenza oggettiva in quanto tale, avrebbe un valore conclusivo in rapporto

all’intuizione stessa, in quanto la presenza intenzionale non rappresenterebbe

un’essenza universale, benché l’intenzione abbia un carattere oggettivo. La capacità

di conoscere il singolo in maniera spirituale e diretta implicherebbe, in questo

senso, una non-universalizzazione dell’essenza singolare, anche se l’essenza

sarebbe in qualche modo universale in quanto essenza (e ciò per non affermare un

nominalismo che senza questo presupposto sarebbe assolutamente inevitabile). In

altri termini, se la conoscenza del singolare non fosse allo stesso tempo conoscenza

essenziale, il problema della conoscenza intellettuale diretta del singolare

semplicemente non avrebbe senso. Ciò che invece vuol dire Matteo, e in generale

altri autori sostenitori di questa tesi, è appunto il contrario, cioè che la conoscenza

diretta del singolare è conoscenza essenziale, ma con la differenza, rispetto alla

conoscenza generica ed astrattiva, che l’essenza viene conosciuta nella singolarità

entitativa e come singolarità costituita.

A partire da queste considerazioni appare con una certa nitidezza la questione

della non distinzione tra la cosa e l’oggetto. Ne risulta che la sostituzione dell’ente

con la forma intuita sarebbe una trasformazione dell’ente in pura presenza,

dalla quale scaturirebbe una possibilità fenomenologica esauriente per quanto

riguarda il contenuto dell’oggetto presente. Questa è infatti una possibilità teoretica

derivata dalla tesi della conoscenza diretta del singolare e che bisognerà in

qualche modo percorrere per mostrare la sua praticabilità, oppure per spiegare

almeno le condizioni di possibilità della tesi stessa. Comunque, bisogna dire che

tale possibile confusione ha una certa limitazione nella filosofia del Nostro, dal

momento in cui le aeterne veritates non possono essere considerate come pura

oggettività. Esse sono il modello della creazione e con ciò si preclude la possibilità

di una considerazione immanentistica della realtà nel suo insieme. Perciò,

anche se in sede storica questo problema rimane così configurato, in sede teoretica

il problema spinge alla considerazione metafisica del fondamento dell’ente,

dell’origine e della finalità come problemi posti a loro volta quali diversi aspetti

suscitati dall’atto creativo 16 .

16 Si potrebbe prescindere filosoficamente da un atto originario primo? Così formulata, la

domanda è radicale e mostra che la radicalità è oggetto necessario della domanda filosofica.

203


studi

2.1. La conoscenza del singolare

Matteo dedica la quaestio IV delle Quaestiones de cognitione a risolvere il

problema della conoscenza del singolare, con la consapevolezza di chi sa di essere

di fronte a un problema difficile e secolare; in lui, infatti, si trovano risposte e

tentativi di soluzione che vanno da Aristotele ad Agostino, e da questo ad

Avicenna e agli autori del XIII secolo, suoi contemporanei. Un punto importante

della teoria di Matteo riguardante la conoscenza del singolare consiste nella sua

distinzione fra il fatto ed il modo dell’intellezione 17 , distinzione che a sua volta

implica un’acuta penetrazione delle istanze psicologiche del problema.

Nel considerare gli aspetti più tecnici dell’argomentazione, Matteo si riferisce,

alla stregua di una conferma, a tre motivi che dovrebbero rafforzare in modo

estrinseco ma al contempo decisivo le ragioni di ordine psicologico attraverso le

quali intende provare la sua tesi. Nelle Quaestiones de cognitione, afferma che la

conoscenza diretta del singolare risulta necessaria anche in quanto «convincit

veritas fidei, auctoritas divini praecepti et violentia argumenti» 18 . Accanto alle

ragioni gnoseologiche, questi motivi potrebbero sembrare in effetti troppo estrinseci

e fuori dall’argomentazione in quanto tale. Valutando inoltre la questione

soltanto da un punto di vista dialettico-argomentativo, si potrebbe anche dire che

l’osservazione di Matteo non ha peso oppure interesse filosofico. In realtà, si

tratta della cornice entro la quale l’argomentazione viene svolta, e con ciò

Matteo vuol segnalare, anche se indirettamente, che il fondamento della conoscenza

si trova vincolato alla questione del fondamento del mondo e dell’uomo

in quanto tale, e cioè che la conoscenza del singolare è qualcosa di più che un

avvicinamento empirico del soggetto al mondo e che proprio nell’atto di conoscerlo

si rivelerà qualcosa di eterno che appartiene alla singolarità, la quale ne è

rivelatrice.

Come primo passo, Matteo nega esplicitamente, e in polemica con Tommaso

d’Aquino 19 , che la conoscenza del singolare si produca attraverso la reflexio ad

phantasmata; sostiene invece la tesi della sua conoscenza diretta: «bisogna dire,

senza dubbio, che il nostro intelletto conosce o coglie il singolare» 20 ; egli critica

quanti affermano che, poiché l’oggetto dell’intelletto è l’universale, tale intelletto

17 Cfr. C. BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Age, cit., p. 94. Bérubé discute

la questione della conoscenza del singolare in un contesto storico più ampio, e segnala

nello stesso luogo che con Matteo «la question de l’intellection directe du singulier fait un

grand pas, car, sans se dégager du plan théologique […] elle accède véritablement au plan

philosophique et s’appuie sur une psychologie consistante de la connaissance».

18 QQC, IV, 279, 16.

19 Quasi sicuramente Matteo si riferisce a TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 2; cfr. C.

BÉRUBÉ, La connaissance de l’individuel au Moyen Age, cit., p. 95; anche, H.M. BEHA,

«Franciscan Studies», 20 (1960), pp. 161-204; 21 (1961), pp. 1-79; pp. 383-465.

20 QQC, IV, 279, 16: «Dicendum est quod intellectus noster cognoscit sive intelligit singularia».

204


Daniel Gamarra

non può conoscere per sé il singolare 21 . In altri termini, Matteo non vedrebbe in

questa tesi una limitazione della facoltà intellettiva, ma soprattutto due momenti

diversi — ma allo stesso tempo integrati — di conoscenza. Di fronte però alla tesi

della sola conoscenza dell’universale da parte dell’intelletto, il Nostro definisce la

propria con chiarezza e precisione: «L’intelletto conosce veramente i singolari

attraverso species singolari e conosce gli universali attraverso species universali»,

in quanto ottiene «in primo luogo la species singolare e a partire da questa produce

il concetto universale; e tutto questo, prima di conoscere l’universale stesso» 22 .

Matteo esprime questa opinione in diversi luoghi dell’opera che abbiamo di fronte,

mentre testi più estesi precisano, a loro volta, aspetti diversi che completano la

tesi principale. I seguenti rappresentano tre passi consecutivi che il Nostro dà al

fine di esprimere il suo pensiero sul particolare:

1. «Affermo quindi che i singolari sono presenti nell’intelletto non per sé ma

attraverso le loro species» 23 .

2. «Il singolare è conosciuto attraverso la species che è nell’intelletto, la quale

rimane in un certo senso nella sua natura materiale, e in un certo senso diventa

immateriale. È materiale in quanto rappresenta e conduce alla conoscenza

dell’‘aggregato’ di materia e forma; ed è invece immateriale perché astrae dalla

cosa esteriore e perché non ha l’essere nella materia» 24 .

3. D’altra parte, Matteo stabilisce un punto di unione fra l’ente singolare e la

species oppure la presenza mentale della cosa in quanto materiale in una certa

essenza individuale; si tratta di una corrispondenza a livello intenzionale ed

ontologico allo stesso tempo: «dico quindi che, benché l’essenza sia la stessa

forma specifica — la stessa, affermo, nella specie [intenzionale] —, tuttavia una

è la forma individuale ed altra, secondo Riccardo di S. Vittore, quella della sostanzialità;

non esiste perciò inconveniente che un’altra sia l’essenza singolare.

Donde l’essenza generale di uomo è l’umanità, l’essenza di Daniele la ‘danielità’,

come dice Riccardo, nel II libro [De Trinitate], cap. 12» 25 .

21 QQC, IV, 282, 16: «Quidam enim dicunt quod, quia obiectum intellectus est quod quid est

et universale, intellectum numquam per se singulare cognoscit, immo abstrahit speciem

intelligibilem ab omnibus principibus individuantibus».

22 QQC, IV, 285, 5: «Propterea dicendum, sine praeiudicio, quod revera intellectus cognoscit

et intelligit singularia per se et proprie, non per accidens, ita quod singularia cognoscit per

species singulares, universalia per species universales; nec species universalis sufficit ad

cognoscendum singularia. […] Prius igitur defertur species singularis ad intellectum et ex

illa colligit intentionem universalem, quam ipsum universale intelligat».

23 QQC, IV, 287, 17: «Dico enim quod singularia sunt in intellectu non per se, sed per suas

species».

24 QQC, IV, 287, 28: «Singulare intelligitur per speciem quae est apud intellectum, quae quidem

quodam modo manet materialis, quodam modo fit immaterialis. Materialis quidem

manet, quia repraesentat et ducit in cognitionem totius aggregati ex materia et forma; fit

autem immaterialis, quia abstrahitur a re extra nec habet esse in materia».

25 QQC, IV, 288, 10: «Dico quod, quamvis eadem sit quidditas, sicut eadem forma specifica

— eadem dico in specie — alia tamen et alia est forma individualis, et, secundum

205


studi

Non sembra ancora opportuno dedurre conclusioni specifiche che riguardano

direttamente il nostro tema, perché è ancora necessario fare un successivo passo

che permetta di avere una veduta d’insieme più chiara soprattutto per quanto

riguarda i rapporti fra essenza e oggettività. Questi punti che appaiono nella teoria

della conoscenza di Matteo, in particolare nelle sue tesi sulla conoscenza del

singolare, saranno più volte ripetuti lungo il quattordicesimo secolo e poi nella

più tardiva scolastica, soprattutto in quel suo momento di rinascita lungo i secoli

XVI e XVII. Da qui anche l’interesse che presenta questo autore in materia gnoseologica

strettamente legata a un problema metafisico radicale com’è quello

costituito dall’essenza finita 26 . La tesi della conoscenza del singolare implica in

realtà un insieme di tesi riguardante l’illuminazione, la costituzione dell’oggettività

e la conoscenza come attività soggettiva. Riassumendo, ci troviamo davanti

a una chiave di pensiero portatrice di una interiore tensione, e cioè quella che

appare nella considerazione dell’universale in re che potrebbe essere considerata

come una costante metafisica e gnoseologica della filosofia occidentale.

2.2. L’illuminazione

Allo scopo di precisare meglio il ruolo dell’illuminazione nella teoria della

conoscenza di Matteo di Acquasparta, oltre agli accenni fatti in pagine precedenti,

possono essere considerati altri aspetti essenziali che nel suo insieme definiscono

la questione in maniera assai chiara. In questo modo, sarà anche possibile

mettere in luce i fondamenti metafisici che contribuiranno alla definizione dell’esse

obiectivum; allo stesso tempo questa maniera di procedere permetterà di

vedere il senso che ha nel pensiero di Matteo il problema della conoscenza del

non-esistente. Quest’ultimo aspetto non sempre è stato considerato in maniera

particolareggiata, pur tuttavia resta decisivo nella sua teoria della conoscenza.

Avevamo già considerato che secondo Matteo d’Acquasparta sono tre gli elementi

necessari che intervengono nella realizzazione della conoscenza: una certa

attività soggettiva, l’oggetto stesso e l’illuminazione divina che, nel loro insieme,

conformano un’unità attivo-conoscitiva. C’è da dire che per il Nostro esiste una

forma tipica nella quale si manifesta in maniera propria questa unità di azione,

anche se con una chiara accentuazione dell’illuminazione appunto, ed è quella

Richardum de S.Victore, alia substantialitas; et pro tanto non est inconveniens quod alia

quidditas singularis. Unde quidditas generalis hominis est humanitas, quidditas Danielis est

danielitas, ut dicit Richardus, II libro, cap. 12».

26 Sul problema della conoscenza del singolare secondo Matteo d’Acquasparta, cfr. H.D.

SIMONIN, La connaissance humaine des singuliers matériels d’après les Maîtres

Franciscaines de la fin du XIIIe siècle, «Melanges Mandonnet», t. II, pp. 289-303, Vrin,

Paris 1930; S. DAY, Intuitive cognition. Akey to the significance of latter Scholastics, St.

Bonaventure Institute, New York 1947; G. PAYNE, Cognitive Intuition of Singulars Revised,

«Franciscan Studies», 41 (1981), pp. 346-384.

206


Daniel Gamarra

della conoscenza degli esseri immateriali come, p.e., l’anima. Il motivo di questa

forma pura di attività intellettuale è dovuta al fatto che la conoscenza sensibile

non ha a che fare con essa. Con ciò Matteo intende rendere più chiara la questione

della presenza oggettiva nell’anima senza intervento dei sensi, il che costituisce

infatti un’affermazione in obliquo della causalità oggettiva dell’illuminazione.

Nella conoscenza dell’anima non intervengono infatti i sensi; allo stesso

modo in cui nella conoscenza di alcuni principi, la cui verità è indubitabile, non

si vede quale possa essere la loro indole empirica che origina, dal punto di vista

oggettivo, la loro conoscenza, come è il caso del principio «il tutto è maggior che

la parte». L’evidenza di questa proposizione non richiama, al dire di Matteo, nessuna

conoscenza sensibile. Così, per conoscere queste realtà immateriali, l’intelligenza

riceve una particolare illuminazione in maniera tale da poterle conoscere

non solo in se stesse, ma anche attraverso le rationes aeternae. Questo infatti

accade — e aggiunge Matteo che c’è una certa esperienza di questo fatto — nella

misura in cui possa esserci un non esse in rebus e che, al contrario, si costituisca

un esse in intellectu, cioè il non ens (si deve però ancora vedere in che senso)

potrebbe tuttavia presentarsi come un certo oggetto di conoscenza attraverso

appunto le rationes aeternae 27 .

Benché l’anima si trovi in una situazione di unione col corpo, in quanto

forma di esso, e pertanto è il principio attivo di tutte le facoltà compresi i sensi,

la conoscenza ha un punto finale e definitivo nel modo più spirituale di possedere

l’oggetto. La teoria dell’astrazione risponde infatti in certo modo a questo problema,

in quanto l’intelligenza spiritualizza il contenuto oggettivo che ha avuto

un’origine sensibile, e fa sì che l’oggetto sia intellectus actu. Questo, comunque,

ha soprattutto un valore di spiegazione della conoscenza di origine sensibile, ma

resta senza risposta adeguata il problema posto prima, cioè quello delle realtà

immateriali, giacché la loro conoscenza non potrà essere, per quanto detto, una

conoscenza astrattiva in senso rigoroso.

Fra l’aristotelismo e le tesi di origine agostiniana presenti nel pensiero di

Matteo, egli trova una via media per spiegare la conoscenza o, meglio ancora, la

causa ultima della conoscenza: poiché, da una parte, l’astrazione in senso aristotelico

risulta insufficiente 28 — e in certo senso non adeguata — e, dall’altra, un

platonismo ad oltranza gli sembra un’opinione «omnino erronea. Quamvis videtur

enim stabilire viam sapientiae destruit tamen viam scientiae» 29 . Per queste

ragioni afferma il Nostro che «la conoscenza è causata sia da ciò che è inferiore

27 Cfr. QQC, I, 215, 22. Uno studio molto interessante che mostra il problema del non-esistente

ed il suo rapporto con l’onnipotenza divina, è il seguente: A.L. GONZALEZ, El problema

de la intuición de lo no-existente y el escepticismo ockhamista, «Anuario Filosófico», X/2

(1977), pp. 115-143.

28 Cfr. QQC, II, 231, 22.

29 QQC, II, 232, 4.

207


studi

sia da ciò che è superiore, a partire dalle cose esterne e da quelle ideali» 30 .

Questa sua tesi non significa quindi che in ogni atto di conoscere sono le cose

esterne e quelle ideali a confluire nell’atto conoscitivo, apportando ognuna la sua

parte; vuol dire, invece, che se la conoscenza ha avuto un momento esperienziale,

questo non è sufficiente affinché l’oggetto sia essenzialmente presente

nell’intelletto, ma ha ancora bisogno della cosa ideale. Mentre è invece possibile

— apre cioè in maniera evidente la possibilità effettiva che possa accadere il

contrario — che la ratio aeterna sia l’unica a dare qualche contenuto oggettivo

all’intelletto in actu, come nel caso degli esempi finora considerati, cioè della

conoscenza dell’anima oppure di certi principi in se stessi evidenti 31 .

Da qui Matteo può distinguere tre ordini di adeguazione, oppure tre momenti

veritativi in quanto s’intende la verità come adeguazione: la verità logica, che è

l’adeguazione dell’intelletto con la cosa esterna; la verità ontologica, che è invece

adeguazione della cosa con l’intelletto — e qui Matteo introduce una considerazione

sul limite oggettivo oppure sull’attività di conformazione dell’oggettività

—; ed in terzo luogo, la verità divina che è l’adeguazione della cosa con

l’intelletto divino.

In un testo non troppo breve ma chiaro, che ci permettiamo di citare per esteso,

Matteo introduce delle precisioni di grande interesse: «la verità, infatti, d’accordo

con la sua propria essenza è la ragione della conoscenza e della manifestazione,

come dice Ilario, giacché la verità è dichiarativa dell’essere. Questa ragione,

in quanto si trova impressa nella creatura, cioè in quanto è la sua propria

forma o essenza, non è sufficiente né per manifestarsi e dichiararsi, né per muovere

l’intelletto. Perciò Dio concede alla nostra intelligenza una certa luce intellettuale

con la quale astrae la species delle cose conosciute (rerum obiectarum),

attraverso le cose sensibili, che purifica e prende le loro essenze, le quali costituiscono

in effetti l’oggetto dell’intelletto. Concede Dio anche una luce naturale

con la finalità di giudicare e con la quale l’intelligenza discerne le cose buone da

quelle cattive, le cose vere da quelle false. Non è però sufficiente neanche questa

luce, poiché è deficiente ed opaca a meno che non si ricolleghi con la luce eterna,

che è ragione perfetta e sufficiente per conoscere, e in questo modo possa

30 QQC, II, 232, 14: «Et ideo viam mediam puto sine praeiudicio esse tenendam, dicendo

quod nostra cognitio causatur et ab inferiori et a superiori, a rebus exterioribus et a rationibus

idealibus». Cfr. F. PREZIOSO, L’attività del soggetto pensante nella gnoseologia di

Matteo d’Acquasparta e di Ruggero Marston, «Antonianum», 25 (1950), pp. 259-326.

31 V. SORGE, Gnoseologia e teologia nel pensiero di Enrico di Gand, Loffredo, Napoli 1988,

p. 131: «secondo l’interpretazione del Bettoni che pure si è soffermato su tale complessa

questione, gli agostiniani che limitano l’efficacia dell’illuminazione alla sola impressione

all’anima umana dei primi principi sarebbero identificabili in Guglielmo d’Auvergne,

Alessandro di Hales, San Bonaventura e Matteo d’Acquasparta». Forse, per considerare

questo problema nel suo insieme, si dovrebbero tenere presente i temi che studieremo in

seguito, cioè quelli riguardanti lo statuto gnoseologico e metafisico dell’essenza, dal quale

si può concludere che in Matteo difficilmente l’illuminazione si limita ai primi principi.

208


Daniel Gamarra

raggiungere e, in un certo senso, tocchi l’intelletto che arriva a quello che c’è di

più alto» 32 .

Matteo risponde così al problema della conoscenza in quanto sufficienza,

oppure come momento non proseguibile di rapporto con l’intelligibilità, poiché

la conoscenza vera è stata garantita dalla stessa verità divina, creatrice della

verità finita. Rimangono però altre questioni sollevate senza una soluzione

soddisfacente e che potrebbe soltanto darsi a partire da una considerazione

‘meno metafisica’ dell’oggettività, poiché per Matteo le verità eterne costituiscono

un certo allargamento dell’oggetto inteso come finitezza fino alla infinitezza

di un altro soggetto diverso da quello umano, cioè Dio, e con ciò l’oggetto

ha a che vedere col pensiero necessario e creativo.

Ma è questa una difficoltà per spiegare la conoscenza vera oppure la portata

veritativa della conoscenza umana? Da un punto di vista creazionistico, com’è

senz’altro quello di Matteo e della filosofia cristiana in generale, la coincidenza

delle essenze delle cose con le loro idee in Dio si può presentare come si presenta

al nostro, alla maniera di sigillo definitivo della trascendenza di Dio, della

trascendenza conoscitiva. Con ciò, la dimensione trascendente dell’antropologia

trova anche un fondamento operativo nella stessa natura umana in quanto capace

di conoscere.

Il punto problematico si trova comunque nella dimensione meta-esperienziale

dell’illuminazione, sia che la si consideri come luce nell’intelligenza, sia come

luce dell’essenza. La domanda sarebbe: non è possibile per l’uomo raggiungere

la verità delle cose senza la mediazione della luce eterna? E se la risposta dovesse

essere negativa: quale sarebbe allora il modo per trovare la prova metafisica di

tale atto operante nel conoscente e nelle essenze? La prova dell’illuminazione

non dovrebbe essere diversa dall’affermazione dell’intelligibilità dell’essere e, se

così fosse, il fondamento della risposta si troverebbe piuttosto nella linea trascendentale

del verum, da dove potrebbe anche scaturire la prova metafisica dell’esistenza

dell’Essere supremo che nel causare l’essere causa l’intelligibilità. Se la

conoscenza fosse soltanto un rapporto fra luci, si potrebbe obiettare a Matteo che

quello che si conosce non è l’essere ma l’intelligibilità; quindi, il problema della

conoscenza rimarrebbe senza risposta, se si suppone che la conoscenza ha come

oggetto l’essere.

32 QQC, II, 233, 1: «Veritas autem secundum rationem suam est ratio cognoscendi et manifestandi,

prout dicit Hilarius quod veritas est declarativa esse. Ista ratio ut est impressa creaturae,

hoc est ipsa sua forma vel quidditas non est sufficiens ad se manifestandum nec (ad)

movendum intellectum. Ideo providit Deus nostrae menti quoddam lumen intellectuale, quo

species rerum obiectarum abstrahit a sensibilibus, depurando eas et accipiendo earum quidditates,

quae sunt per se obiectum intellectus. Indidit nihilominus naturale iudicatorium,

quo discernat et iudicet bona a malis, vera a falsis. Sed nec istud lumen est sufficiens quia

defectivum est et opacitati admixtum, nisi subiungatur et connectatur illi lumini aeterni,

quod est perfecta et sufficiens ratio cognoscendi, et illud attingat et quodam modo contingat

intellectus secundum sui supremum».

209


studi

Perciò, Matteo in un certo senso risponde alla domanda posta ed in un altro

senso no. La risposta positiva è infatti l’illuminazione che ha a sua volta, indipendentemente

dalla questione posta nel paragrafo precedente, una dimensione a

nostro avviso valida se metafisicamente fondata. La risposta non sufficiente

invece consiste nel mettere l’oggetto stesso in una situazione metafisica, o più

esattamente come una condizione metafisica generale; l’oggetto, invece, altro

non è se non oggettività logica, o più rigorosamente intenzionalità in atto, che

viene per così dire messa in disparte quando Matteo dice che quell’elemento

inferiore assieme con l’intelletto è insufficiente per giustificare la conoscenza di

tutta la realtà, perché con ciò introduce una limitazione gnoseologica alla metafisica,

nella misura in cui la possibilità di verità verrebbe attuata con una certa

indipendenza dall’essere. Paradossalmente, in tal modo la sufficienza conoscitiva

intesa soltanto in termini di luce implicherebbe una riduzione oggettiva della

metafisica. Rimane comunque come punto saldo la realtà delle essenze, perché il

Nostro non è nominalista ed è questo, per l’appunto, quello che rende possibile

la sua riflessione sulla conoscenza in termini di luce.

Nel corpus della stessa quaestio, nel suo momento conclusivo, Matteo riassume

il suo pensiero con queste parole: «Tutto ciò che è conosciuto con certezza

dalla conoscenza intellettuale, si conosce nelle verità eterne e nella luce della

prima verità, come è stato spiegato, concludendosi così la natura conoscente e la

cosa conoscibile, il mezzo certo ed il giudizio retto; in questo modo la ragione

del conoscere la realtà materiale ha origine nelle cose esteriori da dove si prendono

le species delle cose che verranno conosciute; tuttavia la ragione formale

della conoscenza è, in parte, interiore, cioè la luce della ragione, e in parte viene

dal superiore che si presenta in maniera completiva e consumativa attraverso le

regole e le ragioni eterne» 33 .

2.3. Il problema della «natura communis»

Più volte è stata rilevata la vicinanza, per lo più critica, fra Matteo di

Acquasparta e Duns Scoto; esiste senz’altro un fondamento sufficiente nei testi

di entrambi per affermare tale vicinanza in alcune tesi non certamente secondarie

34 . Tra le varie possibilità ce n’è una che risulta particolarmente rilevante

33 QQC, II, 240, 21: «Sic igitur dico quod quidquid cognoscitur certitudinaliter cognitione

intellectuali cognoscitur in rationibus aeternis et in luce primae veritatis eo modo quo fuit

explicatum, concludente hoc et natura cognoscente et re cognoscibili, et medio certo et

iudicio recto; ita quod ratio cognoscendi materialis est ab exterioribus, unde ministrantur

species rerum cognoscendarum; sed ratio formalis partim est ab intra, scilicet a lumine

rationis, partim a superiori, sed completive et consummative a regulis et rationibus aeternis».

34 Non è nostra intenzione dimostrare qui la vicinanza fra i due seguendo un metodo storiografico,

ma soprattutto segnalarla in modo materiale, ovvero a modo di indicazione tematica.

210


Daniel Gamarra

per le implicazioni che ha riguardo al nostro tema, e che in maniera principale

avvicina Duns Scoto a Matteo oppure, se si vuole, fa di quest’ultimo un antecedente

diretto di Scoto. Si tratta infatti della difficile questione della natura communis,

materia della quale entrambi hanno parlato e sulla quale hanno manifestato

una preoccupazione che possiamo definire primaria.

Nelle stesse Quaestiones de fide et cognitione, Matteo riporta dei testi in gran

misura coincidenti nel suo nucleo fondamentale con la nozione di natura communis

di Duns Scoto. «Quando dico ‘uomo’ — afferma Matteo — mi riferisco

all’universale, e quando dico ‘quest’uomo’, mi riferisco al singolare. L’universale

in quanto nomina qualcosa, non è nell’anima ma è una specie universale,

cioè, una natura comune (natura communis), a partire dalla quale si forma il concetto

a causa della convenienza di molti, e in questo senso si chiama universale.

[…] Di conseguenza l’intelletto è quello che realizza la predicazione o composizione

attraverso la specie che ha in se stesso, chiamata anche intenzione; tuttavia,

a questa corrisponde, com’è stato detto, la natura comune, giacché ‘quest’uomo’

è ‘uomo’» 35 .

Dal testo, considerato nella sua totalità, si possono trarre i seguenti punti di rilievo:

1. L’universalità si trova in maniera propria nella species, oppure nella cosa in

quanto oggetto, e con ciò Matteo afferma che è una caratteristica del modo di

conoscere; benché,

2. il fondamento dell’universale è presente nella natura communis, la quale si

trova in ogni individuo (hic homo est homo);

3. la natura communis è diversa dai principi d’individuazione che costituiscono

l’individuo in quanto tale, giacché «in quolibet enim particulari est aliquid,

quo distinguitur ab alio» 36 ;

4. la natura communis non si trova nella realtà astratta absolute ma in quanto

si fa una comparazione fra gli individui. Così, essa è un certo risultato dell’operazione

intellettiva, altrimenti si perderebbe il senso dell’atto di conoscenza

35 Quaestiones de fide, q. I, ad 10: «Quod dico ‘hominem’, dico universale; quod dico ‘hunc

hominem’, dico singulare. Universale, prout dicit rem aliquam, non est in anima, sed species

universalis, id est istitutus naturae communis, ex qua colligit intentionem hanc propter

convenientiam multorum, et vocat universale. Sic ergo universale est in rebus secundum

veritatem, sed secundum intentionem est in anima; et secundum hoc dicit Commentator

quod ‘intellectus facit universalitatem in rebus’. — Quod dicit, universale est de essentia

rei, dico quod non est de essentia rei tanquam essentiale principium, sed est rei essentiale.

—Quod vero dicit, quod universale est pars definitionis, dico quod universale accipitur pro

eo quod est magis commune, cuiusmodi est genus, sicuti ‘animal’ est communius quam

‘homo’. Sed ‘animal universale, ut dicit Philosophus, I De anima, aut nihil est aut posterius

est’. — Quod quaerit, quid est illud quod praedicare est actus animae; ergo intellectus est

ille qui facit praedicationem vel compositionem talem, per speciem quam habet in se sive

intentionem. Huic tamen respondet in re, ut dictum est, illa natura communis: vere enim hic

homo est homo».

36 Ibidem.

211


studi

intellettuale in quanto astrazione, e, d’altra parte, l’individualità si renderebbe

problematica davanti ad una realtà generica.

Queste brevi considerazioni ci mettono dinanzi a due aspetti di importanza

fondamentale: il concetto stesso di natura communis e anche un preludio di quello

che Scoto chiamerà haecceitas e che, anche se con meno chiarezza, Matteo in

qualche modo afferma: «et haec sunt principia particularia, ut sua anima, suum

corpus; est etiam aliquid, quo convenit cum quolibet alio, sicut anima et corpus.

Unde et est hic homo ex hac anima et hoc corpore compositus, et homo compositus

ex anima et corpore» 37 .

Oltre però alla maggiore o minore importanza storica di questa vicinanza fra

Matteo e Duns Scoto, il punto che ci interessa sottolineare di più è quello che si

riferisce allo statuto metafisico della natura communis nel senso che essa implica

una presenza essenziale nell’individuo. Con ciò il Nostro trova un momento

metafisico fondante della verità, ossia del rapporto dell’intelligenza con la realtà

extramentale che combacia in modo assoluto con l’adeguazione veritativa fra

l’intelletto e la ratio aeterna. A questo punto però è anche necessario menzionare

quello che è stato oggetto del paragrafo precedente, cioè l’accentuazione del

carattere secondario del momento sensibile della conoscenza, poiché l’atto proprio

dell’intelligenza è la conoscenza di essenze, oppure di naturae communes.

3. La conoscenza del non-esistente

3.1. L’indifferenza dell’essere

Non troppe volte si trova un problema di questo genere nella storia della filosofia.

Sembra addirittura un controsenso parlare della possibilità della conoscenza

di qualcosa che non esiste; almeno, il più elementare senso comune si rifiuta

di ammettere una questione simile. Secondo il linguaggio comune, un non-esistente

è qualcosa che non è, che non ha alcuna realtà oppure che è qualcosa di

finto. Se si va oltre il significato più immediato dell’espressione, tuttavia, si

potrebbe trovare una dimensione metafisica nascosta dietro questa apparente

mancanza di senso. Quindi, perché proprio questo problema? L’origine non è,

almeno in linee generali, una astrusa elaborazione concettuale di Matteo di Acquasparta.

Nelle sue Quaestiones de cognitione ci troviamo di fronte al seguente titolo:

«Quaestio est utrum ad cognitionem rei requiratur ipsius rei existentia aut non

ens possit esse obiectum intellectus» 38 . Il problema è invitante e l’apporto di

Matteo in questo testo all’elaborazione del problema dell’esse obiectivum ha

senz’altro degli spunti pieni d’interesse. Comunque, come primo passo, prima di

37 Ibidem.

38 QQC, I, 201.

212


Daniel Gamarra

entrare nel merito della questione, bisogna chiarire le condizioni di possibilità

della domanda stessa.

Nelle pagine precedenti abbiamo studiato alcuni aspetti di particolare rilievo

della teoria della conoscenza di Matteo e il nuovo problema che si pone adesso ci

offre una chiave più generale e anche una spiegazione più profonda per poter

dare un’interpretazione più coerente del pensiero del Nostro. Potrebbe anche

sembrare una questione secondaria. Infatti, la conoscenza di quello che non esiste

o che non è, ha tutta l’apparenza di un problema artificioso; ma non è così.

Quello che non è una cosa (che non esiste come tale) con una realtà fisica — se

sia materiale o spirituale per il momento non interessa — potrebbe tuttavia esistere

come una realtà oggettiva. Con questa affermazione troviamo in maniera

piuttosto virtuale, anche se ormai chiara come indicazione, una risposta alla possibilità

stessa della domanda di Matteo, benché la sua risposta ci offra degli

aspetti complessi ed articolati.

Il problema posto da Matteo implica la previa definizione di un cospicuo

numero di nozioni metafisiche. Infatti, soltanto la possibilità stessa di porre il

problema significa che l’entità definita attraverso o a partire dalla non-esistenza,

sotto qualche aspetto o punto di vista tuttavia è. Matteo oltre a conoscere in

maniera profonda e vasta il pensiero di Agostino (da qui fondamentalmente l’elemento

platonizzante del suo pensiero), ha letto anche con profondità Avicenna,

ed è da quest’ultimo autore che accetta la distinzione fra essere ed essenza 39 . La

tesi avicenniana implica però una definizione in sede gnoseologica, cioè non ha

una dimensione soltanto metafisica 40 . Dice Matteo: «dal punto di vista dell’essenza,

come afferma Avicenna (V Metaphysicae, cap. 2, f. 87), in ogni essere

creato si distingue l’essenza dall’essere; l’essere non fa parte dell’essenza (nec

est de intellectu quidditatis), la quale è indifferente all’essere ed al non-essere», e

propone di conseguenza la tesi: «così non importa che la cosa esista per conoscere

la sua essenza» 41 .

Si può vedere qui una chiara dipendenza di Matteo dalle suddette tesi di

Avicenna. In effetti, l’insistenza del filosofo arabo nella considerazione dell’essere

come accidente estrinseco all’essenza, ha una profonda influenza nella

metafisica degli ultimi secoli del Medioevo. Non è affatto soltanto Matteo

d’Acquasparta ad essere vicino a questa opinione avicenniana, ma, se si può dire

così, Matteo è uno in più di quella numerosa serie di autori medioevali che manifestano

di aver assimilato in maniera pregnante la filosofia di Avicenna.

Nell’impostazione di questo problema, comunque, non troviamo soltanto una

39 Cfr. C. BÉRUBÉ, o.c., p. 232.

40 Per approfondire questa tesi, cfr. D.O. GAMARRA, Esencia y objeto, Peter Lang, Bern-

Frankfurt a.M.-Paris 1990, cap. I.

41 QQC, I, 212, 22: «Ex parte quidditatis, quoniam ut dicit Avicenna, V Metaphysicae (cap. 2,

f. 87) et in multis locis, in omni creato differt quidditas et esse; nec esse est de intellectu

quidditatis, immo indifferenter se habet ad esse et non esse. Et ideo nihil refert intelligere

quidditatem rei absque eo quod res sit in actu».

213


studi

spiegazione che si possa ridurre a un puro e semplice dato storico di fatto; bensì

è lo stesso Matteo colui che apporta una teoria che gli appartiene in maniera originale,

anche se con un’evidente dipendenza da Avicenna.

L’astrazione, l’illuminazione, l’attività del soggetto sono senz’altro elementi

necessari per il compimento dell’atto conoscitivo. Il problema però si complica

notevolmente quando appare il regno di essenze separate dall’esistenza.

Conoscere sotto la forma delle ragioni eterne e attraverso di esse è parallelo ad

affermare che la conoscenza ha come oggetto ciò che è immutabile, ovvero la

verità eterna, allo stesso modo in cui Dio conosce, oppure così come le essenze

sono in Dio. Non consiste il problema soltanto nel conoscere la verità necessaria,

perché questo sarebbe senz’altro una tesi, anche se troppo generica, allo stesso

tempo comune a quasi tutta la filosofia medievale. Il problema è soprattutto che

la conoscenza umana deriva in un certo senso da Dio, poiché Egli illumina e

nell’illuminare presenta un certo oggetto sotto forma di essenza eterna e nel

modo in cui essa è in Lui. La tesi proposta da Matteo conduce a questo.

L’esistenza è, in questo contesto, sinonimo di contingenza ontologica. Così,

se l’oggetto della conoscenza fosse l’esistente, la conoscenza, poiché è adeguazione

intenzionale ma anche una certa adeguazione ontologica (l’illuminazione)

fra l’oggetto e il conoscente, otterrebbe un risultato ancorato nella contingenza

stessa ed avrebbe la stessa fluidità temporale propria degli esistenti singolari. In

questo modo, l’essenza in quanto conosciuta si troverebbe in una situazione di

cambiamento costante. Proprio per questo «l’adeguazione è un certo rapporto ad

un’altra cosa. […] C’è per tanto adeguazione quando l’intelletto apprende o

conosce l’essenza così come essa è; giacché non la conosce nel suo rapporto con

l’essere oppure con il non essere, né in un luogo né nel tempo, come accade con

l’esistenza» 42 .

Gli argomenti che presenta Matteo al fine di collocare la conoscenza nell’ambito

essenziale dell’ente, hanno una precisione crescente: «Quello che è vero non

è il nulla, bensì quello che è (quod quid est) oppure quello che la cosa è […].

Quando conosco l’uomo, conosco l’uomo reale, cioè quello che l’uomo è in

modo immutabile. Neanche Agostino aveva considerato che quello che è (id

quod est) è l’essere in atto, perché tale essere si corrompe; la verità invece non si

corrompe insieme alle cose corruttibili: sempre rimane la ragione della cosa» 43 .

L’atto dell’intelligenza che conosce l’essenza così come l’essenza è, è

42 QQC, I, ad 2, 216, 19: «Adaequatio quaedam relatio est et ad aliud. […] Praeterea dico

quod est adaequatio quia intellectus apprehendit vel intelligit quidditatem eo modo quo est;

quia non intelligit eam concernendo esse vel non esse, locum vel tempus, sicut de ratione

sua concernit, ideo intellectus sibi adaequatur».

43 QQC, I, ad 5, 217, 5: «Quod autem ‘verum’ non est nihil, immo est illud ‘quod quid est’,

vel est illud quod res est […]. Cum enim intelligo quid est homo, intelligo hominem realem,

hoc est ‘id quod homo est’ immutabiliter. Nec intelligit Augustinus per ‘id quod est’

esse actu, quoniam illud esse corrumpitur, veritas autem secundum ipsum non corrumpitur

rebus corruptis; semper enim manet ratio rei».

214


Daniel Gamarra

anch’esso semplice e assoluto, cioè senza alcun riferimento spazio-temporale:

«L’intelletto ha un’operazione assoluta e semplice, attraverso la quale astrae

assolutamente dagli esistenti; di conseguenza tale operazione non dipende dall’esistere

o dal non esistere delle cose» 44 . Questa tesi di Matteo manifesta che l’esse

ha per lui un valore esistenziale in senso stretto, e la distinzione fra l’essere e

l’essenza, che in questo senso si rifà nuovamente ad Avicenna, implica in realtà

una distinzione fra essere ed esistenza, in quanto l’essenza è quello che è, cioè

l’essere immutabile, mentre l’esistenza è la cosa in atto, che anche è, ma in

maniera contingente e mutabile. Allo stesso tempo però quello che c’è

d’intelligibile nella cosa attuale non è primariamente l’esistenza, bensì l’essenza

indifferente all’esistenza, oppure assoluta, perché l’esistenza non è una ragione

formale. Il superamento della fatticità è pertanto condizione di trascendenza

essenziale. Questa conclusione però, pur essendo sostanzialmente vera, nasconde

una seria difficoltà.

Infatti, porre come momento conclusivo della conoscenza la sola attualità delle

cose esistenti, sarebbe fermarsi alla contingenza e alla variabilità che l’individualità

manifesta in ogni ente. L’essenza, in senso opposto, è ciò che rimane, qualunque

sia la situazione esistenziale dell’individuo, ed è in certo senso indipendente

dall’individualità empirica. Così, se la conoscenza si risolvesse nell’ente considerato

come quello che accade, l’uomo si troverebbe indissolubilmente legato alla

finitezza anche nell’ambito conoscitivo. Se il punto di risoluzione della conoscenza

si centra sull’essenza e questa, a sua volta, è la corrispondenza colta nell’esemplare

divino, allora la conoscenza porterebbe direttamente alla trascendenza, benché

in questo modo si neghi implicitamente che l’ente finito e temporale sia

un’affermazione anch’essa implicita della trascendenza. D’altra parte, da questa

prospettiva rimane compromessa in maniera radicale la realtà della sostanza nella

misura in cui quest’ultima è, o potrebbe dirsi che è, l’esistente.

In conformità con questi principi, Matteo afferma che «l’intelletto, nel rappresentare

attraverso la specie qualcosa, sia che esista nella realtà sia che non esista,

forma un certo concetto, il quale è il suo oggetto, benché tale concetto non consista

nel suo essere conosciuto ma conduca a qualcos’altro» 45 . Il concetto stesso è

quindi oggetto dell’intelletto, ma in quanto conduce a una realtà che non è il concetto.

Ed è in questa realtà che la conoscenza si risolve oppure si coglie il vero.

Matteo non chiude l’attività conoscitiva nella pura presenza mentale dell’essenza

come se fosse l’oggetto conclusivo della conoscenza, afferma bensì un’istanza

trascendente all’oggetto o al concetto. Se il cammino verso l’esistenza mondana

non costituisce un ritorno alla vera realtà, perché arrivare conoscitivamente

44 QQC, I, ad 20, 221, 24: «Tamen, ut dictum est, intellectus habet aliam operationem absolutam

et simplicem, quae omnino abstrahit ab istis; ideo non dependet ab esse vel non esse

rerum».

45 QQC, I, ad 7, 217, 31: «Intellectus enim ex specie sibi repraesentante aliquid, sive sit sive

non sit in re, format sibi quendam conceptum; quod (quidem) obicit sibi ipsi, illud tamen

non sistit intellectum, sed ducit in aliud».

215


studi

all’ente esistente farebbe della verità qualcosa di contingente, allora la via di

uscita della fondazione dell’essenza, che a sua volta dev’essere fondata giacché è

finita anch’essa, si trova nella possibilità che l’essenza porti alla sua propria origine

ontologica, cioè all’esemplare divino. L’oggetto dell’intelligenza finita

diventa dunque completo nel cogliere, da parte del conoscente, l’idea divina

come momento assoluto della verità. Da qui anche la necessità dell’illuminazione

da parte di Dio, perché a Matteo sembra evidente che le forze dell’intelligenza

finita non possano raggiungere le idee che esistono eternamente in Dio.

3.2. L’oggetto dell’intelletto

Sebbene abbiamo già parlato di questo argomento sotto un certo punto di

vista, sarebbe interessante considerarne alcuni altri aspetti che permettono di

vedere a quali conseguenze si potrebbe arrivare. Matteo di fatto lo suggerisce in

maniera piuttosto chiara, considerando l’essere principalmente come riducibile

all’apparire dell’esistenza, oppure, se si vuole, nella dimensione della fatticità.

Nel porre il problema della conoscenza del non-esistente, Matteo parla in maniera

abbastanza evidente della sua posizione sul tema dell’essere stesso e quindi

dell’essenza e dell’esistenza.

La conoscenza umana ha un inizio nella sensibilità, perché infatti «colligit notitiam

rerum corporearum et sensibilium». Accanto a questa tesi, d’altronde comune

alla tradizione filosofica classica, troviamo però un’accentuazione anche decisa

dell’attività dell’intelletto, in quanto questo atto ha un ruolo suppletivo dinanzi

all’insufficienza di atto della cosa materiale o naturale. Si tratta di un’insufficienza

che si manifesta nella sua deficienza di intelligibilità in quanto ontologicamente

non piena, cioè contingente e materiale. Infatti, dice Matteo che l’intelletto conosce

«non ab ipsis rebus aliquid patiendo ut eis vice materiae subdatur» 46 .

Il problema che si presenta a questo punto ha bisogno di una determinata

chiarificazione, nel senso che si deve vedere che la res non è un concetto applicabile

soltanto alle cose materiali e sensibili, ma a tutto ciò che non abbia un

carattere strettamente essenziale. Così, la tesi anteriormente citata non vale solamente

come tesi riferita alla conoscenza del singolare materiale, ma piuttosto ha

a che vedere con l’oggetto stesso dell’intelletto. «Benché nell’intelletto — dice

Matteo — la verità è causata dalle cose in quanto all’origine, non accade lo stesso

per quanto riguarda la conservazione e la continuazione, perché anche quando

le cose scompaiono dalla presenza [fisica] del conoscente, tuttavia rimane la

verità con l’irradiazione della luce increata» 47 . Appare così da un’altra prospetti-

46 QQC, III, 262, 12.

47 QQC, I, sol.1, 215, 31: «Quamvis autem in intellectu causatur veritas a rebus quantum ad

originem, non tamen quantum ad conservationem et continuationem; immo rebus pereuntibus

manet veritas in intellectu, tamen cum irradiatione luminis increati».

216


Daniel Gamarra

va qual è il ruolo attivo dell’intelletto sia che si riferisca alla presentazione dell’oggetto

vero, sia alla sua permanenza, benché l’oggetto sia rappresentazione di

qualcosa di effimero.

L’azione conoscitiva che ha un’origine animica non si limita soltanto all’effettiva

produzione dell’atto del conoscente e alla conservazione della specie, ma

manifesta anche un aspetto palesemente attivo in quanto produce (facit) le species

intelligibiles con le quali l’intelletto conosce. Il successivo adattamento dell’oggetto

all’immaterialità della potenza conoscitiva è dunque un requisito indispensabile

affinché nell’anima esista un termine ultimo intelligibile che adatta

(coaptat) la cosa stessa affinché venga conosciuta dall’intelletto possibile 48 .

A questo punto Matteo in un certo senso abbandona la prospettiva psicologica

o, se si vuole, la chiave psicologica dell’analisi fin qui condotta, al fine di spostare

la sua riflessione verso una dimensione più gnoseologica. In questo momento,

infatti, egli considera la possibilità di una definizione dell’intelligibilità considerata

in sé, oppure la definizione dell’oggettività come costituzione oggettiva nell’ambito

più vasto dell’oggetto dell’intelletto. Siccome la cosa sensibile — quello

che è stato il punto di partenza prima riferito —, nella situazione di cosa in quanto

conosciuta dall’intelletto, rimane senza le condizioni materiali in cui si trovava

ristretta nel mondo, ha un essere meramente intelligibile. Tale intelligibilità combacia

con l’essenza oppure con il non-esistente. L’oggetto dell’intelletto si manifesta

dunque nella coincidenza o concorrenza dell’elemento che viene dall’esterno

con l’attività di carattere prettamente spiritualizzante dei contenuti sensibili

da parte dell’intelletto: «et hoc sufficit ad rationem obiecti. Nam nec re existente,

quidditas ut est in rebus est obiectum intellectus» 49 . Ossia, la cosa esiste nella

realtà con la sua propria essenza che, astratta dall’esistenza, diventa oggetto.

Resta tuttavia da integrare nell’oggetto (non-esistente) l’elemento illuminante,

cioè il rapporto esplicito dell’oggetto (dell’oggettività) al suo esemplare attraverso

l’illuminazione. Si presenta così a Matteo, come d’altronde accade ai pensatori cristiani

che hanno affermato la realtà dell’illuminazione divina come parte integrante

della conoscenza naturale, la necessità di distinguere questa luce dalla luce proveniente

dalla visione di Dio alla maniera dei beati. È interessante la sua tesi nella

quale afferma che l’esemplare eterno non è l’oggetto quietans et terminans della

stessa conoscenza umana, ma che questo oggetto «è l’essenza stessa che viene

concepita dal nostro intelletto ma [solo] riferita all’esemplare divino che tocca la

nostra mente ed ha un carattere efficiente in rapporto con la sua attività. Ed allora

abbiamo la vera notitia delle cose che sono state presentate attraverso i sensi» 50 .

48 QQC, III, 264, 5: «Non igitur patitur anima aliquid a rebus sensibilibus sive corporeis, sed

potius facit ex illis et de illis, et format sibi species aptas et proportionatas secundum exigentiam

organorum et virium, quosque det sibi esse intelligibile et coaptet eam et formet

sive transformet eam in intellectum possibilem, quo est omnia fieri».

49 QQC, I, 213, 24.

50 QQC, I, 214, 30 - 215, 4: «Cum ergo intelligimus alicuius rei quidditatem et suam rationem

definitivam, obiectum intellectus non est ipsa mentis conceptus tantum; nec ipsa quidditas

217


studi

Viene così spiegato da Matteo d’Acquasparta il fatto che le rationes aeternae

fanno parte della conoscenza naturale fino all’estremo che attraverso di esse le

cose possono essere conosciute «anche se non esistono» 51 , giacché l’agire intellettuale

è consono con quello stato assoluto dell’essenza avicenniana, cioè di

un’essenza senza riferimento all’esistenza 52 . Possiamo interrogarci però sulla

natura dell’oggetto in quanto tale e come oggetto primo dell’intelletto: è l’essenza,

è l’ente…? Secondo la tesi di Avicenna, Matteo afferma che ciò che per

primo appare davanti all’intelligenza è l’ente senza nessuna determinazione.

L’ente in questo senso non è né atto né potenza, né presente né futuro. Vale a dire

che l’ente è in un certo senso superiore, oppure più esattamente trascendentale

dinanzi ad ogni contrazione specifica, così — e questo è assai significativo —

l’ente che viene considerato come oggetto primo è «l’essenza nell’intelletto,

nell’esemplare eterno, benché non esista nelle cose [con esistenza attuale], perché

neanche l’esistenza fa parte del suo contenuto» 53 .

Matteo distingue, da una parte, le possibili determinazioni dell’ente e dall’altra

quello che nell’ente c’è di accidentale, inclusa l’esistenza stessa. L’esemplare

eterno appare così nell’oggetto separato e distinto, vale a dire, la connessione fra

ragione eterna e oggetto conosciuto traccia una sorta di percorso fra l’essenza

eterna e l’essenza nel suo stato oggettivo. In questo senso, l’essenza eterna è

garanzia di verità perché l’oggetto conosciuto si libera dalla variabilità della contingenza.

L’essere in quanto ricondotto al concetto di esistenza e fatticità, in

qualche modo, scompare dall’ambito dell’intelligibilità perché l’esistenza viene

a trovarsi nella situazione d’indigenza metafisica della creatura, mentre se c’è un

qualcosa di metafisicamente solido nella cosa creata, questa è l’essenza che, sia

tantum, quae non est in rerum natura; nec exemplar aeternum est obiectum quietans et

terminans, quia hoc est solum obiectum intellectus beati et beatificans. Sed est quidditas

ipsa concepta ab intellectu nostro, relata tamen ad artem sive exemplar aeternum, in quantum

tangens mentem nostram se habet in ratione moventis. Et inde concipimus rerum veracem

notitiam, et ministrata materia ab inferiore per sensus, inde fluunt principia omnium

artium». Fra l’altro appare in questo testo in modo acuto il penetrante tema dell’inquietudo

agostiniana.

51 QQC, I, 208, 12: «Apud intellectum nostrum sunt impressae rationes rerum aeternae et

inmmutabiles, sicut ‘omne totum est maius sua parte’ et ‘de quolibet affirmatio vel negatio’.

Sed illae rationes non dependent a rebus; ergo per illas rationes rebus non existentibus

potest intelligere».

52 QQC, I, 212, 15: «Si vero loquamur de intellectu quantum ad operationem illam simplicem,

absolutam et puram, qua apprehendit et concipit rerum quidditates absolutas, sic dico quod

ab istius modi cognitionem rei existentia non requiritur immo nihil facit existentia vel nonexistentia».

Cfr. D.O. GAMARRA, Esencia, posibilidad y predicación: a propósito de una

distinción aviceniana, «Sapientia», 160 (1986), pp. 101-120.

53 QQC, I, 216, 24: «Ut dicit Avicenna, primum quod occurrit intellectui est ens; […]. Sed

illud ens non est aliquid determinatum, nec actu nec potentia, nec praesens nec futurum,

nec homo vel equus et huiusmodi, sed ens quod est superius ad omnia ista. Et ego dico

quod quidditas illa est ens in intellectu, in exemplari aeterno, licet non sit ens actu in rebus,

quia nec hoc est de intellecto suo».

218


Daniel Gamarra

da un punto di vista metafisico sia da un punto di vista gnoseologico, dev’essere

ricondotta all’idea eterna. L’oggettività è quindi una situazione allo stesso tempo

logica e metafisica: logica in quanto è pura presenza mentale di un aliquid non

determinatum, e metafisica poiché il rapporto con la verità eterna le conferisce

una dimensione trascendente.

Allo stesso tempo però si potrebbe definire la realtà oggettiva, a seconda degli

elementi che presenta Matteo, come un momento riduttivo della realtà in generale,

oppure come costituzione di un ambito trascendentale (diverso da una considerazione

trascendente), nel senso che quello che in Matteo è trascendentale viene

dato da una certa costituzione oggettiva e non tanto dalla considerazione trascendentale

della verità e dell’ente. Infatti, la considerazione dell’idea nell’intelligenza

finita fino al suo confronto e mantenimento nell’idea eterna (reale), come momento

metafisico fondante, significa che tutta la realtà è stata considerata come idea.

Si potrebbe comunque argomentare in senso contrario prendendo spunto dalla

considerazione della sensibilità — come abbiamo anteriormente visto — in quanto

connessione intuitiva del conoscente con la realtà.

D’altronde, è anche vero — come pure abbiamo visto — che tale rapporto sensibile

ha un valore originario ma non conclusivo. Esso apporta un certo materiale,

benché rimanga isolato in quanto considerato solamente come punto d’inizio, ma

non come un qualcosa che esige un certo ritorno affinché sia conosciuto nella sua

profondità essenziale. Il sensibile è esistente e come tale contingente, il che vuol

dire che conoscere la verità implica l’abbandono della finitezza in maniera assoluta.

Si apre nella filosofia di Matteo d’Acquasparta la via della trascendenza in

maniera piuttosto chiara, ma non tanto quella della considerazione trascendente

del mondo in quanto implicata nell’esistenza del mondo stesso. La comprensione

intellettiva non ritorna a quel punto di partenza con la cui intellezione si potrebbe

capire la verità. Il sensibile viene abbandonato nella misura in cui la certezza e la

pienezza formale dell’idea eterna si uniscono con l’atto dell’intelligenza finita.

Questo tralasciare la finitezza (anche l’immediatezza) impedisce però in

maniera quasi totale l’abbandono dell’oggettività come definizione oppure come

elemento metafisicamente significativo, o se si vuole, come quello che la realtà

diventa nel momento in cui viene conosciuta. Questo perché tale situazione libera

la potenza intellettiva in una sola direzione, cioè in quella della pura trascendenza,

ma non in quella dell’assunzione trascendente del reale. Quest’ultimo

passo non è infatti possibile senza una percezione della differenza fra finitezza in

quanto tale e partecipazione finita dell’essere nel finito. Non si tratta di una specie

di calcolo metafisico, ma soprattutto di trovare il mezzo per non portare alla

categoria di realtà quello che è soltanto una categoria appartenente alla presenza

mentale in quanto mentale. Invece, la percezione di questa differenza rende possibile

la considerazione della necessità nel finito e allo stesso tempo la considerazione

del finito come contingente. Il livello qui è metafisico, in Matteo invece

c’è un qualcosa di oggettivo che interviene nella costituzione della necessità dell’essenza.

Questa è necessaria perché reale ed è reale finitamente nel finito, men-

219


studi

tre la necessità della quale parla Matteo è, per così dire, necessità di percezione

della necessità, cioè un eccesso d’intenzione.

Rimane tuttavia il tema dell’incidenza dell’essenza come idea eterna nella

costituzione della verità necessaria. È questo un aspetto non trascurabile per

mantenere collegate le tesi esposte da Matteo. Bisogna qui però fare mezzo

passo indietro. L’oggetto è pienamente oggetto a partire dalla coincidenza di tre

istanze fondamentali: il sensibile, l’atto intellettivo e l’idea sotto la forma

d’illuminazione. Questa triplice composizione dell’oggetto è l’unica possibilità,

secondo le premesse del Nostro, perché ci sia conoscenza in modo assoluto. Qui

appare l’oggetto vero in quanto vero oggetto e in quanto oggetto che è riflesso di

una verità trascendente. Questa triplice composizione è, però, sempre composizione

nell’intelletto. Senz’altro, se si trattasse di una questione gnoseologica, il

punto di vista sarebbe chiaramente questo. Comunque, il problema che si presenta

un’altra volta è appunto quello della considerazione dell’esistenza come un

qualcosa di fattuale, senza profondità metafisica, mentre allo stesso tempo l’essere

potrebbe darsi appunto come fattualità oppure come essenza. Nel primo caso

troveremo un circolo di difficile rottura, nel secondo, un’altra volta, la risposta

già considerata da Matteo.

È vero che l’idea divina completa la verità oppure costituisce il suo fondamento

davanti all’insufficienza della cosa esteriore. L’idea divina perfetta appare

però come contenuto oggettivo nel momento in cui è posseduta dall’intelletto

finito e così in qualche modo continua ad avere la limitazione oggettiva. Ma se

invece questa idea fosse considerata come idea che appartiene soltanto a Dio?

Certamente in questo caso il problema avrebbe una certa soluzione, ma non troverebbe

risposta rigorosa il problema della conoscenza umana, bensì quello della

conoscenza divina. A partire da questa situazione creatasi nella speculazione

gnoseologica di Matteo di Acquasparta, si potrebbe affermare che l’infinitezza e

l’immutabilità dell’idea rimane anche se accade quella specie di traslazione di

soggetto così come si manifesta nel caso dell’idea quando essa è in Dio o quando

essa è nell’intelletto creato.

Di conseguenza, poiché l’idea non è soltanto un essere nell’intelletto umano,

l’oggettività ha un ruolo negativo nel senso che sostituisce l’essenza, poiché quest’ultima

corrisponde perfettamente all’idea. La questione, quindi, della separazione

netta fra essere ed esistenza altro non è se non un movimento di sostituzione

dell’idea con l’oggettività; cioè, poiché l’idea è reale in quanto eterna ed infinita,

l’essere che gli è proprio o è Dio stesso o è oggetto. Il problema sta però

nell’affermare che l’esistenza rende impossibile l’entrata nel regno delle essenze,

se non attraverso il suo annullamento. In questo modo, il limite considerativo ha

un evidente primato davanti alla realtà, allo stesso tempo in cui si propone come

la sua definizione più esatta.

* * *

220


Daniel Gamarra

Abstract: This study concerns the thought of Matthew of Acquasparta (1240-

1302), a thinker who brings significant elements of originality into the scholastic-augustinian

philosophical tradition to which he belongs. In this article the

author addresses the gnoseological problem, in light of the “theory of content”

and of the “links between objectivity and existence”, with the aim of showing

how Matthew of Acquasparta’s philosophical reflection is chiefly characterized

by eclecticism and a sense of measure. Aspecific trait of his gnoseological perspective

is in fact his capacity to maintain a balance between classical aristotelianism

and cognitive theory of augustinian inspiration, a balance that is the

fruit of a synthesis of the aristotelian doctrine of form and St. Augustine’s doctrine

of illumination. According to Matthew of Acquasparta, the conjunction of

the experience of extramental reality with the natural capacity of reason — a

union that reaches its final term in the understanding of the aeternae veritates —

constitutes the necessary condition for there being a cognitive act. At the same

time, the influence of aristotelianism upon his thought also emerges clearly from

the question of the non-existent. Here he shows his profound assimilation not

only of augustinian thought but also of the philosophy of Avicenna, from whom

he takes the distinction between being and essence.

221


222


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 223-240

Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line? *

FERNANDO INCIARTE ∗∗

Sommario: 1. Heidegger’s Theory of Seinsvergessenheit and his Attitude Towards Humanism

and Forschung. 2. Heidegger’s Interpretations of Time, Being, and Substance in Aristotle and

Hegel. 3. Concluding Remarks.

About the same time in which Martin Heidegger was maturing into a philosopher,

Marcel Proust referred somewhere in his monumental Remembrance of

Things Past, to a professor of history at the Sorbonne saying, “he was out of

sympathy with the modern Sorbonne, where ideas of scientific exactitude, after

the German model, were beginning to prevail over humanism” 1 . The time to

which Marcel Proust referred was, of course, that of la belle époque, a century

ago. A quarter of a century later the German model of which Proust spoke was

firmly established almost everywhere in the academic quarters of the Western

world. Whether or not the philosopher Heidegger was ever attached to this

model, the fact is that he sought to keep his own work at an increasing distance

from it without, however, ever attaching himself to the rival model of humanism.

In this respect, the two World Wars were undoubtedly of special significance for

him.

It was only after World War II that, in his letter to Jean Baufret, Heidegger

defined his own position towards humanism in a fully explicit way. He had however

already touched upon the issue of humanism and culture in a rather dramatic

way in the period between the two great wars of our century. This was a period

* Conference at the Catholic University of America, Washington D. C.

∗∗ Philosophisches Seminar, Domplatz, 23, D-48143, Münster. Il prof. Fernando Inciarte, che

ha collaborato più volte con la nostra rivista, è morto il 9 giugno 2000.

1 English translation by C.K. Scott Moncrief and Terence Kilmartin in the Penguin Books,

vol. 2, p. 897.

223


studi

during which Germany, despite its first crushing defeat, was witnessing a revival

of her Classical tradition under the heading of “The New Humanism”, of which

Werner Jaeger’s Paideia was only one, though an outstanding example. In the

purely philosophical field, one may think of Ernst Cassirer’s Philosophy of

Symbolic Forms as a similarly outstanding example. The two attitudes most dramatically

clashed with each other in the famous series of disputes between Ernst

Cassirer and his junior colleague Martin Heidegger that took place in the Davos

of Thomas Mann’s Magic Mountain when Heidegger reproached Cassirer for

inviting man to make himself comfortable in the shelters (Behausungen) of culture

without realizing that it is the genuine task of philosophy, as Heidegger put

it, “to cast man back from the sloth of using the products of the spirit into the

hardship of fate” 2 . As is well known, he eventually went so far as to altogether

reject the title of philosophy for his own endeavours 3 .

Under such circumstances, one may ask what is the point of treating

Heidegger alongside two classical philosophers such as Aristotle and Hegel. The

scope of this question is not limited to the issue of humanism. It bears not only

on Heidegger’s attitude towards culture in general and philosophy in particular,

but on his attitude towards the German model of exact investigation or

Forschung as well. In fact, Heidegger’s motives for mistrusting both models can

be traced back to the same origin. Their common origin lies in the very nature of

metaphysics in the sense given by Heidegger to the term “onto-theology”, i.e. in

the sense in which metaphysics represents a progressive oblivion of being in

favor of beings, of Sein in favor of Seiendes.

I am not going to give a new interpretation of this real or alleged oblivion, nor

am I going to repeat other interpretations. Rather, I will first explain the way in

which Heidegger’s thesis of Seinsvergessenheit is to be considered responsible for

his persistent attitude towards both humanism and Forschung. Then, in the central

part of my exposition, I will draw some consequences of this attitude with regard

to Heidegger’s interpretation of Hegel and Aristotle concerning time, being, and

substance. A third section concludes with some remarks in a more general key.

1. Heidegger’s Theory of Seinsvergessenheit and his Attitude Towards

Humanism and Forschung

Heidegger’s attitude to both cultural humanism and exact investigation was

rooted in his conviction of the inadequacy of theory vis-à-vis human life in its

2 “Davoser Disputation”, edited as an appendix to Kant und das Problem der Metaphysik in

Gesamtausgabe (GA) I 3, Frankfurt 1991, p. 291.

3 Cf., e.g., “Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens”, in Zur Sache des

Denkens, Tübingen 1969, pp. 61-81. For his own work Heidegger retained at first even the

title “Forschung”, if only in the sense of “phänomenologishe Forschung”, but he gave this

up later on (cf. also note 24 below).

224


Fernando Inciarte

individual as well as historical dimension. The word “theory” is here to be taken

literally, i.e. broadly enough so as to encompass all connotations of “looking at”,

including the Biblical “enticing of eyes” or “Augenlust” (“lust of the eyes”). But,

of course, it was not so much because the Greeks were, as the saying goes,

“Augenmenschen” (“men of eyes”) that they, according to Heidegger,

bequeathed the notion of theory to the Western world. Even during the time of

the Third Reich, Heidegger at least firmly rejected any kind of biologism, naturalism

or, for that matter, racism. If the Greeks were “Augenmenschen”, this was

because of their mental or spiritual attitude — i.e. because of the way in which

being manifested itself to them, and at the same time concealed itself from them.

It is also the way of metaphysics as interpreted by Heidegger.

What is concealed from metaphysics are its own foundations, i.e. the fact that

the essence or sense of being is time. A clear example of this is to be found,

according to Heidegger, in what he once — drawing more on the Scholastic tradition

than on Aristotle himself — called analogia entis. In this tradition, substance

represents the primary meaning of being, its primum analogatum. But

whereas at the beginning the Greek “ousia” was still understood in the full range

of its own connotations, at the end it was reduced to the impoverished notion of

substantia. What the notion of substantia mainly left out was precisely the temporal

connotation of “ousia” (Anwesenheit and Gegenwart, presence and the present)

on which Heidegger, rightly or wrongly, put so much stress. According to

Heidegger, this is already evident in the twist taken by onto-theology into the

timeless and eternal when Aristotle set about finding the most primordial sense

of “ousia” in a unique and — to borrow from Schelling’s critique of Hegelian

Aristotelianism — idle or lazy God (“fauler Gott”) who makes his appearance

only at the end of the system, when nothing more is to be done 4 . It is the same

twist that had already led Aristotle to give pride of place to world-detached theoretical

wisdom over world-orientated practical wisdom, to sophia over phronesis,

to theoria over praxis.

In fact, immediately after World War I, Heidegger started to scourge what he

had been seeking to defend before, viz. the objective and universal validity of

eternal truths and values. After such a catastrophe for Europe in general and

Germany in particular Heidegger came to see in the belief in allegedly pure

objective truths the attempt of human life or Dasein to distract itself from its radically

contingent condition or, as he put it, its facticity. In this respect, no difference

in principle is to be found between humanism and Forschung. The pretensions

to unshakeable results on the part of the latter correspond on the part of the

former to the picture of cultural contents hanging, as it were, on the high wall of

ideal values — as if among them one could choose the fittest ones, as from a collection

of clothes, in order to cover one’s own existential nakedness. Even

Aristotelian virtues, being as they are ktemata rather than chreseis, properties

4 Cf. Münchener Vorlesungen, in Werke (ed. K.F.A. Schelling) X, p. 160.

225


studi

and proprieties rather than praxis proper, represent for him some sort of moral

code, and are by this very fact to be considered but another consequence of the

objectifying drive in metaphysics. The same applies, of course, to the whole

realm of Hegelian objective spirit, substantial Sittlichkeit, or public morality.

Thus, it is not surprising that just as Heidegger never found the way from the

Aristotelian ethics to the Politics, he, similarly, never found the way from the

passions of the Rhetorics to the virtues of the Nicomachean Ethics 5 . Nor is it surprising

that, under such circumstances, to deal with metaphysics ought for him to

be at the same time to retrace its living origins by patiently removing the sediment

accumulated on them by the sheer passing of time and history. In his view,

simply looking back to metaphysics without any destructive intention would

have the same deadly effect as the looking back of Lot’s wife to the doomed city

or that of Orpheus sending Eurydice back to the realm of death as a result of the

same sort of idle curiosity or Augenlust. Thus the constructive aspect in metaphysics’

de-construction — as Heidegger’s expression “Ab-bau” was to be translated

later on as literally as it was appropriately — is not to be taken as objective

reconstruction but, precisely, as appropriation, as An-eignung or, to lean on

Heidegger’s later keyword, as Er-eignung. This was not so much due to any

incapacity for reaching objectivity on the interpreter’s part, but rather to there

not being any objectivity to be reached here after all. For even the now past

metaphysics, when still alive, despite its thrust towards reification, was less of a

closed actuality like those of Hegel’s or even Aristotle’s lazy God, than it was an

open potentiality like time or history.

Now, supposing one should accept Heidegger’s standpoint on this score, the

question arises, on the one hand, as to whether there is — as regards our concern

with the metaphysical past — any alternative between objective validity, and, on

the other, subjective willfulness. The answer to this along Heidegger’s lines

would be to say that, in dealing with its own essential past, philosophy must not

so much bring back (wieder-holen) now dead realities, but rather to bring to light

precisely those living possibilities hidden in metaphysics itself that, for whatever

reasons, were never realized in it. Obviously, such an attitude fits neither the

German model of exact investigation nor that of cultural humanism.

Nevertheless, it is, as a matter of fact, the very attitude with which Heidegger

looked into the metaphysical past. It is something of this sort that I myself intend

to do in the second part of my lecture. More precisely, what I intend to do is to

try to bring to light some of the possibilities Heidegger himself once detected in

Aristotle as well as in Hegel concerning the issue of time and being, and of time

and substance, which he himself never further developed. In other words, I am

going to approach Heidegger himself in the same spirit with which he

approached Aristotle and Hegel or even metaphysics as a whole.

5 W. Marx (Heidegger und die Tradition, Hamburg 1980) is not the only one to find fault

with Heidegger about this.

226


Fernando Inciarte

2. Heidegger’s Interpretations of Time, Being, and Substance in

Aristotle and Hegel

In so proceeding, one may be forced to pay a price: the price of unduly simplifying

— at least from the standpoint of Forschung. This risk has already been

hinted at in the expression “a straight line,” which appears in the title of the present

lecture. It becomes even more evident in the words of a contemporary French

philosopher who, like so many others nowadays in France, has been deeply influenced

by Heidegger. I mean Gilles Deleuze. In his book Différence et Repétition,

Deleuze maintains that from Parmenides to Heidegger “there has never been more

than one ontological proposition: Being is univocal. There has never been more

than a single ontology, that of Duns Scotus...” 6 . Is Deleuze unduly simplifying?

He is, at any rate, playing with the word “univocal”. From Parmenides to

Heidegger, ontology has spoken with only one voice: this seems to be Deleuze’s

contention. And this contention need not be simplistic. For Heidegger’s history of

being has to do with univocity only in the general sense that what philosophers

have said (or voiced) in the past has always been the same (das Selbe), where the

“same” or “sameness” (“Selbigkeit”) has “otherness” (“Andersheit”) not outside

but inside itself — just as identity, according to Hegel, encompasses difference; or

just as, according to Aristotle, the differentia specifica, far from being added to an

identical genus from outside, is nothing else than the latter in its own differentiation

7 . Thus the important thing to ask here, is how it is that all three — Aristotle,

Hegel, and Heidegger — came to say the same thing, and this not despite, but precisely

because of their differences. Consequently, rather than making external

comparisons, it would be more to the point to attempt to repeat the gist of their

thought about being and time in a way that, even if it should fail to coincide completely

with the philosophy of any one of the three, preserves the thing that matters,

die Sache. This is more so as Heidegger’s original intention was not to liquidate,

but to liquidize (“verflüssigen”) or revitalize Aristotelianism in a similar

spirit to that in which Hegel had hinted at when, shortly before his death, he wrote

the following words: “If something ancient is to be renewed, [...] then the form of

the idea given to it by Plato and much more profoundly by Aristotle, is infinitely

worthy of being recollected, also for this reason that the unpacking of it by means

of appropriating it (Aneignung) to the formation of our thoughts is immediately,

not only an understanding of it, but a step forward for science itself” 8 . Hegel went

so far as to say that, for anyone taking philosophy seriously, the best thing to do

would be to teach Aristotle 9 . Now, Heidegger’s own appreciation of Aristotle is

6 Différence et Repétition, Paris 1968, p. 52.

7 Cf. Metaphysics, VII 12.

8 Enzyklopädie, in Werke (Suhrkamp) 8, p. 31: Vorrede 1827. For the translation I am indebted

to D. Dahlstrom.

9 “Würde es ernst mit der Philosophie, so würde nichts würdiger, als über Aristoteles

Vorlesungen zu halten” (Geschichte der Philosophie, in Werke (Suhrkamp) 19, p. 148).

227


studi

not far from that of Hegel 10 who, however, tended rather to minimize distances,

whereas Heidegger, on the contrary, tended to maximize them 11 .

As is well known, Heidegger’s criticism of the Aristotelian and Hegelian conceptions

of time was directed against the idea of a succession of “nows”. In this

he was, to put it mildly, not exactly attacking them on their strongest side. For

Aristotle, the enigma of time already consists not so much — as for St. Augustine

— in that, upon closer examination, the reality of time boils down to a succession

of “nows”, each one of which is is not time or even part of it; rather it consists primarily

in the fact that, although whatever is, only now — now this, now that, and

so on —, there is, nevertheless, only one now, just as, according to Heidegger,

there is, as it were, only one being voicing itself throughout history and, indeed,

identical with its own ever differently voiced history, as opposed to an alleged

hiding itself merely behind its changing manifestations in history. However, the

reason why there is only one now is not that in the putative succession of nows,

one immediately following upon another, it represents the limit between past and

future nows. Just as there is no such immediate succession, there is no such limit

either, except by way of abstraction 12 . To be sure, we can mark off as many limits

as our historical or physical research or even our everyday orientation in the

world may require: for instance, just that moment between Coriscus still being in

the Lyceum and his starting to go to the marketplace; or between Coriscus still

going in that direction and his arrival there. There is no difficulty in accepting as

many “now” — limits as one wants as long as one is engaged in practical business

or appraisals, including scientific ones — as historians do, when they date,

say, the end of a war with the signing of a peace treaty, even though the shooting

is still going on, or as physicists do when they dismiss computational errors as

being negligible with respect to the purpose in hand. The difficulty with, or rather

10 As in the case of Hegel the evidence is too profuse to be accounted for here. For the purpose

of this paper, centered on the problem of time from the Physics onwards, the following

words of H.-G. Gadamer on occasion of the discovery of Heidegger’s Aristotelian programmatic

text of 1922 (the primordial cell of Sein und Zeit) are instructive: “… Das

bedeutet, daß den jungen Heidegger damals mehr als die Aktualität der praktischen

Philosophie ihre Bedeutung für die Aristotelische Ontologie, Metaphysik, beschäftigt. Das

6. Buch der Nikomachischen Ethik erscheint in dieser Programmschrift eigentlich mehr als

eine Einleitung in die aristotelische Physik” (H.-G. GADAMER, Heideggers ‘theologische’

Jugendschrift, in Dilthey-Jahrbuch, 1989, p. 231: “Die Wiederaufgefundene ‘Aristoteles-

Einleitung’ Heideggers von 1922” edited by H.-U. Lessing, p. 266. Both Gadamer’s

Introduction and Heidegger’s text are included in the same issue of the Jahrbuch, pp. 228-

234 and 235-274 respectively).

11 Cf., e.g., Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA II 21: “philosophisch verstanden wird

die durch Aristoteles grundgelegte und in Hegel vollendete philosophische Logik nicht

gefördert durch weitere Sohn- und Enkelschaft, um philosophisch weiterzukommen bedarf

es eines neuen Geschlechtes”.

12 Cf. my article Aristotle and the Reality of Time in “Acta philosophica” 4 (1995) pp. 189-

203.

228


Fernando Inciarte

the very impossibility of objectively pinning down the real “now” (as opposed to

any such given abstract “now”) only becomes apparent at the philosophical level.

Already in his Physics, Aristotle had shown the insurmountable difficulties

involved in pinning down the instant of change — not only the transition from

motion to rest and vice versa, but also more general forms of change. The difficulties

are rooted in the very nature of continuity, as distinct from both contiguity

and closest neighborhood. If time, like movement, is continuous, then the very

notion of contiguity (haptomenon) — and all the more so that of closest neighborhood

(ephexes) — is misapplied when what is involved is not a question of

practice, scientific or otherwise, but a philosophical or, rather, metaphysical theory

of real time. And since real as opposed to abstract or extended time is no

magnitude at all, the very notion of succession, even that of a continuous succession,

is misapplied here as well 13 .

The upshot of all this is that in rerum natura, which includes human history in

the sense of res gestae (not in the sense of recorded history), there can be only one

“now”. And this is the true enigma of time. For it then seems as if one ought to be

able to infer from this that, to take Aristotle’s example, the Trojan War is still

going on. But it only seems so 14 . Likewise, it is a non sequitur to infer with the

Sophists from the fact that Coriscus’s being in the Lyceum is not the same as his

being in the market place that it is not the same Coriscus who is now here and then

there. Here, the analogy drawn by Aristotle between the only one “now” of real

time and the identical substance despite or rather because of the different states

into which it itself is continuously changing has been often overlooked. And it is

not unlikely that it was Heidegger’s own overlooking of this analogy which lay at

the root of some of the difficulties he encountered when writing the then pending

third section of the first part of Being and Time, and which ultimately forced him

to abandon continuation of that work. One year before Heidegger’s death, however,

in 1975, a series of lectures were published which he had delivered in Marburg

on the same topic shortly after the appearance of Being and Time — a series which

is also important for the light it sheds on the development of Heidegger’s views on

Aristotle’s and Hegel’s treatment of time. Let me explain this.

Less than two years before the publication of Being and Time, Heidegger

could still write that Hegel’s treatment of time in the Philosophy of Nature “kills

(totschlägt) the proper content of the Aristotelian interpretation, putting it, as it

were, on ice, and leaving purely formal and empty results in its place” 15 . But,

two years later, the series of lectures just mentioned already has a totally different

ring to them. Thus, after having raised the question, “to what extent is time

itself the condition of the possibility of Nothingness as such?” 16 , Heidegger con-

13 Cf. Physics, III 6, 206a33-b2.

14 Ibid., IV 11, 219b18-22.

15 Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA II 21, p. 266.

16 Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA II 24, p. 443.

229


studi

cludes: “In the end (one has to acknowledge) that Hegel was on to a fundamental

truth when he said that Being and Nothing are the same thing…” 17 . And with a

sentence which anticipates further developments in his thought he adds: “We are

not sufficiently prepared to enter into this darkness. It is only by going back to

(the enigma of) time that it will be possible to cast some light on the interpretation

of being” 18 . Heidegger was then about to reverse his first attempt at regaining

the original sense of being and, taking time now not as his point of departure

but rather as his destination, he set out in a direction that was ultimately to lead

to the notions of “Ereignis” and of the history of being.

The preceding quotations may suffice as evidence grounding a two-fold contention:

first, that even after the Kehre Heidegger continued his search for the

meaning of being in the direction originally laid down by Hegel’s concept of

negativity as the identity of being and nothingness; secondly, that the concept of

negativity, once so defined, provides the key to understanding Aristotle’s analogy

between the one and only ever-changing “now” and the substance (ousia) of the

Physics, which Heidegger himself interpreted as movement or mobility

(Bewegtheit) in the sense of an unlimited or imperfect act (energeia ateles) 19 . So

in his essay on Aristotle’s notion of physis published in 1958 in Il Pensiero, but

written already in 1939, Heidegger paraphrases Hegel in order to convey the

meaning of physis as Bewegtheit 20 or limitless actuality by saying: “All living

things are in the process of dying as soon as they start to live” 21 . This is but the

sadness that, as Hegel put it 22 , haunts the whole of nature. The identity of being

and nothing is, in effect, the identity of coming-to-be and passing-away; that is

to say, it is not just a passing-away after having come-to-be, but coming-to-be

and passing-away coinciding in the one and only one unlimited “now” in which,

unlike the many “nows” as mere limits of time at which nothing occurs, all

things do occur. Thus, at the very beginning of the Science of Logic, under the

heading “Moments of Becoming”, Hegel writes: “Becoming is in this way in a

double determination. In one of them, nothing is immediate, that is, the determination

starts from nothing which relates itself to being, or in other words changes

into it; in the other, being is immediate, that is, the determination starts from

being which changes into nothing: the former is coming-to-be and the latter is

ceasing-to-be. Both are the same, becoming…” 23 . Thus, it is not surprising that,

when Heidegger — in his efforts to cope with the problems of being and time as

well as of time and being, and after a relatively long period in which he had

17 Ibid.

18 Ibid.

19 Cf. Physics, III 2, 201b31-32.

20 Cf. Vom Wesen und Begriff der Physis. Aristoteles, Physik B,1, in Wegmarken, GA I 9.

21 Ibid., p. 367.

22 Cf. Werke (Suhrkamp) 5, p.140.

23 Hegels Science of Logic I, Humanity Press International, Atlantic Highlands, N.J. 1969, p.

105 f. (Werke, Suhrkamp, 5, 112).

230


Fernando Inciarte

moved from Aristotle to Kant 24 — at last returned to Aristotle in the essay just

mentioned on physis, he did so as already under the sway of Hegel’s notion of

negativity 25 .

Heidegger regards the eight books of the Physics as constituting the original

Aristotelian metaphysics in which the burden of onto-theology had not yet

become so heavy as to crush pre-Socratic (above all Heraclitean) insights into

the essence of nature under its weight. Now, inasmuch as it preserves those

insights, Heidegger’s interpretation of this original metaphysics turns on the

identity of universal passing-away and universal coming-to-be. Thus, at the end

of his essay on the Aristotelian physis, Heidegger comments on fragment 123 of

Heraclitus (physis kruptesthai philei) by saying: “Being loves to hide, what does

that mean? Usually this has been understood to mean that being is almost inaccessible

so that great efforts are needed to bring it out of hiding and to exorcise,

as it were, its love of hiding. Quite the opposite: the hiding belongs to being

itself and that is why it loves it” 26 . These words represent an accurate explanation

of the apeiron-structure proper to time as something from which nothing is

merely hidden — as is the lost umbrella from the distracted professor

(Heidegger’s own example) — except itself from itself, since time itself is outside

itself. It is, in fact, in real time as the unlimited “now” — as opposed to any

given abstract “now”-limit — that the truth of manifestation is originally and

inextricably tied to the untruth of concealment. On the other hand, it has to be

said that Heidegger never explored this Aristotelian-Hegelian path any further,

even after the Kehre. Such an exploration would have led to an interpretation of

Aristotelian time and substance quite different from that of time as a mere succession

of nows or of substance as primum analogatum of being in the sense of

something hiding behind an alleged veil of accidents from which it ought some-

24 “Im Winter 1925/1926 änderte Heidegger in einem dramatischen Bruch den Plan seiner

Vorlesung und gab statt weiterer Aristotelesinterpretationen eine Interpretation der Lehre

von der transzendentalen Einbildungskraft und der Schematisierung” (O. PÖGGELER, Neue

Wege mit Heidegger, Freiburg-München 1992, p. 194). Cf. also D.O. DAHLSTROM,

Heideggers Kant-Kommentar, 1925-1936, in Philosophisches Jahrbuch, 1989, pp. 343-366

as well as D. KÖHLER, Martin Heidegger. Die Schematisierung des Seinssinnes als

Thematik des dritten Abschnittes von “Sein und Zeit”, Bonn 1993.

25 Cf. Hegel. Die Negativität (1938-1939), GA III Abteilung, Unveröffentlichte

Abhandlungen. In the meantime, if only for one semester (Aristoteles, Metaphysik IX 1-3,

summer 1931), he had already lectured on Aristotle’s ousia in a different mood. Cf. O.

PÖGGELER, o.c., p. 232: “In jenen Jahren revidierte Heidegger seine Rezeption der Analogie

des Seins (nämlich der Ausrichtung aller Seinsweisen auf eine leitende Bedeutung) zugunsten

der Erfahrung der Energeia als eines Am-Werke-Seins und somit einer “Geschichte”

[...] So wollte Heidegger fortan nicht mehr weiter akademische Philosophie, sei es in der

Weise Husserls, betreiben...”. Cf. ibid., p. 35: “... wenn dynamis Eignung ist, muß die

energeia als eine Wirklichkeit, die eine offene Möglichkeit in sich trägt, in ihrer Bewegtheit

und mit der Not ihrer Notwendigkeit ein Ereignis sein”.

26 GA I 9, p. 300.

231


studi

how to be exorcised 27 . It must be said as well, however, that even after having

reversed the hermeneutical priority of time over being, Heidegger kept on insisting

on another genuine aspect of Aristotelian time: that just as there can be no

being without man (no Sein without the clearing of Da-sein in the wood of nothingness),

so there can be no time without man; that, to put it another way, man is

not a traveler along a particular path of time but is temporality itself. This, of

course, sounds more like Physics without Metaphysics than Aristotelian metaphysics

proper as the science of ens qua ens. For as the science of ens qua ens

metaphysics seems to banish all forms of negativity from being and to relegate

them instead to the realm of mere thought or to ens ut verum 28 . As a matter of

fact, Hegel himself had already explicitly protested against the exclusion of negativity

from being as such. Again, shortly before he died, Hegel wrote: “It is

therefore said that although nothing is in thought or imagination, yet for that

very reason it is not nothing that is, being does not belong to nothing as such, but

only thought or imagination is this being… that nothing does not possess an

independent being of its own, is not being as such” 29 . The contrary is true

according to Hegel. So, just as, according to both Hegel and Heidegger, one must

not sever being from nothing, so one must not sever ens ut verum from ens ut ens

or being from man (Sein from Dasein) either. In this respect both Hegel’s and

Heidegger’s thought is, in fact, Aristotelian philosophy stripped of the doctrine

of ens ut ens as distinct from ens ut verum. Heidegger himself — like Hegel 30 —

refused to subordinate the latter to the former right from the beginning 31 . But the

situation is a little more complicated than that, both as regards non-being and as

regards truth. For not only does Aristotle say, in a famous passage, on which

Heidegger often commented 32 , that truth is the main meaning of being 33 . He also

sometimes treated non-being on a par with accidents despite the fact that these

are ways of being. And he does it in the very passage in which he explains metaphysics

as the science of being qua being 34 .

Let me make two comments on this. First, if any sense is to be made of the

comparison between, on the one hand, time as the simultaneous coming-to-be

and passing-away of the only one continuous “now” and, on the other, the

27 Cf., e.g., Was heißt Denken?, Tübingen l954, p. 68: “Alles wahrhaft Gedachte eines wesentlichen

Denkens bleibt — und zwar aus Wesensgründen — mehrdeutig. Diese Mehrdeutigkeit

ist niemals nur der Restbestand einer noch nicht erreichten formallogischen Eindeutigkeit,

die eigentlich anzustreben wäre, aber nicht erreicht wurde. Die Mehrdeutigkeit ist vielmehr

das Element, worin das Denken sich bewegen muß, um ein strenges zu sein”.

28 Cf. Metaphysics, VI 4, 1027 b 25-31.

29 Science of Logic, cit., p. 101 f.

30 Cf. note 29.

31 Cf. Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, in Dilthey-Jahrbuch (s. note 10

above), p. 268.

32 Cf., e.g., GA II 21, pp. 170-182.

33 Cf. Metaphysics, IX 10, 1051 b 1.

34 Ibid., IV 2, 1003 b 6-10.

232


Fernando Inciarte

essence (ousia) of all that belongs to nature (David Ross, for instance, dismissed

the whole passage in the Physics as too obviously wrong to be commented on 35 ),

then this is arguably in the sense in which physical ousia is taken to manifest and

hide itself in its changing states 36 . Now, this description corresponds not only to

the notion of physis as developed by Heidegger. It corresponds also to an important

aspect of Ereignis as appropriation, to which I shall now address the second

of my remarks.

At the lecture held in Freiburg in 1957 on identity as the sameness of being

and thought (“to gar auto noein esti the kai einai”) — reprinted in the volume

Identität und Differenz — Heidegger said: “The word Ereignis is taken from an

already evolved language. Er-eignen originally read: eräugen”. Here one can

still hear the German for “eye” — “Auge” — or even its cognate form, “beäugen”,

meaning “to eye something” or “to take a close look at something.” So

Heidegger concludes his series of renderings with “to appropriate in looking”

(“er-blicken, im Blicken zu sich rufen, an-eignen”). And he adds: “Understood in

this way it is just as incapable of being translated as the key Greek term logos or

the Chinese Tao” 37 . Perhaps. But here, wherever the truth of the matter may lie,

the consideration that allows one to discern an intrinsic connection between

Heidegger’s Ereignis and Aristotle’s comparison of “ousia” with the identical

“now” of time — which only conceptually has “nows” different from each other

— is offered immediately after the passage quoted, when Heidegger continues:

“Therefore, the word “Ereignis” no longer refers here to what we usually

describe as some recurrence or happening. It is to be understood as a singulare

tantum. What it says occurs only once (“ereignet sich nur in der Einzahl”), and

in fact not even once (“in einer Zahl”), but is unique (beyond number)” 38 .

As I noted above, Heidegger’s interpretation of Aristotelian and Hegelian

time as a succession of “nows” treated neither of the two on their strongest side.

We have already seen this with respect to Aristotle. The same also applies, however,

to Hegel. Take, for instance, Hegel’s following contention about time: Time

“is the being which, in that it is, is not, and in that it is not, is. It is intuited

becoming; admittedly, its differences are therefore determinated as being simply

momentary; in that they immediately sublate themselves in their externality,

however, they are self-external” 39 . One may take this contention as a paraphrase

of the unlimited “now” which Aristotle compared with the always changing and

only relatively resting physical ousia of Coriscus or of anything else. Such an

35 Cf. Aristotle’s Physics. A revised text with introduction and commentary by W.D. Ross,

Oxford 1960, p. 599.

36 Cf. Physics, IV 11, 219b18 ff.

37 Der Satz der Identität, originally published in Die Albert-Ludwigs-Universität Freiburg

1457-1957. Die Festvorträge bei der Jubiläumsfeier, p. 76.

38 Ibid.

39 Hegel’s Philosophy of Nature, transl. by M.J. Petry, vol. I, London 1970, pp. 229 f. (Werke,

Suhrkamp 9, 48).

233


studi

ousia shows the structure of the unlimited act (energeia ateles) which Heidegger

interpreted as Bewegtheit embracing both movement and resting. For Aristotle’s

definition of apeiron does not read, as it has been sometimes translated 40 “that

which always has something outside itself”. This corresponds rather to the definition

of the perfect or limited. The limits (points, lines, surfaces), taken as in contiguity,

not continuity, are themselves only outside each other just like those

“nows” by means of which we break up the only one continuous “now” into

more or less smaller events in an ultimately futile attempt to control the unique

Ereignis in whose tapestry we are all, as it were, interwoven. Aristotle’s definition

of the unlimited should, of course, read instead: “that of which some part is

always outside” (“hou aei ti exo”, where “hou” modifies “ti”, and not “exo”) 41 . It

is precisely because the moments are not outside each other, but each individual

moment is, as Hegel himself said, outside itself (“sich selbst äusserliche”, “selfexternal”)

that they form a unique and continuous flowing.

So much for potentialities that had perhaps even in Aristotle not always been

fully actualized, but which a sympathetic reading of Heidegger’s interpretations

of Hegel and Aristotle could help to bring, if not fully then at least a little further,

to light. Along these lines one might fairly straightforwardly gain a view of the

traditional notion of substance more orientated towards a temporal rather than to

a spatial model of substance as conceived under the new-Scholasticism, just as

Heidegger once was trying to “liquidize” (but not yet to “liquidate”) the concepts

of scholasticism. I come now finally to some brief considerations of a more general

kind.

3. Concluding Remarks

As radically temporal we too are always outside ourselves and thus vulnerable.

To be sure, all things in the world are alike in being somehow composed of

that enigmatic stuff which is ecstatic time. But we alone are aware of the fact,

and try to escape our fate by compensatory devices such as computation of time

and so on. The result is what we usually call “culture” — from the most primitive

burial rites to the most sophisticated technology, be it beneficial to or

destructive of mankind. Philosophy as such, and metaphysics in particular, forms

a part of such precautionary measures. But inasmuch as we fail to take seriously

our radical temporality and historicity, i.e. the fact that we do not merely consist

in being something (bestehen), e.g. in being a rational animal, but do also properly

ek-sist (ent-stehen), all cultural precautions, humanism included, are,

according to Heidegger, in the end illusory and self-delusive.

40 E.g. as late as 1987 by H.G. Zekl, cf. Aristoteles’ Physik, Griechisch-Deutsch, Hamburg

1987.

41 Physics, 207a1, 8.

234


Fernando Inciarte

“Ek-sistence” is always in the process of starting anew, provided one does not

succumb to routine. Anything that may be said to consist in being something

else, anything that has consistency (Bestand) is always an objective content

(Inhalt). Philosophy, for instance, as a cultural precaution, is full of contents. All

that we can grasp with the help of a definition — man or whatever — is a content.

But time is not a content, nor does man in his historicity consist in anything.

Ek-sisting rather than consisting beings like ourselves are, of course, always

relentlessly getting older and passing away, but at the same time they are always

starting to be in the first place. In other words, man, history, philosophy, being,

are, like time, always repeating themselves; but, like time itself, what they are

always repeating are not closed realities but open possibilities. The title of

Deleuze’s book, to which I previously referred, Différence et Repétition, was

intended to hint at this — only its author completely failed to realize how much

of all this is already to be found in Aristotle, whom he has so maligned in his

book 42 . Similarly, it would perhaps not be false to say that had Heidegger from

the beginning better assessed Aristotle’s and Hegel’s views on time and ousia,

then he would have arrived much earlier at his notion of Ereignis as appropriation.

But this would — at best — be true in a rather irrelevant way: what matters

is not the duration or the length of the way traversed but the traversing itself, a

traversing which is always at the same time a transformation. Thus, at the beginning

of his above mentioned lecture on “Identity”, Heidegger wrote: “In thinking

about something that matters it might happen that, on the way, thought undergoes

some change. So, in thinking of identity, it is advisable to pay less attention

to the content than to the way. The very unfolding of a lecture such as this makes

it impossible anyway to dwell on the content” 43 . Here again, you have the overcoming

of the misrepresentation of real time as an extended line with points succeeding

one upon another in the way Heidegger once interpreted the whole

Aristotelian as well as Hegelian notion of time. However, the overcoming of

such a misrepresentation in the last quotation sounds as if a lecture could never

stick to just one topic. But what was meant was rather the opposite, namely that,

if the topic is a dead one, nobody can stick to it for any length of time, except

outwardly, whereas if the topic is a living one — not a topic at all, as it were, i.e.,

not a pure content — it varies continuously so that one cannot simply return to

the same spot as one can direct his view back and forth along a straight line.

(Etienne Gilson was, incidentally, present at this lecture, having received during

42 Cf. Différence et Repétition, Paris 1965. The main shortcoming of this book lies in the

inability of its author to grasp why, according to Aristotle, the differentia specifica does not

merely express a part of but the whole ousia. In this he was indeed following Scotus’ doctrine

of univocatio entis in the usual sense of this term (cf. note 5 above). As for Scotus’

own inability to cope with Aristotle’s doctrine of ousia in this respect cf., e.g., “quod finalis

differentia erit terminus et definitio, nullo modo potest intelligi, quod tota ratio quidditativa

sit in ultima differentia…” (In IV Sent., d. 11, q. 3, ed. Vivès, n. 47).

43 Der Satz der Identität (s. note 36 above), p. 69.

235


studi

the same ceremony an honorary degree from the University of Freiburg. It was

after this lecture that he remarked: “I have only twice heard philosophy spoken

aloud (en haute voix): once by Henry Bergson and today by Heidegger”). Now,

what to Heidegger as well as Deleuze remained hidden in the metaphysical theory

of ousia — hidden perhaps even to metaphysics itself — was the possibility of

viewing ousia not only in the sense of substance but even in that of essence, as

something transforming itself continuously like time, though, of course, not

essentially. One may bring out the appropriate kind of transformation in terms

borrowed from Aquinas by saying that the change concerns only the ousia as

forma substantialis, whereas the ousia as forma essentialis or eidos (in the sense

of species) remains unchanged. In this, Aristotelian essentialism clearly differs

from any kind of holism for which there are no bounds marked by the different

species beyond which no individual can change and yet remain itself. This reservation

does not go against taking Aristotle’s analogy between real time and substance

in a strong sense. On the contrary. Let us explain this briefly before ending.

Independently of whether time be considered in terms of the history of being

or in terms of the one and only continuous “now”, there are two possible mistakes

that one may make in dealing with time, and if, as in a statement once

derided by Heidegger 44 Hegel thought, time is somehow even the truth of space

then there are also two possible errors one may commit in dealing with space,

the error of thinking that nothing is old, and the error of thinking that nothing is

new. Take the example of a straight line that has been drawn on a blackboard. As

long as it has not been erased, enlarged, or foreshortened, it seems to remain

unchanged as far as its being on the blackboard is concerned. But this is not in

fact the case. Only so long as one fails to take into account the lapse of time, i.e.

the flowing of the one and only real “now,” can one consider the straight line on

the blackboard unchanged. For as soon as one has finished drawing it 45 the line

is, of course, already there, but at each particular moment in time it is only there

then, and not at some later point in time. The line is itself something temporal.

As such, it is, like everything else, changing. Only when regarded in merely spatial

terms can it be said not to have changed. However, nothing is purely spatial.

In this, Aristotelianism — especially with regard to its critique of Anaxagoras

and Empedocles 46 — is Hegelianism and Heideggerianism avant la lettre. A

44 “‘Die Wahrheit des Raumes ist die Zeit’ […] Die umgekehrte These hat Bergson ausgesprochen

[…] Bergson aber wie Hegel vernichten das, was an echtem Gehalt darin liegt,

dadurch, daß sie ihn aufheben, nicht in sicherer Wahrheit, sondern in einer grundsätzlicher

Sophistik, von der überhaupt Hegels Dialektik lebt” (GA II 21, p. 252).

45 Cf. G.E. OWEN, General and Particular, in Proceedings of the Artistotelian Society,

London 1979/80, p. 18: “... an unfinished statue can be a statue, an unfinished circle is not a

circle. Aristotle disregards the difference, even in house-building (Phys. 201 b 11-12) [...]

statements of the form “A is becoming/making a Y” do not carry in their truth-conditions or

entailments any requirement that there must (timelessly) be some particular Y for A to

become/make”.

46 Cf. Physics, VIII 1.

236


Fernando Inciarte

thoroughly unchanging and hence timeless universe is as impossible for Aristotle

as it is for Hegel or Heidegger. The fact of the line changing, however, is not

limited to a particular period of time. Periods of time are always periods of rest:

time frozen, as it were, by the mind, which — by virtue of its retentional as well

“protentional” (Husserl) power to extend or stretch the “now” — is able to transform

time into space, that is to say, that which represents no magnitude at all into

a magnitude. By way of contrast, the fact of the line’s changing depends on the

fact that real time as the unique “now” does not stop flowing any more than the

universe stops moving, whereas any period of time or, for that matter, of history

is by definition limited and static. A period of time, like the line drawn on the

blackboard, must have a beginning and an end. It is not limitless, apeiron. To put

it briefly, then, the first error would be to deny that, regardless of how late in the

course of its development it might be at a given point in time, the universe is

always new, that in it nothing is ever left behind, i.e., left behind in a past that no

longer exists. In this sense, of course, nothing can be said to be old.

The second error is just the reverse of the first. It consists in proceeding from

the fact that, to take the same example, the straight line remains unchanged in its

career — for, however dull its career, it is like everything else in that it, too, is

always starting afresh — to the conclusion that the line that yesterday I saw on

the blackboard and that I still see there today is not allegedly the same line at all

and, in general, that nothing can be said to be old or aging in any sense whatsoever.

This would be tantamount to denying that Coriscus can at any two points

which we may choose to select within the ceaseless flowing of real time be the

same person, on the grounds that Coriscus-at-the-Lyceum is no longer Coriscusin-the-market-place

— as if the real thing were not the changing Coriscus himself

but rather his unchanging abstract states “Coriscus-at-the Lyceum” and

“Coriscus-in-the-market-place”, or as if the real time were not the only one

“now”, but rather different nows succeeding one upon another. True, if Coriscus

is no longer in the market place, then this state of Coriscus is no longer anywhere,

not even somewhere in the past, since the past does not exist. Therefore,

one cannot even say that it has been left behind, except of course in the sense

that his having been in the market-place has been preserved in the memory of all

those who happen to think of Coriscus’ displacement. But this does not prevent

its being in Coriscus in the sense of having been there. We are so used to the idea

of substance as something that solidly remains in space throughout temporal

change that we scarcely realize the challenge contained in this second error. Due

to a reifying tendency inherent in the spatial representation of substance, we are

naturally inclined to regard the previous stages in the career of whatever we are

talking about as having been left somewhere behind unchanged — like a line

which after having been drawn on a blackboard is still there. It costs us not a little

bit of effort to realize that they are just as little anywhere as, say, the skull of

the young St. Thomas which was allegedly kept in Montecassino while that of

the older St. Thomas had been buried at Toulouse. In other words, whereas there

237


studi

is at least some truth in Hegel’s dictum according to which time is the truth of

space, its converse — viz. that space is the truth of time — has nothing to offer

except the coarse representation of real time (or substance) as a straight line. But

to throw away the idea of the identity of substances “over time” for this reason

— i.e., to abandon the very idea of physical substances altogether — would be

but another way of clinging to the same coarse representation. A physical substance

is, by virtue of its temporality, analogous to a snail carrying along all its

belongings — omnia mea mecum porto — or like a tree that has its annual rings

inside it. It is precisely because nothing is left behind that all things, while constantly

in the process of starting anew, are at the same time always getting older.

Coriscus’s now being in the Lyceum is different, simply by virtue of his previously

having been in the market-place, from what it would have been had he not

been in the market-place.

The same applies to the notions of Ereignis and of the history of being. Just

as it is wrong to say that there is nothing new or nothing old since time is precisely

both passing away and starting to be at once, so it would be equally wrong

to say that, e.g., Aristotle’s, Hegel’s, and Heidegger’s Sache — the thing that

matters for each of them — was each always the same or always different. Either

way we would not be progressing beyond, but rather falling behind, Aristotle’s

analogy between time and substance. For it would be like saying that physical

accidents as well as the happenstance of everyday life or even the different

epochs in the history of mankind do not affect either the essence of things or the

Sache des Denkens; it would be like adding differences to the identical genus

from without and in the process getting only the dead content of eide as general

species (the forma essentialis) instead of the living essence (the forma substantialis),

the soul, or the heart, of the matter. From this standpoint this would be no

less wrong than to say that, from Aristotle or even from Parmenides onwards up

to Heidegger and beyond, the questions or problems of philosophy have

remained the same, and that only the answers or solutions offered in response to

them have been different. Were we to cling to this idea we would still be thinking

in rather straightforward terms of a thoroughly unchanged, extended line — i.e.

of content rather than of a changing path, relying more on a spatial rather than a

temporal model for viewing philosophy and its history. But the fact that not only

the answers, or solutions, but along with them also the questions or problems do

change throughout history ought not to deter one from saying that the Sache des

Denkens is always the same. Otherwise, the history of philosophy would be, as

Hegel put it, but a collection of peculiar opinions.

Since the similarities between Aristotle’s theistic, Hegel’s quasi-pantheistic,

and Heidegger’s atheistic thought do not reflect the repetition of a closed reality

or content but that of an open possibility, the path which leads from Aristotle to

Heidegger via Hegel cannot be said to have started with Aristotle or stopped with

Heidegger. Surely the fact that neither Aristotle’s nor Hegel’s metaphysics was

atheistic is mainly to be attributed to the fact that neither rejected, as did

238


Fernando Inciarte

Heidegger 47 , the ultimate truth of the principle of non-contradiction. It is true that

for Hegel, unlike Aristotle, contradiction is the very soul and essence of anything

that is not in itself dead. But contradiction is not the only force pushing forward

that process in which — if in anything — being consists for Hegel. Just as vital

for the process of being is the striving to overcome that contradiction which lurks

in each one of the several stages of a given life-process — be it that of consciousness

or anything else — with the result that the validity of the principle of noncontradiction

is preserved, if not during the individual stages themselves, then at

least at the end, i.e. in the process as a whole. Whether pantheistically or not, all

forms of productive contradiction — be they in thought, nature, or history — find

their resolution in God. That is why Hegel can close his system with a quotation

from Aristotle without having to take the trouble to comment on it 48 . As Aristotle

put it, without the principle called God nothing would exist at all 49 . To place such

a great emphasis on the negativity of the world is Hegelianism ante litteram. But

is it compatible with Heidegger’s atheistic thought? His not accepting non-contradiction

as a principle at all blocked the way of onto-theology after all. But perhaps

the resulting thought only appears atheistic because Heidegger preferred to

embrace the contradiction involved in accepting only the ultimate Heraclitean

physis-logos till the very end, in the belief that the miracle of being thus becomes

all the more conspicuous; in other words, because he preferred to go on wondering

at the fact that there should be something rather than nothing instead of asking

why there is something and not nothing, this latter being — as he put it — still a

metaphysical question, and the ultimate one at that; because, let us say, he preferred

to peer over the abyss (Ab-grund) rather than to search for some final

ground — lest the source of all philosophy, wonder, should disappear.

Somewhere else in his Remembrance of Things Past, with which I started,

Marcel Proust wrote: “An artist has no need to express his thought directly in his

work for the latter to reflect its quality; it has been said that the highest praise of

God consists in the denial of him by the atheist who finds creation so perfect that

it can dispense with the creator.” 50 Heidegger’s attitude towards religion is less

clear-cut than that. The ambiguity ranges from the almost Satanic lifting of the

hand against God — which Heidegger attributed to philosophy even at the time

in which he considered himself to be doing philosophy — to something perhaps

quite the opposite of this 51 . Who knows whether somehow — behind his giving

47 Cf., e.g., GA II 33, pp. 198 f. (taking into account that for Aristotle, Protagoras was the

main opponent of the principle of non-contradiction).

48 Cf. Enzyklopädie, par. 577, in Werke (Suhrkamp) 10, p. 395.

49 Cf. Metaphysics, IX 8, 1050 b 19, XII 6, 1071 b 55 f.

50 Ibid., p. 430.

51 Cf., e.g.: “Jede Philosophie […] muß […] gerade dann, wenn sie eine ‘Ahnung’ von Gott

hat, wissen, daß das von ihr vollzogene sich zu sich zurückreißen des Lebens, religiös

gesprochen, eine Handaufhebung gegen Gott ist. […] atheistisch besagt hier: sich freihaltend

vor verführerischer, Religiösität lediglich beredender, Besorgnis” (Phänomenologische

239


studi

up of not only any cultural way of transforming the thingness of things into the

objectivity of objects including exact research, metaphysics, and finally even

philosophy as a whole — there did not lie something like Hölderlin’s complaint,

viz. “zu lang ist alles Göttliche dienstbar schon,” i.e., the sadness about the

instrumentalizing of the divine “since long, too long ago,” which Heidegger himself

reckoned to the Frömmigkeit des Denkens qua Dankens, to the piety of

thinking qua thanksgiving or gratitude. But this does not remove the ambiguity

of Heidegger’s thought as regards the issue of atheism; it rather makes it

inevitable 52 . On the other hand, I have in no way been claiming that the objectifying

method of Forschung, or research proper to the historiography of philosophy,

should be forced to yield pride of place to something as questionable (fragwürdig)

as the history of being. Indeed, were one to forsake the former for the

latter, one would be in even less of a position to do justice to Seinsgeschichte

itself 53 . All that I have been suggesting is that the model called by Marcel Proust

the German model of exact investigation represents a more historical than philosophical

approach to the history of philosophy, and that the concern with the history

of being possibly represents, by contrast, a more philosophical than historical

approach.

* * *

Abstract: Per quanto riguarda lo studio storico della metafisica, Heidegger rifiuta

sia il modello tedesco di ricerca esatta (Forschung) che quello dell’umanesimo

culturale. Invece, Heidegger propone che la filosofia, nel trattare il proprio passato

essenziale, deve soprattutto cercare di mettere in luce le possibilità nascoste

nella metafisica che prima non siano state trovate. Heidegger esegue con questo

spirito la sua interpretazione di Aristotele e di Hegel. In questo articolo si tenta di

esaminare il pensiero dello stesso Heidegger e della sua interpretazione di

Aristotele e di Hegel sotto la stessa luce per quanto riguarda gli argomenti dell’essere,

del tempo e della sostanza. Questo metodo si distacca da quello della

Forschung offrendo un modello più filosofico che storico per l’interpretazione

appunto della storia della filosofia.

Interpretationen zu Aristoteles, in Dilthey-Jahrbuch (s. note 10 above), p. 246, note 2. Cf.

also the quotation in note 25 above).

52 Cf. notes 26 and 51 above.

53 To take only one example: it can be shown that Heidegger’s notion of Aristotelian energeia

is defective inasmuch as it takes into consideration only the aspect of manifestation (“sich

zeigen in Anwesenheit”) and not that of (perfect) activity. But with regard to Heidegger’s

reversal of the priority relation between actuality and potentiality, his was at least a productive

error.

240


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2- PAGG. 241-265

La question du dualisme anthropologique. Une analyse

d’après Robert Spaemann

PAULIN SABUY *

Sommario: 1. Le problème. 1.1. L’actualité du problème. 1.2. La radicalisation de la subjectivité.

1.3. L’hétérogénéité de l’expérience fondamentale de l’homme. 2. Quelques tentatives de

solution. 2.1. J. de Finance. 2.2. Ricœur. 3. L’approche anthropologique de Robert

Spaemann. 3.1. L’inversion de la téléologie. 3.2. L’être comme Selbstsein. 3.3. La non-identité

essentielle. 3.4. La raison, forme de la vie. 3.5. L’être de la personne et la liberté. 3.6. Au

delà de l’objectivation du langage. 4. Conclusions.

1. Le problème

Le problème du dualisme anthropologique a quelque chose à voir avec l’hétérogénéité

fondamentale de l’expérience humaine. En effet, nous sommes partagés

entre le dynamisme de nos penchants naturels, qui tendent à s’exprimer immédiatement,

et un certain intérêt à les différer, quand nous en prenons conscience

comme tels. La question de la fondation de l’unité de l’homme devient ainsi une

préoccupation principale de l’anthropologie. En fait, elle a accompagné le cheminement

de la pensée philosophique dès le commencement 1 .

* Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma

1 Aristote, par exemple, considérait que, par rapport aux facultés de l’organisme humain, la

raison vient tyrathein, “du dehors” (De la génération des animaux, 736 b ). Cette affirmation

fut à l’origine de la controverse qui opposa Thomas d’Aquin aux avveroïstes, au XIII e

siècle. Ce dernier adopta une démarche qui, mettant l’accent sur les conditions d’exercice

de la rationalité — «Hic homo intelligit», observait-t-il —, lui permit d’affirmer: «Id quo

intelligimus [est] forma corporis physici», ou encore: «Intellectus [est] potentia animae,

quae est actus corporis» (De unitate intellectus. Contra averrhoistas, respectivement nn.

61, 11 et 12). Il repoussait, de cette façon, la position de ses adversaires qui eux, partant du

contenu des actes de la rationalité et, donc, de leur “autonomie” par rapport aux facultés de

241


studi

1.1. L’actualité du problème

L’actualité de ce problème tient notamment au fait que certains auteurs

contemporains,

soucieux d’éduquer aux valeurs, restent sensibles au prestige de la liberté, mais la

conçoivent souvent en opposition, ou en conflit, avec la nature matérielle et biologique,

à laquelle elle devrait progressivement s’imposer. A ce propos, diverses

conceptions se rejoignent dans le même oubli du caractère de créature de la nature

et dans la méconnaissance de son intégralité. Pour certains, la nature se trouve

réduite à n’être qu’un matériau de l’agir humain et de son pouvoir: elle devrait

être profondément transformée ou même dépassée par la liberté, parce qu’elle

serait pour celle-ci une limite et une négation. Pour d’autres, les valeurs économiques,

sociales, culturelles et mêmes morales ne se constituent que dans la promotion

sans limite du pouvoir de l’homme ou de sa liberté: la nature ne désignerait

alors que tout ce qui, en l’homme et dans le monde, se trouve hors du champ

de la liberté. Cette nature comprendrait en premier lieu le corps humain, sa

constitution et ses dynamismes: à ce donné physique s’opposerait ce qui est

“construit”, c’est-à-dire la “culture”, en tant qu’œuvre et produit de la liberté. La

nature humaine, ainsi comprise, pourrait être réduite à n’être qu’un matériau biologique

ou social toujours disponible. Cela signifie, en dernier ressort, que la

liberté se définirait par elle-même et serait créatrice d’elle-même et de ses

valeurs. C’est ainsi qu’à la limite l’homme n’aurait même pas de nature, et serait

à lui-même son propre projet d’existence. L’homme ne serait rien d’autre que sa

liberté! 2 .

Ce diagnostic de l’Encyclique Veritatis splendor sur la situation du concept

de nature dans certains courants de la philosophie et de la théologie morale

montre l’importance d’une nouvelle réflexion sur cette notion, et particulièrement

en rapport avec l’idée de personne. Toute la question tient dans l’affirmation

suivante: l’homme en tant qu’il se caractérise par la liberté ne peut pas être

considéré en termes de nature; il n’y aurait pas à proprement parler une nature de

l’homme: la personne est autre chose que la nature.

Mais, est-il nécessaire de cesser de se considérer comme des êtres naturels

pour s’affirmer comme des personnes? Comment faut-il concevoir la notion de

nature pour qu’il soit légitime de parler d’une nature humaine et, par conséquent,

d’une nature de la personne? Voici quelques unes des questions qui pourraient se

l’organisme, situaient la raison hors de l’individu et considéraient qu’elle devait être la

même pour tous les hommes (cfr. SIGER DE BRABANT, In III De anima, q. 11, lignes 4-5).

Cette position était, aux yeux de saint Thomas, incompatible avec la foi chrétienne.

Ce problème, comme on va le voir, se posera encore une fois, en des termes nouveaux, à

partir de Descartes.

2 JEAN-PAUL II, Lettre Encyclique Veritatis splendor, n. 46. C’est nous qui soulignons.

242


Paulin Sabuy

poser et que Spaemann affronte explicitement 3 . Il n’est pas le seul à le faire. A

vrai dire, il s’agit là d’un problème d’actualité — je viens de le relever — du

moment qu’il en va notamment de la fondation même des droits de l’homme 4 .

Ainsi, on se demande, par exemple, s’il est juste de parler des droits de l’homme

ou s’il est plus exact qu’on dise les droits de la personne. Il se pose alors des

questions comme celles-ci: Les enfants non encore nés ou les moribonds inconscients

sont-ils aussi des personnes? Peut-on parler, en toute rigueur, des droits —

au sens de droits inaliénables et inconditionnés — dans de tels cas, alors même

que ces êtres n’ont pas la capacité d’entrer en rapport avec d’autres, sur le mode

du discours rationnel qui caractérise les personnes? Ne s’agirait-il pas, dans le

meilleur des cas, de droits au sens large; un peu comme on parle de droits des

animaux qui sont toujours sous tutelle des hommes, ou si l’on veut, peut-être

dans un degré supérieur, mais pas de droits de l’homme, au sens propre, c’est-àdire

au sens des droits de la personne? On en vient ainsi à la nécessité d’une

caractérisation de la personne. Qu’est-ce que la personne, qui est personne?

1.2. La radicalisation de la subjectivité

Le problème du dualisme de la personne et de la nature est particulièrement

aigu dans le courant de pensée qui cherche à définir la personne sur la base de la

seule intériorité, c’est-à-dire en partant de l’autoconscience. Cette tradition se

rattache aisément à la distinction cartésienne res cogitans-res extensa 5 . Selon

3 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige. Aufsätze zur Anthropologie, Piper,

München 1987, Avant-Propos, p. 8.

4 «Die gedanklichen Bemühungen um den Personbegriff schienen bisher von einem eher

theoretisch-akademischen Interesse zu sein. Das hat sich im Lauf der letzten Jahre auf unerwartete

Weise geändert. Seit Boethius hatte “Person” als ein nomen dignitatis, also als ein

Begriff mit axiologischen Konnotationen gegolten. Seit Kant wurde er zum zentralen

Begriff bei der Begründung von Menschenrechten.

In den letzten Jahren aber hat sich seine Funktion umgekehrt. Der Personbegriff spielt

plötzlich eine Schlüsselrolle bei der Destruktion des Gedankens, Menschen hätten, weil sie

Menschen sind gegenüber ihresgleichen so etwas wie Rechte. Nicht als Menschen sollen

Menschen Rechte haben sondern nur, soweit sie Personen sind. Nicht alle Menschen und

nicht Menschen in jedem Stadium ihres Lebens und jeder Verfassung ihres Bewußtseins

sind, so wird uns gesagt, Personen» (R. SPAEMANN, Personen. Versuch über den

Unterschied zwischen Etwas und Jemand, Klett-Cotta, Stuttgart 1996, Introduction, p. 10).

5 P. RICOEUR fait la constatation suivante: «La compréhension des rapports de l’involontaire

et du volontaire exige donc que soit sans cesse reconquis sur l’attitude naturaliste le Cogito

saisi en première personne.

Cette reconquête peut bien se réclamer du Cogito de Descartes; mais Descartes aggrave la

difficulté en rapportant l’âme et le corps à deux lignes hétérogènes d’intelligibilité, en renvoyant

l’âme à la réflexion et le corps à la géométrie: il institue ainsi un dualisme d’entendement

qui condamne à penser l’homme comme brisé […].

La reconquête du Cogito doit être totale; c’est au sein même du Cogito qu’il nous faut

243


studi

cette vision anthropologique, la personne est référée surtout, ou même exclusivement

au fait que nous avons l’expérience de nous-mêmes comme pensants,

comme ayant conscience d’être. Et si on adopte une démarche empirique, c’està-dire

si l’on conditionne la reconnaissance de la personne à la manifestation

actuelle de la conscience, l’opposition entre être humain et personne se trouve

définitivement établie. C’est ce que font, à la suite de John Locke, certains

auteurs dont Spaemann a fait ses interlocuteurs 6 . On en tire alors diverses conséquences

dont celle, pire entre toutes, qui admet la distinction entre personnes

actuelles et personnes potentielles 7 .

Les difficultés d’une telle position devraient être évidentes. Si on se rappelle

que “personne” est, à l’origine, l’expression d’une dignité ontologique, parler de

“personnes potentielles” pose le problème de l’actualisation de cette dignité.

Cela, en pratique, revient à établir un critère conventionnel de reconnaissance,

qui livrerait, eo ipso, les “personnes potentielles” au pouvoir des “personnes

actuelles” (qui seraient les seules à établir ce critère). Un tel critère pouvant toujours,

en principe, changer, il s’en suit que le rapport entre les deux “catégories”

de personnes relèvera d’une certaine “tyrannie” des uns sur les autres, surtout

quand il est question du droit fondamental à la vie. Et, au bout du compte, c’est

l’idée même de personne qui s’en trouverait détruite.

La distinction entre “personnes potentielles” et “personnes actuelles” comporte,

donc, une insuffisance théorique grave. Celle-ci vient d’une mauvaise

approche du problème du dualisme de la personne et de la nature, ainsi qu’on

va le voir. Or il ne s’agit pas d’une simple discussion académique. On le sait,

cette question ne manque pas de retombées pratiques, notamment quand il

s’agit de prendre position face aux problèmes concernant le droit à la vie des

êtres humains dans certaines situations. Qu’on pense à l’avortement, à l’euthanasie,

au jugement à porter et à l’attitude à adopter face aux phénomènes d’extermination

des masses, d’épurations ethniques etc. Considérer les droits des

êtres de notre espèce, quand ceux-ci ne disposent pas de l’usage actuel de la

raison (ou de la parole), dans le sens des “droits” reconnus aux animaux, ou en

général à la nature non humaine, nous répugne. Et ce n’est pas une question de

tabou; il ne s’agit pas non plus d’un chauvinisme d’espèce, ainsi que Singer le

suggère 8 .

Parfit, quant à lui, va jusqu’à affirmer que l’on ne peut pas proprement parler

retrouver le corps et l’involontaire qu’il nourrit» (Philosophie de la volonté, vol. I, Aubier-

Montaigne, Paris 1949, pp. 12-13).

Le diagnostic de Ricœur me paraît tout à fait juste. Mais, en ce qui concerne la voie de

solution qu’il propose, il y a lieu de soulever la question suivante: Et si ce n’était pas au

sein du Cogito qu’il faut chercher une sortie à l’impasse du Cogito (cartésien)?

6 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 10. Il s’agit notamment de Peter Singer et de Derek

Parfit.

7 Cfr. P. SINGER, Questions d’éthique pratique, Bayard, Paris 1997, pp. 137ss.

8 Cfr. ibidem, p. 61. Cet auteur emploie le terme “spécisme”.

244


Paulin Sabuy

d’une personne même dans le cas d’un homme endormi 9 , corroborant ainsi la

position de ceux qui voient dans la personne une dignité liée à un état de l’homme,

au lieu d’y voir une dignité véritablement ontologique.

Si être personne signifie qu’on rassemble en soi un certain nombre de qualités,

cela voudrait dire que la personne est un état, un stade par lequel passe un

être humain. Un tel état ne correspondrait, en toute rigueur, qu’à un homme

éveillé et conscient de soi.

C’est cela le problème du dualisme de la personne et de la nature. L’homme

est tour à tour exalté et humilié. Quand on le considère en tant que “personne”,

on affirme sa grande dignité. Et, en même temps, dans certaines situations, on est

prêt à le réduire, au rang d’un simple objet de la nature.

1.3. L’hétérogénéité de l’expérience fondamentale de l’homme

Cette double considération a quelque chose à voir avec l’expérience de

l’homme, ai-je dit plus haut. En effet, l’expérience fondamentale que j’ai de moimême

est celle d’un être susceptible de prendre de la distance par rapport aux

inclinations. Les penchants que j’éprouve ne dépendent pas de ma liberté. Il est

vrai que je peux provoquer des sensations. Par exemple, je peux provoquer, le

désir de manger en fixant mon attention sur un plat particulièrement appétissant.

Mais l’inclination ou la tendance qui se trouve à la base de la sensation n’est

jamais posée par moi. Le fait de pouvoir provoquer la sensation n’est qu’une

preuve supplémentaire du fait que je garde une certaine distance par rapport à

l’inclination. L’inclination peut ensuite devenir un vouloir, car je connais l’objet

de la tendance comme tel. Ainsi, je peux distinguer nettement les actes qui me

sont possibles grâce à cette capacité de “réfléchir”, c’est-à-dire, les actes qui procèdent

d’une certaine initiative de ma part, et que j’expérimente comme libres,

d’un côté. Et, de l’autre côté, j’expérimente aussi les sensations, qui dépendent

d’un objet extérieur, vers lequel la tendance m’incline, suivant un certain mouvement

d’immédiateté.

Il peut alors se poser le problème du statut ontologique de ces actes, ou des

états correspondants, qui font partie de notre expérience fondamentale, dans le

cadre d’une théorie philosophique sur l’homme. Dans la tradition de la philosophie

analytique, on parle aussi de “prédicats”, pour désigner ces différents états

et qualités que nous attribuons à l’homme, et dans lesquels il fait, tour à tour,

l’expérience d’un certain pouvoir d’initiative et celle de la passivité. Ainsi, par

exemple, selon cette tradition, les prédicats mentaux ou psychiques correspondent

au premier genre et sont attribuables à l’âme (mens), tandis que les prédicats

9 Cfr. D. PARFIT, Reasons and Persons, Clarendon Press, Oxford 1987. Paul Ricœur offre une

bonne vue d’ensemble et une critique des positions fondamentales de Parfit dans son livre

Soi-même comme un autre, Éd. du Seuil, Paris 1990, pp. 156-166.

245


studi

corporels ou physiques sont ceux qui font référence au corps 10 . On remarque un

certain effort de dépassement du dualisme anthropologique au sein de la philosophie

analytique actuelle, qui admet l’attribution à la personne comme telle, des

prédicats non seulement psychiques mais aussi physiques 11 .

La question du dualisme de la personne et de la nature se rattache à ce problème.

Les chances que l’on a de surmonter ce dualisme dépendent de la manière

dont le problème du statut ontologique des événements psychiques et physiques

est résolu, ou mieux encore, de la manière de fonder ontologiquement la double

articulation de l’expérience fondamentale de l’homme.

2. Quelques tentatives de solution

Avant d’analyser l’approche anthropologique de Robert Spaemann, je me

propose, d’examiner, brièvement, la conception de la personne (par rapport à la

nature) qu’ont deux auteurs de langue française: Joseph de Finance et Paul

Ricœur. Le premier se situe volontiers en continuité avec la tradition classique,

tout en restant attentif aux apports de la philosophie moderne, comme on va

bientôt le voir. Le second se réclame d’une phénoménologie herméneutique

pénétrée du souci de fondation ontologique. Pour discuter de leurs positions respectives,

j’analyserai la vision des choses qu’ils présentent dans leurs ouvrages,

non seulement récents et correspondants à la maturité de leur cheminement philosophique,

mais qui, en plus, abordent directement le problème du dualisme

dont il est question ici: Personne et valeur 12 pour J. de Finance, et Soi même

comme un autre pour Ricœur. Mais, ça et là, je me servirai également d’autres

ouvrages de ces auteurs. Par ailleurs, à travers Ricœur, qui se rattache aussi à la

philosophie analytique, j’espère faire apparaître, dans une certaine mesure, l’appréciable

effort de dépassement du dualisme anthropologique qu’on remarque au

sein de cette tradition, et qui est particulièrement vif chez cet auteur.

10 Cfr. P.F. STRAWSON, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, Routledge, London-

New York 1996, pp. 89ss. Voir aussi P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 369.

11 Voir, par exemple, P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 369. Spaemann affirme

notamment: «Seit der berühmten Definition des Boethius, nach der eine Person “das individuelle

Dasein einer vernünftigen Natur” ist, hat die Philosophie die Merkmale zu differenzieren

versucht, aufgrund derer wir bestimmte Wesen “Personen” nennen. Diese Versuche

gehen in zwei Richtungen. Einmal zielen sie auf eine Präzisierung dessen, was bei Boethius

“rationabilis”, “vernünftig” heißt. Vor allem das angelsächsische Denken von Locke bis zur

sprachanalytischen Philosophie der Gegenwart hat eine Reihe von Prädikaten herausgearbeitet,

durch die Personen definiert werden sollen. Strawson sieht es als wesentlich an, daß

Personen Träger mentaler und physischer Prädikate zugleich sind, also nicht bloß “denkende

Dinge” im Sinne Descartes’. (Einzelding und logisches Subjekt. Deutsch: Stuttgart

1972, 134) […] In anderem Richtung der Verständigung über den Personbegriff wird der

soziale charakter des Personseins in den Mittelpunkt gestellt» (Personen, cit., Introduction,

p. 9). C’est nous qui soulignons.

12 J. DE FINANCE, Personne et valeur, PUG, Roma 1992.

246


Paulin Sabuy

2.1. J. de Finance

I. J’ai dit que l’idée de la personne conçue comme un état remonte à la doctrine

cartésienne de deux substances; mais c’est surtout aux présupposés empiriques

des auteurs qui la soutiennent qu’elle doit son actuelle configuration dans

le débat philosophique. En effet, J. de Finance part également de l’intuition cartésienne:

Cogito ergo sum 13 . Il en fait un traitement qui se veut original, bien

entendu. Pour lui, «le sum ouvre le cogito ou plutôt explicite son ouverture. Car

le vrai cogito est un cogito ouvert» 14 . Ainsi, il est en mesure d’affirmer la possibilité,

et même la nécessité d’une notion de “nature humaine” 15 , sans laquelle il

serait difficile, non seulement d’envisager une norme pour la personne 16 , mais

aussi de bien comprendre le sujet humain lui-même 17 . Et il peut conclure: «Il n’y

a pas donc à opposer nature et personne, à refuser les exigences de celle-là au

nom des exigences de celle-ci. La personne n’est rien sans nature et la nature raisonnable

n’existe que dans une personne, dont elle porte en soi la dignité» 18 . Et

un peu plus loin, il ajoute encore: «Le respect des personnes est inséparable du

respect de la nature humaine en elles et il n’y a pas d’amour vrai sans respect» 19 .

II. Ces conclusions sont tout à fait évidentes. Cependant, je trouve que la

démarche suivie par J. de Finance présente quelques difficultés. J’en compte

principalement deux: d’une part, sa manière de traduire le concept d’animal

rationale par “esprit incarné” 20 et, d’autre part, la caractérisation (conséquente?)

de la liberté comme “autodétermination” 21 . En effet, ces notions, qui sont légitimes

en elles-mêmes, doivent être, à mon avis, bien comprises, dans un raisonnement

où l’on cherche à fonder philosophiquement l’unité de l’homme, afin

d’éviter des malentendus.

La notion d’esprit incarné n’est pas adéquate pour traduire celle d’animal

rationale chaque fois qu’elle signifie, en quelque sorte, la rupture de l’unité de

l’homme, ou même simplement son insuffisante formulation. Et c’est le cas,

semble-t-il, chez J. de Finance, qui continue à parler de la “dualité de visées” 22 ,

dans la considération de l’être humain; c’est-à-dire, tantôt du point de vue de «la

participation, [de] la descente de l’idée dans la matière», tantôt du point de vue

de l’émergence, autrement dit, du point de vue de «la montée de la matière vers

l’esprit […], [ ou de la] communication de l’esprit à la matière» 23 .

13 Cfr. ibidem, pp. 48ss.

14 Ibidem, p. 48.

15 Cfr. ibidem, pp. 60ss.

16 Cfr. ibidem, p. 70.

17 Cfr. ibidem, pp. 43ss.

18 Ibidem, p. 69.

19 Ibidem, p. 70.

20 Ibidem, pp. 23ss.

21 Ibidem, pp. 45-46.

22 Ibidem, p. 32.

23 Ibidem, p. 31.

247


studi

Cette dualité de visées ne garantit pas une vision unitaire de l’homme, au delà

d’une certaine alternance du Cogito et de l’anti-Cogito, pour reprendre une

expression de Paul Ricœur 24 . Ainsi, quand on regardera la personne comme un

esprit qui “descend” dans la la matière ou dans la chair, il s’en suivra que la nature

sera, en toute logique, vue comme une limite (extérieure), sur laquelle bute —

en fait provisoirement — sa liberté, conçue comme autodétermination, ou tout au

moins rien n’empêcherait vraiment que l’on en arrive à cette vision des choses. Il

est vrai que la liberté implique une dimension d’autodétermination. Mais la

détermination de soi par soi n’est pas, pour autant, indépendante de ce qui, dans

le soi, précède le moment de son “expansion” et le rend possible. La conscience

de soi n’annule pas le moment d’inconscience — bien que l’acte de conscience

soit, en tant que tel, indifférent à ce moment —, ce qui fait que la liberté ne peut

être adéquatement caractérisée indépendamment du moment qui précède et

accompagne toujours sa manifestation. Être libre n’est pas s’émanciper de la

nature.

De Finance serait probablement d’accord avec cette observation, puisqu’il

affirme la nécessité de respecter la personne à travers la reconnaissance de la

dignité de la nature dans laquelle elle se manifeste, ainsi que nous l’avons vu.

Cependant, ma critique concerne une importance excessive accordée à la dimension

d’autodétermination, ou mieux encore elle porte sur un certain défaut de

caractérisation de l’idée de liberté. En effet, là où il est question de l’idée de personne

et de la fondation d’un ordre axiologique la concernant, il est impératif de

bien saisir, d’énoncer avec clarté et exactitude l’idée de liberté sur laquelle elle

est fondée. Autrement dit, il faut considérer la liberté en son sens premier et fondamental,

qui n’est pas l’autodétermination, quoique celle-ci en soit le corollaire

sur le plan de l’agir.

On peut voir encore plus clairement les difficultés que je viens d’évoquer

lorsque J. de Finance cherche à comprendre le rapport entre la nature et la liberté.

En effet, il dit: «Comme nous ne pouvons être nous-mêmes que dans les

limites de notre nature, nous ne pouvons réaliser notre vrai bien — individuel ou

communautaire — que dans les limites de ce qui, dans l’ordre axiologique, correspond

à cette nature et trouve en elle sa détermination quasi matérielle» 25 . Il y

a lieu de s’étendre sur cet intéressant passage pour voir, par exemple, quel serait

le sens à donner à l’expression “détermination quasi matérielle” du bien de

l’homme se trouvant dans sa nature, et par conséquent, celle de l’ordre axiologique

— si l’on veut prendre cette expression pour synonyme de normativité —

qui en découle. On en tirerait sans doute beaucoup de conséquences utiles. Mais

ce n’est pas notre sujet. Je considérerai plutôt le fondement que l’auteur donne à

sa position. En effet, quelques pages plus haut, il écrit:

24 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 27.

25 J. DE FINANCE, Personne et valeur, cit., p. 70.

248


Paulin Sabuy

la nature, avec ses habitus, est donnée au sujet comme une condition non posée

par lui et hors de laquelle il ne peut s’évader; comme une limite donc, au moins

en apparence, de sa spontanéité et de sa liberté. La liberté est un aspect de la

nature: cela veut dire qu’il n’y a pas entre elles de vraie opposition, mais cela

veut dire aussi que la nature en nous est nécessairement libre: nous sommes […]

“condamnés à la liberté”. Il dépend de nous de choisir ceci ou cela, le bien ou le

mal; il ne dépend pas de nous d’être mis en demeure de choisir. La nature est la

condition non l’ennemie de la liberté: reste que celle-ci étant conditionnée n’est

pas liberté pure. Et, conclut-il, c’est ce que la conscience contemporaine a tant de

peine à admettre 26 .

Il faut dire, encore une fois, que J. de Finance perçoit bien le problème et y

apporte même une solution intéressante. Simplement les termes de celle-ci ne

sont pas, anthropologiquement parlant, tout à fait cohérents, sans doute à cause

de leur insuffisance.

III. D’abord, à bien voir les choses, la liberté n’est pas un aspect de la nature.

Si nous prenons la nature au sens de la dotation d’origine de l’étant, reçue dans

l’acte créateur qui le fait être, c’est-à-dire au sens de ce avec quoi on naît normalement,

la liberté peut, certes, être considérée comme un “aspect” de la nature.

Alors on dit qu’il y a des natures libres et des natures qui ne le sont pas. Mais,

comme on peut le voir, la liberté n’est considérée comme un “aspect” de la nature

qu’en tant que celle-ci est déjà conçue comme libre, en vertu de la distinction

que je viens d’évoquer. C’est ainsi que nous disons que la nature humaine est

une nature libre. (Si par nature on entend l’ensemble d’impulsions qui “naissent”

en nous, c’est-à-dire la simple spontanéité naturelle, la liberté ne serait pas du

tout bien comprise, si on la caractérisait comme un aspect de la nature). Du coup,

on tombe dans une certaine tautologie, qu’il ne faut pas, pour le moins, perdre de

vue, quand il est question de fonder philosophiquement l’unité de l’homme, car,

autrement, nous ferions de la notion de nature une pure abstraction et nous réduirions

la nature humaine au rang de la nature inférieure, c’est-à-dire au rang de la

simple spontanéité naturelle. En tout cas cela reviendrait à escamoter le problème

de la double articulation de l’expérience fondamentale de l’homme dont il est

question.

En effet, quand, par exemple, nous disons que la nature de l’homme est une

nature raisonnable, il faut prendre garde à ne pas croire ou faire croire que la raison

est une simple différence spécifique, un peu comme quand nous disons que

la chauve-souris est un mammifère volant. La rationalité — dans laquelle apparaît

la liberté —, en raison de son articulation particulière dans l’homme, instaure

un genre nouveau, où la nature est portée au delà d’elle-même, car la simple

spontanéité naturelle s’ouvre à une dimension nouvelle qui ne s’explique pas par

elle. D’ailleurs, la nature humaine, dans laquelle, grâce à la “réflexion”, nous fai-

26 Ibidem, pp. 65-66.

249


studi

sons la double expérience de l’impulsion spontanée et de notre capacité à

prendre de la distance par rapport à l’immédiateté, est ce qui nous permet de

comprendre toute autre nature, puisque nous comprenons la simple spontanéité

naturelle comme telle, et nous saisissons aussi l’idée de liberté (par rapport à la

nature). La nature de l’homme n’est pas seulement une nature parmi d’autres

espèces de nature. Elle a valeur de paradigme 27 .

Cela étant, je dirais qu’il y a une certaine contradiction ou, pour le moins, une

certaine confusion à caractériser la liberté comme autodétermination tout en la

considérant comme un aspect de la nature, quand il est question de la fondation

théorique de l’unité de l’homme.

D’autre part, il est vrai que la nature est “la condition de la liberté”, et qu’il

s’agit d’“une condition non posée” par l’homme lui-même. Mais elle n’est pas

simplement une “limite”, elle contient également l’indication des fins (telos),

autrement dit, il s’agit d’une limite interne, qui donne du sens. Et au delà de cette

“limite”, la liberté s’égare et devient auto-destructive, elle se retourne contre

l’homme même. Cela est certainement sous-entendu lorsque J. de Finance affirme

qu’«il ne dépend pas de nous d’être mis en demeure de choisir», ou mieux encore,

quand il dit que c’est dans la nature que nous trouvons une «détermination quasi

matérielle» du bien de la personne, ainsi que nous l’avons vu plus haut.

IV. Or c’est la notion de vie qui traduit mieux tout cela; la vie qui précède,

accompagne toujours et rend possible l’émergence de la rationalité, par laquelle

elle devient consciente d’elle-même. En effet, la vie implique à la fois l’intériorité

et l’extériorité dans l’unité d’un même système par rapport à son milieu, ou

mieux encore dans l’unité d’un même processus.

J. de Finance n’insiste pas assez sur la téléologie naturelle. Autrement dit, la

notion de vie, chez lui, est encore conçue en termes d’extériorité 28 . On comprend

alors qu’il caractérise la liberté surtout comme autodétermination. Cela est-il dû

au fait que sa critique initiale du Cogito est insuffisante? Ce n’est pas le lieu

d’approfondir la question. Je me contenterai d’indiquer que dans le Cogito ergo

sum, il n’est pas essentiel pour le Cogito que le sum implique quelque chose

comme un processus vital. Il s’en suit qu’un tel processus, s’il est donné, disons

empiriquement, lui viendra comme de l’extérieur, c’est-à-dire comme une extériorité

qui n’a pas de prise sur la “structure” interne du Cogito comme tel.

L’ouverture du Cogito par le sum 29 n’est pas une exigence du Cogito lui-même.

Enfin, bien que J. de Finance perçoit la nécessité d’une affirmation de l’être

dans une perspective pratique 30 , il ne semble pas avoir surmonté tout à fait la

27 Dans ce sens, Spaemann écrit: «Nous ne pouvons caractériser un comportement observé de

l’extérieur comme étant dirigé par la tendance que si nous pouvons l’interpréter par analogie

avec “l’être-tendu-vers” qui est la structure de notre propre être-soi» (Bonheur et bienveillance.

Essai sur l’éthique, PUF, Paris 1996, p. 230).

28 Voir par exemple J. DE FINANCE, Personne et valeur, cit., pp. 67-69.

29 Cfr. ibidem, p. 48.

30 Ainsi il peut affirmer: «L’amour vise l’autre selon son esse propre» (ibidem, p. 19).

250


Paulin Sabuy

conception de l’être comme objet de pensée 31 . «La conscience de soi, écrit-il, est

celle d’un sujet qui est de l’être, dans l’être, et ne peut se saisir comme être dans

l’être qu’en s’ouvrant à l’être» 32 . Mais, il n’y a pas de l’être dans le non-être. En

revanche, le contraire peut être vrai ainsi que l’atteste une juste compréhension

des notions aristotéliciennes d’acte et de puissance; où l’acte est toujours

premier 33 . On retrouve cette même ambiguité dans un autre important ouvrage:

Le «Je […], écrit De Finance, n’est pas un simple objet phénoménal: c’est par

delà les “faits de conscience”, une réalité enracinée dans l’être. Son existence est

impliquée dans sa connaissance: le penser, c’est l’affirmer. Et sa nature est impliquée

dans son existence, car dire: je suis, c’est dire: je suis un être capable de

dire: je suis, un être qui se pense dans l’être avec tout ce que cela comporte» 34 . Il

est vrai que la réalité se trouve toujours au delà de “faits de conscience”. Mais

dire-je est encore un fait de ce type, c’est-à-dire, ce n’est pas le Je lui-même.

C’est ainsi que penser-je n’est pas affirmer-je, si du moins par là on entend l’affirmation

pratique. De sorte que c’est seulement dans la sollicitude ou le souci de

soi que l’on atteint vraiment — réellement — le Je.

L’acte d’être n’est pas la notion générale de l’être. Ce n’est pas l’objet (de

pensée) que j’ai dans la conscience lorsque je pense l’être. Ce n’est pas le résultat

de mon abstraction. L’acte d’être est l’acte de ce qui existe en tant qu’il existe.

C’est ainsi que je “saisis” mon être, non pas avant tout quand je m’ouvre à

l’autre, mais, par exemple, dans l’expérience de la douleur, comme ce qui menace

ma vie (et donc mon être). L’ouverture à l’autre en tant qu’autre vient après.

Et elle se réalise également dans un contexte pratique: elle a toujours la forme

d’une affirmation libre, par le respect et la bienveillance. Voilà pourquoi la

simple perception de l’autre ne garantit pas l’ouverture à l’autre en tant qu’autre,

car elle peut être encore interprétée par rapport à l’intérêt de celui qui perçoit.

Autrement dit, celui-ci peut se refuser à rendre justice à l’autre dans son altérité,

ne l’interprétant alors que par rapport à son auto-affirmation. Ce qui équivaut à

ne pas reconnaître l’altérité de l’autre comme tel. Bien entendu, la reconnaissance

de l’autre en tant qu’autre suppose que je me saisis moi-même dans l’être.

31 Cfr. ibidem, pp. 4ss.

32 Ibidem, p. 48.

33 Cfr. R. YEPES STORK, La doctrina del acto en Aristóteles, Eunsa, Pamplona 1993, pp.

242ss. L’idée de la priorité de l’acte apparaît, par exemple, dans le texte de Thomas

d’Aquin ci-après: «Ex hoc ipso quod quidditati esse tribuitur, non solum esse, sed ipsa

quidditas creari dicitur: quia antequam esse habeat, nihil est, nisi forte in intellectu creantis,

ubi non est creatura sed creatrix essentia» (De Potentia, q. 3, a. 5, ad 2). Dans le même

sens, Spaemann observe: «Für Aristoteles galt es als Axiom, daβ das Wirkliche vor dem

Möglichen ist. Möglichkeit war verstanden als Spielraum der mit jedem wirklich eröffnet

ist. Möglichkeit hieβ: “können”. Nur Wirkliches “kann”» (R. SPAEMANN, Philosophische

Essays, Reclam, Stuttgart 1994, p. 14).

34 J. DE FINANCE, L’affrontement de l’autre. Essai sur l’altérité, Università Gregoriana

Editrice, Roma 1973, p. 29.

251


studi

Ce point est capital, non seulement comme préalable d’un concept adéquat de

nature, mais aussi comme condition d’une acception de la personne qui résout

les difficultés de sa conception comme un ensemble de qualités attribuables à

l’être humain.

2.2. Ricœur

I. Chez Ricœur aussi, on trouve, tout d’abord, une intéressante critique du

Cogito, dans le but de conjurer la dialectique du sujet, tour à tour exalté et humilié,

de Descartes à Nietzsche, sans jamais réussir, à ce qu’il semble, à lui assurer

une place dans le discours, au delà de cette alternance du Cogito et de l’anti-

Cogito 35 . Et c’est fort de cette analyse initiale 36 , que Ricœur s’engage ensuite

dans une recherche complexe de la place du sujet qui répond à la question qui?,

et dont l’identité est traduite par le terme latin ipse à la différence de l’identitéidem

(ou mêmeté) qui s’attribue aux choses, et signifie «la permanence dans le

temps […], à quoi s’oppose le différent, au sens de changeant, variable» 37 .

Tandis que «l’identité au sens d’ipse n’implique aucune assertion concernant un

prétendu noyau non changeant de la personnalité. Et cela, quand bien même l’ipséité

apporterait des modalités propres d’identité» 38 . Alors que l’identité des

choses ou mêmeté signifie que celles-ci demeurent identifiables (au même) à travers

les changements et le temps, l’ipséité elle indique autre chose que la mêmeté,

c’est-à-dire elle désigne la personne, bien que le corps de la personne appartienne

lui-même à la catégorie de mêmeté.

Après la clarification initiale, faite dans la longue préface du livre, suivent dix

vigoureuses études, au fil d’une argumentation serrée, en une discussion permanente

et patiente avec les auteurs les plus divers: Ricœur nous fournit de formidables

intuitions sur le sujet personnel qui seul peut répondre à la question

“qui?”.

Mais quel est le rapport de l’ipséité à la mêmeté? «Avec la question qui? —

qui cherche, qui trébuche et ne trouve pas, et qui perçoit? —, revient le soi au

moment où le même se dérobe» 39 . Équivocité de la notion d’identité: la mêmeté

n’est pas à confondre avec l’ipséité. Si la mêmeté est accessible par voie de référence

identifiante, l’ipséité ne l’est que par le mode de l’autodésignation 40 .

D’une part, «dans une problématique de la référence identifiante, la mêmeté du

35 P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., p. 27.

36 Ibidem, pp. 14-26.

37 Ibidem, pp. 12-13.

38 Ibidem, p. 13. J’ai relevé plus haut le fait que dans la tradition de la philosophie analytique,

on affirme la nécessité d’une attribution à la personne des prédicats aussi bien psychiques

que physiques.

39 Ibidem, p. 154.

40 Ibidem, p. 44.

252


Paulin Sabuy

corps propre occulte son ipséité» 41 ; et d’autre part, le soi lui-même «apparaît

sous les apparences de la mêmeté» 42 . Il s’y cache un paradoxe. Et Ricœur

l’avoue dès la première étude: «C’est un immense problème — dit-il — de comprendre

la manière par laquelle notre propre corps est à la fois un corps quelconque,

objectivement situé parmi les corps, et un aspect du soi, sa manière

d’être au monde» 43 . L’opposition ipséité-mêmeté ne signifie donc nullement que

le soi soit dépouillé du corps. Au contraire, «posséder un corps, c’est ce que font

ou plutôt ce que sont les personnes» 44 . Ainsi pour Ricœur, «l’appartenance de

mon corps à moi-même constitue le témoignage le plus massif en faveur de l’irréductibilité

de l’ipséité à la mêmeté. Aussi semblable à lui-même que demeure

un corps […], ce n’est pas sa mêmeté qui constitue son ipséité, mais son appartenance

à quelqu’un capable de se désigner lui-même comme celui qui a son

corps» 45 .

II. Malheureusement, comme on peut facilement le voir, Ricœur ne semble

pas dépasser une certaine dichotomie. L’unité de l’homme, la conjonction du

corps au soi, ne peut être convenablement fondée, du moment que l’irréductibilité

des éléments se situe au point de départ. D’entrée de jeu, les deux objets de la

référence langagière — la personne et les corps, appelés “particuliers de base” 46

— sont considérés comme hétérogènes. Dans ces conditions, l’unité ne peut

jamais être qu’extrinsèque. Et pourtant, Ricœur affirme, un peu avant, dans la

préface: «Si l’on admet que la problématique de l’agir constitue l’unité analogique

sous laquelle se rassemblent toutes nos investigations, l’attestation peut se

définir comme l’assurance d’être soi-même agissant et souffrant. Cette assurance

demeure l’ultime recours contre tout soupçon; même si elle est toujours en

quelque façon reçue d’un autre, elle demeure attestation de soi» 47 .

Tout le problème c’est que le soi ne comprend pas, ou mieux n’inclut pas le

corps; il se trouve dès le départ dans un rapport de dualité avec lui. Certes,

Ricœur soutient que «posséder un corps, c’est ce que font ou plutôt ce que sont

les personnes» 48 . Mais, cette affirmation, chez lui, semble être faite par principe,

sans qu’elle soit suivie d’une mise en lumière de ses fondements ontologiques.

De telle sorte que, malgré cette appréciable élévation du rapport de la personne

avec son corps au niveau ontologique, on ne peut éviter l’impression que, en pra-

41 Ibidem, p. 46.

42 Ibidem, p. 154.

43 Ibidem, p. 46.

44 Ibidem.

45 Ibidem, p. 155.

46 Cfr. ibidem, p. 43. Ricœur fait référence à F. Strawson en ce qui concerne la notion de “particuliers

de base”.

47 Ibidem, p. 35. Ricœur présente le soupçon comme le contraire de l’attestation, même s’il en

est aussi, à sa manière, une manifestation, c’est-à-dire par négation, comme le revers d’une

même médaille.

48 Ibidem, p. 46.

253


studi

tique, cela reste une conjonction extrinsèque, parce qu’il y manque quelque

chose comme une notion “charnière”, telle que la notion de vie. La référence

fondamentale au fait que, le “même” qui apparaît dans la diversité se conçoit

toujours sur base de l’expérience que nous avons de nous-mêmes comme le sujet

permanent de nos actes et passions, est insuffisamment exploitée.

En un certain sens, l’hétérogénéité est inévitable puisqu’elle répond à l’expérience

fondamentale de l’homme. Mais c’est justement pourquoi il faut partir de

là: de l’expérience de l’homme, qui est celui qui sent et sait qu’il sent; la

conscience étant toujours conscience de “quelque chose” qui précède le moment

de son propre dévoilement. Et le souci de cette fondation de l’unité devrait nous

permettre de surmonter le dualisme des points de vue, que Ricœur réintroduit

quand il soutient que la personne est tantôt “ce dont nous parlons” tantôt le “sujet

parlant”. Même s’il ajoute aussitôt après qu’il ne faut pas «opposer trop radicalement

les deux approches de la personne: par référence identifiante et par autodésignation»

49 .

La personne n’est pas “ce dont on parle” au sens de l’objet de la référence

identifiante, car nos jugements versent toujours sur les phénomènes. En

revanche, la personne est toujours celui qui parle ou celui qui est potentiellement

parlant. En tout cas, celui qui reste toujours au delà de notre discours, quoique le

rendant possible: la personne est de l’ordre de l’être. Dans mes jugements et dans

les propositions que je formule, l’autre apparaît toujours sous forme de l’ensemble

de perceptions que j’en ai, à un moment donné. Il reste donc, en quelque

sorte, voilé par ces mêmes perceptions, car il ne s’épuise pas en elles. L’autre ne

s’identifie point avec l’ensemble de perceptions que j’en ai, autant je ne m’identifie

pas avec l’objectivation de moi-même dans le souvenir de ma propre histoire.

L’autre est toujours plus que ces perceptions; mieux encore, il est au delà

d’elles. Je ne saisis vraiment l’autre en tant qu’autre que dans la mesure où mes

jugements et mes propositions sur lui s’inscrivent aussi dans un contexte pratique,

où j’accepte l’autre dans son altérité, par le respect et la bienveillance.

Nous allons y revenir.

III. Enfin, malgré le souci permanent dont témoigne Ricœur pour la fondation

ontologique, il ne paraît pas plus que J. de Finance dépasser une conception de

l’être comme objet de pensée. Pourtant, dans la préface de Soi-même comme un

autre, la notion d’attestation apparaît chargée de promesse. Ainsi, par exemple, il

écrit: «[…] L’attestation est fondamentalement attestation de soi. Cette confiance

sera tour à tour confiance dans le pouvoir de dire, dans le pouvoir de faire, dans

le pouvoir de se reconnaître personnage de récit, dans le pouvoir enfin de

répondre à l’accusation par l’accusatif: me voici! selon une expression chère à

Lévinas. À ce stade, l’attestation sera celle de ce qu’on appelle communément

conscience morale» 50 . Mais la référence au contexte pratique est finalement

49 Ibidem, p. 44.

50 Ibidem, pp. 34-35.

254


Paulin Sabuy

minimisée, et l’attestation ne culmine que comme l’affirmation de l’«être-vrai de

la médiation de la réflexion par l’analyse» 51 . Et il ajoute plus loin: «Si […] la

dimension aléthique (véritative) de l’attestation s’inscrit bien dans le prolongement

de l’être-vrai aristotélicien, l’attestation garde à son égard quelque chose de

spécifique, du seul fait que ce dont elle dit l’être-vrai, c’est le soi; et elle le fait à

travers les médiations objectivantes du langage, de l’action, du récit, des prédicats

éthiques et moraux de l’action» 52 . Même s’il dit bien ensuite que «l’attestation

est l’assurance — la créance et la fiance — d’exister sur le mode de l’ipséité»

53 , Ricœur ne semble pas échapper à une certaine “objectivation” de l’être (et

du soi) dont il pressent qu’on lui reprochera 54 . En effet, dans l’idée de l’attestation,

l’apparition du soi (et de l’autre) ne comporte pas clairement une perception

du bien, précisément parce que cette notion n’est pas entièrement replacée dans

le contexte pratique qu’elle évoque. L’attestation ne se trouve pas mise en rapport

avec la “sollicitude” et à la “bienveillance”, dont parle pourtant aussi

Ricœur 55 .

Ici aussi, je pense qu’on peut attribuer cette insuffisance à l’absence d’un

concept adéquat de vie et de téléologie immanente. Ricœur perçoit, certes, l’importance

du concept de vie 56 . Mais il la prend exclusivement dans le sens du

concept spinozien de conatus. Par contre, l’inclinatio n’apparaît point (la nature

demeure toujours affectée d’un déterminisme trivial, par un défaut de caractérisation

téléologique).

La relative déception, écrit-il, sur laquelle se clôt notre attentive écoute des interprétations

heideggériennes visant à une réappropriation de l’ontologie aristotélicienne

nous invite à chercher un autre relais entre la phénoménologie du soi agissant

et souffrant et le fond effectif et puissant sur lequel se détache l’ipséité. Ce

relais, c’est pour moi le conatus de Spinoza. […] Je partage avec Sylvain Zac la

conviction selon laquelle “on peut centrer tous les thèmes spinozistes autour de la

notion de vie” (Sylvain Zac, L’idée de vie dans la philosophie de Spinoza, Paris,

PUF, 1963, pp. 15-16). Or qui dit vie, dit aussitôt puissance, comme l’atteste de

bout en bout l’Éthique. Puissance, ici, ne veut pas dire potentialité, mais productivité,

qui n’a donc pas lieu d’être opposée à acte au sens d’affectivité, d’accomplissement

57 .

En réalité «le fond effectif et puissant sur lequel se détache l’ipséité», c’est

toujours l’acte (d’être) sans lequel il n’y a pas simpliciter de puissance. Toute

51 Ibidem, p. 348.

52 Ibidem, p. 350. C’est nous qui soulignons.

53 Ibidem, p. 351.

54 Ibidem, p. 348.

55 Ibidem, pp. 254-255.

56 Ibidem, p. 365.

57 Ibidem. C’est nous qui soulignons.

255


studi

potentialité réelle (ou la “productivité” comme le veut Ricœur) ne naît qu’avec

l’acte. La puissance n’est jamais antérieure que secundum quid, dans l’ordre de

l’action; mais on remonte toujours à un acte qui est premier. C’est ainsi que la

productivité suit la potentialité, car le conatus ne s’explique, en définitive, qu’à

partir de l’inclinatio. Et l’inclinatio signifie: une potentialité qui s’ouvre chez un

être vivant en tant que tel.

IV. En ce qui concerne le rapport de la liberté à la norme, Ricœur, après avoir

longuement analysé le formalisme kantien ainsi que l’opposition entre l’impératif

de la raison et le désir 58 conclut: «L’obéissance véritable, pourrait-on dire,

c’est l’autonomie» 59 . Sans doute. Mais à condition qu’il soit également légitime

de lire cette phrase en sens inverse: «l’autonomie véritable c’est l’obéissance»,

obéissance à la nature, parce que la raison pratique est susceptible de percevoir

son bien véritable, à partir des inclinations naturelles, qui sont des indications

pour l’action de l’homme.

À mon avis, le problème du dualisme de la personne et de la nature dont il est

question, trouve une réponse plus complète et mieux fondée dans l’œuvre de

Spaemann. Les conditions d’une acception adéquate de la nature, la conception

de l’être qui la fonde, ainsi que la caractérisation de la liberté et le problème du

rapport entre la personne et la nature se trouvent, chez lui, expliqués avec une

clarté suffisante.

3. L’approche anthropologique de Robert Spaemann

Pour bien cerner la question du dualisme anthropologique, Spaemann entreprend

d’approfondir le contenu de la caractérisation classique de la personne

comme «substance individuelle de nature rationnelle» 60 , tout en restant attentif à

l’apport de l’analyse du langage.

C’est ainsi qu’il voit la philosophie engagée, à cet égard, dans un effort de

détermination des caractéristiques spécifiques de l’homme, à qui nous reconnaissons

la dignité de personne, par rapport aux autres êtres. Il relève ainsi deux

orientations majeures de la recherche 61 . Une première orientation viserait surtout

la détermination du sens de l’adjectif “rationnelle” qui qualifie la “nature” de

l’homme. Dans, ce sens, la philosophie analytique actuelle soutient qu’il est

essentiel pour la compréhension de l’idée de personne, qu’on lui attribue des pré-

58 Cfr. ibidem, pp. 237ss.

59 Ibidem, p. 277.

60 BOÈCE, Contra Euthychen et Nestorium, III, 4; cité par R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 9.

61 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 9. Voir note 11 ci-haut.

256


Paulin Sabuy

dicats aussi bien psychiques que physiques. Ainsi, cette tradition s’écarte du courant

de pensée qui, à partir de Descartes, considère la personne comme “chose

pensante”, tout court 62 . La deuxième orientation est celle de ceux qui voient

dans la personne un statut exprimant la dignité d’un être, à qui l’on reconnaît la

place unique qui lui revient parmi ses semblables 63 .

3.1. L’inversion de la téléologie

Certes l’idée de personne a une connotation axiologique et implique, de ce

fait, une référence à quelque chose comme un attribut sur lequel elle se fonde.

Mais, pour Spaemann, la dignité de personne, en tant que prétention originaire,

ne vient pas après la reconnaissance accordée sur la base d’un attribut

particulier 64 , tel la rationalité, par exemple, mais en vertu de l’appartenance à

l’espèce homo sapiens, dont les individus portent normalement cet attribut particulier,

qui les distingue des êtres non personnels. «“Personne” n’est pas une

notion descriptive» 65 . Pour comprendre cela, il est important de bien saisir les

concepts qui se trouvent impliqués dans la définition de Boèce.

Substantialité, nature, raison. Spaemann sent, notamment, la nécessité d’une

«profonde réflexion sur l’histoire de la pensée qui commence avec le concept de

“nature”, de “physis”» 66 . La reconstitution de l’histoire du concept revient alors

à identifier les moments où se sont produits les glissements sémantiques et

conceptuels qui sont à l’origine de l’acception qu’on en a aujourd’hui. Spaemann

qualifie cette évolution d’“inversion de la téléologie” 67 .

La notion de nature est téléologique de l’antiquité au moyen âge. Elle se défi-

62 Ibidem.

63 Ibidem.

64 «Sind alle Menschen Personen? Es zeigt sich, daß die bejahende Antwort Voraussetzungen

hat. Sie setzt voraus, daß Personen zwar a priori in einer auf Anerkennung basierenden

wechselseitigen Beziehung stehen, aber daß diese Anerkennung nicht dem Personsein als

dessen Bedingung vorausgeht, sondern auf einen Anspruch antwortet, der von jemandem

ausgeht. Sie setzt ferner voraus, daß wir diesen Anspruch zwar aufgrund gewisser

Artmerkamle zuerkennen, daß es aber für die Anerkennung als Person nicht auf das tatsächliche

Vorhandensein dieser Merkmale ankommt, sondern nur auf die Zugehörigkeit zu

einer Art, deren typische Exemplare über diese Merkmale verfügen» (ibidem, p. 11).

65 Ibidem, p. 26.

66 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 21. Qu’on voit aussi cet autre

texte: “Mein Vorschlag, die Prämisse in Frage zu stellen und den Gedanken der Teleologie

auf anfänglichere, nicht “invertierte” Weise neu zu denken, ist bisher überwiegend auf höfkiche

Skepsis gestoßen. Ich sehe zwar nicht, wie ohne einen solchen Neuanfang die

Dialektik der zwei Kulturen, die esklariende Dialektik von Naturalismus und

Spiritualismus zum Stehen gebracht werden kann, die die Humanität unserer Zivilisation in

der Tiefe bedroht” (R. SPAEMANN, Reflexion und Spontaneität. Studien über Fénelon, Klett-

Cotta, Stuttgart 1990, Préface à la deuxième édition, p. 14).

67 R. SPAEMANN, Reflexion und Spontaneität, cit., pp. 58ss.

257


studi

nit par la fin. La notion biblique de création permet de porter la téléologie naturelle

à son plus haut degré de compréhension 68 . La nature signifie alors la dotation

d’origine reçue par chaque étant dans l’acte créateur qui le fait être. Les

choses se renversent à partir de l’époque moderne, quand par nature on entend

plus que la pure extériorité; acception certainement dominante à l’ère scientifique

où, plus que de contempler la vérité des choses, on se propose surtout d’en

découvrir l’utilité pour l’homme. La vérité scientifique est objective (alors que

l’être est au delà de l’objet). La raison scientifique est avant tout une raison instrumentale

69 . Pour la raison scientifique comme telle — et pour la vision du

monde qui en découle — la téléologie immanente de la nature (l’Aussein-auf 70 ,

l’être-tendu-vers des choses) est stérile et sans importance. Le vrai sens des

choses est le rôle qu’elles peuvent avoir dans le cadre de nos actions 71 : leur utilité.

Il s’agit d’une vision anthropocentrique qui semble conférer à l’homme une

dignité illimitée, le plaçant au centre de l’univers dont elle lui promet une maîtrise

croissante. En revanche, concevoir les choses comme si elles pouvaient avoir

une fin propre, au delà de leur éventuelle utilité pour nous, c’est-à-dire les concevoir

comme si elles avaient aussi un être-pour-soi en plus de leur être-pour-moi,

est considéré comme de l’anthropomorphisme injustifiable.

Et voici que, ironie du sort, cette vision des choses s’applique de plus en plus

à l’homme lui-même, lorsqu’il fait l’objet d’étude des sciences positives, qui

cherchent à déchiffrer les mécanismes de sa physiologie et de son comportement.

La nature comme pure extériorité n’est rien d’autre qu’un matériau disponible

dont on étudie les lois pour en avoir une telle maîtrise qu’on puisse prévoir les

événements possibles. Cela est également vrai pour le corps humain. Ainsi, on se

retrouve dans l’alternance de points de vue, qui fait que l’homme est tantôt exalté,

tantôt humilié, selon qu’il est (actuellement) pensant ou réduit au rang d’une

simple étendue, d’un simple objet de la nature (par opposition à la pensée).

Dans ces conditions, la nature ne peut être une norme pour l’agir libre. Elle

n’est jamais une mesure interne, tout au plus est-elle une limitation externe (et

provisoire).

Dans l’entre temps, on a pris conscience de la nécessité d’une redéfinition des

rapports entre l’homme et la nature. L’espérance d’un progrès indéfini sur la voie

d’une croissante domination de la nature, à laquelle on ne reconnaît plus de ressemblance

avec l’homme — en tant qu’il est pensant —, s’est effritée. Tout au

moins elle est devenue problématique: la conscience écologique en témoigne.

Or, celle-ci ne peut être réduite à la surenchère d’une certaine qualité de vie. Ce

n’est pas une mode passagère. Elle pose un problème strictement moral. Un

68 Cfr. R. SPAEMANN - R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen

Denkens, Piper, München-Zürich 1985, p. 97.

69 Cfr. ibidem, p. 103.

70 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 117.

71 Cfr. R. SPAEMANN - R. LÖW, Die Frage Wozu, cit., p. 103.

258


Paulin Sabuy

exemple simple pourrait en être le suivant: dans les environs d’une grande ville

africaine, le feu de brousse détruit le bois et prive d’une source d’énergie importante

les populations qui ont un accès limité ou même nul à l’électricité, l’obligeant

à aller s’en procurer de loin en loin. Sans compter l’aspect esthétique, etc.

Ce fait interpelle sans doute les responsables de l’administration du territoire, qui

devraient prendre les mesures juridiques et de police nécessaires. Mais elle interpelle

aussi la responsabilité individuelle de ceux qui, vivant près des aires à

risque, devraient en prendre soin et éviter des comportements vicieux. On peut

aussi citer les problèmes typiques de la bioéthique qui reviennent sans cesse dans

la discussion publique, comme, par exemple, la manipulation génétique, l’expérimentation

des produits pharmaceutiques nouveaux sur les patients, l’utilisation

d’embryons pour la recherche scientifique, etc.

3.2. L’être comme Selbstsein

On peut dire qu’après cette reconstitution critique de l’histoire du concept de

nature, Spaemann nous propose de reprendre les choses à partir de cette simple

constatation: les choses sont comme nous sommes. La substantialité des choses

est analogue à la nôtre. Mais, comme c’était déjà le cas chez Platon et Aristote,

nous devons affirmer que l’homme est le paradigme de toute substantialité 72 .

L’être des choses signifie qu’elles sont indépendamment de nous; simplement

nous les concevons par analogie avec notre propre être.

Être signifie la persistance dans l’exister et une espèce de victoire permanente

sur une certaine possibilité de retomber dans le néant. Aristote affirme: «Vivere

viventibus esse» 73 . L’être est un dérivé de la vie, commente Spaemann 74 . Mais

l’être n’est pas l’ensemble des phénomènes vitaux d’un vivant. Même si être

pour un vivant signifie avoir les manifestations vitales typiques, la vie elle-même

n’est pas cet ensemble de phénomènes vitaux mais ce qui les rend possible. Le

vivre ne s’identifie avec aucune de ses manifestations typiques, il ne s’identifie

pas non plus avec celles-ci dans leur ensemble, quoiqu’il ne devient visible que

par elles. L’acte d’être est incommensurable avec les actions de l’étant. Et cela

nous le disons par analogie avec la vie consciente. «Qui non intelligit, non perfecte

vivit» dit saint Thomas 75 . À quoi Spaemann ajoute: «Qui non vivit, non

perfecte existit» 76 .

L’être-soi (Selbstsein) est l’être qui fonde une nature, c’est-à-dire, être c’est

toujours être d’une certaine manière, avoir une nature déterminée. Les êtres

72 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 143.

73 De Anima II, 4, 415 b 13.

74 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 80.

75 In X librorum ethicorum Aristotelis ad Nichomacum expositione, Lib. IX, lect. 11, n. 1902.

76 R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 80.

259


studi

vivants non raisonnables sont, dans chaque action, déterminés par l’instinct de

conservation. Ils ne distinguent jamais la fin et le motif de leur action. Vivre,

pour de tels êtres, est toujours uni-directionnel. Dans leurs rapports avec d’autres

étants, ils occupent toujours un certain centre, un certain milieu par rapport

auquel tout le reste est réduit à un simple entourage, qui est constamment interprété

comme favorable ou non favorable à la fin propre de ces êtres vivants.

Donc toujours dans la même direction, par rapport à la conservation. Par contre,

la raison dévoile une autre direction, une perspective nouvelle, dans laquelle le

déterminisme de la nature se dévoile comme tel, et se trouve ainsi relativisé.

3.3. La non-identité essentielle

L’homme retrouve en lui ces deux perspectives. Mais la raison n’est pas pure

transparence, pure conscience d’elle-même. La raison signifie avant tout découvrir

(das An-den-Tag-Kommen) la vérité de la nature 77 , c’est-à-dire découvrir

les choses telles qu’elles sont. Autrement la raison serait vide, sans contenu. Il

va de soi que la raison ne découvrirait rien si la nature ne renfermait pas déjà un

sens. Et ce sens n’est pas seulement l’utilité qu’une chose peut avoir dans le

cadre de mes actions (ce que nous pourrions appeler sa téléologie transcendante)

mais, avant tout, le sens qu’elle a en elle-même (sa téléologie immanente).

C’est ainsi que pour le fermier, le sens du troupeau des vaches qu’il élève n’est

pas seulement celui d’une marchandise à livrer au boucher, même si ce sens

peut prédominer à un moment donné. Grâce à la raison, je découvre la téléologie

de la nature, je découvre que les autres êtres vivants ont des intérêts qui ne

dépendent pas de mes propres intérêts comme être vivant. Il devient alors possible

d’en prendre soin. Car au delà des phénomènes par lesquels il se manifeste

à moi, je peux découvrir, grâce à la raison pratique, l’être de tout être vivant en

tant que tel.

L’être et le bien se révèlent uno actu 78 . Parce que l’identité d’une chose

comme Selbstsein, comme être-soi, est pensée à la manière d’un processus pour

lequel il y va de quelque chose: c’est toujours son propre pouvoir-être qui est en

jeu. Une telle affirmation de l’être et du bien a la forme d’une affirmation libre,

de l’amor benevolentiae, autrement dit elle n’a vraiment lieu que dans un

contexte pratique.

Comment s’explique, donc, l’apparition de cette nouvelle perspective, qui

contraste avec la perspective de l’être vivant que nous ne cessons guère d’être?

Comme je l’ai dit plus haut, le statut ontologique que l’on accorde à cette double

perspective est ce qui détermine l’approche du problème du dualisme de la personne

et de la nature.

77 Cfr. R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 123.

78 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. X.

260


Paulin Sabuy

Pour Spaemann la raison humaine ne peut pas être une substance, au sens de la

res cogitans cartésienne. La raison finie est plutôt un événement, «l’événement du

devenir-substance d’un processus organique» 79 . Il ne s’agit pas d’un événement

quelconque. C’est l’“événement” qui marque l’être même de l’homme.

On voit ainsi réapparaître le paradoxe de l’animal rationale. Il y a une nonidentité

essentielle dans l’homme 80 . Pour comprendre cela il faut se rappeler que

nous concevons l’être par analogie à la vie, et donc comme un processus. En

effet, la vie, en tant que vie, est toujours ce pour quoi il y va de quelque chose:

son propre pouvoir-être. Être-vivant signifie être-porté-vers (Aussein-auf-Sein) 81 .

Cela est également vrai pour l’homme. Mais l’apparition de la raison suppose un

certain changement de perspective. L’immédiateté de l’inclination contraste avec

un certain recul (par rapport à l’inclination) à travers la médiation de la

“réflexion” qui caractérise la raison.

Dans la réflexion, on rentre en soi, d’une certaine façon, au moment où l’objet

apparaît dans la conscience, que l’on expérimente aussi comme conscience de

soi. Mais, il s’en suit également la possibilité de penser un au-delà de l’objet. Si

la pensée de l’au-delà-de-l’objet n’est encore qu’une pensée, un objet, l’au-delà

lui-même, l’être (ou l’autre) devient perceptible, comme tel, dans la raison pratique,

dans la bienveillance 82 , de même que le soi n’apparaît vraiment que dans

le souci de soi. Aussi la “réflexion” n’implique-t-elle pas seulement la capacité

de rentrer-en-soi (In-sich-gehen), mais elle renferme aussi la possibilité d’allerhors-de-soi

(Aus-sich-heraustreten) 83 . Cette différence interne de la vie douée de

raison est originaire, ai-je observé. Même si un certain nombre de fonctions de la

raison peuvent être interprétées par rapport à la conservation de la vie, la possibilité

essentielle de sortir-de-soi instaure une nouvelle perspective, qui met l’homme

à part de la creatura naturalis: il a une natura intellectualis. L’homme n’est

pas un simple être naturel.

79 «Endliche Vernunft ist nicht Substanz, sondern Geschehen, das Geschehen des

Substanziell-werdens eines organischen Prozesses» (R. SPAEMANN, Glück und wohlwollen.

Versuch über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989, p. 117; traduction française: Bonheur et

bienveillance, cit., p. 123).

80 «Niemand ist einfach und schlechthin das, was er ist. Selbstannahme ist ein prozeß, der

Nichtidentität voraussetzt und als bewußste Aneignung des Nichtidentischen, als

“Integration” (C. G. Jung) verstanden werden muß» (R. SPAEMANN, Personen, cit., p. 21).

81 Cfr. ibidem, pp. 117ss.

82 Cfr. R. SPAEMANN, Bonheur et bienveillance, cit., p. 130.

83 «Diese Differenz [des Menschen zu seinem eigenen Sosein] ist uns geläufig unter dem Titel

der “Reflexion”. Aber Reflexion ist nur eine ihrer Erscheinungsformen. Die Differenz bestimmt

unser Dasein, auch wenn wir nicht reflektieren. Sie ermöglicht die Reflexion, sie

beruht nicht auf ihr. Reflexion ist ein In-sich-Gehen. Aber die Differenz kann ebenso als ein

Aus-sich-Heraustreten beschrieben werden, als “exzentrische Position”» (R. SPAEMANN,

Personen, cit., p. 23).

261


studi

3.4. La raison, forme de la vie

Comment, dès lors, établir la conjonction entre les deux perspectives qui se

font jour dans la vie douée de raison? Comment, suivant cette vision anthropologique,

caractériser la double articulation de l’expérience fondamentale de

l’homme? L’unité est fondée de la façon suivante: la raison est la forme de la

vie 84 . Mais comment comprendre cette unité? Comment comprendre que “le

processus organique» à partir duquel se réalise le “devenir-substance” qui a

lieu dans l’avènement de la raison n’est pas déjà une substance? Les termes

qui sont ici utilisés semblent suggérer un avant et un après. Comment comprendre

cet avant et cet après, c’est-à-dire le changement, sans le réduire à un

simple changement accidentel, au sens aristotélicien (alloiosis), et faire, du

même coup, de la raison une simple fonction de la vie? Ou alors, comment le

comprendre sans l’élever au rang d’un changement radical, ainsi qu’il advient

par exemple dans la naissance (genesis) ou dans la mort, ce qui voudrait dire

que “le processus organique” cesse et cède la place à la raison conçue comme

une nouvelle substance? Il est toutefois problématique de faire dériver la raison

d’un processus organique. Voilà un problème difficile qui, comme je l’ai

déjà dit, ramène toute la question de l’hétérogénéité fondamentale de l’homme.

Certes, il ne peut être question d’escamoter l’hétérogénéité, de supprimer le

paradoxe. Mais est-il possible de mettre pleinement en lumière ce paradoxe?

Peut-on caractériser de manière satisfaisante l’hétérogénéité, sans la moindre

perte?

3.5. L’être de la personne et la liberté

Pour Spaemann, «le caractère de personne (Personalität) de l’homme n’est

rien au delà de son animalité. Cependant l’animalité de l’homme est dès le départ

ce qui n’est pas une simple animalité, mais le substrat du déploiement de la personne»

85 . L’ouverture à la raison est originaire, et c’est en elle que devient effectif

le rapport particulier de la personne avec sa nature. C’est-à-dire la non-identité

essentielle dont il a été question plus haut.

La personne est l’être de nature rationnelle. Dans cette affirmation, l’adjectif

“rationnelle” n’est pas un prédicat au même sens que “volant” dans la proposition:

la chauve-souris est un mammifère volant. La rationalité introduit, par rapport

à la simple animalité, une nouveauté qui distingue radicalement l’animal

rationale du reste des animaux, et inaugure un genre différent. C’est cela qui fait

84 «Vernunft ist vielmehr die “Form” unserer Lebendigkeit. Unser Leben ist nicht, wie alle

außerpersonale Lebendigkeit, in sich zentriert» (ibidem, p. 124).

85 Ibidem, p. 256.

262


Paulin Sabuy

qu’il n’est pas simplement sa nature mais qu’il la possède en quelque sorte 86 . Il

ne se possède pas, il possède plutôt sa nature, ou, si l’on préfère, il ne se possède

qu’en tant qu’il possède sa nature.

La liberté ne signifie pas, en son sens primaire, autodétermination, mais pouvoir-laisser-être

(Seinlassen) 87 . Alors seulement on peut caractériser adéquatement

la personne comme l’être vivant “potentiellement moral” 88 , du fait de

l’éventualité de la raison. Il n’y a pas de “personnes potentielles”, mais l’être

humain est “potentiellement moral”. L’être capable de s’apercevoir du caractère

absolu de l’être et du bien des autres étants acquiert du même coup le statut

d’une fin absolue. Plus qu’une valeur, on lui attribue une dignité. Et le nom de

cette dignité est: personne 89 .

Mais, de même que la perception de l’être (Selbstsein) n’est possible que quand

la raison devient pratique par la bienveillance, la personne comme personne n’est

accessible qu’à travers l’acceptation et la reconnaissance (Anerkennung) 90 . Être

personne signifie dès lors occuper sa propre place dans la communauté des personnes

qui se reconnaissent mutuellement. Mais pas dans le sens où l’être-personne

se baserait sur une telle réciprocité, ou sur l’acceptation et la reconnaissance de

la part des autres 91 . C’est plutôt dans le sens où sa propre position — unique, il va

sans dire —, par nature, ne se dévoile aux autres qu’au moyen d’un tel acte de

reconnaissance. Et celui qui se refuse à une telle acceptation de l’autre se défigure,

bien entendu, comme personne. En effet, en deçà de l’acte d’acceptation et de

reconnaissance, l’homme demeure, mala fide, dans la simple perspective de la vie,

centrée sur soi. Le bien, pour lui, ne l’est alors qu’au sens de bien-pour-moi, mais

pas au sens absolu.

86 «Das, was existiert, ist eine Weise zu sein. Bei der Fledermaus scheint das Sein, das

Lebendigsein, ganz in diese “Weise” versenkt zu sein, ganz in ihr aufzugehen. Menschen

hingegen existieren, indem sie Sein unterscheiden von ihrer bestimmten Weise zu sein, also

von einer bestimmten “Natur”. Sie sind nicht einfach ihre Natur, ihre Natur ist etwas, das

sie haben. Und dieses Haben ist ihr Sein. Personsein ist das Existieren von “rationalen

Naturen”» (ibidem, p. 40). C’est nous qui soulignons.

87 «Der Fundamentale Akt der Freiheit besteht in dem Verzicht auf die Bemächtigung, die in

der Tendenz alles Lebendigen liegt. Positiv heißt dieser Verzicht: Seinlassen. Seinlassen ist

der Akt der Transzendenz, der das eigentliche Signum der Personalität ist» (ibidem, p. 87).

88 R. SPAEMANN, Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 105.

89 Cfr. R. SPAEMANN, Personen, cit., pp. 38ss.

90 Cfr. ibidem, p. 193.

91 «Personsein ist das Einnehmen eines Platzes, den es gar nicht gibt ohne einen Raum, in

dem andere Personen ihre Plätze haben. Das Einnehmen dieses Platzes beruht nicht auf

einer Zuweisung durch andere, die bereits vor uns da waren. Jeder Mensch nimmt diesen

Platz als geborenes Mitglied kraft eigenen Rechtes ein. Aber er wird nicht empirisch am

diesem Platz vorgefunden, sondern dieser Raum wird überhaupt nur wahrgenommen in der

Weise der Anerkennung» (ibidem).

263


studi

3.6. Au delà de l’objectivation du langage

La caractérisation métaphysique de la personne est complétée, chez

Spaemann, par un traitement analytique du problème, mais qui renvoie sans

cesse à ses fondements ontologiques. La différence que nous établissons entre les

pronoms quelque chose (etwas) et quelqu’un (jemand), dans le langage quotidien,

indique certainement notre intention de désigner une réalité différente, précisément

personnelle, sous ce dernier. C’est ce que nous exprimons aussi par la

forme interrogative “qui?”, ainsi que le montre Ricœur 92 .

Par exemple, dans l’analyse linguistique de la phrase “Cette pomme est

rouge”, nous pouvons procéder à une décomposition logique, donnant lieu aux

membres suivants: “Cela est une pomme”, “Cela est rouge”, “Cela est une

pomme rouge”, etc. Nous ne serions en aucune façon autorisés à identifier les

“cela” dans les membres successifs de notre décomposition logique, si nous ne

savions pas d’avance à quoi “cela” se réfère. Nous aurions le même problème de

la référence, dans la proposition “Pierre est grand”. Je peux également faire une

décomposition logique: “Celui-ci est Pierre”, “Celui-ci est grand”. Ce que je saisis

comme réalité désignée sous les pronoms “cela” ou “celui-ci” n’est certainement

pas indépendant du rapport que j’établis d’emblée avec le contexte dans

lequel se réalise cet acte de désignation 93 . Si les deux pronoms jouent le même

rôle grammatical, la réalité qu’ils désignent n’est pourtant pas la même. La

pomme a sa position par rapport à moi, mais Pierre peut lui aussi être celui qui

désigne. Or dans mon acte de désignation, “cela” et “celui-ci” le supposent déjà.

La signification n’a vraiment lieu que dans un contexte pratique. C’est ainsi

que, dans le langage habituel, il nous est possible de distinguer d’emblée quelqu’un

(Jemand) de quelque chose (Etwas). Personne indique un modus existentiae

94 ; ce n’est pas la notion générale ou un concept désignant une espèce, et par

rapport à laquelle les individus ne sont qu’une concrétisation (instantiierung)

indifférente. Par sa connotation axiologique, personne est avant tout un nomen

rei, la désignation d’une réalité, et non pas un nomen intentionis 95 , une abstraction.

92 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, cit., pp. 14ss et passim.

93 «Was Quine die “Unbestimmtheit der Referenz” genannt hat, hängt damit zusammen, daß

wir in den ursprünglichen Akten der Benennung das zu benennende Dies-da anscheinend

gar nicht eindeutig identifizieren können. Und jede Aussage vom Typ Fx scheint zirkulär zu

sein, da wir, um etwas darüber aussagen zu können, schon wissen müssen, was dies x ist.

Außerdem müssen wir wissen, wer über ein Dies-da spricht, um zu wissen, wovon er

spricht. “Dies-da” stellt nämlich eine Relation zur Position des Zeigenden her. Sogar auf

seine Geste muß man achten, wenn man ihn verstehen will. Singuläres kann nur in Relation

zu jemandem identifiziert werden, der es identifiziert, und zwar als ein So-und-so. Das gilt

nicht für den Zeigenden selbst…» (R. SPAEMANN, Personen, cit., pp. 43-44).

94 Cfr. ibidem, p. 39.

95 Ibidem, p. 41.

264


Paulin Sabuy

4. Conclusions

Tout ce qui précède me suggère les conclusions suivantes:

1. La personne n’étant pas une notion empirique et descriptive mais l’expression

d’une dignité ontologique, il faut reconnaître une personne en tout être appartenant

à l’espèce dont les membres en manifestent d’ordinaire les caractéristiques

typiques, c’est-à-dire nous avons à faire à une personne chaque fois qu’il y a une

vie qui peut en être la représentation symbolique. Et c’est le cas de la vie humaine.

2. S’il est établi que la personne a une nature, on peut donc bien parler, à son

sujet, d’une mesure interne. C’est-à-dire on peut reconnaître, dès le départ, que

quelque chose doit être. Autrement dit, l’aptitude à se donner des normes ne

signifie pas que ce qui est donné à l’origine — la nature — ne comporte aucune

indication spécifique sur le contenu de celles-ci; elle ne signifie pas la pure autonomie.

Bien entendu, la nature n’offre pas, de façon immédiate, un code au comportement

humain. La nature de la personne est une nature raisonnable. Cela

veut dire que l’homme lui-même se donne des lois, de telle sorte qu’elles peuvent

être justes ou injustes. Et elles seront justes ou injustes en fonction d’un critère

qui n’est pas le libre arbitre même. Le juste se distingue de l’injuste, physei,

par nature. Et découvrir cela revient à la raison.

3. La raison peut encore être mise au service de la simple spontanéité naturelle;

elle peut être réduite à la fonction de satisfaire la tendance. Mais la perspective

qui lui est propre est celle du dévoilement de l’être et du bien, de sorte qu’elle

rend possible la société, en tant que communauté des personnes, qui se reconnaissent

mutuellement en vertu d’un droit inné.

4. Il s’en suit, avant tout, qu’il existe des limites inférieures en dessous desquelles

la raison se dégrade, car elle se dérobe à la perception de l’être et du

bien, offusquant ainsi la dignité de la personne. En revanche au dessus de ces

limites, on trouve des modalités très variées de la bienveillance de l’être raisonnable,

qui marque le commencement et le déroulement de tout acte moral.

* * *

Abstract: La nostra esperienza fondamentale è articolata in modo duplice. Da

una parte c’è la spinta dei nostri impulsi che tendono a manifestarsi immediatamente

e dall’altra abbiamo una certa capacità di differirne l’esecuzione, di

prenderne distanza. Come fondare l’unità della persona al di là di questa essenziale

non-identità? Un tentativo per risolvere questo problema può essere trovato

in alcuni autori contemporanei. Joseph de Finance e Paul Ricoeur cercano

una soluzione partendo dalla critica del “Cogito”, seguendo due diverse tradizioni

filosofiche. Dal canto suo, Robert Spaemann tenta di risolvere la questione

di tale dualismo antropologico tramite il recupero della nozione di vita come

Aussein-auf-Sein.

265


266


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 267-275

note e commenti

Eudaimonía e historicidad

JAVIER ARANGUREN ECHEVARRÍA *

«Tampoco los juegos de la infancia a policías y ladrones dejarían presagiar el

tumor o el automóvil que destrozarán a aquel niño ni las tiernas escaramuzas

amorosas de una tarde llevarían a pensar en los mezquinos modos del médico que

practicará el aborto o en las peleas que acabarán en los tribunales por un piso

adquirido entre dos. E incluso cuando las cosas van mejor, el final de todas formas

es un desastre» (C. MAGRIS, Microcosmos, Anagrama, Barcelona 1999, pp.

152-153).

Buena parte del esfuerzo de la filosofía griega se dirige a la formación cabal

del ciudadano de la polis. La noción de paideia es principalmente educativa, al

tiempo que política. Educar es educar ciudadanos. Estos, de todos modos, son

también imagen de esa otra totalidad que es el hombre: del mismo modo en que el

gobernante sabe poner en juego a los distintos tipos de súbditos que dependen de

él (guerreros, comerciantes, ciudadanos libres), así la razón debe someter de un

modo político a las distintas instancias que componen al ser humano para conducirlo

hacia un ideal de excelencia, hacia una vida buena. En este punto, tanto

Platón como Aristóteles coinciden. De hecho, es bien sabida la estrecha conexión

entre ética y política que aparece en los dos grandes autores del periodo clásico: la

República es un tratado —entre otras cosas— sobre estas dos materias: saber

gobernar y aprender a vivir superando el engaño de la apariencia. La Ética a

Nicómaco empieza con referencias a la actividad política, y no parece buscar otra

cosa que ésta y, de hecho, se continúa —y así lo propone el libro X de la obra—

de un modo natural por la obra aristotélica que lleva ese nombre: política.

¿Cuál es la función de la investigación ética? No un conocimiento teórico

sino práctico: alcanzar una sabiduría que se conforme a un modo de vida, lograr

* Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080-Pamplona, España

267


note e commenti

la vida buena, lograr la excelencia. Aristóteles no es ajeno a las coordenadas de

su tiempo. Se encuentra en una cultura en la que la imagen dominante es la del

héroe. Homero ha impuesto de modo natural la figura de Ulises y la de Aquiles:

prototipos ambos de autores de gestas heroicas, más allá de las toscas realidades

cotidianas de aquellos hombres atados a la seguridad que impone el alma de

comerciantes. El héroe, en cierta medida, se constituye como un objetivo hacia el

que el hombre virtuoso debe dirigir la mirada con deseo de imitarlo.

Pero los ideales que presentan ambos personajes no son sencillos. Aquiles es

un medio dios, y es un solitario: su carácter difícil, su cólera indomable, el orgullo

de su venganza puede llegar a convertirlo en un ser odioso 1 . Ulises inspira

más confianza: él es completamente humano 2 . Su astucia es un medio clave de

supervivencia, aunque puede llegar a parecer la suya una actitud un tanto rastrera

en la medida en que no duda de servirse del engaño (por ejemplo, para escapar

de Polifemo). Tal vez pueda decirse que es por esos defectos por lo que resulta

tan cercano.

Al mismo tiempo Ulises es un ser máximamente atractivo, pues tiene claras

las metas ambiciosas que conforman su camino (volver a Ítaca, reencontrarse

con Penélope), y por ellas está dispuesto a poner en riesgo su vida y la vida de

los hombres que le acompañan. Como todo héroe, acabará su viaje en solitario,

teniendo que reconquistar él mismo las posesiones que ha perdido y el reconocimiento

de su esposa, su hijo, sus criados. Ahora bien: del mismo modo que

Ulises se sirve del engaño (y cabe entonces preguntarse, ¿es que cualquier medio

es válido para lograr una meta apetecible?), y del mismo modo en que se acaba

convirtiendo en un personaje que está solo (¿merece la pena la lucha por una

meta cuando ésta lleva a la pérdida de los amigos?), además, el premio que logra

parece decepcionante: una casa, una mujer, encarar la vejez con garbo: éste es el

ideal de vida burguesa. Mas no basta tal horizonte. Se desconoce cómo acabó sus

días (¿viejo, enfermo, solo?). Y, lo que es peor, él es un personaje que ya sabe lo

que le espera tras la muerte. El mismo Aquiles se lo ha dicho desde el Hades:

«No pretendas, Ulises preclaro, buscarme consuelos

de la muerte, que yo más querría ser siervo en el campo

de cualquier labrador sin caudal y de corta despensa

que reinar sobre todos los muertos que allá perecieron» 3 .

La existencia de Ulises es interesante en la medida en que se encuentra de

viaje. La obtención de la meta buscada implica el final de la historia, con él la

1 Cfr. C.M. BOWRA, Historia de la literatura griega, F.C.E., México 1963, pp. 17-20.

2 Cfr. J. CHOZA y P. CHOZA, Ulises, un arquetipo de la existencia humana, Ariel, Barcelona

1996.

3 HOMERO, Odisea, canto XI, vv. 487-491, ed. de J.M. Pabón, Gredos, Madrid 1982. A este

texto hace referencia PLATÓN, La República, ed. de C. Eggers, Gredos, Madrid 1988, libro

VII, 516d.

268


Javier Aranguren Echevarría

narración cesa. ¿No resulta entonces esa meta (Ítaca y Penélope) una suerte de

insulto en comparación con el apasionante viaje del héroe? Curioso: ese viaje se

organiza en dirección al fin (el fin es el principio de la acción); y sin embargo,

conseguir el fin trae consigo el cese de la narración y de todo interés por el devenir

de Odiseo. Parece como si la consecución de la eudaimonía estuviera situada

fuera del acontecer histórico del hombre, precisamente porque en ella se da la

detención de toda historia: la felicidad supone la anulación del tiempo. Si éste

sigue pasando, toda felicidad es aparente; si, por el contrario, se detiene, ya no se

está hablando de la realidad humana. Esta paradoja se encuentra presente en

Aristóteles.

Además, no es sólo Homero quien domina el ambiente cultural del momento:

la tragedia, otro género dado a los héroes, marca la mentalidad de la tradición

cultural ateniense con un halo de amargura, de indefinición y de desconcierto

que, seguramente, ha de aparecer en el fondo de la filosofía práctica del

Estagirita: ¿qué pensar de un mundo que viene marcado por la presencia de la

muerte o por el dictado del destino?, ¿cabe desde ese hecho hablar de vida

buena?, ¿es posible sostener que el ideal ético-político-educativo de la gran filosofía

griega llega a algún buen puerto? La conciencia que domina en la escena

dramática parece querer defender que no es así. Edipo, Antígona, Penteo, todos

lo confirman con la suerte que corren. Baste, por evitar una relación prolija de

textos, con los siguientes versos de una tragedia que —en teoría— busca proponer

cierta salida optimista: Edipo en Colono.

«Sólo los dioses viven ajenos a la vejez y a la muerte;

lo demás todo lo arrolla el tiempo omnipotente.

Consúmese la lozanía de la tierra, consúmese la del cuerpo,

muere la lealtad, germina la mala fe, y unos mismos vientos

jamás soplan constantes, ni de corazón a corazón ni de ciudad a ciudad.

Porque a unos ahora, a otros más tarde,

lo dulce se les torna amargo y lo amargo dulce…

¡Ah!, el tiempo interminable engendra en su carrera muchos días y noches,

y la lanza vendrá a romper lo que ahora son abrazos de paz» 4 .

Desde tal tipo de universo, ¿qué posibilidades existen para lograr la eudaimonía?

Parece que pocas. Mas, y es fundamental, se hace necesario caer en la cuenta

de lo siguiente: si es cierto que todos los hombres, en todas sus actividades, lo

que buscan es un horizonte de perfección al que todos llaman felicidad —aunque

no estén de acuerdo acerca de en qué consiste tal cosa— 5 , pero también es cierto

que tal ideal no se puede alcanzar jamás, aunque se persiguiera el objeto más

4 SÓFOCLES, Edipo en Colono, vv. 608-620, en Tragedias, ed. de I. Erradonea, Alma Mater,

Barcelona 1959.

5 Cfr. Ética a Nicómaco, libro I, cap. 1.

269


note e commenti

conveniente para el ser humano —pues siempre se acabaría chocando con la dictadura

de cronos, con la muerte 6 , o con la necesidad de trascender el tiempo y lo

humano en una supuesta contemplación estática 7 —, entonces habrá que concluir

que el hombre es un animal absurdo.

Un moto fundamental en el mensaje aristotélico es que «la naturaleza no hace

nada en vano» 8 . Mas, por lo que aquí aparece, habrá que decir nada, a excepción

del ser humano, que no puede conseguir aquello que por inclinación natural le

pertenecería (la felicidad, la vida buena). Y ocurre que de lo absurdo se sigue

cualquier cosa (ex impossibile sequitur quodlibet), lo que hace sostener que el

mismo ideal de eudaimonía, de paideia o de corrección política no es más que

una quimera de un valor real tan nimio, contingente o convencional como el que

se sostenía acerca de la moralidad en el planteamiento violento de Trasímaco o

Calicles 9 . De ese modo, si se opta por derribar todas las convenciones morales el

resultado será el mismo que si se lucha por su desarrollo, protección y defensa:

nada, ninguno. O, quizás esta apreciación parezca más adecuada, se logra por lo

menos distraer la atención de la muerte, la cual se constituye, a fin de cuentas,

como la única realidad con la que debe contar el hombre con toda certeza.

¿Por qué se sostiene que el ideal de vida buena resulta irrealizable? El motivo

es doble. Por un lado, en Acerca del alma, se da la conocida definición de que

«la vida está en el movimiento» 10 : la acción práctica es temporal, pertenece a un

contexto en el que todo se mide según el antes y el después, en el que no es posible

detenerse sino que en él todo fluye. En la medida en que esas acciones pertenecen

al ámbito de lo humano se puede hablar de historia: el hombre y los pueblos

registran sus hechos, guardan memoria de sus acciones, conservan hazañas

dignas de ser contadas 11 . Al señalar la primacía de lo histórico, parece como si la

acción práctica excluyera por definición el gozo con lo obtenido: más se trata de

un tender a la felicidad que de un poseer la felicidad. La posesión, en la medida

en que renuncia al movimiento porque ya no busca, supondría una renuncia de la

vida 12 . «La vida buena no puede consistir en una condición no activa porque la

eudaimonía implica actuar» 13 . Ulises en Ítaca y con Penélope deja de tener una

historia, para convertirse en cotidianeidad: allí se pierde en la noche del tiempo,

como los demás. Sólo era inmortal cuando buscaba, es decir, cuando no tenía el

6 Los textos en este sentido son muy frecuentes a lo largo del primer libro de la Ética a

Nicómaco. Cfr., por ejemplo, 1099b4-8; 1100a5-9; 1100b34-1101a9; etc.

7 Cfr. Ética a Nicómaco, libro X, cap. 7 y 8.

8 Cfr. Acerca de las partes de los animales 465a24; Analíticos posteriores, 72b 5-73a 20;

etc.

9 Cfr. PLATÓN, República, libro I; Gorgias, 356-414.

10 Acerca del alma, 413a 25; cfr. ibidem, 415b13: «Para los vivientes vivir es ser». Es decir,

moverse.

11 Cfr. H. ARENDT, La condición humana, Paidós, Barcelona 1993, cap. 5.

12 Ésta es la interpretación de la felicidad aristotélica que lleva a cabo H. ARENDT, o.c., pp.

30-33; p. 81.

13 M. NUSSBAUM, La fragilidad del bien, La balsa de la Medusa, Madrid 1995, p. 408.

270


Javier Aranguren Echevarría

fin, la felicidad. La victoria práctica de Ulises supone la pérdida de su atractivo y

una evocación nostálgica de un pasado glorioso 14 .

Si se sostiene esa lectura del aristotelismo —que, por otro lado, parece más

acorde con la sensibilidad griega que la afirmación tomista de la connaturalidad

con Dios o el paulino «conocerse como sois conocidos»— hay que llegar a la

conclusión de que el ideal felicitario es más un límite al que se tiene que tender

infinitamente que un posible logro, ya que llegar a él sería dejar de vivir. Lograr

la felicidad es dejar de ser hombre (quizás suponga devenir en una suerte de

dios, pero implica perder lo humano). En ese sentido no es extraño deducir que

la búsqueda del hombre resulta inútil y superflua y, de ese modo, también el

hombre mismo carece de sentido: en cuanto tiende no ha logrado; y en la medida

en que logra deja de ser propiamente humano. ¿Pertenece la felicidad a la vida

humana? La duda queda suspensa como una espada sobre la doctrina aristotélica.

El ideal de la vida buena aparece como irrealizable. El segundo motivo al que

se hacía referencia se ve haciendo resaltar otra posible aporía que presenta la

ética aristotélica en cuanto se la enfrenta —de nuevo— con el carácter social del

agente moral y con la historicidad característica del ser humano.

Respecto al carácter social: la adquisición de las virtudes se lleva a cabo por

mor de la consecución de la vida buena (que, en gran medida, ya se constituye

por y consiste en esa misma adquisición de hábitos virtuosos). Ahora bien, parece

que surge un serio problema al constatar que la consecuencia de las virtudes

es la obtención de una virtud —la magnanimidad— que se presenta como ornato

de todas ellas 15 , y que resulta fuertemente criticable desde la perspectiva de la

sensibilidad moderna.

La magnanimidad es una virtud cuya consecuencia estriba en llevar al sujeto

a bastarse por sí mismo, no dependiendo ya más de la existencia en la polis, sino

llegando a una autarquía que se anunciaba en el orgullo de Aquiles o en la astucia

de Odiseo, siempre en busca de sus propios fines. Pocos amigos, pocas palabras,

autosuficiente: así es el magnánimo, frente al común de los hombres 16 .

De todos modos, señala Nussbaum que «es extraño hacer al makarios solitario,

pues nadie querría tener todas las cosas buenas del mundo a condición de

estar solo. Porque el hombre es una criatura política y propensa naturalmente a la

convivencia» 17 . Lo mismo dice el Estagirita al inicio del libro VIII de la Ética:

nadie querría vivir sin amigos. Pero parece que el magnánimo lo consigue, y que

de ese modo también logra no depender de la suerte, o de la fortuna de los otros.

Así se libra de preocupaciones que constituyen un obstáculo para la felicidad en

cuanto que atan al sujeto a los avatares de la historia: historicidad y autarquía se

enfrentan.

14 Y por eso se narran las hazañas de los héroes. Cfr. W. SHAKESPEARE, Henry V, act IV, scene

III, vv. 12-67.

15 Ética a Nicómaco, libro 4, cap. 3, 1124a1.

16 Cfr. Ética a Nicómaco, 1169a20-1169b2. Cfr. ibidem, 1124ass.

17 M. NUSSBAUM, o.c., p. 414.

271


note e commenti

Eudaimonía y carácter histórico parecen incompatibles. La virtud dota al

hombre de independencia respecto del tiempo, lo aleja de la condición animal y

hace que se asemeje con lo divino. Pero también resulta que lo des-socializa. «El

que no puede vivir en comunidad, o no necesita nada por su propia suficiencia,

no es miembro de la polis, sino una bestia o un dios» 18 . ¿Lleva a eso la virtud?

En ese caso, flaco favor es el que hace al deseo humano de plenitud.

Si la consecuencia de la vida virtuosa es la obtención de una virtud que permite

la independencia de lo social (dejar de ser un animal político para pasar a

ser independiente, para bastarse a sí mismo), ¿no habrá que concluir que la ética

aristotélica propugna la desaparición de lo propiamente humano? El ideal del

magnánimo, que es el resultado al que se llega desde una vida virtuosa, no parece

especialmente atractivo. ¿No será mejor dejar de lado la virtud?, ¿no será una

salida más coherente? Peligra la consistencia del planteamiento aristotélico, en la

medida en que esa vida perfecta se propone como una anulación de la historicidad

del hombre, de su carácter social y, por lo tanto, de lo propio de la condición

humana.

Si, además, se tienen en cuenta las acusaciones de aristocratismo que suelen

acompañar a la concepción magnánima del ideal virtuoso, ¿no será necesario

declarar el fracaso de la explicación aristotélica acerca de lo que son los hombres?

A fin de cuentas su doctrina sólo refleja la realidad de una exigua minoría,

al tiempo que el propio Estagirita reconoce que «la mayoría de los hombres son

malos, y están dominados por el afán de lucro, y son cobardes en los peligros» 19 .

Y no parece adecuado sostener con Casey que sencillamente se trata de un fallo

de atención del filósofo griego, que no llega a ser capaz de superar sus coordenadas

culturales, y que por eso refleja un talante aristocrático 20 . Del mismo modo

en que la apreciación de Nussbaum, de que quizás —ojalá, diría ella— los pasajes

máximamente autárquicos de la obra del Estagirita tendrían que ser un añadido

debido a una mano posterior 21 . Tal cosa no es posible, no ya en el caso del

magnánimo, sino en el de la contemplación de Dios como realización máxima de

la perfección del hombre (realización claramente solitaria, como ese mismo Dios

hacia el que se tiende) 22 . Y eso aunque tales afirmaciones parezcan contradecir

la coherencia interna de la Ética a Nicómaco, en la misma medida en que el ideal

por excelencia de la vida plena queda puesto —precisamente— en la contemplación,

es decir, en una actividad perfecta 23 para la cual el movimiento no cuenta

sino per accidens, de manera coincidental 24 .

18 Política, libro I, cap. 1, 1152a14.

19 Retórica, 1382b5.

20 J. CASEY, Pagan virtues, Oxford U.P. 1990, p. 82.

21 Cfr. M. NUSSBAUM, o.c., pp. 463-468.

22 Cfr. Metafísica, libro XII, cap. 7, 1072b15-25 y ss.

23 Cfr. Metafísica, libro IX, cap. 7, 1048b28-35, donde distingue entre acto y movimiento;

entre praxis y poiesis o kínesis.

24 Cfr. A. LLANO, El enigma de la representación, Síntesis, Madrid 1999, p. 112.

272


Javier Aranguren Echevarría

La duda que cabe seguir planteando es si tal tipo de actividad es propia del

hombre, o más bien de algo divino que hay en el hombre, pero que no coincide

con lo que el hombre es (así lo pensaría Averroes, y quizás Aristóteles 25 ). De ese

modo, se quiere señalar que el mayor problema del ideal aristotélico de eudaimonia

no estriba en que alcanzarlo suponga la anulación de lo humano del hombre,

sino en que aunque se puede lograr en cierto modo, por la misma historicidad

que caracteriza a la condición humana, al final resulta inalcanzable. La coincidencia

del espíritu trágico con el contenido de la doctrina aristotélica es en este

aspecto plausible. Se tratará de mostrar con un pasaje de una obra quizás poco

conocida, que completa la filosofía práctica de Aristóteles: la Retórica 26 .

A lo largo de los capítulos 12 y 13 del segundo libro de esa obra, traza

Aristóteles, con una destacable habilidad fenomenológica, los rasgos propios del

carácter de jóvenes, ancianos y hombres maduros. Su análisis de los jóvenes

(que, por lo menos, ya tienen una racionalidad que los aleja del desprecio que el

Estagirita siente hacia los niños) impide sostener que en ellos se dé la virtud. En

todo caso parece como si la apariencia de virtud fuera fruto de la irreflexión, de

la inmadurez: los ideales —parece indicarse— pertenecen a la edad de los que

carecen de historia, de experiencia. Es decir, pertenecería a esa edad de los que

todavía no saben que los arquetipos de lo virtuoso resultan en sí mismos, a la

larga, insostenibles. Aristóteles subraya en el texto este aspecto, especialmente a

raíz de su insistencia en las modalidades de tipo temporal que acompañan a

muchas de sus descripciones. El mismo carácter histórico del hombre es el que

se encargará de acabar con sus ilusiones. De este modo, los jóvenes

– no son avariciosos, pero «por no haber experimentado todavía la privación»;

– son cándidos, pero «por no haber presenciado muchas maldades»;

– confiados, pero «por no haber sido engañados muchas veces»;

– llenos de esperanza, pero porque se parecen a los borrachos y porque carecen

de experiencia: no tienen idea de la verdadera dureza del camino;

– son valerosos, pero por su mismo carácter esperanzado, «porque todavía no

han sido rebajados por la vida», que aún no les ha forzado en la degustación del

mal.

– «Aman en exceso y odian en exceso»: la juventud es una edad de excesos, de

carencia de medida y —por tanto— de irreflexión, de audacia, que deja la vía de la

existencia en condiciones de ser perfectamente dirigida hacia el desengaño 27 .

Los ancianos salen todavía peor parados: al menos en el joven queda la esperanza,

hija de la falta de experiencia. Cuando se conoce la decadencia propia de

la vejez, se puede caer en la cuenta de que todo logro fue prematuro, y que no

25 Cfr. Acerca de la reproducción de los animales, 736b23-29.

26 Cfr. Retórica, libro II, cap. 12, 1389a1- 1390b13. Existe un tratamiento similar en el estudio

de los diferentes tipos de amistad que se lleva a cabo en Ética a Nicómaco, libro VIII,

cap. 3, 1156a6-1156b33.

27 El texto al que aquí se hace referencia se encuentra en Retórica, 1389a1-1389b13.

273


note e commenti

conducía sino a la pérdida de lo bueno o hacia la muerte. La apreciación de

Aristóteles no es en absoluto optimista cuando dice que «los ancianos que han

pasado la madurez tienen caracteres que en general se deducen de los contrarios

a los anteriores, pues a causa de haber vivido muchos años y de haber sido

muchas veces engañados y haber cometido errores, y por ser malas la mayoría

de las cosas, no aseguran nada y en todo se quedan mucho más cortos de lo que

se debe. Y opinan, pero no están ciertos, y cuando disputan añaden siempre el

quizá y acaso, y todo lo dicen así y nada con seguridad. Y son maliciosos,…

mezquinos,… cobardes,… más egoístas de lo que se debe,… viven mirando a la

utilidad, y no al bien,… difíciles para la esperanza, por causa de su experiencia,

pues la mayoría de las cosas salen mal, ya que todo en general va a lo peor… Y

sus faltas las cometen por maldad, no por insolencia» 28 .

La paradoja se presenta con toda desnudez: ¿es posible la eudaimonía en el

carácter histórico del ser humano? Como se ha dicho, desde una perspectiva teórico-práctica

no es posible, ya que la misma idea de felicidad aparece como un

límite de la acción y por lo tanto de la vida. Desde un punto de vista prácticofenomenológico

tampoco: cuando se tienen energías para la virtud, se carece de

ésta por falta de experiencia; cuando se logra la experiencia se sabe que la vida

virtuosa es una quimera. La única manera de evitar la vejez es muriendo pronto.

Mas resulta claro que la muerte es lo que todo el mundo odia y, por lo tanto, no

puede ser tomada como la plenitud de la vida. Morir joven es dejar sin realizar la

obra bella, digna de ser recordada, que se incluye como promesa en toda vida

humana. Es haber pasado sin dejar huella, sin participar en el diálogo que constituye

el entramado de lo humanizante, de los ciudadanos de la polis.

Nadie quiere morir, pues se ama la vida como el artista ama su obra 29 . Sin

embargo, el precio de no querer morir es llegar a la vejez. Es verdad que en la

Retórica se habla también del hombre maduro (aquellos que están en plenitud,

que no tienen los excesos de ninguno de estos dos extremos, que juzgan conforme

a lo verdadero, viviendo para lo adecuado, «templados con valor y valientes

con templanza», teniendo lo bueno de las otras dos edades 30 ), pero la madurez

en el cuerpo va de los treinta a los treinta y cinco años y en el alma se sitúa en

torno a los cuarenta y nueve 31 . Es un periodo breve, siempre demasiado corto,

tras el cual viene irrevocablemente la senilidad, y con ella, la desconfianza, suspicacia,

mezquindad, prudencia astuta, cobardía, egoísmo, utilidad, desvergüenza,

desesperanza, maldad y tristeza.

Así las cosas, ¿quién es verdaderamente feliz? No puede serlo quien sobrevive,

ya que su carácter se acaba por lo general amargando; pero ¿acaso lo es quien

28 Retórica, libro II, c. 13, 1389b14-1390a24.

29 Ética a Nicómaco, lib. VIII, 1168a 5: «La obra es en cierto modo su creador en acto, y así

el creador ama su obra porque ama el ser».

30 Cfr. Retórica, 1390a28-1390b13.

31 Ibidem, 1390b10.

274


Javier Aranguren Echevarría

muere en combate? Basta recordar que el Aquiles de Homero se cambiaría por

cualquier siervo o campesino con tal de no morar más en el Hades para contestar

negativamente a esa posibilidad. Y eso es así si se afirma la pervivencia del alma

tras la muerte. Mas ni siquiera es éste un tema claro —ni libre de polémica— en

Aristóteles 32 . Él mismo afirma que tras la muerte «nada parece ser ni bueno ni

malo para el muerto» 33 .

Mas en ese caso, ¿de qué sirven las obras hechas en vida? La necesidad de

una recompensa más allá del ahora parece una exigencia si no se quiere romper

con el equilibrio de lo moral: empujar a ser virtuoso y que después resulte indiferente

haberlo sido o no, ataca al principio de no contradicción, y con ello al fundamento

de la misma realidad 34 .

Parece necesario explicitar los problemas que acompañan a la interesante

solicitud aristotélica de apostar por la virtud y la excelencia. Si bien desde ella en

principio se presenta una concepción optimista del ser humano, no acaba de

saber dar respuesta del para qué de tal comportamiento, del sentido del indudable

esfuerzo que el ejercicio de su ideal comporta. No es hora de dar soluciones,

sino simplemente de dejar planteados los problemas. El descubrimiento de un

tipo de acto que no sea kinético, pero que sí sea vivir, altera la definición de

Acerca del Alma de lo que es la vida, cosa que resulta pertinente para cualquier

tipo de vivir que trascienda lo corpóreo. Si tal modo de vida (en cierta medida)

se da en el ser humano, es lógico también que la eudaimonía que le corresponde

a este tipo de ser no quede encerrada en la esfera del tiempo, aunque sí que pertenezca

a la realidad de la vida (tal y como parece permitir la noción de praxis).

Si no, y quizás sea necesario hacerlo así, no se puede separar a Aristóteles de la

concepción trágica que caracteriza la cultura de su tiempo.

32 Sobre las diferentes interpretaciones de la inmortalidad del alma desde presupuestos aristotélicos

(Tomás de Aquino, Averroes, Pomponazzi, etc.), cfr. J. ARANGUREN, El lugar del

hombre en el universo, Eunsa, Pamplona 1997, pp. 49-60 y 92-106.

33 Ética a Nicómaco, lib. III, 1115a25ss

34 Cfr. PLATÓN, Gorgias 474b, 482b-483d; 508c-509b. También, N. BILBENY, Sócrates. El

saber como ética, Península, Barcelona 1998, pp. 69-70.

275


276


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 277-285

Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore *

GABRIEL CHALMETA **

«Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio — scrive Giovanni Paolo II

in uno dei documenti forse più importanti del suo pontificato — si manifesta

anche nella ricerca coraggiosa condotta da alcuni pensatori più recenti» 1 . Tra

questi autori, anzi in cima all’elenco di coloro che appartengono all’ambito

orientale, il papa ha voluto menzionare Vladimir S. Solov’ëv. Nel fare riferimento

a questo come ad altri pensatori, aggiunge però subito dopo Giovanni Paolo II,

«non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi

significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi

dal confronto con i dati della fede. Una cosa è certa: l’attenzione all’itinerario

spirituale di questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca

della verità e nell’utilizzo a servizio dell’uomo dei risultati conseguiti. C’è da

sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i

suoi continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell’umanità» 2 .

Nelle pagine che seguono mi sono proposto di ricordare, molto sinteticamente,

il significato generico che sembrerebbe appropriato dare all’affermazione secondo

la quale esiste un fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio, per poi passare

subito — si tratta, infatti, del mio obiettivo principale — a illustrare in una forma

molto più precisa la rilevanza pratica di questa dottrina generica mediante il paragone

tra quanto Aristotele (il filosofo) e V. Solov’ëv (il filosofo cristiano) hanno

detto riguardo all’importante argomento del significato dell’amore.

* Relazione tenuta in occasione della “Giornata sul pensiero filosofico di Vladimir Solov’ëv.

Nel primo centenario della sua morte”, organizzata dalla Facoltà di Filosofia della

Pontificia Università della Santa Croce, il 12 maggio 2000.

** Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare

49, 00186 Roma

1 GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Fides et ratio, n. 74.

2 Cfr. ibidem.

277


note e commenti

1. Vladimir Solov’ëv, filosofo cristiano

Quello percorso da Vladimir Solov’ëv è un vero e proprio «cammino di ricerca

filosofica» 3 . In questo senso, ciò che fa spiccare la voce di Solov’ëv nel dibattito

filosofico-teologico russo dell’Ottocento non è lo stile o la tematica dei suoi

scritti, ma il grado alto di lucidità, argomentazione e sistematicità impresso al

discorso. Solov’ëv non è semplicemente uno tra i tanti “pensatori” russi

dell’Ottocento, ma un vero e proprio filosofo.

Va però subito precisato che la razionalità con cui Solov’ëv costruisce questa

sua ricerca filosofica è una razionalità sui generis: vale a dire, una razionalità

senza remore né riduzionismi, una razionalità postmoderna (nel senso positivo di

questa parola). Essa, infatti, lungi dall’assumere un’intenzionalità neutrale, e

tanto meno negativa nei confronti della rivelazione divina (cristiana), ha invece

«tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede» 4 .

Cosa si vuole però indicare quando si parla di una concezione completa (postmoderna

in senso positivo) della razionalità perché aperta ai dati della rivelazione

divina (cristiana)? Quali sono i vantaggi di questo modo di ragionare?

Cercherò, come avevo già annunziato, di dare una risposta molto sintetica a questa

domanda. In questo senso, un aiuto prezioso ci viene da R. Guardini, il quale,

soprattutto nel saggio Spirito vivente, del 1927, ci ha lasciato in eredità alcune

riflessioni che sono ancora oggi molto valide (sarà tutt’altro che sprecato il

tempo che il lettore attento dedichi a consultare questa fonte) 5 .

Ci sono alcune realtà costitutive del nostro mondo che appartengono alla

sfera dell’esperienza e del pensiero a noi accessibile in quanto uomini (esseri

razionali), ma che sono di fatto le più alte della sfera naturale, appartenenti al

supremo rango dei valori morali; sono le più delicate, le più complicate; della più

grande rilevanza per la nostra vita. Ora, proprio per questi motivi, il pensiero

naturale, o piuttosto l’uomo singolare impegnato in questa attività conoscitiva

trova grandi difficoltà per apprenderle. Vederle pone al suo intelletto le più alte

esigenze, sia in termini di capacità naturali e di abilità acquisite, sia in termini di

sforzo e di fatica psico-biologici. Inoltre, una volta apprese, è facile che il soggetto

possa smarrirle in tutto o in parte, anche perché gli si manifestano piene di

conseguenze etiche, spesso alquanto impegnative per la sua esistenza personale.

Tra queste realtà spicca per R. Guardini la persona; e precisamente la reale,

autentica persona: lo «spirito vivente». Essa, a differenza del soggetto astratto,

semplice rappresentante della natura umana (quasi un mero elemento del tutto

sociale o storico), è un essere unico ed irrepetibile, al quale va riconosciuto un

valore assoluto, sia in termini di rispetto che — almeno in alcuni casi — di

amore vero e proprio. Ora, tale affermazione “assoluta” dell’individuo umano si

3 Cfr. ibidem.

4 Cfr. ibidem.

5 Cfr. R. GUARDINI, Spirito vivente (1927), in Natura. Cultura. Cristianesimo, Morcelliana,

Brescia 1983, pp. 93-117.

278


Gabriel Chalmeta

sorregge sulla sua affermazione come “immagine di Dio”, e con questo non

abbiamo ancora superato i limiti della ragione naturale. La realtà persona giunge

però alla condizione univoca e piena di verità naturalmente conosciuta solo

quando emerge nella Rivelazione la realtà soprannaturale ad essa “corrispondente”

(la “filiazione divina”) ed è colta dalla fede. E resta puramente un dato naturale

finché questa fede viene tenuta ferma. Non appena la fede scompare, la

nozione di persona incorre nuovamente in quella particolare penombra della

mente, si sposta lontano, scivola via.

Nella stessa situazione gnoseologica della “persona” si troverebbero, sempre

secondo l’opinione di R. Guardini (che condivido pienamente), tutta una serie di

valori, di esigenze, di ordini intimamente connessi con questo dato: la libertà,

l’amore, il matrimonio, l’amicizia, ecc.

Ebbene, cercherò adesso di illustrare più in dettaglio dove sta la specificità

nonché i “vantaggi” della ragione e della filosofia cristiana o, ancora meglio, del

cristiano, attraverso l’esame di ciò che su uno di questi temi essenziali, l’amore

quale senso o significato della libertà umana, è stato detto da due grandi filosofi.

Il primo è quello forse più rappresentativo di quanti hanno fatto uso di una razionalità

non-cristiana (anche se non pregiudizialmente contraria alla rivelazione),

vale a dire Aristotele; l’altro, è il filosofo cristiano che abbiamo voluto far conoscere

specificamente in questo saggio, V. Solov’ëv, nella speranza di contribuire

alla diffusione e allo studio delle sue opere. Del resto, proprio perché gli autori

scelti sono questi due, sembra ampiamente giustificata la scelta del “significato

dell’amore” come tema di confronto: esso costituisce infatti il nucleo centrale

della loro filosofia morale.

2. Il significato dell’amore nell’orizzonte filosofico non cristiano:

Aristotele

La questione del significato dell’amore interpersonale è presente negli scritti

di Aristotele quando stabilisce che la nostra felicità dipende essenzialmente dai

vincoli di amicizia che gli uomini riescono a stabilire con i loro simili. «Senza

amici — scrive nell’Etica Nicomachea — nessuno sceglierebbe di vivere, anche

se possedesse tutti gli altri beni» 6 . E nell’Etica Eudemia manifesterà — questa

volta in senso positivo — la sua profonda convinzione «che l’amico sia uno dei

più grandi beni, e che la mancanza di amicizie e la solitudine siano una cosa terribile.

Per questo motivo, con gli amici trascorriamo la vita intera, e insieme ad

essi stiamo di nostra piena volontà. Infatti, coi familiari, coi parenti, coi compagni

passiamo il tempo, o coi figli, coi genitori, con la moglie» 7 .

È tuttavia, aggiungerà immediatamente Aristotele, molto importante distin-

6 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155 a 5-6.

7 ARISTOTELE, Etica Eudemia, VII, 1, 1234 b 32 - 1235 a 2.

279


note e commenti

guere a questo riguardo l’amicizia buona o autentica dall’amicizia non buona o

non autentica (apparente). La prima nasce quando il legame affettivo tra le persone

(utilitarista o puramente piacevole) viene integrato, grazie alle umane capacità

d’intendere e di volere, con l’amore verso la persona e verso il vero bene (la

virtù) dell’altro.

Infatti, spiegherà Aristotele, il legame affettivo basato sull’utilità o sul piacere

sensibile, è certamente una condizione che rende possibile l’amore, l’amicizia

autentica: un po’ come avviene con l’immagine sensibile e la conoscenza intellettuale

(secondo l’adagio latino: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in

sensu”). Tuttavia, se la volontà del soggetto non va al di là dell’“oggetto” dell’affettività,

se questi non ama secondo ragione ma soltanto secondo i sensi, tale

volere non avrà per oggetto la persona e il vero bene (la virtù) dell’individuo

amato. Quale sarà, invece, in questi casi la realtà amata? Ecco la risposta, netta e

un po’ caustica, di Aristotele: «coloro che amano a causa dell’utile, amano a

causa di ciò che è bene per loro stessi, e quelli che amano per il piacere lo fanno

per ciò che è piacevole per loro stessi, e non in quanto l’amato è quello che è, ma

in quanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, queste amicizie sono

accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è amato, ma in

quanto procura un bene o un piacere» 8 .

Il destino cui sembra condurre inevitabilmente la strada della pura affettività

è dunque la strumentalizzazione in favore delle proprie emozioni positive o della

propria utilità delle persone alle quali il soggetto è unito da tali legami affettivi.

«L’amico [falso] — dirà Aristotele “sulla scia” di Kant e del suo principio personalista

— è per i cattivi un’appendice delle cose, non già [come avviene per i

buoni] le cose un’appendice degli amici» 9 .

Per giungere a un’autentica amicizia, per creare una vera e propria comunione

interpersonale in grado di rompere l’isolamento esistenziale in cui si trova

l’uomo, sarà invece necessario che questi compia uno sforzo di natura intellettuale

e volitiva per integrare i propri legami affettivi con l’amicizia vera o autentica,

vale a dire con l’amore verso la persona e il vero bene di coloro che sono

oggetto di tali affetti. Infatti, «amare è trattare l’oggetto dell’amore in quanto

amico, per essere quello che è, e non in quanto musico [bene piacevole] o medico

[bene utile]. Per questo motivo, il piacere dell’amicizia deriva dall’amico in

quanto tale: il suo amico lo ama per sé stesso, e non per altra cosa» 10 .

Se ci domandassimo però fino a quale punto, secondo l’opinione di

Aristotele, potrebbe e dovrebbe arrivare l’unione amicale tra due persone; oppure,

più precisamente ancora, se è razionale o no, nella logica aristotelica, arrivare

fino all’unione (intenzionale, di amore) tra le persone stesse degli amici, la risposta

da dare sembrerebbe dover essere molto chiara: se gli amici sono amici

8 Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 3, 1156 a 10-19.

9 Cfr. ARISTOTELE, Etica Eudemia, VII, 2, 1237 b 33-34.

10 Ibidem, VII, 2, 1237 b 1-4.

280


Gabriel Chalmeta

autentici, la loro amicizia dovrebbe giungere alla donazione reciproca, all’unione

tra le persone in quanto tali. Un’unione, come ha scritto Aristotele parlando sempre

dell’amicizia autentica, analoga a quella che esiste nell’uomo buono verso se

stesso, e che ha come caratteristiche specifiche «l’augurare l’esistenza, il vivere

insieme, il condividere gioie e dolori [“non gioire per altro motivo che non sia la

gioia dell’altro”], essere un’anima sola, e non poter vivere separato l’uno dall’altro,

ma se c’è bisogno morire insieme» 11 .

Quindi, il vincolo di amicizia autentica dovrebbe operare una vera unione tra

le persone stesse degli amici, che giungono in qualche modo (intenzionale e abituale)

12 a «essere un’anima sola» 13 . Fin qui l’interpretazione dei testi aristotelici

non sembra problematica. Ebbene, non sarebbe un corollario perfettamente congruente

con tali premesse il riconoscimento di un valore assoluto alle persone in

quanto tali, almeno nel senso che meriterebbero di essere amate come noi stessi?

Ed il loro vincolo di amicizia, non dovrebbe avere in alcuni casi (per esempio,

tra i coniugi) un carattere definitivo, in qualche modo indissolubile?

Il fatto è che non risulta possibile trovare in Aristotele affermazioni esplicite

in favore di queste ultime conclusioni. Anzi, non mancano i testi che sembrerebbero

escluderle, anche se in maniera sofferta, quasi dubbiosa 14 . Perché? Perché

nell’orizzonte aristotelico (non cristiano) è davvero molto difficile giustificare

razionalmente il valore assoluto dell’altro (degli altri) e, dunque, la donazione

definitiva in favore del suo bene.

3. Il significato dell’amore nell’orizzonte filosofico cristiano: V. Solov’ëv

Nella riflessione filosofica di V. Solov’ëv, la questione che a noi interessa è

stata l’argomento principale di una breve opera che ha proprio come titolo Il

significato dell’amore (1892-1894) 15 , «forse il più penetrante dei suoi scritti» (P.

Evdokimov).

11 Cfr. ibidem, VII, 6, 1240 b 1-20.

12 Cfr. ibidem, 1, 1234 b 28.

13 Cfr. ibidem, 6, 1240 b 10.

14 Ecco, per citarne qualcuno, il seguente monologo, quasi una riflessione ad alta voce, che ci

ha lasciato lo Stagirita: «Quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono,

ma poi quello risulta malvagio e ce ne si accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse

vero che è impossibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, ma solo ciò che è

buono? […] Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna

farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che

hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli a emendare il carattere, più che non a

ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Chi,

dunque, rompe un’amicizia siffatta pare che non faccia niente di strano, perché non era

amico di un uomo di tale sorta: non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato,

se ne separa» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, IX, 3, 1165 b 13-22).

15 Nelle citazioni seguirò l’ottima edizione di La Casa di Matriona, Opere, vol. 1, Milano

1983, pp. 53-107.

281


note e commenti

C’è, scrive Solov’ëv nelle prime pagine di questo saggio, un solo tipo di rapporto

che permette all’uomo di superare la solitudine esistenziale: il rapporto di

amore, ossia di unione, con gli altri. C’è però anche, in ogni uomo, una forza che

si oppone frontalmente a questa apertura: l’egoismo. Anzi, forse in nessuna concezione

religiosa come in quella cristiana si è tanto consapevoli di quanto l’egoismo

sia «una forza non solo reale ma fondamentale, radicata nel centro del

nostro essere donde permea ed abbraccia tutta la nostra realtà; una forza costantemente

attiva in tutti i particolari e in tutti i dettagli della nostra esistenza» 16 .

Ora, proprio per questo motivo, nella concezione cristiana si è altrettanto consapevoli

dell’importanza e della dignità dei legami affettivi interpersonali; molto

di più di quanto non lo fosse, per esempio, Aristotele. Infatti, sosterrà Solov’ëv,

per «sradicare realmente l’egoismo è necessario contrapporgli un amore [affettivo]

che sia altrettanto concreto e indiscutibile, un amore che sia altrettanto capace

di permeare e di dominare tutto il nostro essere» 17 . Il significato, la dignità

dei legami affettivi fra soggetti umani, dipende proprio dal fatto che essi, in qualche

modo, “ci costringono” a conoscere (con l’intelligenza) e a riconoscere (con

la volontà) l’altro in quanto persona, vale a dire con quello stesso valore centrale

e assoluto che, in forza dell’egoismo, noi ammettiamo soltanto a noi stessi.

L’amore sentimentale «è importante non come uno qualsiasi dei nostri sentimenti,

ma in quanto è il trasferimento di tutto il nostro interesse vitale da noi stessi

nell’altro, lo spostamento del centro stesso della nostra vita personale» 18 .

Questo spostamento «è proprio di ogni amore [affettivo], ma — preciserà

Solov’ëv — essenzialmente lo è dell’amore [affetto] sessuale; esso si distingue

da tutti gli altri generi di amore [affetto] per la maggiore intensità, per il carattere

più onnicomprensivo, per la possibilità di una reciprocità più piena e completa»

19 . Infatti, tra i fenomeni costitutivi dell’affettività umana, un posto privilegiato

— anche per ragioni strettamente legate alla Rivelazione — è stato assegnato

dal pensiero cristiano in generale, e da V. Solov’ëv in particolare all’affettività

sessuale. Questa, dirà il nostro autore, ha come “oggetto” un essere che, in quanto

appartenente all’altro sesso, è «dotato della stessa realtà e concretezza che

abbiamo noi ed è altrettanto pienamente oggettivato, e nello stesso tempo si

distingue in tutto e per tutto da noi così da essere realmente altro; in altre parole,

avendo tutto lo stesso contenuto essenziale che abbiamo anche noi, lo possiede

però in una maniera o secondo un aspetto diverso, in un’altra forma, così che

ogni manifestazione del nostro essere e ogni nostro atto vitale possono trovare in

questo altro una manifestazione corrispondente ma non identica, così che la loro

relazione sia uno scambio pieno e costante, una affermazione piena e costante di

sé nell’altro, un’interazione e una comunione perfette» 20 .

16 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 2, 3, p. 68.

17 Ibidem.

18 Ibidem, 3, 1, p. 72.

19 Ibidem.

20 Ibidem, 2, 3, pp. 68-69.

282


Gabriel Chalmeta

Lo spostamento del centro stesso della nostra vita personale, l’affermazione

piena di sé nell’altro mediante la comunione di amore perfetta con lui o lei di cui

parla Solov’ëv in questo contesto, non sono tuttavia conseguenze dell’innamoramento,

ma piuttosto prefigurazioni e promesse in qualche modo implicite in questo

fenomeno affettivo (cfr. § 3.1.); prefigurazioni e promesse che l’affettività, in

quanto tale, non può né capire né compiere da sola (cfr. § 3.2.).

3.1. Le prefigurazioni e le promesse dell’innamoramento

È una tesi pacifica che Il significato dell’amore sia stato un saggio scritto in

polemica esplicita con Schopenhauer, il quale riteneva che la continuazione della

specie è nell’uomo, come negli animali, la sola o la principale giustificazione

della sessualità. Ritengo, tuttavia, che ad un livello più profondo l’interlocutore

principale di Solov’ëv in quest’opera sia stato I. Kant. L’autore russo avrebbe

infatti cercato con questo scritto di «superare (in linea di principio) l’abisso che

secondo i presupposti di Kant, separava il mondo morale da quello fisico», giacché

in quest’ultimo mondo — sosteneva Kant — non esisterebbe — nulla che la

volontà possa amare universalmente e incondizionatamente 21 .

La risposta di Solov’ëv, come lasciano indovinare le riflessioni che poco fa

abbiamo riportato, sarà che, pur esistendo veramente un tale abisso tra il mondo

fisico e quello morale, quest’ultimo «è già prefigurato nel sentimento amoroso

stesso che, prima di qualsiasi realizzazione [libera e attiva], colloca necessariamente

il proprio oggetto nella sfera della individualità assoluta, lo vede in una

luce ideale e crede nella sua assolutezza […]» 22 .

Infatti, «tutti sanno che nell’amore si ha una particolare idealizzazione dell’oggetto

amato, che agli occhi dell’amante si presenta in una luce completamente

diversa da quella in cui lo vedono gli estranei. Io parlo qui della luce non solo

in un senso metaforico. In questo caso […] si tratta di una specifica percezione

sensibile: l’amante vede realmente e visivamente percepisce qualcosa di diverso

dagli altri. È vero che questa luce d’amore si spegne anche per lui, e ben presto,

ma questo significa forse che era qualcosa di falso, che si trattava solo di un’illusione

soggettiva?» 23 .

Come si spiega questa visione? In un primo approccio, si potrebbe rispondere

nel modo seguente. La sensibilità dell’uomo non è mai una realtà puramente psicofisica,

ma si trova sempre più o meno “contaminata” dalle facoltà spirituali. Né

i suoi sensi, né la sua affettività scattano quindi solo di fronte alle caratteristiche

strettamente materiali dell’altro (“le sue misure e proporzioni fisiche”), ma piutto-

21 Cfr. V. SOLOV’ËV, Profili di filosofi: Immanuel Kant, in Opere, vol. 2, La Casa di Matriona,

Milano 1989, p. 289 (si tratta della traduzione della voce “Kant” che Solov’ëv scrisse per

l’Enciclopedia Brockhaus-Efron (1891 ss.), vol. XXVII, pp. 321-339).

22 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 3, 2, p. 76.

23 Ibidem.

283


note e commenti

sto di fronte a quel modo singolare in cui lei o lui sono belli e che — per l’appunto

— solo l’occhio innamorato riesce a cogliere. Mi riferisco concretamente alla

particolare percezione che gl’innamorati hanno del modo di parlare e di guardare

proprio dell’altro, del peculiare tono e delle inflessioni della sua voce, dei movimenti

delle mani, del suo sorriso, ecc.; e come compendio e giustificazione più

che altro intuitivamente percepiti di queste caratteristiche dosate in maniera unica

e irrepetibile, di fronte al suo essere “una tale persona”. Tutto questo comunque

non giustifica, ovviamente, il suo valore assoluto, unico e irrepetibile.

La spiegazione, in ultima analisi, è che «la vera essenza dell’uomo in genere

e di ogni singolo uomo non si esaurisce nella datità delle sue manifestazioni

empiriche; e che non esiste alcun punto di vista dal quale si possa contrapporre a

questa affermazione una qualche obiezione ragionevole e consistente […]». Noi

sappiamo, più precisamente ancora, «che l’uomo, oltre alla sua natura materiale

e animale, ne possiede anche una ideale, la quale lo unisce alla verità assoluta,

cioè a Dio. Oltre al contenuto materiale o empirico della propria vita, ogni uomo

racchiude dentro sé l’immagine di Dio». Ora, è proprio questa la verità che ci

rivela la luce dell’innamoramento, «trasfigurando e spiritualizzando la forma dei

fenomeni esterni […]» 24 .

«Ma a questo punto, aggiunge immediatamente Solov’ëv, siamo noi che dobbiamo

agire: siamo infatti proprio noi che dobbiamo comprendere questa rivelazione

e servircene perché non rimanga il momentaneo ed enigmatico balenio di

un mistero non meglio identificato» 25 .

3.2. Il significato dell’amore: il compimento delle promesse dell’innamoramento

Fin qui le prefigurazioni e le promesse del fenomeno affettivo dell’innamoramento;

promesse, dicevo, che l’innamoramento, in quanto tale, non può comprendere

né realizzare da solo. «A questo punto, siamo noi che dobbiamo agire»:

il superamento del proprio isolamento da parte dei soggetti che sono legati affettivamente,

per essere reale, esige in ogni caso — come aveva già notato

Aristotele — uno sforzo speciale per trascendere l’oggetto specifico dell’affetto,

in modo che la verità sulla persona e il vero bene dell’altro si converta nell’oggetto

dell’amore reciproco. Siamo infatti proprio noi che, usando della nostra

libertà, della nostra capacità di intendere e di volere, «dobbiamo comprendere

questa rivelazione e servircene perché non rimanga il momentaneo ed enigmatico

balenio di un mistero non meglio identificato» 26 .

24 Ibidem, 3, 3, pp. 76-77.

25 Ibidem.

26 In rapporto diretto con queste considerazioni vanno notate le seguenti riflessioni tipicamente

aristoteliche, sempre però insufficienti come spiegazione ultima del valore assoluto della

persona. Il pensiero e le operazioni ad esso connesse sono irriducibili alla vita sensitiva, ma

284


Gabriel Chalmeta

Sempre sulla scia di Aristotele, possiamo però chiederci ancora: fino a che

punto deve giungere questo amore verso la persona del prossimo se si desidera

realizzare il significato dell’affettività, e in particolare dell’affettività sessuale,

fino alle ultime conseguenze? Fino alla donazione definitiva in favore degli altri,

o di alcuno/i di essi, sarà la risposta di Solov’ëv. Solo nella misura in cui sia possibile

impegnarsi per tutta la vita, si può infatti amare veramente qualcuno (nella

sua identità); se invece quest’impegno non fosse possibile, neppure si potrebbe

realmente amare qualcuno (nella sua identità). In questo senso, come ha scritto

M. Buber, la parola “Esso” è collocata nel contesto dello spazio e del tempo;

invece, la parola “Tu” non è posta nel contesto di nessuno dei due.

È vero: questo “uscire definitivamente da se stessi” per ottenere il miglioramento

dell’altro e nell’altro, si presenta spesso soggettivamente come una rinuncia

costosa e non facilmente comprensibile. Si direbbe, quasi, un “atto di fede”

negli altri: in lui o in lei, nel caso dell’amore coniugale. Dico fede perché l’altro,

«nella sua esistenza empirica, soggetta alla percezione sensibile e reale, non ha

un valore assoluto: esso è imperfetto per quanto riguarda la sua dignità e transeunte

per quanto riguarda la sua esistenza. Possiamo quindi attribuirgli un valore

assoluto in forza di una fede che è fondamento di ciò che speriamo e prova

delle cose che non vediamo. Ma che c’entra la fede nel nostro caso? Che significa

propriamente credere nel valore assoluto, e per ciò stesso infinito, di un determinato

essere individuale? Affermare che esso in sé e in quanto tale, nella sua

particolarità e nel suo isolamento, ha un valore assoluto, sarebbe assurdo e addirittura

sacrilego. È ben vero che la parola “adorazione” è molto usata nella sfera

delle relazioni amorose, ma è altrettanto certo che in questo ambito anche la

parola “follia” ha un suo uso legittimo. Quindi, in ossequio alle leggi della logica

[…], ed in omaggio al comandamento della vera religione, che vieta l’idolatria,

quando parliamo di fede nell’oggetto del nostro amore dobbiamo intendere l’affermazione

di questo oggetto come qualcosa che esiste in Dio e che solo in questo

senso acquista un valore infinito» 27 .

Non riconoscere le difficoltà di comprendere e realizzare questo significato

dell’amore significa negare l’esperienza stessa. Tuttavia, fa pure parte della

comune esperienza percepire che questa rinuncia all’indipendenza lungi dal

comportare una diminuzione o un impoverimento della persona, è anzi motivo di

un arricchimento oggettivo del suo essere e della sua esistenza.

contengono un “plus”. Questo “plus” è spiegato da Aristotele mediante il ricorso alle categorie

metafisiche di potenza e atto. L’intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere

le pure forme; a loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle immagini della

fantasia; occorre, pertanto, qualcosa che traduca in atto questa doppia potenzialità, in modo

che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma, e la forma contenuta nell’immagine

diventi concetto colto e posseduto in atto. In questo modo, sorse quella distinzione divenuta

fonte di innumerevoli problemi e discussioni sia nella Antichità sia nel Medioevo fra “intelletto

potenziale o possibile” ed “intelletto attuale o attivo”.

27 V. SOLOV’ËV, Il significato dell’amore, cit., 4, 6, p. 91.

285


286


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 287-311

Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot)

MARIANO FAZIO *

1. La crisi della cultura della Modernità

Il XIX secolo, almeno dal punto di vista della storia delle idee, è stato un

periodo di ottimismo. Le ideologie politiche che lo caratterizzano — liberalismo,

nazionalismo, marxismo — in quanto figlie dell’Illuminismo, hanno come uno

degli elementi decisivi della loro cosmovisione la nozione di progresso, riproposta

più modernamente dallo scientismo positivista. Nel pensiero ideologico riveste

particolare importanza anche l’elemento escatologico o utopico: il trionfo

dell’ideologia e l’avanzare della scienza avrebbero portato con sé l’avvicinarsi di

un futuro felice e più degno dell’uomo.

Fatte queste premesse, è facile rendersi conto che l’avvento della Prima

Guerra Mondiale è stato un autentico shock culturale: invece di pace, libertà, giustizia

e benessere, la Modernità sboccava in un conflitto bellico di dimensioni

mai viste nella storia. Logicamente, il 1919 segnerà l’inizio di una consapevolezza

sempre più acuta della crisi della cultura. Lo storico delle idee, abituato a convivere

con interpretazioni dei processi culturali molto diverse, si sorprende nel

constatare che attorno alla fine della Grande Guerra tra gli intellettuali esiste una

quasi unanimità nell’affermare che la crisi c’è. Ovviamente le diagnosi sono differenti,

ma è importante sottolineare questa consapevolezza generalizzata della

crisi.

Seguendo Gonzalo Redondo diciamo che «negli anni immediatamente successivi

al 1919 i filosofi, i teologi, gli storici, i poeti o gli artisti parlarono

ampiamente della crisi culturale. Si occuparono della crisi culturale Paul Valéry

— che nello stesso 1919 scriveva: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di essere mor-

* Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma

287


note e commenti

tali» 1 — Franz Kafka, André Malraux, Oswald Spengler, Guglielmo Ferrero,

José Ortega y Gasset, Arnold Toynbee, Christopher Dawson, Max Scheler,

Nicolai Hartmann, Edmund Husserl, Martin Heidegger, Thomas Mann, Marcel

Proust, Aldous Huxley, Max Horkheimer, Theodor Adorno, Max Pollock,

Walter Benjamin, Erich Fromm, Herbert Marcuse, Antonio Gramsci, Jacques

Maritain, Thomas S. Eliot… l’elenco, per essere completo, dovrebbe includere

tutti i pensatori del periodo compreso tra le due guerre — dal 1919 al 1939.

Nell’elenco completo figura anche il Papa Pio XI che resse la Chiesa durante la

maggior parte di questi anni» 2 .

Unanimità nel constatare la crisi, diversità nell’interpretarne le cause. Di

fronte alla tragedia della guerra si aprivano diverse strade per lo spirito umano.

Alcuni si resero conto che si trattava di una crisi di valori; altri pensarono che la

causa era eminentemente economica; altri, infine, arrivarono alla conclusione

che bisognava spingere le ideologie fino alle ultime conclusioni. Attorno a questi

anni si verificò un movimento di avvicinamento al religioso, alla trascendenza.

Ci furono conversioni al cattolicesimo o ad altre confessioni cristiane da parte di

alcuni intellettuali occidentali (T.S. Eliot, G.K. Chesterton, J. Maritain, G.

Marcel, E. Waugh, S. Undset, ecc.), originate in parte dal rifiuto dell’essenza

delle ideologie moderne, cioè l’affermazione dell’autonomia assoluta dell’uomo.

Ci furono correnti filosofiche che “ossigenano” l’atmosfera chiusa del positivismo,

dell’idealismo e del materialismo decimononico, quali lo spiritualismo, il

personalismo, la filosofia dell’azione, il neotomismo; altri proposero “filosofie

dei valori” come tentativi per arginare la decomposizione sociale e spirituale

dopo la Grande Guerra (M. Scheler, N. Hartmann); contemporaneamente, alcuni

storici guardarono al passato per trovarvi punti di riferimento che potessero servire

per costruire sulle macerie della guerra (W. Jaeger, J. Huizinga, C. Dawson).

Caratteristica comune di questi critici è il rendersi conto che la causa ultima

della crisi era una sbagliata concezione della natura umana. Se l’affermazione

assoluta dell’autonomia dell’uomo, con la sempre più generalizzata libertà di

1 Riportiamo di seguito la citazione completa di Paul Valéry: «Noi, le civiltà, sappiamo ora di

essere mortali. Abbiamo sentito parlare di mondi completamente scomparsi, di imperi

sprofondati, con i propri uomini e le proprie opere; sepolti sotto lo strato inesplorabile dei

secoli con i propri dei e le proprie leggi, con le proprie accademie e le proprie scienze pure

ed applicate, con le proprie grammatiche ed i propri dizionari, con i propri classici, con i

propri romantici e i propri simbolisti, con i propri critici ed i propri critici dei critici.

Sappiamo bene che tutta la terra visibile è fatta di cenere e che la cenere significa qualcosa.

Scorgevamo, attraverso lo spessore della storia, i fantasmi di immensi vascelli carichi di

ricchezza e di ingegno… Elam, Ninive, Babilonia, erano nomi che affascinavano, ma indeterminati

e la scomparsa totale di quei mondi aveva per noi lo stesso poco significato che

aveva la loro stessa esistenza. Francia, Inghilterra, Russia saranno un giorno nient’altro

che nomi affascinanti. […] Così ci accorgiamo che l’abisso della storia è divenuto tanto

grande da accogliere tutto il mondo…» (P. VALÉRY, La crise de l’esprit, Paris 1919, in

Varieté I, pp. 11-12).

2 G. REDONDO, Historia Universal, Eunsa, Pamplona 1984, vol. XIII, p. 28.

288


Mariano Fazio

coscienza — la coscienza non avrebbe nessun parametro oggettivo con cui misurarsi,

e quindi rimane completamente libera e padrona di sé —, portò allo scontro

tra milioni di uomini, era forse perché l’uomo non è un individuo assolutamente

autonomo, o perché le diverse nazioni, idolatrate dal nazionalismo, in realtà non

incarnano i valori più alti. Questa consapevolezza della mancata fondazione

antropologica delle ideologie post-illuministiche portava come conseguenza una

crisi nella concezione dello Stato, dell’economia — crisi che il crollo di Wall

Street nel 1929 si occuperà di rendere ancora più evidente —, della stessa funzione

della scienza, che prima si considerava come medicina per rimediare tutti i

problemi dell’umanità.

Nel periodo tra le due Guerre Mondiali, alcuni intellettuali cristiani hanno

pensato e scritto su possibili modi di organizzare cristianamente la società. Per

molti, l’unica soluzione alla crisi della cultura era il ritorno all’impostazione religiosa

dell’esistenza umana e dei rapporti tra gli uomini. Abbiamo scelto tre di

questi autori: Nicola Berdiaeff (1874-1948), Jacques Maritain (1882-1973) e

Thomas Stearns Eliot (1888-1965). La scelta non è casuale: penso che si tratta di

tre autori rappresentativi di questo periodo chiave del XX secolo. Questi tre

autori si sono convertiti al cristianesimo dopo aver militato nell’ambito delle

ideologie post-illuministiche: Berdiaeff supera un primo periodo marxista per

approdare nell’Ortodossia russa, anche se manterrà alcuni elementi della sua

filosofia della storia non completamente ortodossi; Maritain milita nel socialismo

ed è uno scientista convinto, prima di sentire le lezioni di Bergson al

Collège de France e di conoscere il poeta cattolico Léon Blois, che lo spinse

verso la conversione al cattolicesimo; T. S. Eliot si converte all’anglo-cattolicesimo

della High Church anglicana, dopo un periodo di scetticismo. I tre autori rappresentano

culture diverse: la russa, la francese e l’anglosassone. I tre si conoscono,

ed è noto l’influsso di Berdiaeff su Maritain e di Maritain su Eliot. Nelle

seguenti pagine presenteremo le riflessioni di questi autori sulla necessità di

rifondare la società su basi cristiane. Ci limiteremo ad esporre il contenuto di tre

libri scritti nel periodo fra le Guerre. Il primo è del 1924 (Un Nuovo Medioevo,

di Berdiaeff), il secondo del 1936 (Umanesimo integrale, di Maritain) e l’ultimo

del 1939 (L’idea di una società cristiana, di Eliot) 3 .

3 La bibliografia su questi tre autori è molto vasta. Per lo scopo di questo articolo ci limitiamo

a suggerire i seguenti titoli: su Berdiaeff, O. CLEMENT, Berdiaev. Un philosophe russe

en France, Desclée de Brouwer, Paris 1991; F. COPLESTON, Russian Religious Thought.

Selected Aspects. University of Notre Dame, Indiana 1988; G. PIOVESANA, Storia del pensiero

filosofico russo, Paoline, Cinisello Balsamo 1992. È molto utile la “scheda biografica”

in N. BERDJAEV, Filosofia dello Spirito Libero. Problematica e apologia del cristianesimo,

ed. it. a cura di Giuseppe Riconda, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, pp. 62-66.

Su Maritain, J.-L. BARRÉ, Jacques et Raïsa Maritain. Les Mendiants du Ciel, Stock, Paris

1996; J.M. BURGOS, Cinco claves para comprender a Jacques Maritain, «Acta

Philosophica», 4/I (1995), pp. 5-25; G. CAMPANINI, L’utopia di una nuova cristianità.

Introduzione al pensiero politico di J. Maritain, Morcelliana, Brescia 1975; IDEM,

Cristianesimo e Democrazia, Morcelliana, Brescia 1980; IDEM, La filosofia politica del

289


note e commenti

2. Un Nuovo Medioevo, di Nicola Berdiaeff (1924)

Nel 1924 Nicola Berdiaeff pubblica un saggio intitolato Un Nuovo Medioevo.

Lì, il filosofo russo analizza la crisi della cultura della Modernità, sia nell’Occidente

europeo che in Russia, e propone alcune soluzioni per uscirne.

2.1. La fine del Rinascimento

Secondo Berdiaeff, il momento culturale del suo tempo segna la fine del

Rinascimento. Cos’è per il nostro autore il Rinascimento? È un nuovo sentimento

della vita e un nuovo rapporto dell’uomo con l’universo, che si fonda sull’umanesimo

antropocentrico e autonomo che segna la fine del Medioevo. Il modello

rinascimentale si è esaurito, e l’autoaffermazione dell’uomo finì con la sua

autodistruzione: «L’umanesimo non ha rafforzato l’uomo, ma lo ha indebolito:

questo è lo sviluppo paradossale della storia moderna. Attraverso la sua autoaffermazione,

l’uomo si è perso, invece di trovarsi. Se l’uomo europeo entrò nella

storia moderna pieno di fiducia in se stesso e nelle sue potenze creatrici, se negli

albori di quest’epoca gli sembrò che tutto dipendeva dalla sua arte, la quale veniva

considerata senza frontiere né limiti, adesso ne esce per penetrare in un’epoca

inesplorata, con una grossa depressione, con la sua fede a pezzi — quella fede

che l’uomo aveva nelle proprie forze e nel potere della sua arte — minacciato dal

pericolo di perdere per sempre il nucleo della sua personalità» 4 .

L’uomo nuovo voleva essere l’autore e l’ordinatore della vita, sperimentare la

sua libertà. L’umanesimo tentò di liberarsi dai lacci che lo legavano al centro

religioso della sua esistenza, onnipresente durante i secoli medioevali. Si pensò

che l’epoca moderna aveva scoperto l’uomo: in realtà, in questo processo di

autoaffermazione l’uomo ha perso il suo centro e la sua profondità esistenziale e

si limitò a vivere nella superficie. Il progetto rinascimentale privò l’uomo di

molte ricchezze vitali: «Per ingrandire l’uomo, l’umanesimo lo privò della sua

somiglianza divina e lo sottomise alla necessità naturale» (p. 21).

Le prime manifestazioni del Rinascimento sono molto feconde e belle. Non si

trattò di un semplice tornare all’Antichità, dato che tornare indietro nella storia è

impossibile. I primi umanisti erano dei cristiani che avevano un’eredità culturale

permeata dalla fede cattolica. Secondo Berdiaeff, l’attività creatrice dell’uomo si

Novecento in Francia e in Italia, in AA.VV., Stato Democratico e Personalismo, Vita e

Pensiero, Milano 1995.

Su Eliot, P. ACKROYD, T.S. Eliot, Hamish Hamilton, London 1984; A. AUSTIN, T.S. Eliot:

The Litterary and Social Criticism, Indiana University Press, Bloomington 1971; W. LITZ,

Eliot in his Time, Princeton University Press, New Jersey 1972; J. PEARCE, Litterary

Converts, Harper Collins, London 1999.

4 N. BERDIAEFF, Una Nueva Edad Media, Club de Lectores, Buenos Aires 1946, pp. 12-13.

La traduzione italiana è nostra.

290


Mariano Fazio

trovava già nella sua pienezza durante il Medioevo cattolico. Anzi, fu il cattolicesimo

medioevale a trasmettere la cultura classica alla posterità. Il cattolicesimo

sempre ha avuto una forza umana molto grande: non conduceva l’uomo soltanto

al cielo, ma suscitava anche la bellezza e la gloria sulla terra: «La tendenza verso

il cielo e la vita eterna genera bellezza e produce il potere nella vita temporale

terrestre […]. L’ascetismo medioevale era una straordinaria scuola per l’uomo:

dava all’uomo una tempra sublime. E l’uomo europeo della storia moderna ha

vissuto grazie a quanto aveva acquisito in quella scuola. Tutto lo deve al cristianesimo

[…]. Il cristianesimo è continuato a vivere in lui sotto una forma secolarizzata,

preservandolo dalla decomposizione» (p. 23). Il primo Umanesimo era

antico e cristiano, beveva dalla tradizione classica e da quella cristiana. Non era

antireligioso: anzi, rappresentava una più completa manifestazione della rivelazione

cristiana grazie alla rivalutazione di alcuni aspetti della soggettività, quale

la libertà. Ma quando l’umanesimo voltò le spalle a Dio, avvenne la rottura interiore

dell’uomo, l’apparizione della superficialità e la perdita dei valori antichi e

medioevali.

L’umanesimo del XIX e XX secolo manifesta l’esaurimento del progetto rinascimentale.

Berdiaeff elenca le manifestazioni più importanti della distruzione

umanista dell’uomo: si perde la concretezza dell’uomo spirituale, e si passa all’astrattezza

dell’uomo individualista, semplice atomo dove la personalità si disperde.

Berdiaeff sottolinea che dall’individualismo liberale assoluto si è passato al

collettivismo comunista assoluto, due forme di atomizzazione, di decomposizione

astratta sia della società che della personalità. Nietzsche e Marx illustrano

genialmente l’autonegazione e l’autodistruzione dell’umanesimo.

L’umanesimo comportò anche la perdita della struttura organica della vita,

con le sue gerarchie e i suoi punti di riferimento esistenziali. Come conseguenza

si scatenò un processo di crescente meccanizzazione della vita, che arrivò al suo

apogeo con la Rivoluzione industriale: «La macchina ha distrutto la struttura

secolare della vita umana, organicamente vincolata con la vita della natura. La

meccanizzazione della vita rompe la gioia del Rinascimento, rendendo impossibile

l’espansione creatrice della vita. La macchina uccide il Rinascimento» (p.

37). L’uomo rinascimentale contempla la natura, impara dalle sue forme, ricerca

scientificamente i suoi misteri. Ma a poco a poco con la meccanizzazione della

vita che uccide sia l’uomo che la natura, l’uomo si separa dalla natura e lotta

contro di essa. Berdiaeff unisce questo processo ad alcune forme dell’arte contemporanea

quale il futurismo, dove si perde l’immagine naturale dell’uomo, che

si degrada a livello delle cose inanimate. Anche nell’àmbito filosofico l’immagine

dell’uomo si perde nella gnoseologia critica. Quando l’uomo dimentica il suo

centro spirituale e nega l’origine spirituale del suo essere, perde se stesso e perde

la sua immagine eterna.

Possiamo finire questa descrizione di Berdiaeff della Modernità — o meglio,

sul processo di decadenza del Rinascimento — con le seguenti parole: «Il

Rinascimento iniziò con l’affermazione dell’individualità creatrice dell’uomo e

291


note e commenti

terminò nella negazione di questa individualità. L’uomo senza Dio smette di

essere uomo: questo è il senso religioso della dialettica interna della storia

moderna, storia della grandezza e della decadenza delle illusioni umanistiche.

L’uomo in stato di disperazione, svuotata la sua anima, diventa schiavo non delle

forze superiori, sovrumane, ma degli elementi inferiori e infraumani. Lo spirito

umano si copre di tenebre, e viene posseduto da spiriti inumani. L’elaborazione

della religione umanista, della definitiva divinizzazione dell’uomo e dell’umano,

costituisce precisamente i prodromi della fine dell’umanesimo, la sua autonegazione,

l’esaurimento delle sue forze creatrici» (p. 50).

2.2. Il nuovo Medioevo

Per Berdiaeff, una volta esaurito il progetto rinascimentale, si aprirà una

nuova epoca nella storia dell’umanità, dopo una congiuntura di barbarie, la cui

manifestazione più tragica è stata la Prima Guerra Mondiale. In concreto, il filosofo

russo parla di un nuovo Medioevo. Questa espressione deve essere capita

nel suo senso giusto: Berdiaeff non è un nostalgico che vuole tornare indietro

nella storia. Non lo vuole perché si rende conto che questo è impossibile: nemmeno

il Rinascimento è stato un ritorno all’Antichità. Il Medioevo nuovo avrà

alcune somiglianze con l’antico, come il Rinascimento ne ha rispetto all’Antichità,

ma sarà un’epoca nuova.

Il nostro autore distingue tra periodi storici diurni e notturni. Commentando

alcune poesie di Tiutcheff, Berdiaeff considera che i periodi diurni sono quelli

superficiali e razionalisti, come i tempi moderni: il sole espande un velo di luce

che non lascia guardare la realtà in profondità. I periodi notturni, invece, sono

quelli profondi, caratterizzati da un sopra-razionalismo, o se si vuole, dal pensiero

metafisico ed ontologico. Il Medioevo cristiano è stato un periodo notturno, e

ci avviamo verso un’altra epoca tenebrosa, intesa non nel senso in cui il Secolo

dei Lumi giudicava la cristianità medioevale, ma in questo appena accennato

della profondità metafisica. In altre parole, il nuovo Medioevo sarà un’epoca

sacra, religiosa. I tempi moderni ci hanno insegnato che senza Dio l’uomo scompare.

I nuovi tempi non possono accettare una visione della religione propria

della cosmovisione individualistico-liberale, cioè la considerazione della fede

come qualcosa di privato. No, la religione sta diventando qualcosa di generale, di

collettivo. In concreto, Berdiaeff pensa che si arriverà a stabilire una lotta frontale

tra la religione del Vero Dio, di Cristo, e quella dell’Anticristo, identificata,

quando scrive questo libro, con il comunismo sovietico. Con la Rivoluzione del

1917, Russia è già entrata nel nuovo Medioevo. Perciò, ribadiamo, Berdiaeff non

è un nostalgico ingenuo che sogna un passato aureo: il carattere religioso della

nuova epoca significa una società permeata dallo spirito cristiano, ma dove il

peccato non è scomparso e dove la lotta tra il bene e il male si fa più drammatica.

Come già è stato segnalato, i tempi moderni sono caratterizzati da una visione

292


Mariano Fazio

dell’uomo individualista e autonoma: il Rinascimento doveva liberare, emancipare

l’uomo dalla teocrazia e dalle imposizioni medioevali. Liberalismo, democrazia,

parlamentarismo, filosofia razionalista, industrialismo, positivismo,

socialismo, comunismo e tanti altri movimenti culturali si autoproclamarono

liberatori. Ma l’uomo moderno arriva alla fine del Rinascimento senza sapere

qual è lo scopo, la finalità della libertà e del suo agire. Perciò, le nuove forme

sociali e la nuova cultura devono indicare le strade da seguire, gli scopi da raggiungere.

Berdiaeff — che scopre nel capitalismo e nel socialismo la stessa matrice

ideologica, cioè l’economicismo — considera che uno degli ambiti al quale si

deve prestare più attenzione per segnalare gli scopi esistenziali è quello del lavoro.

Dopo la Grande Guerra il capitalismo entrò in crisi, e sarà difficile ritrovare

la disciplina di lavoro delle società capitalistiche. Il socialismo non sarà capace

di farlo. «Le ragioni spirituali del lavoro si sono corrotte, senza che se ne trovassero

altre. La disciplina del lavoro è una questione vitale per le società contemporanee.

Ma si tratta della santificazione e della giustificazione del lavoro. Il

capitalismo e il socialismo non si pongono la questione, perché non si interessano

del lavoro in quanto tale» (p. 87). Berdiaeff prospetta un mondo economicamente

più povero, meno abitato perché sarà doverosa una limitazione della crescita

della popolazione mondiale. Sarà un mondo più vicino alla natura, con una

proprietà privata più limitata e spiritualizzata. «La fine del capitalismo è la fine

della storia moderna e l’inizio del nuovo Medioevo. La grandiosa impresa della

storia moderna deve essere liquidata, gli affari non sono ben riusciti» (p. 88).

Un altro ambito che cambierà volto nel nuovo Medioevo sarà quello del rapporto

tra cittadino e nazione. L’individualismo portò verso il nazionalismo,

un’altra manifestazione dell’atomizzazione moderna. Il nazionalismo è una religione

pagana, che mette la nazione al posto di Dio. Il cristianesimo, invece, è

universalista. L’apparizione della religione cristiana significò la fine del particolarismo

pagano. I tempi moderni, con l’allontanarsi dal centro religioso, sono

ritornati al nazionalismo pagano. Ma le circostanze attuali sono diverse: il dolore

della Grande Guerra finì per unire i popoli nella stessa sofferenza, i rapporti si

sono accresciuti, gli interessi sono ormai mondiali: «Il mondo distrutto della storia

moderna, fatto a pezzi dalle sanguinose lotte fra le nazioni, le classi e gli individui,

incline anche al sospetto e all’odio, si incammina adesso verso l’unificazione

universalista, verso la vittoria sul particolarismo nazionale esclusivo che

ha portato le nazioni alla caduta e alla decomposizione» (p. 91). I movimenti che

tendono verso questa universalizzazione appartengono già al nuovo Medioevo.

In questo senso, l’internazionalismo comunista è una forza medioevale, come lo

è anche il cristianesimo universalista.

Il nuovo Medioevo sarà un’epoca religiosa, come religiosa è stata l’epoca

medioevale precedente. Comunque, ci saranno delle differenze. Berdiaeff sostiene

che ogni cultura si manifesta mediante simboli. Per il filosofo russo il primo

Medioevo fu un periodo fortemente simbolico e figurativo. Ora, la simbologia

293


note e commenti

medioevale creò confusione tra il Regno di Dio e le società terrene. La teocrazia

medioevale finì per essere un simulacro del Regno di Dio in questa terra, che

provocò violente reazioni contrarie, giacché questo Regno non si può imporre

con la forza. Nel Medioevo «non si è tenuta in considerazione la libertà dello

spirito umano che consente volontariamente alla realizzazione del Regno di

Cristo sulla terra» (p. 183). Il filosofo russo è convinto che è impossibile tornare

all’antico Stato Teocratico, che in realtà è stato un insuccesso, dato che «non ha

realizzato effettivamente la verità di Dio, ma solamente ha simulato di realizzarla

medianti segni esteriori» (p. 185). Il nuovo Medioevo, invece, deve realizzare

una autentica trasfigurazione della vita, cioè la religione deve penetrare in ogni

ambito della vita umana, trasfigurando la propria esistenza: «Nessuna sfera della

creazione, nessuno degli aspetti della cultura e della vita sociale può restare neutrale

in materia religiosa, vale a dire completamente laici. La filosofia non si propone

di diventare serva della teologia, né la società ha l’intenzione di sottomettersi

alla gerarchia ecclesiastica. Ma all’interno della conoscenza, all’interno

della vita sociale si sveglia una volontà religiosa. Le forme della conoscenza e

della società dovranno scaturire dall’interno, zampillare dalla libertà dello spirito

religioso» (pp. 95-96).

Berdiaeff, ribadiamo, non vuole un ritorno alla teocrazia medioevale. La religione

dovrà ispirare l’intera esistenza umana, ma non per l’imposizione di alcune

forme sociali: anzi, le forme sociali sorgeranno dalla fede fatta vita negli uomini

neo-medioevali. Il rifiuto dell’eteronomia della teocrazia medioevale portò verso

l’autonomia moderna, che in realtà cadde in una completa anomia morale.

Berdiaeff propone un terzo concetto, la teonomia libera, che manifesterà la

volontà di raggiungere realmente — e non solo simbolicamente — il Regno di

Dio. «La conoscenza, la morale, le arti, lo Stato, l’economia, devono diventare

religiose, ma liberamente, dall’interno, non per coazione e dall’esterno. Nessuna

teologia regge dall’esterno il processo della mia conoscenza, né mi impone nessuna

norma. La conoscenza è libera. Ma io non posso realizzare le finalità della mia

conoscenza senza indirizzarmi verso l’esperienza religiosa, senza una iniziazione

filosofica nei misteri dell’essere. In questo io sono ormai un uomo del Medioevo,

non sono più un uomo della storia moderna. Io non cerco l’autonomia della religione,

ma la libertà entro la religione. Nessuna gerarchia regge né regola oggi la

vita sociale né la vita dello Stato. Nessun clericalismo potrà appropriarsi della

forza esterna. Ma io non posso creare di nuovo lo Stato e la società che sono in

processo di decomposizione se non in nome di principi religiosi. Io non cerco

l’autonomia dello Stato e della società di fronte alla religione, ma il fondamento e

il rafforzamento dello stato e della società entro la religione. Per nulla al mondo

voglio essere libero rispetto a Dio; voglio essere libero in Dio e per Dio. Nel terminare

il movimento di allontanamento da Dio, inizia il movimento di avvicinamento

a Dio; quando il movimento stesso di allontanamento da Dio prende il

carattere di un movimento verso il diavolo, allora inizia il Medioevo, ponendo

fine ai tempi moderni. Dio deve tornare ad essere il centro di tutta la nostra vita; il

294


Mariano Fazio

nostro pensiero, il nostro sentimento, il nostro unico sogno, la nostra unica fede,

la nostra unica speranza. La mia sete di una libertà senza limiti deve essere compresa

come un conflitto con il mondo, non con Dio» (pp. 96-97).

Berdiaeff auspica la fine di una cultura laicista, che non voleva fondarsi su

basi trascendenti. La religione, nei tempi moderni, era rimasta isolata nel tempio.

La Chiesa, invece, è cosmica. Di conseguenza, la fede deve permeare tutti gli

aspetti della vita individuale e sociale. «La crisi della cultura consiste precisamente

che essa (la cultura) non può restare in una neutralità umanista nel terreno

religioso, ma deve diventare, inevitabilmente, o una civiltà atea e anticristiana,

ovvero una cultura sacra totalmente animata dalla Chiesa, una trasfigurazione

cristiana della vita» (p. 99). Non si tratta di un ritorno al clericalismo medioevale,

ma di mettere in atto una reale trasformazione della vita. Il filosofo russo considera

che per fare questo «si dovrà elaborare un tipo speciale di vita monastica

nel mondo, una sorta di ordine religioso nuovo. Si porrà finalmente il problema

del senso religioso, della santificazione religiosa del lavoro, sul quale l’epoca

moderna non ha voluto sapere nulla» (p. 106).

Finiamo la nostra esposizione della dottrina di Berdiaeff con le parole con cui

chiude la seconda parte del suo libro. Un’altra volta si comproverà che il nostro

autore non è un sognatore di paradisi futuri né un nostalgico di paradisi perduti:

«L’avvenire è doppio e non crediamo indispensabile né obbligatorio sperare in

un avvenire ridente e brillante. Gli aneliti di felicità terrestre non esercitano

alcun potere su di noi. Il sentimento del male è più forte e più acuto nel nuovo

Medioevo. La forza del male crescerà e prenderà nuove forme per causare nuovi

dolori. Però all’uomo è stata data la libertà di spirito, la libertà di scegliere il suo

cammino. I cristiani devono indirizzare la loro volontà verso la creazione di una

società cristiana e di una cultura cristiana, mettendo al di sopra di ogni cosa la

ricerca del Regno di Dio e la sua verità. Molte cose dipendono dalla nostra

libertà, cioè dagli sforzi creatori dell’uomo. Perché difatti si possono seguire due

cammini. Prevedo una spinta delle forze del male nell’avvenire, ma ho voluto

determinare gli elementi positivi possibili della società futura. Siamo gente del

Medioevo, non soltanto perché tale è il destino, la fatalità della storia, ma anche

perché lo vogliamo. Voi siete ancora gente della storia moderna perché non volete

scegliere. E nel presentimento della notte bisogna armarsi spiritualmente per la

lotta contro il male, fare più acuta la capacità di discernere, elaborare una nuova

cavalleria: Il flusso cresce e ci trascina / verso una immensa oscurità… / mentre

navighiamo per l’abisso / accerchiati da tutti i lati» (pp. 109-110).

3. Umanesimo Integrale, di Jacques Maritain (1936)

Nell’agosto del 1934 Jacques Maritain tenne sei lezioni ai corsi estivi

dell’Università di Santander. In Spagna si pubblicò il testo delle lezioni con il titolo

Problemas espirituales y temporales de una nueva cristiandad. Maritain decise

295


note e commenti

di rielaborare il testo e di ampliarlo. Così, nel 1936 pubblicò in Francia l’opera

più caratteristica del suo pensiero nel periodo fra le due guerre: Humanisme intégral.

Molte delle tematiche sviluppate dal filosofo francese in questo libro erano

già state analizzate in altre opere precedenti: Religion et culture (1930); Du

Régime temporel et de la Liberté (1933); Science et Sagesse (1935).

3.1. Medioevo e Modernità

Maritain analizza ciò che lui chiama “la tragedia dell’umanesimo”, cioè la

progressiva perdita di una visione trascendente dell’uomo nei secoli della storia

moderna, e propone una uscita dai totalitarismi comunista e fascista, che sono

l’ultima conseguenza dell’antropocentrismo moderno 5 . L’uscita o l’alternativa è

una nuova cristianità, che manterrà il primato dello spirituale della cristianità

medioevale, ma aggiungerà elementi nuovi, moderni, che supereranno gli elementi

clericali e tendenzialmente teocratici medioevali.

Il filosofo francese afferma che «la nozione di umanesimo integrale esprime

il carattere distintivo della nuova cristianità» 6 . Ciò vuol dire che la nuova società

si dovrà fondare su una visione dell’uomo diversa da quella medioevale e diversa

anche da quella antropocentrica moderna. L’immagine medioevale dell’uomo è

quella propria di un essere insieme naturale e sovrannaturale, creato da Dio e

destinato all’eternità. Questi elementi non sono medioevali ma cristiani senza

aggettivi. La nota caratteristica della visione medioevale è l’atteggiamento troppo

oggettivo della sua prospettiva: Maritain parla di “una certa inumanità teologica”

che non riesce a scoprire i lati soggettivi e più intimi della persona, per

mancanza di riflessione (p. 19). Non è che questi manchino completamente, dato

che «il medioevo ha avuto un senso profondo e eminentemente cattolico della

parte del peccatore e delle iniziative a lui proprie, delle sue resistenze, e delle

misericordie di Dio nei suoi confronti nella economia provvidenziale. Ha avuto

un senso profondo della natura, della sua dignità come della sua debolezza; ha

conosciuto, più d’ogni altra epoca, il prezzo della pietà umana e delle lagrime.

Ma tutto ciò era vissuto più che cosciente, più che oggetto di conoscenza riflessa.

E se noi considerassimo soltanto i documenti della tradizione teologica media

(non parlo di S. Tommaso che è troppo grande per caratterizzare un’epoca)

potremmo credere, e sarebbe un errore, che il pensiero medioevale ha conosciuto

la creatura umana solo in funzione dei problemi soteriologici e delle esigenze

divine nei riguardi dell’uomo, in funzione delle leggi oggettive della moralità

richiesta da lui, e non in funzione delle risorse soggettive delle sue grandezze e

del determinismo soggettivo delle sue miserie» (p. 20).

5 Cfr. A. PAVAN, Maritain: da “Umanesimo integrale” a “L’uomo e lo Stato”, in AA.VV.,

Stato Democratico e Personalismo, cit., p. 63.

6 J. MARITAIN, Umanesimo Integrale, Studium, Roma 1946, p. 224.

296


Mariano Fazio

Come reazione a questo oggettivismo medioevale, le correnti di pensiero

moderne si indirizzeranno verso le analisi soggettive, verso la riflessione sulla

condizione umana. Questo elemento riflessivo era senz’altro positivo e poteva

arricchire la visione medioevale dell’uomo. Purtroppo, il progetto rinascimentale

che si presentava pieno di speranza sfociò in un antropocentrismo sempre più

chiuso alla Trascendenza. Maritain parla di tre periodi della cultura moderna: 1)

il XVI e il XVII secolo, periodo di umanesimo cristiano, dove Dio svolge solo

un ruolo di garante; 2) il XVIII e il XIX secolo, periodo dell’ottimismo razionalista,

dove Dio diventa un’idea; 3) il XX secolo, caratterizzato dal rovesciamento

materialista dei valori, dove Dio muore (cfr. pp. 34-35). Alla stregua di

Berdiaeff, il nostro autore lamenta che la crescita della consapevolezza della soggettività

propria della Modernità, sia stata fatta non sotto il segno dell’unità, ma

sotto il segno della divisione. La opposizione radicale tra grazia e libertà dell’antropologia

protestante, e tra res cogitans e res extensa del razionalismo cartesiano

portarono verso un antropocentrismo che finì per essere autodistruttivo.

«L’uomo, dimenticando che nell’ordine dell’essere e del bene, è Dio che ha l’iniziativa

primaria e vivifica la nostra libertà, ha voluto fare del movimento suo

proprio di creatura il movimento assolutamente primario, dare alla sua libertà di

creatura l’iniziativa primaria del proprio bene. Era quindi necessario che il suo

movimento d’ascensione fosse da allora separato dal movimento della grazia, ed

è perciò che l’età in argomento è stata un’età di dualismo, di dissociazione, di

sdoppiamento, un’età d’umanesimo separato dall’Incarnazione, nella quale lo

sforzo del progresso doveva prendere un carattere fatale e contribuire esso stesso

alla distruzione dell’umano. In breve, che il vizio radicale dell’umanesimo antropocentrico

è stato d’essere antropocentrico e non d’essere umanesimo» (p. 31).

3.2. Umanesimo teocentrico e umanesimo antropocentrico

L’alternativa che resta dopo questo processo storico è tra un umanesimo teocentrico

e un umanesimo antropocentrico. Il primo riconosce che Dio è il centro

dell’uomo, e considera l’uomo come peccatore e redento; il secondo crede che

l’uomo stesso sia il centro dell’uomo, e implica un concetto naturalistico dell’uomo

e della libertà. Quest’ultima visione dell’uomo autoreferenziale subirà le

conseguenze delle teorie riduttive di Darwin e di Freud, che distruggono la concezione

razionalista dell’essere umano. Maritain è contundente al momento di

trarre le conseguenze di quest’alternativa: «Giunti al termine d’una evoluzione

storica secolare, ci troviamo in presenza di due posizioni pure: la posizione atea

pura e la posizione cristiana pura» (p. 36).

La posizione atea pura viene rappresentata dal comunismo sovietico. Maritain

concepisce il comunismo come una religione sostitutiva, fondata sull’ateismo.

Nell’analizzare le cause dell’apparizione del comunismo, il filosofo si sofferma

lungamente sull’insuccesso dei cristiani del XIX secolo, i quali non crearono un

297


note e commenti

mondo veramente cristiano, che implica la giustizia sociale. Di qui il risentimento

comunista contro il mondo cristiano. La fede cristiana non si fece vita nelle

strutture del mondo temporale. Il mondo cristiano «ha rinchiuso la verità e la vita

divina in una parte limitata della propria esistenza — nelle cose del culto e della

religione e, almeno fra i migliori, nelle cose della vita interiore. Quelle della vita

sociale, della vita economica e politica, le ha abbandonate alla loro legge carnale,

sottratte alla luce di Cristo» (p. 43). Se questo è vero per il mondo occidentale

borghese e liberale, all’oriente dell’Europa l’atteggiamento esistenziale

dell’Ortodossia russa non aiutò a migliorare le cose: «da una parte, la natura e la

ragione non vi hanno mai preso il loro posto rispettivi. L’ordine naturale come

tale non v’è stato mai riconosciuto; il razionale v’è stato sempre tenuto in sospetto»

(p. 61). Dall’altra parte, ci sarebbero tendenze nazionalistiche paganizzanti

all’interno dell’Ortodossia, che hanno bisogno di purificazione.

Se il comunismo sovietico rappresenta la posizione atea pura, ci sono due

possibili posizioni cristiane. L’una è tornare al pessimismo puro del protestantesimo

primitivo: l’uomo è un nulla e bisogna ascoltare solo Dio. Sarebbe la posizione

sostenuta da Karl Barth. La seconda, quella condivisa dal nostro autore, è

la posizione tomistica: bisogna arrivare alla trasformazione sostanziale delle

strutture culturali moderne, passando ad una nuova età della civiltà (p. 63).

Maritain considera che la filosofia di san Tommaso ha degli strumenti metafisici

e gnoseologici adatti per servire da base ad una filosofia sociale ispirata ai valori

del Vangelo. Tra questi elementi spiccano il realismo gnoseologico e la distinzione

tra ordine naturale e ordine soprannaturale. Si tratta di formare una nuova età

di cultura cristiana, fondata su una riabilitazione della creatura in Dio. Con altre

parole, Maritain propone un umanesimo dell’Incarnazione, che dà valore al

mondo del creato non mediante il distacco da Dio, come pretese l’umanesimo

antropocentrico, ma attraverso il riconoscimento della sua giusta autonomia e al

contempo della sua finalizzazione in Dio. La nuova età della cultura cristiana

sarà — a differenza del Medioevo —, un’epoca riflessa, dove l’uomo prende

coscienza di sé. «Una tale coscienza di sé implica un rispetto evangelico della

natura e della ragione, di queste strutture naturali che l’umanesimo moderno ha

aiutato a scoprire ma non ha saputo preservare, e della grandezza originaria dell’uomo

mai completamente oscurata dal male» (pp. 67-68).

L’umanesimo dell’Incarnazione potrebbe superare, da una parte, la radicale

separazione tra religione e mondo del liberalismo borghese, e dall’altra l’unità

medioevale, che era simbolica e figurativa. Maritain delinea questa nuova età,

permeata dall’umanesimo integrale (che è un umanesimo dell’Incarnazione) nel

seguente modo: «Se una nuova cristianità riesce a instaurarsi, il suo carattere

distintivo sarà, crediamo, che questa trasfigurazione — mediante la quale l’uomo,

consentendo a essere mutato e sapendo che è mutato dalla grazia, lavora a

divenire e a realizzare quell’uomo nuovo che egli è da parte di Dio — questa trasfigurazione

dovrà raggiungere realmente, e non solo in modo figurativo, le

strutture della vita sociale dell’umanità e comportare così — nella misura in cui

298


Mariano Fazio

è possibile quaggiù per tale o talaltro clima storico — una verace realizzazione

sociale-temporale del Vangelo. Una nuova età di cultura cristiana capirà senza

dubbio un po’ meglio di ciò che non sia avvenuto sinora (e mai il mondo avrà

finito di comprenderlo, cioè di respingere dal suo seno il lievito dei farisei) sino

a qual punto importi dare ovunque il passo al reale e al sostanziale sull’apparente

e il decorativo, al realmente e sostanzialmente cristiano sull’apparentemente e

decorativamente cristiano; capirà anche che si afferma in vano la dignità e la

vocazione della persona umana se non si lavora a trasformare le condizioni che

l’opprimono, e a fare in modo che essa possa degnamente mangiare il proprio

pane» (pp. 79-80).

3.3. La missione temporale del cristiano

La nuova cristianità implica una concezione della missione del cristiano nel

mondo e del rapporto tra lo spirituale e il temporale. Secondo Maritain, la distinzione

tra l’ordine temporale e l’ordine spirituale è essenzialmente cristiana.

Distinzione non implica opposizione o separazione arbitraria. Un ambito in cui il

problema del rapporto tra questi due ordini si pone in forma urgente riguarda la

realizzazione del Regno di Dio. Che parte bisogna riconoscere allo spirituale e al

temporale in questa realizzazione? Il Regno di Dio è escatologico, ma si prepara

nel tempo, nella storia. E nella storia umana si incontrano la Chiesa, che è il

Regno di Dio crocifisso, e il mondo, che per raggiungere il Regno deve mutare

essenzialmente. La Chiesa è il Regno, ma in uno stato peregrinante e velato. Il

mondo, invece, è nel tempo e del tempo. Il suo fine non è escatologico ma la vita

temporale della moltitudine umana. Qual è il rapporto del mondo con il Regno di

Dio? Maritain afferma che ci sono tre errori al momento di rispondere a questa

domanda. Il primo errore sarebbe la concezione satanocratica del mondo e della

città politica, considerati come intrinsecamente corrotti. Il secondo errore, ha una

versione europea orientale (teofanica) e una versione occidentale (teocratica).

Secondo i sostenitori di queste due versioni il mondo è già realmente salvato: si

chiede al mondo e alla politica l’effettiva realizzazione del Regno di Dio. Il filosofo

francese non identifica cristianità medioevale con teocrazia, ma afferma che

quest’ultima è stato l’angelo tentatore della cristianità. Questo secondo errore

può rivestire una veste secolarizzata: il comunismo è un impero teocratico ateo.

Il terzo errore sarebbe quello proprio dell’umanesimo antropocentrico: il mondo

avrebbe una autonomia assoluta, che volta le spalle alla Trascendenza. Si tratta in

realtà di una laicizzazione del Regno di Dio.

Per superare questi tre errori bisogna approdare alla soluzione cristiana: «Per

il cristianesimo, la vera dottrina del mondo e della città temporale, è nel riconoscere

che sono il regno insieme dell’uomo, di Dio e del diavolo. Così appare

l’ambiguità essenziale del mondo e della sua storia; è un campo comune ai tre. Il

mondo è un campo chiuso che appartiene a Dio per diritto di creazione; al diavo-

299


note e commenti

lo per diritto di conquista, a causa del peccato; a Cristo per diritto di vittoria sul

primo conquistatore, a causa della Passione. Il compito del cristiano nel mondo è

di disputarne al diavolo il dominio, di strapparglielo; deve sforzarsi a ciò, ma,

sinché durerà il tempo, vi riuscirà solo in parte. Il mondo è bensì salvato, è liberato

in speranza, è in marcia verso il regno di Dio, ma non è santo, è la Chiesa ad

essere santa: è in marcia verso il Regno di Dio ed è perciò un tradimento verso

questo regno non volere con tutte le forze una realizzazione — proporzionata

alle condizioni della storia terrena, ma così effettiva quanto possibile, quantum

potes, tantum aude — o, più esattamente, una rifrazione nel mondo, in un modo

o in un altro, deficiente o contestata. E nello stesso tempo che la storia del

mondo è in cammino — è la crescita del frumento — verso il Regno di Dio, è

anche in cammino — è la crescita dell’erba folle, inestricabilmente mescolata al

frumento — verso il regno della riprovazione» (pp. 90-91).

Quindi il cristiano ha una missione temporale. La Chiesa è sempre più liberata

dall’amministrazione temporale e i cristiani si devono trovare sempre più

impegnati, non in quanto membri della Chiesa, ma in quanto membri cristiani

della città temporale, nel lavoro di instaurazione di un nuovo ordine temporale

nel mondo. Questo impegno implica l’elaborazione di una filosofia politica,

sociale ed economica capace di discendere fino alle realizzazioni concrete.

L’ispirazione cristiana di questa filosofia non significa omogeneità di idee e di

vedute sociali. Ci saranno diverse scuole di politica cristiana o di economia cristiana,

ma tutte devono ispirarsi ai valori del Vangelo. Questa trasformazione cristiana

della società temporale, comunque, non sarà il frutto del solo cambiamento

della filosofia sociale. Trattandosi di un cambiamento temporale, sì, ma con

forte risonanze etiche e spirituali, i mezzi che si devono adoperare sono anche

mezzi spirituali. Maritain è convinto che «un rinnovamento sociale vitalmente

cristiano sarà opera di santità o non sarà» (p. 100).

Di quale santità si tratta? Il nostro autore parla di un nuovo stile di santità.

Maritain critica l’interpretazione comune dell’età umanista classica, che identificava

santità o perfezione evangelica con lo stato religioso, lasciando ai laici solamente

la possibilità di una vita cristiana imperfetta. Il nuovo stile di santità è

caratterizzato dalla santificazione del profano: «l’uomo impegnato in questo

ordine profano o temporale d’attività può e deve, come l’uomo impegnato nell’ordine

sacro, tendere alla santità — e per giungere lui stesso alla unione divina

e per attirare verso il compimento delle volontà divine l’ordine tutto intero al

quale appartiene. Di fatto, quest’ordine profano, in quanto collettivo, sarà sempre

deficiente, ma noi dobbiamo tuttavia, e dobbiamo tanto più, volere e sforzarci

affinché sia ciò che deve essere. Perché la giustizia evangelica domanda da sé di

tutto penetrare, di impadronirsi di tutto, di scendere sino al più profondo del

mondo» (p. 102) 7 .

7 Inaspettata è l’aggiunta di Maritain alle parole appena citate: «È tutt’al più nell’ordine delle

cose che questo nuovo stile e questa nuova spinta di spiritualità comincino ad apparire non

300


Mariano Fazio

3.4. L’ideale storico concreto di una nuova cristianità

La proposta maritainiana di trasformazione delle strutture temporali prende il

nome di «ideale storico concreto di una nuova cristianità». Per il filosofo francese,

un ideale storico concreto è un’immagine prospettica significante il tipo particolare,

il tipo specifico di civiltà al quale tende una data età storica (cfr. p. 105).

Non è quindi un essere di ragione, come le utopie, ma una essenza ideale realizzabile.

Quali sono gli elementi caratteristici di questo ideale storico concreto

denominato “nuova cristianità”? Maritain elenca cinque note caratteristiche: 1) il

pluralismo; 2) l’autonomia del temporale; 3) la libertà delle persone; 4) l’unità di

razza sociale — espressione che spiegheremo dopo — e 5) l’opera comune: una

comunità fraterna da realizzare. Prima di analizzare questi elementi, Maritain

afferma che l’ideale storico di una nuova cristianità comporta una concezione

profana cristiana e non sacrale cristiana del temporale (cfr. p. 131). L’ideale storico

concreto della cristianità medioevale comportava invece una concezione

sacrale cristiana, caratterizzata dalla tendenza ad una unità organica massimale;

dalla predominanza effettiva del compito ministeriale del temporale; dall’impiego

dell’apparato temporale per fini spirituali; dalla diversità di “razze sociali” e

dall’opera comune: un impero di Cristo da edificare.

Il pluralismo è la prima nota caratteristica della nuova cristianità. Una città

pluralistica riunisce nella sua unità organica una diversità di gruppi e di strutture

sociali incarnanti libertà positive. Nella nuova tappa storica ci dovrà essere pluralismo

economico, che superi i mali del capitalismo e del comunismo mediante

una certa collettivizzazione della proprietà industriale e un rinnovamento e vivificazione

dell’economia famigliare. Ci dovrà essere anche pluralismo giuridico

che regoli la tolleranza religiosa: l’unità della città temporale della nuova cristianità

non è quella massimale della cristianità medioevale. La città temporale ha

solo una unità di orientamento, che procede da una comune aspirazione verso la

forma di vita comune meglio accordata agli interessi sovratemporali della persona.

L’agente di unità è la parte più evoluta politicamente e più devota del laicato

cristiano e delle élites popolari. La città temporale della nuova cristianità ha una

unità minimale, incentrata sulla persona in quanto membro della città. Perciò una

unità temporale, civile, non richiede l’unità di fede o di religione, e implica la

tolleranza civile (che impone allo Stato il rispetto delle coscienze, cosa diversa

dalla libertà dogmatica, che ritiene la libertà dell’errore come un bene a sé).

Maritain vuole essere chiaro nella sua proposta pluralistica: «È necessario insistere

sulla portata della soluzione pluralistica della quale parliamo: essa è così

lontana dalla concezione liberale in auge nel XIX secolo — poiché riconosce la

nella vita profana stessa, ma in certe anime nascoste al mondo, le une viventi nel mondo, le

altre alla sommità delle più alte torri della cristianità, cioè negli Ordini più altamente contemplativi,

per espandersi di là sulla vita profana e temporale» (p. 103). Dico inaspettata,

giacché il nuovo stile di santità “profana” verrebbe importato dallo stile religioso di santità,

il che potrebbe far perdere il suo carattere “profano”.

301


note e commenti

necessità da parte della città temporale d’avere una specificazione etica e in ultima

analisi religiosa — come dalla concezione medioevale, poiché questa specificazione

ammette eterogeneità interne e si attiene solo a un senso o ad una direzione,

a un orientamento d’assieme. La città pluralistica moltiplica le libertà; la

misura di queste non è uniforme, e varia secondo un principio di proporzionalità»

(pp. 138-139).

La seconda caratteristica, che getta più luce sull’interpretazione maritainiana

del pluralismo, è l’affermazione dell’autonomia del temporale in qualità di fine

intermedio infravalente. Per Maritain, l’ordine temporale fondato sulla ragione è

comunitario e personalistico. Che sia comunitario significa che il bene comune a

cui tende la società temporale è specifico, cioè diverso dalla pura somma dei

beni individuali. Questo bene comune consiste nella retta vita terrena della moltitudine

riunita in società. Personalistico significa che il bene comune è fondamentalmente

rispettare e servire i fini sovra-temporali della persona umana. Perciò il

bene comune temporale non è un fine ultimo, dato che è ordinato al bene intemporale

della persona. Maritain utilizza un altro concetto per spiegare la stessa

realtà: il bene comune temporale è un bene intermedio o infravalente. Ha una

specificazione propria, che la distingue dal fine ultimo e dagli interessi eterni

della persona umana, «ma nella sua stessa specificazione è avviluppata la sua

subordinazione a quei fini e a quegli interessi da cui riceve le sue misure dominanti.

Ha consistenza propria e bontà propria, ma precisamente a condizione di

riconoscere questa subordinazione e di non erigersi come bene assoluto» (p.

110).

L’autonomia del temporale consiste nel riconoscere questa consistenza propria

del bene comune della città. La cristianità medioevale concepiva il compito

del temporale come meramente strumentale rispetto allo spirituale. Nella

Modernità si sottolineò la specificità propria del bene comune temporale —alle

volte con esagerazioni proprie dell’umanesimo antropocentrico chiuso alla

Trascendenza — in modo tale da escludere di fatto la strumentalità. Questo processo

è sostanzialmente positivo se si riconosce la subordinazione del fine temporale

al fine ultimo personale. «Così si trae e si precisa la nozione di città laica

in modo vitale cristiana, o di Stato laico, cristianamente costituito, cioè di uno

Stato nel quale il profano e il temporale abbiano pienamente il loro compito e la

loro dignità di fine e di agente principale — ma non di fine ultimo e di agente

principale il più elevato. È questo il solo significato che un cristiano può riconoscere

alla parola “stato laico” che altrimenti ha solo un significato tautologico, la

laicità dello Stato volendo dire in questo caso che lo Stato non è la Chiesa — o

un senso errato, la laicità dello Stato volendo dire allora che lo Stato è neutro o

antireligioso, cioè al servizio di fini puramente materiali o d’una contro-religione»

(p. 142).

Il carattere personalistico della nuova cristianità implica la libertà delle persone

(terza nota caratteristica). Maritain parla della extraterritorialità della persona

nei confronti dei mezzi temporali e politici. Questi mezzi devono essere messi al

302


Mariano Fazio

servizio della persona, e non alla rovescia. La persona ha una dignità tale da non

poter mai venire strumentalizzata. In questo ambito si inserisce la quarta nota

caratteristica della nuova cristianità: l’unità della razza sociale, che non vuol dire

altro che tutti, governanti e governati, ricchi e poveri, godono in quanto persone

della stessa dignità.

Il quinto e ultimo carattere elencato da Maritain è l’opera comune: una comunità

fraterna da realizzare. Il principio dinamico della vita comune della nuova

cristianità non è la Classe, né la Razza né la Nazione o lo Stato, «ma la dignità

della persona umana, la sua vocazione spirituale e l’amore fraterno che le è

dovuto» (p. 161). Il filosofo francese parla della comunità fraterna come un ideale

eroico da realizzare: si cerca di creare le condizioni politico-sociali che rendano

più facile tendere verso l’amicizia fraterna. Ribadendo il carattere profano cristiano

della nuova cristianità, Maritain scrive che «l’opera comune non apparirebbe

più come un’opera divina da realizzare dall’uomo sulla terra, ma piuttosto

come un’opera umana da realizzare sulla terra mediante il passaggio di qualcosa

di divino, che è l’amore, nei mezzi umani e nello stesso lavoro umano» (p. 161).

È possibile creare le condizioni di realizzazione dell’ideale storico di una

nuova cristianità? «L’avvenire di una nuova cristianità dipende anzitutto dalla

realizzazione interiore e plenaria d’una certa vocazione profana cristiana in un

certo numero di cuori» (p. 180). I mezzi per instaurare una nuova cristianità

devono essere proporzionati al fine. Un fine degno dell’uomo deve essere raggiunto

con mezzi degni dell’uomo. Maritain fa un lungo excursus sull’utilizzo

della violenza, che ammette solo nei casi limite seguendo la dottrina di san

Tommaso, per concludere sulla liceità di ogni mezzo temporale che non sia

opposto alla dignità della persona umana.

Per rendere possibile la nuova cristianità, il cristiano «non deve essere assente

da alcun campo dell’agire umano, egli è richiesto ovunque. Deve lavorare insieme

— in quanto cristiano — sul piano dell’azione religiosa (indirettamente politica) e

— in quanto membro della comunità spirituale — sul piano dell’azione propriamente

e direttamente temporale e politica» (p. 202). Per quanto riguarda più in

concreto l’attività politica, Maritain non desidera partiti politici ad etichetta religiosa,

ma gruppi diversi ispirati allo spirito cristiano, senza un’artificiale unità

nelle scelte libere. Ciò che sì importa è la vera ispirazione cristiana di questi gruppi:

Maritain distingue tra la politica fatta dai cristiani — mero dato di fatto — e

l’attività politica cristianamente ispirata, ordinata ad un ideale temporale cristiano,

che richiede la partecipazione dei cristiani che si fanno del mondo, della società e

della storia moderna una certa filosofia, e dei non cristiani che riconoscono la fondatezza

di quella filosofia. Questi cittadini costituiranno formazioni politiche

autonome, possono fare alleanze, ma mantenendo la loro indipendenza, in modo

da far nascere il germe di una politica in modo vitale cristiano.

Maritain sostiene fermamente che la trasformazione delle strutture temporali

è l’opera dei semplici cristiani, e non del clero: «Conviene guardarsi dal riprendere

qui antichi errori in forme nuove. Se la Chiesa medioevale ha direttamente

303


note e commenti

formato e ingentilito l’Europa politica, lo ha fatto perché aveva dovuto allora far

sorgere dal caos l’ordine temporale stesso: lavoro in soprannumero, al quale non

poteva rifiutarsi, ma al quale non è rassegnata inizialmente senza legittima

apprensione. Oggi l’organismo temporale esiste e altamente differenziato. Non

spetta alla Chiesa ma in modo diretto e prossimo ai cristiani in quanto membri

temporali di questo organismo temporale, di trasformarlo e rigenerarlo secondo

lo spirito cristiano. In altri termini, non spetta al clero tenere le leve di comando

dell’azione propriamente temporale e politica» (p. 210).

La nuova cristianità, come il nuovo Medioevo di Berdiaeff, non propone un

ritorno al passato, ma si apre al futuro con un ideale profano cristiano derivante

dall’umanesimo dell’Incarnazione che svela l’autonomia e al contempo la subordinazione

del temporale allo spirituale.

4. L’idea di una società cristiana, di T. S. Eliot (1939)

T.S. Eliot pronunciò nel marzo 1939 tre conferenze a Cambridge, che furono

pubblicate subito dopo, con il titolo The Idea of a Christian Society. Si tratta di

un’opera breve, in cui il poeta angloamericano propone un modello di società

cristiana che permetta di risolvere le difficoltà in cui si trovava la società inglese

— e più ampiamente, la civiltà occidentale — a causa della perdita di una visione

religiosa della vita e dell’esistenza umana.

4.1. Gli elementi di una società cristiana

Eliot tenta di trovare l’idea di una società cristiana, cioè cerca di individuare

gli elementi specifici di una società cristiana, che la distinguono da una società

neutra. Secondo Eliot, quest’ultima società, che ha una matrice ideologica materialista,

non si allontana troppo dalla società pagana, che in quell’epoca si identificava

nell’opinione pubblica inglese con la Germania nazista e la Russia comunista.

Il nostro autore analizza la situazione a lui contemporanea del cristianesimo

nella società inglese: «Ora noi possiamo individuare tre momenti positivi nella

storia: quello in cui i cristiani sono una minoranza nuova in una società di tradizione

positivamente pagana (una situazione che non potrà presentarsi in un futuro

prevedibile); quello in cui tutta la società può chiamarsi cristiana, sia riunita in

un solo corpo, sia divisa in sette (e la fase della divisione potrà seguire o precedere

quella dell’unione); e finalmente il momento in cui i cristiani non possono

essere considerati che una minoranza statica, o in corso di estinzione, entro l’àmbito

di una società che ha cessato di essere cristiana. Abbiamo noi raggiunto il

terzo momento? Tanti saranno i pareri quante le persone che si porranno il quesito.

Ma a me pare che anzitutto due sono i punti di vista. Il primo, che la società

304


Mariano Fazio

cessa di essere cristiana quando vengono abbandonate le pratiche religiose,

quando gli altri atti degli uomini non sono più regolati da princìpi cristiani, ed il

benessere mondano, individuale o collettivo, diviene l’unica ambizione cosciente.

L’altro punto di vista, più difficile ad essere compreso, è che la società non

cessa d’essere cristiana finché non diventa qualcosa di positivamente diverso. Io

credo che oggi la nostra cultura sia generalmente negativa, ma che, per quel poco

ch’essa ha di positivo, sia tuttora cristiana. Non ritengo che possa perdurare così,

perché una cultura negativa perde qualsiasi capacità di realizzazione in un

mondo dove energie economiche e spirituali dimostrano l’efficienza di culture

forse pagane, ma positive; e ritengo che la nostra scelta sia fra la creazione di

una nuova cultura cristiana e l’accettazione della cultura pagana» 8 . Eliot intende

per cultura negativa in questo contesto la cultura liberale. Il liberalismo è un’ideologia

antitradizionale e rivoluzionaria, che distrugge in nome della libertà, ma

che non propone i fini a cui questa libertà deve tendere. In questo senso è negativo.

Una cultura positiva, invece, significa una cultura che propone un ideale di

vita, sia questo pagano o cristiano, vale a dire una cultura propositiva.

Molti dei contemporanei considerano che la società occidentale così com’è

non cambierà molto in futuro. Ma Eliot pensa che gli ideali “santificati” del

mondo occidentale, il liberalismo e la democrazia, possono finire in un totalitarismo

autoproclamatosi democratico. In Inghilterra la gente si autodefinisce come

cristiana, e dà del pagano agli altri, in particolare ai russi e ai tedeschi. Ma bisogna

esaminare nei particolari quel cristianesimo che il popolo inglese si vanta di

conservare: in realtà, si tratta di un cristianesimo minoritario in una società liberale

negativa con tendenze paganizzanti. «L’idea liberale secondo cui la religione

è una questione di fede e di etica personali, così che nulla impedisce ad un buon

cristiano di adattarsi ad ogni ambiente che gli dimostri una certa benevolenza,

diventa sempre meno sostenibile» (pp. 29-30): la supposta società neutra è sempre

meno neutra, e tende a trasformarsi in non-cristiana, e il cristiano «diventa

ogni giorno meno cristiano sotto l’insensibile pressione di un’infinità di elementi,

giacché il paganesimo controlla tutti i più efficaci mezzi di propaganda. Ogni

forma di tradizione cristiana, trasmessa di generazione in generazione, nell’ambito

familiare, è condannata a sparire, e la piccola comunità cristiana finirà per

consistere interamente di anziani» (pp. 30-31). Perciò, la scelta tra l’apatia di chi

si lascia portare verso una società pagana e la fatica che comporta cambiare la

società affinché diventi positivamente cristiana, è un’alternativa tra l’inferno e il

purgatorio, giacché una società cristiana non significa un paradiso terrestre: il

Regno di Dio, che già si trova sulla terra, si compierà definitivamente alla fine

dei tempi.

Arrivato al secondo capitolo delle sue riflessioni, Eliot riassume quanto finora

ha esposto: «La mia tesi è stata semplice: una società liberale o negativa non può

che avviarsi ad un declino di cui non vediamo la fine, oppure (sia come risultato

8 T.S. ELIOT, L’idea di una società cristiana, Edizioni di Comunità, Milano 1948, pp. 18-19.

305


note e commenti

di una catastrofe o no) ritornare ad una forma positiva che con ogni probabilità

sarà efficiente e laica. Per provar timore di fronte ad una simile evoluzione non

occorre pensare che questo laicismo somiglierà da vicino ad un qualsiasi sistema

politico passato o presente: la capacità degli anglosassoni di diluire la propria

religione supera certamente quella di ogni altra nazione. Ma a meno di accontentarsi

di una o dell’altra di queste prospettive, l’unica alternativa che ci resta è la

creazione di una società cristiana positiva. Questa terza soluzione farà presa soltanto

su coloro che sono uniti in un comune giudizio della situazione presente, e

che capiscono come le conseguenze di una società completamente laica sarebbero

rifiutate anche da chi non dà un’importanza capitale alla sopravvivenza del

cristianesimo di per se stesso» (pp. 33-34).

Eliot considera — come Berdiaeff e Maritain — che non si può tornare al

Medioevo né a nessun periodo del passato. Bisogna ideare una società cristiana

per il futuro. Quali sono gli elementi essenziali di una simile società? Sono lo

Stato cristiano, la Comunità cristiana e la Comunità dei Cristiani. Lo Stato cristiano

è la società cristiana considerata nelle sue leggi, nella sua amministrazione,

nella sua tradizione giuridica. Eliot non intende per Stato cristiano uno stato

dove i capi siano cristiani eminenti: «Un governo di Santi finirebbe per diventare

troppo scomodo» (p. 35). Il fatto che i governanti siano buoni è importante, ma il

fattore decisivo è la mentalità del popolo che governano: «quel che conta non è

tanto il cristianesimo degli uomini di Stato quanto che essi siano obbligati, dal

carattere e dalle tradizioni del popolo che governano, a realizzare le loro ambizioni

e contribuire alla prosperità ed al prestigio del loro Paese entro una cornice

cristiana. Potranno trovarsi spesso costretti a compiere atti non cristiani; ma non

dovranno mai tentare una difesa delle loro azioni facendo ricorso a princìpi non

cristiani» (p. 36).

Qual è il rapporto tra la fede e gli elementi essenziali di una società cristiana?

Gli uomini di Stato devono portare avanti un comportamento conforme ai princìpi

cristiani; la comunità cristiana deve conformarsi con essi al meno inconsapevolmente;

la Comunità dei Cristiani — di cui parleremo dopo — lo deve fare

consapevolmente ed in un modo esigente. Per la grande massa degli uomini si

esigono due condizioni: «la prima, che essendo limitata la loro capacità di pensare

alle cose della fede, il loro cristianesimo si manifesti quasi interamente negli

atti, sia nelle pratiche religiose usuali e periodiche, sia in un codice tradizionale

che regoli la loro condotta nei rapporti con gli altri uomini. La seconda che, pur

comprendendo quanto i loro atti siano lontani dall’ideale cristiano, la loro vita

sociale e religiosa formi una naturale unità, e che perciò la difficoltà di comportarsi

come veri cristiani non li costringa ad uno sforzo intollerabile. In realtà queste

due condizioni non sono che una sola, formulata diversamente. Ai nostri giorni

sono ben lontane dall’essere realizzate» (p. 38). Secondo Eliot, per formare

una società cristiana ci deve essere unità tra fede e vita ordinaria. La società neutra

e paganizzante offre una resistenza molto forte a questo ideale, e obbliga il

cristiano a vivere eroicamente. Nella società cristiana non dovrebbe succedere

306


Mariano Fazio

così: «la religione dev’essere anzitutto una questione di comportamento e di abitudini,

qualcosa di integrato alla vita sociale, agli affari ed ai piaceri, così che le

emozioni più particolarmente religiose debbono rappresentare una sorta di estensione

e di santificazione delle emozioni domestiche e sociali» (p. 40).

Se l’unità tra fede e vita ordinaria rimane l’ideale, bisogna constatare che

l’organizzazione materiale della vita moderna ha creato un mondo al quale si

adattano male le forme sociali cristiane. Di fronte a questa constatazione, ci sono

due possibili tentazioni che l’intellettuale cristiano dovrebbe evitare: rifugiarsi in

un passato che si presume migliore, o adattare il cristianesimo ai tempi moderni.

Ma se un ritorno alla vita rurale e contadina è impossibile, considerare che le

forme cristiane si devono adattare alla società è rinunciare a pensare che il cristianesimo

ha la capacità di creare nuove forme sociali. Leggiamo le forti parole

di Eliot: «una gran parte del meccanismo della vita moderna serve soltanto a sanzionare

scopi non cristiani; che esso non è solo ostile ad un’aspirazione sincera

dei pochi verso la vita cristiana, ma alla conservazione stessa della società cristiana

in tutto il mondo. È ora di abbandonare l’opinione che il cristiano debba

considerarsi soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è soggetto

ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per quanto settario io possa

sembrare, dirò che non vi è null’altro che possa soddisfare il cristiano se non una

organizzazione cristiana della società (il che non equivale ad una società composta

esclusivamente di cristiani devoti). Sarebbe una società dove il diritto a conseguire

il fine naturale dell’uomo — cioè la virtù ed il benessere condiviso con il

prossimo — verrebbe riconosciuto a tutti, ed il diritto al fine ultraterreno — la

beatitudine — a coloro che hanno occhi per vederlo» (pp. 44-45).

Nella società cristiana, i governanti accetteranno il cristianesimo come il

sistema entro il cui ambito dovranno governare; il popolo farà del cristianesimo

il modo di vita e di costume. Ma per la coesione e la permanenza di una società

cristiana ci vuole una “Comunità dei Cristiani”, formata da cristiani che si distinguono

per la loro intelligenza e spiritualità. Così definisce Eliot la suddetta

Comunità: «non è un’organizzazione, ma un corpo senza contorni ben definiti,

composto di ecclesiastici e di laici, degli uomini che, di entrambe le classi, sono i

più coscienti e più preparati spiritualmente ed intellettualmente. La loro identità

di vita e d’aspirazioni, la comune esperienza di cultura e di educazione li metteranno

in grado di influenzarsi reciprocamente e di formare collettivamente la

mentalità e la coscienza della nazione» (p. 56).

4.2. Possibilità di una società cristiana

Eliot considera che per l’esistenza di uno Stato cristiano, di una Comunità cristiana

e di una Comunità dei Cristiani, è necessario che ci sia un rapporto armonico

tra Chiesa e Stato. L’anglo-americano difende la convenienza di una Chiesa

stabilita nazionale, non chiusa in se stessa ma consapevole di appartenere alla

307


note e commenti

Chiesa Universale. Molte delle argomentazioni di Eliot sono legate alla vicenda

storica della Chiesa d’Inghilterra, considerata l’unica istituzione ecclesiastica

capace di stabilire un rapporto efficace con la società politica nell’Inghilterra del

suo tempo. Se Eliot paga il suo tributo verso la tradizione inglese, farà altrettanto

quando riproporrà il dilemma tradizionale britannico tra patriottismo e universalità

cristiana: «Occorre, tuttavia, rendersi conto che anche in una società cristiana

organizzata nel modo più perfetto che sia immaginabile su questa terra, la conquista

massima sarebbe la creazione di una armonia fra la nostra vita temporale e

la spirituale: ad una identificazione vera e propria non si arriverebbe mai.

Rimarrebbe sempre una duplice fedeltà, verso lo Stato e verso la Chiesa, verso i

propri compatrioti e verso i cristiani di tutto il mondo: e quest’ultima fedeltà prevarrebbe

sempre sull’altra. Ma esisterebbe sempre una tensione. Questa tensione

è essenziale all’idea di una società cristiana ed è un segno che la distingue da una

società pagana» (p. 72).

Eliot finisce le sue riflessioni sottolineando il legame che c’è tra una società

cristiana e l’ordine stabilito dalla natura umana. La società proposta dal poeta

anglosassone non è una società degli eletti o dei puri: «nel quadro che ho fatto di

una società cristiana ho cercato di limitare le mie esigenze, nei riguardi dei suoi

ipotetici membri, ad un minimo di qualità sociali: io non prevedo una società di

santi ma di uomini comuni, per i quali il cristianesimo è un’esperienza collettiva

prima che individuale» (p. 76). La società cristiana è per uomini comuni a cui si

deve rendere possibile la vita secondo natura: «Possiamo dire che la religione, in

quanto distinta dal paganesimo moderno, è essenzialmente legata ad una condotta

di vita conforme alla natura. Si potrebbe anche osservare che la vita naturale e

la soprannaturale hanno una corrispondenza reciproca che nessuna delle due ha

nei riguardi della vita concepita secondo criteri meccanicistici; ma la nostra idea

del naturale è stata deformata a tal punto che persone, le quali ritengono innaturale,

e quindi ripugnante, che un uomo o una donna conducano una vita di celibato,

giudicano perfettamente naturale limitare ad uno o due i figli in una famiglia.

Forse sarebbe più naturale, ed anche più conforme alla volontà di Dio, se vi

fossero più celibi e se coloro che sono sposati avessero prole più numerosa» (pp.

78-79).

La società contemporanea si allontana dalle norme naturali non solo nell’ambito

della morale familiare: il materialismo e l’economicismo che stanno alla

base della società capitalista stanno creando problemi ecologici gravi, che devono

svegliare le coscienze dei cittadini: «per troppo tempo abbiamo creduto soltanto

nei valori che sono il prodotto di una vita dove gli elementi fondamentali

sono la macchina, il commercio, la metropoli: forse sarebbe bene che riflettessimo

sulle condizioni immutabili alle quali Dio ci permette di vivere su questo pianeta»

(pp. 79-80).

L’Inghilterra sta attraversando una crisi di valori. Di fronte alla crisi del settembre

del 1938, provocata dalle ambizioni territoriali di Hitler, la nazione britannica

non trovò argomenti morali convincenti per fermare il dittatore. «Non

308


Mariano Fazio

potevamo opporre una convinzione ad un’altra, non avevamo idee che potessero

farsi incontro né opporsi alle altre che ci stavano di fronte. La nostra società, che

è sempre stata così certa della propria superiorità ed onestà, così fiduciosa nelle

sue premesse mai approfondite, ci sembrò all’improvviso raccolta attorno a

nient’altro di più permanente che una catena di banche, compagnie di assicurazioni

ed industrie, sì che parve che nessun’altra fede l’animasse, se non quella

nell’interesse composto e nell’intangibilità dei dividendi» (pp. 82-83). La società

occidentale ha bisogno di una cura radicale, che cambi le radici materialistiche

su cui si fonda. Eliot non propone i mezzi per arrivare a questo cambiamento, ma

è sicuro del fine: «Vi è una sola alternativa all’organizzazione rapida e semplice

della società per il raggiungimento di fini che, essendo soltanto materiali e mondani,

si riveleranno transitori come ogni successo mondano. Poiché la filosofia

politica riceve la sua sanzione dall’etica, e l’etica dalla verità religiosa, soltanto

col ritorno alle fonti della verità possiamo sperare in un’organizzazione sociale

che non ignori, pena la sua stessa distruzione, alcun aspetto essenziale della

realtà […]. Chi non desidera Dio (ed è un Dio geloso) non ha che da inchinarsi

davanti ad Hitler o a Stalin» (pp. 81-82).

4. Conclusione

Il periodo tra le due guerre è ricco di fermenti spirituali. Le conversioni al cristianesimo

manifestano la sete di molti intellettuali di trovare risposte alle

domande ultime dell’esistenza umana. La fede si presenta sia per Berdiaeff che

per Maritain ed Eliot come l’ambito in cui la vita degli uomini si può sviluppare

completamente. Perciò, tutti e tre gli autori denunciano con forza la mancata

unione tra fede creduta e vita vissuta nei cristiani del XIX secolo e dell’inizio del

XX secolo. La religione degli ultimi due secoli si era rifugiata nel tempio e nell’interiorità

delle coscienze. Gli autori studiati propongono di capovolgere questa

situazione: Berdiaeff parla di trasfigurazione cristiana della società; Maritain di

scambiare l’apparentemente cristiano e decorativamente cristiano con un cristianesimo

autenticamente incarnato nelle strutture temporali; Eliot propone di formare

collettivamente una mentalità cristiana.

Le proposte dei nostri autori non sono di un ritorno alla cristianità medioevale:

tutti sono convinti che non si può fare marcia indietro nella storia. In questo

senso, Berdiaeff, Maritain ed Eliot prendono le distanze dalle proposte economico-sociali

di altri due pensatori cristiani di questo periodo, più vicine ad un ritorno

al Medioevo cristiano: mi riferisco alle idee distribuzionistiche di Gilbert K.

Chesterton e di Hilaire Belloc. Del Medioevo si deve mantenere il teocentrismo

— la primauté du spirituel, come direbbe Maritain —, ma bisogna lasciar da

parte il modello simbolico e figurativo della teocrazia per arrivare ad una società

autenticamente cristiana. Questa società non sarà clericale, dato che si riconoscerà

l’autonomia del temporale. Più timidamente in Berdiaeff, con più chiarezza

309


note e commenti

in Maritain ed in Eliot, l’autonomia del temporale appare per questi autori come

un dato di partenza. Non l’autonomia assoluta dell’umanesimo antropocentrico,

ma una autonomia relativa, che non misconosce le radici trascendenti di ogni

realtà creata.

Unire fede e vita in una società che riconosce l’autonomia del temporale

implica che la cristianizzazione della società non è una cosa che si può fare dall’alto,

dalle strutture politiche, sociali ed economiche già esistenti. Per Berdiaeff,

Maritain ed Eliot il movimento è l’inverso: dal basso verso l’alto. Sono gli uomini

di fede che trasformeranno le strutture sociali, se sono coerenti con i valori a

cui credono. Questo è principalmente un compito dei cristiani normali, che sono

inseriti nei diversi ambiti della vita sociale, e non principalmente un compito

della Gerarchia.

Trasformare una cultura in decadenza e ridare vita ad una società in crisi

esige mezzi non solo materiali ma soprattutto spirituali. Berdiaeff parla di un’epoca

di eroismo, Maritain di un nuovo stile di santità, Eliot fa riferimento al

ruolo di lievito che ha la Comunità dei Cristiani nella società. L’esigenza dell’eroismo

va unita alla santificazione della vita ordinaria, a questo ricucire lo strappo

tra fede e vita che quattro secoli di umanesimo dualista hanno operato nel

mondo occidentale. I tre autori si rendono conto di quest’esigenza, anche se i

mezzi proposti forse non sono del tutto adatti al fine: per santificare la vita ordinaria

Berdiaeff intravede tra le ombre la necessità di fondare un nuovo ordine

religioso, Maritain considera che il nuovo stile di santità sta nascendo negli ordini

contemplativi, Eliot ha un concetto di santità lontano dalla santificazione della

vita ordinaria: le masse devono conformarsi con una ispirazione cristiana, senza

andare fino alle ultime conseguenze della loro fede, perché incapaci di comprendere

in profondità. Berdiaeff e Maritain — più che Eliot — vedono con chiarezza

la necessità della santità in questo periodo della storia. Ciò nonostante, manca

ancora un concetto pieno di santificazione della vita ordinaria attraverso la vita

ordinaria stessa.

Le idee di Berdiaeff, Maritain e Eliot su una nuova società cristiana sono state

suggestive e stimolanti per la loro epoca: la necessità di unire fede e vita, il riconoscimento

dell’autonomia relativa del temporale, l’esigenza di santità erano

idee che non appartenevano come oggi alla dottrina cristiana comune. In un

periodo in cui il clericalismo e il laicismo erano ancora molto presenti, i saggi

qui studiati svegliarono le coscienze di molti intellettuali cristiani.

Nello stesso periodo tra le due Guerre, nel 1928, il Beato Josemaría Escrivá

ricevette una luce interiore, con la quale vide un panorama spirituale inedito: la

santificazione nel lavoro attraverso le circostanze ordinarie della vita quotidiana.

Anche lui era consapevole della profonda crisi della cultura della modernità, e

delle possibili cure. Nel 1939 scrisse: «Queste crisi mondiali sono crisi di

santi» 9 . Anche lui, lontano dal clericalismo, avrà chiara coscienza dell’autono-

9 Beato J. ESCRIVÁ, Cammino, Ares, Milano 1993 20 , n. 301.

310


Mariano Fazio

mia relativa del temporale, e conierà un termine per riferirsi alla necessità di

unire fede e vita: il Beato Escrivá si riferirà all’unità di vita quale elemento

caratterizzante per un cristiano coerente con la sua fede. Evidentemente il fondatore

dell’Opus Dei va studiato da un’altra prospettiva, dato che non è principalmente

un pensatore cristiano scrittore di saggi. Ma si muove nella stessa epoca,

nello stesso ambiente di crisi culturale e partecipa a molte delle preoccupazioni

di Berdiaeff, di Maritain e di Eliot. Perciò volevamo finire questo articolo con un

riferimento sintetico alla dottrina del Beato Escrivá, che vuol essere la promessa

di uno studio futuro.

311


312


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 313-317

Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of

humean ethics

JUAN A. MERCADO ∗

Several years ago, summarizing the ideas presented in previous articles, Prof.

Capaldi claimed that Hume’s “We Do” way of explaining moral life resembled a

Copernican Revolution 1 .

Contrary to the rationalist view, this critical Revolution proposes that sympathy

complements the passions, other times opposes them. This, together with the

acquisition of refined manners which results from living together, serves the

needs of society better than mere reason. Sympathy is the “door” towards others,

the way we communicate and perceive their sentimental life. Communal living

teaches us how changing society maintains some steady characteristics and

shows the best ways of ordering and developing the community. Everyone, as a

member of his or her society, develops a kind of “We do”, anti-rationalistic and

anti-individualistic sense of morality.

Within this perspective —Capaldi claims— we discover a more effective theory

to explain the norms of social life than the one presented by rationalist philosophers

who cannot, for example, perceive the role of tradition as a moral value.

∗ Pontificia Università della Santa Croce, Piazza di Sant’Apollinare 49, 00186 Roma. E-mail:

mercado@usc.urbe.it

1 Nicholas CAPALDI, Hume’s Place in Moral Philosophy (Hume’s Place), Peter Lang, New

York 1992, pp. 20 ff. He refers frequently to some of his antecedent works, especially

David Hume: The Newtonian Philosopher, Boston: Twayne, 1975; “Hume as Social

Scientist” in The Review of Metaphysics 32 (1978); “The Copernican Revolution in Hume

and Kant”, in Proceedings of the Third International Kant Congress, ed. Lewis White

Beck, Dordrecht: Reidel 1972; “Copernican Metaphysics”, in New Essays in Metaphysics,

ed. Robert C. Neville, Albany: SUNY Press, 1978. Capaldi’s main claim is that the humean

“We Do” (social, intersubjective and evolutive) proposal for understanding the fundamentals

of moral life is stronger than the “I Think” rationalist systems. This new system implies

a Copernican Revolution in moral philosophy.

313


note e commenti

In addition to the intrinsic problems of explaining the sources of sympathy in

the Treatise 2 , there are ambiguities which need clarification in the evolution of

this term from that work to the Enquiries and the Dissertation on the Passions.

An attentive reading of the latter provides important details for a better comprehension

of the whole Treatise and a deeper understanding of Hume’s philosophical

evolution 3 .

In Hume’s later works, states Capaldi, sympathy seems less dependent on the

exchange of force and vivacity among ideas and becomes a social sentiment 4 . It

is restated as a sense of humanity or, simply, humanity. Hume also spares himself

the effort of explaining the relation of sympathy with benevolence, a term which

he uses more often in his later works.

For Capaldi, Hume’s intellectual path deserves special attention as it is there

that one can find the motives for his interest in social improvements instead of

the concern for harmonizing the elementary notions of an abstract philosophical

system 5 .

Practical life is the safety exit for the skeptical philosopher 6 . Research on the

foundations of social phenomena is less important than the explanation of the

2 See for example the connections of sympathy and complex sentiments as “love of fame”

(2.1.11.), “Our esteem for the rich and powerful” (2.2.5.), “Of the mixture of benevolence

and anger with compassion and Malice” (2.2.9., esp. pp. 381-389). Capaldi explains some

other problems in the paragraph “Difficulties in the Sympathy Mechanism”, in Ch. 6 of

Hume’s Place, pp. 225-236. All quotations and references to A Treatise of Human Nature

are from the Selby-Bigge edition (Clarendon Press, Oxford 1973). Books, Parts and

Sections are always in arabic numerals and in decimal fractions (Treatise 2.3.5.= Book II,

Part 3, Section 5). Quotations to other works are from the Green and Grose edition of

David Hume. The Philosophical Works, Scientia Verlag Aalen, Darmstadt 1964 (repr. of the

new edition, London 1882), vol. 4.

3 CAPALDI presents —Hume’s Place, pp. 270-271, and 324-5 (note 52 to p. 27)— the evidences

of a shift in Hume’s system from the Newtonian mechanical conception of morals in

the Treatise (1739-40) to a “cultural account” in the Enquiry concerning the Principles of

Morals (EPM, 1751).

4 One of the most important concerns of Hume in the Treatise is to reduce many of the mental

phenomena to the “energy” of the impressions, their source. For sympathy we note in

2.2.9, pp. 386-7: “Sympathy being nothing but a lively idea converted into an impression,

‘tis evident, that, in considering the future possible or probable condition of any person,

we may enter into it with so vivid a conception as to make it our own concern” (bold

mine). Besides the less conditioned style of the Enquiries one find sympathy almost as

taken for granted in several instances of practical life or historical personages. See EPM,

pp. 208-209; 210, compared with Treatise, pp. 592-593. We find sympathy mentioned just

three times in A Dissertation on the Passions (pp. 152, 156 and 157). In the Enquiry concerning

Human Understanding (EHU) it is used only twice in notes to clarify secondary

aspects of discourses (pp. 20-22). See also Capaldi’s remarks in Hume’s Place, pp. 241-247

and 264-265.

5 Hume’s Place, pp. 309-313 and notes 49-50 in pp. 370-371.

6 See Treatise 1.4.7., pp. 183-187 and 269-274. Also EPM, pp. 245-253, and EHU, p. 130:

“The great subverter of Pyrrhonism or the excessive principles of skepticism, is action, and

employment, and the occupations of human life”.

314


Juan Andrés Mercado

immediate causes and finalities of human behaviour. An active life offers not just

relief for human reason but also proposes wide-range solutions to theoretical

problems: if every honest citizen knows what is right for his community, why

philosophers have to spend more time producing new concepts to explain the

most intimate sources of our conduct? History has taught us the futility of this

line of research 7 .

Let us trust in custom and good sense to make judgments concerning human

actions 8 . Let sympathy flow and be justly balanced by general rules, and we will

see that the socially committed and responsible individual acts in the best way 9 .

This is a selection of the conclusions we can infer from Capaldi’s reading of

Hume.

I consider that Capaldi’s position valuable. Not least because he is a true proponent

of certain aspects of Hume’s philosophy. He uses the original texts and

within the social context of the Scottish Enlightenment, clarifying erroneous

positions based on differing humean or anti-humean interpretations. He further

insists on the unity of the three Books of the Treatise, as a response to some

interpretative proposals which lack harmony with its form or structure 10 . Perhaps

the most valuable claim of Capaldi’s approach is to blend different positions —

the so called humean utilitarianism, his skepticism or his hedonism— by setting

them in a wider framework 11 .

His position is not merely useful to correct the traditional interpretations of

Hume’s way of conceiving the practical reason, but also to connect it with classical

doctrines such as the Aristotelian position 12 . In Aristotle’s Ethics there are

several attempts to explain moral life in terms of practical performance. One can

find the inclusion of an “extra-rational” way of judging morals with the seeming

paradoxical claim that whoever is already acting in the right way can justly evaluate

an action 13 .

Hume as well as Aristotle emphasizes the role of education and custom in this

7 See EPM, pp. 187 ff. Against the utopia of the “golden age”, see pp. 184-186.

8 EPM, pp. 179-194: custom and common sense as part of the background for justice. See

CAPALDI, Hume’s Place, p. 312.

9 Hume’s Place, pp. 262-265. He quotes there EPM, pp. 182-183; 257 and 278 as remarkable

texts supporting his proposal.

10 See his discussion of Norton’s view, which only considers the Treatise, in Hume’s Place,

pp. 151-152. For his view on the role of the passions for understanding Hume’s system, see

pp. 155-162, “Present State of the Literature on the Passions”. He insists both in the unifying

value of the second Book within the framework of the Treatise and in the development

of Hume’s later works.

11 CAPALDI summarizes the main subjects in chapter one of Hume’s Place, pp. 2-19, “The

Historical Treatment of Hume’s Theory of Moral Judgment”, pp. 131-152. Also pp. 92-94

and 294-297. For “Naturalism”, see p. 297; utilitarianism, pp. 303-304; for “egoism” and

“hedonism”, pp. 304-305.

12 See Hume’s Place, pp. 275 and 307.

13 See for example Nic. Eth. 1105 a 17-1105 b 18 and 1113 a 29- b 2. The treatment of practical

wisdom deserves special attention in 1106 b 36-1107 a 2; 1140 a 24-b30; 1142 a 12-30.

315


note e commenti

kind of judgments and it occurs to me that Capaldi’s position could be enriched

by this comparison 14 .

It is clear that Hume was acquainted with some of Aristotle’s works, including

the Nicomachean Ethics, yet it is equally evident that they did not serve as

one of his main sources 15 . Capaldi also notes the differences between Hume’s

and Aristotle’s philosophies, and is correct to indicate the significance of finality

in Aristotle’s ethical system as an obstacle to the humean empiricist mentality 16 .

In a sense the “We Do” perspective generates the moral norms and is not linked

with an everlasting framework as Kant’s or Aristotle’s system 17 .

Nevertheless we can seek a reason for Hume’s faith in “general rules” and the

validity of one’s “sense of reality”. The latter is associated with the whole problem

of belief, one of the fundamental concepts in Hume’s Treatise, almost taken

for granted in the Enquiries 18 . Traces of the notion of general rules occur in several

texts of the Treatise and is explained in some important passages of the

Enquiries and the Dissertation.

General rules are the statistical outcome of our daily experience and are for

Hume an important aspect of the wider notion of custom. They carry out a very

important role in the retrenchment of movements arising from the passions and

in moral evaluations 19 , and act in a similar way to the Aristotelian virtues.

What supports these rules or, at least, our confidence in them? I believe that a

partial answer can be traced back to the idea of preestablished harmony and an

avowed confidence in our perception of the course of nature. It is true that the

term preestablished harmony is used just once in the Enquiry concerning Human

Understanding 20 , and never in the Treatise or the Dissertation on the Passions,

however some excerpts of these works can be read in this sense, for example his

discussion against radical skepticism, claiming the uniformity of natural

14 For education in Hume’s works, see Treatise, pp. 116, 295, 472 and 500. EPM, pp. 118,

185 and 196. In Aristotle, see Eth. Nic. 1104 b 11-13; 1119 b 10-13 and 1130 b 26-27.

15 See Hume’s EPM, p. 285. There is a generic reference to Aristotle’s Ethics within a long

discourse where Hume evaluates attentively the contributions of Cicero’s position and

those of other moral philosophers.

16 Hume’s Place, pp. 275-276.

17 See Hume’s Place, p. 261 and the last parts of chapter 8, pp. 302-314.

18 The entire Part 3 of the First Book of the Treatise —“Of Knowledge and Probability”—

deals in essence with the nature of belief. Many of the discussions undertaken in this Part

are not represented in EPM. See Capaldi Hume’s Place, Chapter 7, esp. pp. 237-240 and

264-266.

19 Especially remarkable is their role in “correcting” the appearances of the senses to make

the difference between serious conviction and poetical enthusiasm —Treatise, pp. 147, 374

and 631-632—, also correcting the variations in our sympathies to steady our moral sentiments

—pp. 581 and 602—; influencing imagination and sympathy —p. 371— , conditioning

moral obligation —p. 551—, and passions —pp. 293 and 309. Capaldi underlines the

role of general rules in pp. 27, 122, 193, 218-220, 230, 242 and 244-246.

20 EHU, 5.2., p. 46: “Here, then, is a kind of pre-established harmony between the course of

nature and the succession of our ideas”.

316


Juan Andrés Mercado

events 21 , and his explanations of the basis of custom and inference 22 , or the

coincidences between corporal beauty and utility 23 . It appears that in Hume’s

intellectual development the appeal to the regularity of nature —even to the wisdom

of nature 24 — provides a firm ground for the foundations of moral enquiry

and allows the philosopher to abandon the sterile abstract discussions of some

philosophical systems 25 .

It is interesting to view the inclusion of such a “rationalistic” approach to

nature in Hume’s system as symptomatic of the intrinsic incapacity to create a

self-supporting ethical proposal within a merely empiricist philosophy.

I think that Hume’s endeavours in explaining a new way of understanding

morals offer an original perspective by including some important elements of

human life. I agree with Capaldi’s claim that the humean proposal admits the

integration of active social elements —especially tradition and social evolution—

that can hardly be comprehended within strictly rationalist ethical frameworks.

On the other hand, I consider that it is legitimate to emphasize that there are

some undemonstrated principles in Hume’s empiricist system and to note the

need for at least some extra or meta-empirical concepts to complete the ethical

behaviour explanation. It seems that Capaldi’s agreement with Hume is so complete

that he is unable to perceive the necessity for such an account. If it could be

affirmed that Aristotle had to risk the rationality of his system by introducing

some empirical principles, it is also valid to affirm that Hume had to anchor his

skeptical and empiricist proposal to some meta-empirical foundations.

21 EHU, p. 36 and 67 (our idea of necessity and causality derived from the uniformity in the

operations of nature) and Treatise, pp. 105, 134, 363, 379. Human nature is also determined

by the regularity of Nature, as explained in EPM, pp. 172 and 271, and Treatise, p. 359.

22 See for example, EHU, pp. 39, 43 (nature has established connections among particular

ideas), Treatise, p. 379.

23 See Treatise, pp. 576 and 615, and EPM, p. 227.

24 Cfr. EHU, p. 48.

25 Hume describes one species of philosophers that “regard human nature as a subject of speculation;

and with a narrow scrutiny examine it, in order to find those principles, which regulate

our understanding (…) and think themselves sufficiently compensated for the labour

or their whole lives, if they can discover some hidden truths, which may contribute to the

instruction of posterity”, EHU, pp. 3-4. For Hume, modesty becomes in his mature works a

sistematical maxim against everyone’s rationalistic tendencies: “What is the foundation of

all conclusions from experience? this implies a new question, which may be of more difficult

solution and explication. Philosophers, that give themselves airs of superior wisdom

and sufficiency, have a hard task, when they encounter persons of inquisitive dispositions

(…) The best expedient to prevent this confusion, is to be modest in our pretensions; and

even to discover the difficulty ourselves before it is objected to us. By this means, we may

make a kind of merit of our very ignorance” EHU, pp. 28-29. Cfr. also p. 47.

317


318


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2 - PAGG. 319-338

Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de

Leonardo Polo

JOSÉ IGNACIO MURILLO *

1. La teoría del conocimiento como jalón de un proyecto filosófico

La propuesta filosófica de Leonardo Polo despierta cada vez más interés entre

un número creciente de filósofos. Durante bastante tiempo, este interés se había

visto prácticamente reducido al ámbito de los que habían tenido la fortuna de conocerlo

personalmente. Sin embargo, desde la publicación del primer tomo del Curso

de Teoría del Conocimiento, en 1984, la continua sucesión de escritos del autor

que han ido viendo la luz ha permitido que sus aportaciones sean conocidas por un

público más numeroso, a la vez que han mostrado la novedad y el interés de sus

tesis fundamentales y de su original modo de afrontar la investigación filosófica.

El tomo I de su Antropología trascendental, que lleva como subtítulo La persona

humana, recientemente publicado 1 , constituye, como el autor mismo señala

en su prólogo, el vértice de su proyecto, cuyas líneas fundamentales están suficientemente

esbozadas, aunque no del todo recorridas, ya que todavía falta por

ver la luz el tomo II, que tiene como tema la esencia del hombre para culminar el

proyecto original.

Desde el principio, Leonardo Polo se propuso elaborar una antropología que

no se redujera a una ontología regional y estuviera en condiciones de abordar

adecuadamente un estudio trascendental de la persona humana, convencido de

que la persona no sólo se distingue de los seres no personales en virtud de sus

* Departamento de Filosofía, Universidad de Navarra, 31080 Pamplona (Spain). e-mail:

jimurillo@ceit.es

1 Antropología trascendental. Tomo I: La persona humana, Eunsa, Pamplona 1999. Una

buena introducción a esta obra se encuentra en L. POLO, El descubrimiento de Dios desde el

hombre, «Studia Poliana», 1 (1999), pp. 11-24.

319


note e commenti

propiedades, sino que se distingue de ellos trascendentalmente, es decir, en el

orden del ser. Por eso, para él, el método de la antropología debe ser distinto del

de la metafísica. Para Polo esta convicción es lo más positivo del intento moderno,

que, sin embargo, ha naufragado por un error de método, unido a la depresión

de la metafísica que heredó de la baja Edad Media; una depresión que, en

último extremo, se fundaba en un error en la comprensión de la naturaleza y

alcance del conocimiento humano.

La preocupación por el método late, por tanto, en el fondo de su propuesta.

No es extraño, por tanto, que haya dedicado desde el principio una atención

especial al conocimiento humano, y hasta se haya llegado a definir a sí mismo en

ocasiones por esta dedicación, es decir, como un teórico del conocimiento.

El núcleo de dicha propuesta y sus primeros desarrollos fueron expuestos en

los años sesenta en algunas obras. La primera de ellas es El acceso al ser 2 , donde

se expone el método que el autor pretende desarrollar en su intento de continuar

la filosofía tradicional. Se trata de detectar el límite que el pensamiento introduce

en nuestro conocimiento de la realidad, en condiciones tales que quepa abandonarlo.

Las cuatro dimensiones de ese abandono constituirán el método para aproximarse

a los grandes temas de la filosofía: el ser y la esencia del universo y el

ser y la esencia del hombre.

Esa primera obra, junto con la dedicada al estudio del ser del universo, se revelaron

difícilmente comprensibles 3 ; algo que el autor atribuye a lo abrupto del

modo de abordar los temas y a la aparente desconexión de la exposición con los

planteamientos habituales. El hecho es que fueron poco comprendidas y su repercusión

fue mínima. Pero, con el correr de los años, Polo va a encontrar un modo

más accesible de formular su propuesta, que consiste en desarrollar detenidamente

el estudio del conocimiento humano partiendo de la perspectiva aristotélica.

Las observaciones precedentes tienen como propósito advertir acerca del

carácter singular de la obra que vamos a intentar esbozar. Evidentemente, tanto

por su título como por su contenido, los cuatro tomos del Curso de Teoría del

Conocimiento son un tratado acerca del conocimiento humano (en el que, no

obstante, no se abordan todas sus dimensiones, pues, por ejemplo, sólo ocasional

o indirectamente se alude en él al conocimiento de la persona). Sin embargo, el

interés de esta obra desborda el tema que trata, pues, al mismo tiempo, constituye

seguramente la más conseguida propedéutica para abordar el núcleo del pensamiento

de su autor. El presente estudio se propone ofrecer una visión sintética

de la obra, que permita una perspectiva de conjunto de los temas abordados y

pueda servir como guía para su lectura 4 .

2 El acceso al ser, Eunsa, Pamplona 1964 2 .

3 Se trata, sobre todo, de El acceso al ser y de El ser I. La existencia extramental, Eunsa,

Pamplona 1966 (2ª ed. 1998).

4 La obra en cuestión se encuentra dividida en cuatro tomos (Curso de Teoría del

Conocimiento, Eunsa, Pamplona; tomo I, 1987 2 ; tomo II, 1998 3 ; tomo III, 1999 2 ; tomo

IV/1, 1994; tomo IV/2, 1996), el último de los cuales ha sido editado en dos partes. En este

320


José Ignacio Murillo

2. Hacia una axiomática del conocimiento

Puesto que el conocimiento busca no sólo la claridad sino también el orden en

los temas que trata, Polo propone un enfoque axiomático de la teoría del conocimiento.

Los axiomas de la teoría del conocimiento son evidencias —en modo

alguno postulados— que no dependen de ninguna otra y que vertebran la aproximación

a las diversas dimensiones del conocimiento que deben ser tratadas 5 . Pero

es preciso aclarar que los axiomas no son meros enunciados lingüísticos. Por eso

no basta formularlos, sino que es preciso penetrar en su contenido: entenderlos.

Una vez conseguido, se ve que su formulación no es lo más importante.

La razón de este carácter no lingüístico de la teoría del conocimiento estriba

en la diferencia entre conocimiento y lenguaje. En el conocer humano no todo es

lenguaje, sino que hay niveles infralingüísticos, como el conocimiento sensible,

y niveles supralingüísticos. Además el lenguaje no es puro conocimiento porque

lo anima la intención comunicativa, que no es teórica y que, en el caso del hombre,

comporta recurrir a realidades inferiores al pensar como vehículo de expresión

6 . Por eso, el lenguaje, cuando se usa para comunicar los resultados de una

trabajo será citada abreviadamente como CTC, seguido del número de tomo y, en su caso,

de la parte a que corresponda la cita (p. ej.: CTC, IV/2, p. 154). Para no recargar excesivamente

de notas el trabajo se ha evitado la referencia exhaustiva a los diversos lugares donde

se tratan los temas expuestos. Por otra parte, las consulta de los diversos temas puede

hacerse siguiendo el índice de los volúmenes. Como orientación general, la distribución de

la obra es como sigue: el primer tomo está dedicado a la axiomática, la intencionalidad cognoscitiva

y el conocimiento sensible; el segundo, al objeto intelectual y la presencia mental,

y a la operación incoativa (abstracción y conciencia); el tercero se detiene en el estudio de

la prosecución generalizante o negativa del pensar; y el cuarto, en la prosecución racional,

que conoce la realidad física causal, y en el logos u operaciones unificantes de ambas líneas

prosecutivas. Lógicamente, las dimensiones de este trabajo impiden dedicar a cada uno de

los puntos que se van a tratar el espacio que requieren para dar de ellos una explicación

cabal. Esta es la razón de que a veces el tono parezca más descriptivo que argumentativo.

Más bien se pretende ofrecer una idea de conjunto, a modo de presentación, para aquellos

que no conocen la obra, y trazar un plano general, que sirva para orientarse en ella, dirigido

a aquellos que ya han abordado alguna de sus partes. Aparte de los artículos y libros que la

tienen por objeto, algunos de los cuales serán citados, se puede consultar, para una visión

sinóptica, dos manuales introductorios a la teoría del conocimiento, declaradamente inspirados

en la de Polo: J.A. GARCÍA, Teoría del conocimiento humano, Eunsa, Pamplona 1998

y J.F. SELLÉS, Curso breve de teoría del conocimiento, Universidad de la Sabana, Santafé

de Bogotá 1997. Una exposición introductoria que puede complementar la presente es la de

J.A. GARCÍA, El abandono del límite y el conocimiento, en AA.VV., El pensamiento de

Leonardo Polo, Cuadernos de Anuario Filosófico (11), Servicio de Publicaciones de la

Universidad de Navarra, Pamplona 1994; y la de J.J. PADIAL, Las operaciones intelectuales

según Polo, «Studia Poliana», 2 (2000), pp. 113-144.

5 La distinción entre axioma y postulado y la explicación de cómo este planteamiento no es

afectado por el teorema de Gödel se trata en CTC, I, pp. 1-27.

6 «El lenguaje es un descenso del conocimiento hacia la práctica. Y en este sentido es instrumental»

(Ser y comunicación, en AA.VV., Filosofía de la Comunicación, Eunsa, Pamplona

1986, p. 71).

321


note e commenti

investigación acerca de la naturaleza del conocimiento, sólo puede cumplir su

papel de un modo alusivo u oblicuo, es decir, intentando conducir al interlocutor

a que entienda lo que hemos entendido. De este modo Polo se distancia de aquellas

corrientes contemporáneas que identifican el conocimiento intelectual con el

lenguaje.

La teoría del conocimiento se enfrenta con el estudio de una actividad de la

que tenemos experiencia interna. Es a nuestra actividad cognoscente adonde

debemos dirigirnos para saber qué es el conocer. Pero es preciso hacer una

advertencia: no es conveniente introducir precipitadamente el sujeto en este estudio.

Para Polo, la teoría del conocimiento y su axiomática giran de entrada en

torno a la noción de operación. Es ésta la que intenta axiomatizar. La noción de

facultad, en cambio, no parece consentir la axiomática 7 ; de hecho, no parece

posible reducir el elenco de facultades sensibles a una deducción necesaria. Y,

por su parte, el tratamiento adecuado del sujeto cognoscente corresponde a la

antropología 8 .

3. La operación cognoscitiva

Polo presenta esta investigación como una continuación del estudio del conocimiento

emprendido por Aristóteles. La razón fundamental de esta filiación

estriba en que su punto de partida es la noción aristotélica de operación, la enérgeia.

Según Polo el sentido más aristotélico de la aristotélica noción de acto es el

acto de conocer 9 . En ella se cifra gran parte de lo que en el pensador griego hay

de inventivo. La enérgeia es el acto ejercido. La exposición de esta noción está

ligada al enunciado del primer axioma de la teoría del conocimiento, el axioma

A, que afirma que el conocimiento es acto.

En primer lugar, este axioma excluye que el conocimiento sea pasividad. Es

el caso de quienes lo describen como una intuición, y atribuyen la actividad a lo

conocido y no al conocer. No es correcto permitir que lo inteligible centre de tal

modo nuestra atención que nos haga olvidar que no hay inteligible sin el acto que

lo conoce. Esta crítica afecta, por ejemplo, a Platón, que describe el conocer

como una aspiración a lo inteligible, y, a este último, como inteligible en sí, al

margen de cualquier acto de conocerlo. Se podría añadir que, al menos en el

nivel intelectual, no hay inteligible sin alguien que lo entienda, pero, como

hemos dicho, no hay que apresurarse a introducir al sujeto en la teoría del cono-

7 M.J. FRANQUET, La relación entre la axiomática y la facultad cognoscitiva orgánica,

«Studia Poliana», 2 (2000), pp. 145-163.

8 Cfr. J.F. SELLÉS, La extensión de la axiomática según Leonardo Polo, «Studia Poliana», 1

(2000), pp. 77-111.

9 Cfr. El conocimiento habitual de los primeros principios, Cuadernos de Anuario Filosofico

(10), Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1993; R. YEPES,

La doctrina del acto en Aristóteles, Eunsa, Pamplona 1993.

322


José Ignacio Murillo

cimiento. No hay un único acto de entender, sino varios: en concreto, uno para

cada inteligible.

Pero ante todo hay que caer en la cuenta de qué quiere decir que el conocimiento

es acto. Para Kant, afirmar que el conocimiento es activo es referirse a su

carácter constructivo. Sin embargo, esta concepción pasa por alto el descubrimiento

aristotélico. Como hemos dicho, no puede darse conocimiento sin actividad,

y esto es aplicable a todo conocimiento; pero, puesto que el conocimiento

humano es, de entrada, operación, tanto en el nivel sensible como en el intelectual,

es preciso exponer cómo es acto esta última.

Ante todo la operación no es ninguna de las categorías, no es sustancia ni un

accidente que inhiera en ella, y, por tanto, no basta situarla entre ellas para describirla

en lo que tiene de más propio 10 . Para hacerlo es preciso mostrar qué la

caracteriza en cuanto actividad. Aristóteles distingue netamente entre dos tipos de

acto: la kínesis y la práxis teléia. La primera es la actividad que no posee su fin.

El construir es de este tipo, puesto que mientras se da tal actividad, su fin, lo construido,

no existe. Es más, una vez logrado el fin, la acción desaparece. Pero no

ocurre lo mismo con la práxis teléia. El ver es simultáneo con su fin, y se ejerce

en esa medida. No hay ver sin objeto visto, ni objeto visto sin ver. Por eso el ver

no se agota al llegar al fin, sino que lo posee: veo, ya he visto y sigo viendo.

Aquí aparece claramente el carácter posesivo del conocer. Dice la física que

no hay velocidad infinita, que todo movimiento exige tiempo, pues ninguno

puede superar la velocidad de la luz; pero esta limitación no vale para el conocimiento,

ya que, entre el conocer y lo conocido no hay tiempo, sino simultaneidad;

se trata de un acto que, desde el principio, ya ha alcanzado su fin. Esto da

lugar a enunciar un axioma lateral 11 del axioma A, el axioma E, que dice que no

hay operación sin objeto, y al que se puede dar la vuelta (axioma E’), pues tampoco

hay objeto sin operación.

Como se ve, se trata para el autor tan sólo de caer en la cuenta de algo que de

suyo es evidente, pero que podemos pasar por alto. De hecho, no son pocas las

doctrinas acerca del conocimiento que se han levantado de espaldas a este descubrimiento

aristotélico. Pero, ¿qué se puede decir del objeto? Nuestro conocimiento

¿alcanza con él la realidad? El conocimiento operativo es aspectual. Al

ver, conozco colores, y al oír, sonidos. Pero ninguna de estas operaciones agota

lo real ni lo muestran qua real. Las operaciones objetivan esos aspectos y no la

realidad en sí misma. Además una descripción cabal del objeto revela que éste no

es autorreferente. Esto se expresa en otro axioma lateral del axioma A, el axioma

F, que dice que el objeto es intencional.

10 La consideración de la realidad desde las categorías no es la única ni la definitiva. En concreto,

en ella no comparecen nociones como la de naturaleza y operación, ni mucho menos

la de acto de ser. Ya en Aristóteles la consideración de la realidad desde el acto y la potencia

no se agota en aquélla.

11 Los axiomas laterales explicitan y aclaran los axiomas principales de la teoría del conocimiento,

es decir, los axiomas A, B, C y D.

323


note e commenti

En el conocimiento, lo intencional es el objeto y no la operación. En esto se

diferencia de la voluntad, que ejerce actos intencionales 12 . El acto de conocer

es, en cambio, posesivo. Lo que remite a la realidad, o versa sobre ella, es el

objeto que es en ella poseído. Es más, el objeto no es sino esa remitencia que,

aunque incapaz de iluminar por completo la realidad, nos ofrece alguno de sus

aspectos. Polo ilustra esta propiedad con algunos ejemplos. Uno de ellos es el

del retrato. No es posible ver un retrato como retrato sin ver en él al retratado.

Captar el retrato es ir más allá de él. Salvando la imperfección del ejemplo, la

intencionalidad cognoscitiva es como un retrato, pero sin soporte: la pura remitencia.

El axioma E nos indica que la operación y el objeto se conmensuran exactamente.

No existe la operación, ni ninguna parte o incoación siquiera de ésta,

hasta que hay objeto. Por lo tanto, todo acto de conocer es heterorreferencial, y

esto excluye la reflexión: la operación no se puede conocer a sí misma.

Pero una vez vista la naturaleza de las operaciones cognoscitivas, es preciso

dar cuenta de la distinción entre ellas. A esta exigencia responde el axioma B,

que es el axioma de la distinción. Si atendemos a las operaciones como actos, no

nos basta decir que su diferencia es numérica o que depende de la materia. La

respuesta la ofrece el contenido del axioma, diciendo que la distinción entre las

operaciones es jerárquica. Si hay distinción entre ellas, debe correr a cargo de su

carácter de acto, es decir, unas tienen que conocer más que las otras. En este sentido

el ver conoce más que el oír; y también es preciso distinguir de este modo

entre los diversos objetos de cada facultad, pues tampoco es lo mismo para la

vista conocer el color rojo que conocer el azul.

Polo ilustra este axioma comentando una de sus conculcaciones más notables.

Es el caso de Hegel. Para este filósofo toda distinción en el conocimiento es provisional,

pues lo verdadero es el todo. Al final del proceso sólo habrá un objeto

en el que todo será conocido. Pero esto supone ignorar que a cada objeto le

corresponde una operación, y que éstas son diversas entre sí, y, a su vez, contradice,

según Polo, el axioma C, llamado también axioma de la unificación, que

afirma que las operaciones, los niveles cognoscitivos, son insustituibles, aunque

también unificables. De entrada, insustituibles: en el conocimiento no cabe tirar

la escalera, una vez que se ha ascendido: que una operación sea superior a otra

no quiere decir que la incluya o la haga superflua. Pero, por otra parte, el conocimiento

no es mera proliferación anárquica, pues permite la unificación entre lo

conocido por las operaciones.

12 L. POLO, La voluntad y sus actos (I), Cuadernos de Anuario Filosófico (50), Servicio de

Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1998, pp. 54 ss.

324


José Ignacio Murillo

4. El conocimiento sensible

El axioma A impide admitir el innatismo. Los inteligibles, las ideas, no pueden

estar en la mente como en un recipiente, al margen de su ser pensadas. Esto

orienta nuestro estudio hacia la actividad sensible como origen de todo conocimiento.

Por eso parece conveniente recurrir a la sensibilidad para comenzar

desde el principio la consideración de nuestra experiencia cognoscitiva. Además

esto nos permite ir describiendo la intencionalidad propia de cada uno de los

niveles de nuestro conocimiento, evitando el peligro de formular esta noción de

un modo demasiado general.

En la sensibilidad externa, el acto es precedido por una inmutación física en la

sensibilidad. Es lo que la filosofía aristotélica denomina especie impresa 13 . Pero

conocer no es ser inmutado, sino la actividad que la facultad ejerce. La operación

no es afectada por el agente físico, sino que posee una forma. Polo denomina este

fenómeno cambio de signo. El cambio de signo es propio de la vida desde el nivel

vegetativo. Se trata del aprovechamiento para sus fines de los influjos que el

viviente recibe del exterior, como es patente en la nutrición, el crecimiento y la

reproducción. En el conocimiento, el primer cambio de signo que cabe detectar es

el aprovechamiento de la inmutación como ocasión para ejercer un acto posesivo

de un fin. Y esto ocurre ya en los cinco sentidos que tradicionalmente han sido

llamados externos: el tacto, el gusto, el olfato, el oído y la vista.

En este primer nivel la intencionalidad es resbalante o plural formal. Esto

significa que las formas sentidas no tienen referente: se limitan a aparecer. Para

conocer las sensaciones como «sensación de» se precisa el sensorio común, o

conciencia sensible, que objetiva los actos de la sensibilidad externa. Gracias a él

se puede percibir la diferencia entre dichos actos y sus respectivos objetos. Las

formas sentidas, cuando se siente también el acto que las conoce, aparecen destacadas,

y, de este modo, como referidas a un apoyo, que es la sustancia como sensible

per accidens 14 .

Ahora bien, el conocimiento no puede progresar ya en esta línea. Por esta

razón la estrategia que despliega comporta un nuevo cambio de signo respecto de

la percepción. Se trata del acto de la imaginación. La imaginación es una facultad

distinta de las otras facultades sensibles: su órgano no es previo a su ejercicio,

sino que previamente sólo está esbozado y se constituye mediante él. Por eso

la imaginación puede crecer y ejercer progresivamente actos superiores. Estos

actos consisten en una reobjetivación de lo obtenido mediante los sentidos exter-

13 El axioma G afirma que el objeto es formal si es precedido en el órgano por una especie

impresa o retenida.

14 La declaración de la incomparabilidad entre el acto y la forma sensible «es el sensible per

accidens, la referencia reforzada según la cual las formas se destacan del acto. El destacarse

es conocido por el sensorio común como referencia […] Como el acto se siente a la vez que

las formas conmensuradas con él, la incomparabilidad de las formas es lo terminal» (CTC,

I, p. 406).

325


note e commenti

nos. La imaginación no suple los actos de los sentidos externos —si afirmáramos

lo contrario, estaríamos conculcando el axioma C—, pero es capaz de volver a

objetivar lo alcanzado por ellos. Al hacerlo no reitera la intencionalidad de aquéllos,

sino que obtiene una intencionalidad distinta. La imaginación capta formas,

pero en ella éstas no aparecen como «formas de», sino como contenidos. Esto se

debe a que la forma imaginada está autorreferida. Podemos entender qué significa

esto si consideramos que los objetos de la imaginación pueden ser tomados

como reales, como ocurre en las alucinaciones. En este sentido se puede decir

que esta facultad es representativa. Entender el conocimiento como una representación

de la realidad ha sido una de las características de las teorías del conocimiento

que no han admitido la intencionalidad. Si lo conocido es siempre una

representación, resulta imposible que el conocimiento lo compare con la realidad.

Para hacerlo tendría que recurrir a una instancia no cognoscitiva. Polo, en

cambio, considera que la única facultad representativa es la imaginación, pero no

porque no conozca intencionalmente, sino por lo peculiar de su intencionalidad,

que hace que el objeto no remita fuera de sí mismo.

Pero esta facultad no es suficiente para garantizar el control cognoscitivo de

la conducta animal. Es preciso añadir los actos de la memoria y de la cogitativa,

que aportan unos nuevos sensibles per accidens, que refuerzan la intencionalidad

de la imagen según una alusión a la realidad. La memoria es una perfección del

viviente correlativa a una imperfección suya: la discontinuidad de la retención.

Esto da lugar a la intención de pasado. Por su parte, la intención de la cogitativa

es una proyección finita particular: una intención de futuro. Con la ayuda de

estas nuevas intenciones se puede aprovechar la experiencia y emplearla para el

logro de los objetivos de las tendencias.

La imaginación en los animales no sobresale por encima de la memoria y de

la cogitativa, sino que está a su servicio. Pero en el ser humano, la hegemonía de

estas últimas no es total. La imaginación humana es capaz de reobjetivaciones

que no tendrían ningún sentido para la conducta animal y que, por tanto, preludian

la inteligencia. Así ocurre, por ejemplo, con el espacio como pura extensión

y el tiempo como flujo incesante. Para Polo, no obstante, hay una imagen superior

a estas dos que marca el máximo hasta el que da de sí esta facultad en el

hombre: la circunferencia, como curvatura ajustada consigo misma.

De todos modos, esta relativa superioridad de la imaginación sobre las otras

facultades sensibles no le permite articular el tiempo del viviente, porque los

sensibles per accidens no son reobjetivaciones 15 , y, por tanto, no pueden ser captados

por la imaginación. En el ser humano esta articulación es posible en virtud

de un nuevo cambio de signo, que inaugura la actividad propiamente intelectual.

Se trata de la primera operación de la inteligencia, que Polo denomina, con

Aristóteles, abstracción.

15 Esto no excluye una cierta conexión entre los sensibles per accidens, pero para ello «tiene

que reducir la referencia intencional» de éstos. Cfr. CTC, I, pp. 409-410.

326


José Ignacio Murillo

5. La operación incoativa de la inteligencia

Con la abstracción comienza el conocimiento intelectual humano. A diferencia

del conocimiento sensible, la inteligencia es una facultad inorgánica. Por eso

no puede ni tener especies impresas al modo de los sentidos externos, porque no

puede ser afectada por lo material, ni retenidas, como la imaginación, porque no

tiene un órgano que las conserve por medio de su crecimiento. A diferencia de

las facultades sensibles, el comienzo de la actividad intelectual se debe a una iluminación

por parte del acto de que depende: el entendimiento agente. El conocimiento

no procede extra se inspiciendo, sed intra se considerando 16 , lo que, en

el caso de la inteligencia, implica que ésta no desciende a la sensibilidad para

encontrar en ella su objeto, sino que se retrae hacia la iluminación de la sensibilidad

que le proporciona el entendimiento agente. Ahora bien, el objeto de la operación

abstractiva es intencional, y esa intencionalidad se vierte sobre los objetos

de la sensibilidad intermedia. Esto es lo que se llama conversio ad phantasmata:

los fantasmas son el término de la intencionalidad abstractiva.

Al versar la intencionalidad abstractiva sobre la sensibilidad intermedia, aporta

el presente, desde el cual se articulan las intenciones de pasado y de futuro de

la memoria y la cogitativa. Según esta conversión, los abstractos pueden ser definidos

como una articulación del tiempo de la sensibilidad interna. Pasado y futuro

son articulados desde la presencia. La presencia mental es la operación intelectual

17 , el acto que presenta los abstractos.

Pero es preciso notar que en la articulación temporal no comparece la presencia.

Lo contrario supone afirmar que la operación versa sobre sí misma, y esto

anularía la estricta conmensuración con su objeto (que se formula en el axioma

E) y haría imposible la intencionalidad de este último (axioma F). Ahora bien, no

todos los abstractos son articulaciones temporales, pues hay una imagen que se

puede abstraer sin que esté reforzada por las intenciones de la memoria y de la

cogitativa. Esta imagen, por ser una forma pura, es presente a la operación sin

resquicios, sin guardar ninguna reserva 18 . Se trata de la circunferencia. La operación

que la abstrae es denominada conciencia objetiva, pues, frente a los otros

actos abstractivos, goza de una especial prerrogativa, ya que su objeto se con-

16 Polo cita esta afirmación de Juan de Santo Tomás, que pertenece al Cursus theologicus,

disp. 32, art. 5, nº 11: cfr. CTC, I, p. 78; ibidem, p. 279; CTC, II, p. 228.

17 «La presencia articulante es mental y, por tanto, no temporal. Si la presencia no es “exterior”,

o superior, al tiempo, no cabe hablar de articulación del tiempo. Ahora podemos rectificar

a Heidegger: la presencia como discurso no es un miembro del ék-stasis temporal. Es

preciso subir de nivel, pues en otro caso no es posible aunar pasado y futuro respetando su

carácter no formal. Si la presencia pertenece al tiempo, no lo articula y hay que formalizar

pasado y futuro» (CTC, II, p. 201).

18 La circunferencia abstracta no es una imagen, ni mucho menos una figura trazada en el

espacio y en el tiempo. Polo explica cómo la circunferencia se puede considerar al margen

del espacio y el tiempo en CTC, II, pp. 191-2.

327


note e commenti

mensura de tal modo con la operación que en ella se hace patente el axioma A:

conoce su objeto en tanto que conmensurado con la operación que lo conoce. El

acto de conciencia se describe así: «conozco lo que conozco, como lo conozco,

porque lo conozco».

La conciencia tiene que ser una, pero si es operación, esta unidad no se mantiene

para una pluralidad de objetos, pues a cada objeto le corresponde una operación

distinta. Por eso, su correlato intencional tiene que ser uno y único, y el

objeto que cumple esa condición no es otro que la circunferencia pensada.

Los abstractos, que son articulaciones temporales de las imágenes unidas a

las intenciones de la memoria y la cogitativa —que, a diferencia de la imaginación,

no son intenciones formales— no muestran de este modo su conmensuración

con la operación que los conoce. Por eso a ellos no les conviene el apelativo

de conciencia. Sin embargo, son de extraordinaria importancia en la prosecución

intelectual, es decir, en el posterior despliegue de la inteligencia.

¿En qué sentido se puede hablar de prosecución intelectual? No es posible

admitir que la inteligencia conozca más sin aceptar otras operaciones distintas 19

de las descritas, pero que correspondan a la misma facultad. Pero esto plantea

algunos problemas que hay que resolver. En primer lugar, la inteligencia no

extrae conocimiento de otras fuentes diversas de la abstracción 20 . Por otro lado,

no cabe una nueva recombinación, comparación o profundización en lo conocido

sin aportar un acto distinto —que debe ser superior si aporta una ganancia de

conocimiento—, pues lo contrario supondría admitir o bien que una operación

puede conocer mejor su objeto —lo que conculcaría el axioma E, pues negaría la

conmensuración entre la operación y su objeto—, o bien que se pueden suscitar

operaciones de un modo ciego, entendiendo la inteligencia como sede de tendencias

cognoscitivas, que buscan su objeto, conculcando así el axioma A.

Estas dificultades incitan a revisar la teoría clásica de la abstracción y del

entendimiento agente. Para la tradición aristotélica, el entendimiento agente es

una pieza teórica para explicar el paso del conocimiento sensible al intelectual. La

inteligencia es una potencia inmaterial, y, por tanto, su acto no puede ser precedido

por una inmutación material. La solución de esta dificultad es la existencia de

un acto intelectual que no es una operación (el intelecto agente), que ilumina la

sensibilidad, convirtiéndola en especie impresa de la inteligencia. Ya hemos visto

que Polo acepta esta explicación. Ahora bien, la inteligencia humana no se detiene

en la abstracción, sino que es capaz de conocer más. Es más, ésta es la diferencia

axiomática entre ella y la sensibilidad (el axioma D): la inteligencia es operativa-

19 Nótese la diferencia entre la pluralidad operativa a que aquí se alude y las diferentes operaciones

de otras facultades. La imaginación, por ejemplo, ejerce operaciones distintas, unas

más perfectas que las otras; pero siempre objetiva imágenes. En cambio, para conocer lo

real como real es preciso que la inteligencia no conozca tan sólo abstractos.

20 No nos referimos aquí al conocimiento de nuestra realidad espiritual, que, ciertamente, no

puede proceder de la abstracción, sino más bien del conocimiento de nuestra actividad cognoscitiva

y voluntaria.

328


José Ignacio Murillo

mente infinita; no hay un último objeto que sature la inteligencia humana, de tal

modo que no se pueda pensar más allá de él. Para Polo, esto exige que el acto iluminante

que la pone en marcha no la abandone a lo largo de su ejercicio.

En lo sucesivo su influjo no consistirá en iluminar la sensibilidad. Pero no

acaba ahí la exigencia de iluminación. Recordemos que, salvo en la conciencia

objetiva —y en este caso del modo peculiar que hemos indicado—, la conmensuración

de la operación abstractiva con su objeto impide que la operación comparezca

ante la inteligencia. Lo que comparece mediante la operación es su objeto,

en este caso el abstracto, que se obtiene precisamente en la medida en que la operación

se oculta al presentarlo. Por eso cabe denominar a la presencia mental, es

decir, a la operación intelectual, límite mental. Este ocultamiento es una detención

del conocer en el objeto, que, de no ser manifestada, nos podría llevar a confundir

lo pensado tal como lo pensamos con lo real. De ahí que, si la inteligencia debe

continuar, y no puede ser de otro modo, pues, de lo contrario, su mismo comenzar

carecería de sentido 21 , es preciso que el entendimiento agente ilumine la operación,

la presencia mental, desocultándola. Este desocultamiento es más que una

especie impresa. Se trata de un hábito que faculta a la inteligencia para operaciones

ulteriores. A diferencia de la voluntad, la inteligencia adquiere sus hábitos con

un solo acto y, sólo gracias a ellos, puede seguir conociendo 22 .

De lo dicho se desprende que Polo propone también una rectificación y

ampliación de la teoría clásica de los hábitos intelectuales. Según él, éstos deben

ser considerados, no como unas meras perfecciones potenciales, sino ante todo

como actos cognoscitivos intelectuales distintos de las operaciones, posibilitados

por el intelecto agente, que iluminan la operación previamente ejercida y permiten

otra superior. Son los hábitos los que explican que la inteligencia sea infinitamente

operativa y que nunca conozca de tal modo que no pueda conocer más.

Algo que enuncia el axioma H, lateral del axioma D, que afirma que la inteligencia

no es un principio fijo, sino que puede crecer en cuanto principio gracias a

los hábitos 23 .

21 Como se desprende del axioma D. Al respecto, Polo afirma: «La inteligencia no empezaría

si hubiese una última operación intelectual. […] por eso, aunque el primer acto no es provisional,

tampoco está destinado a consumarse en sí mismo» (CTC, III, p. 4).

22 Sobre la continuidad con la doctrina tomista sobre de los hábitos, cfr. Operación, hábito y

reflexión. El conocimiento como clave antropológica en Tomás de Aquino, Eunsa,

Pamplona 1998.

23 «El axioma que dice que la inteligencia es susceptible de hábitos tiene que añadir enseguida

que adquiere cada hábito con un solo acto, porque de otro modo el carácter jerárquico de la

infinitud operativa no podría justificarse. Pero hay que añadir también lo siguiente: la inteligencia

no comenzaría si no fuese susceptible de hábitos. En este sentido, los hábitos son

cuasi innatos: la inteligencia es potencia respecto de ellos y no sólo respecto de las operaciones;

en rigor, más respecto de ellos que respecto de las operaciones, por cuanto sin hábitos

no prosigue, y si no prosigue, no empieza» (CTC, III, p. 4). Sobre los hábitos en Polo

puede consultarse J.F. SELLÉS, Los hábitos intelectuales según Polo, «Anuario Filosófico»,

XXIX/2 (1996), pp. 1017-1036.

329


note e commenti

Según esta propuesta, el entendimiento agente no es un mero suministrador

de especies impresas, sino que acompaña a la inteligencia a lo largo de su ejercicio.

Otro problema es determinar cuál es el lugar del intelecto agente en el cognoscente.

Para Polo no es aceptable entenderlo como un acto de entender externo

al sujeto, ni basta concebirlo como una mera facultad. Pero cabe que este acto

que permite conocer la realidad en toda su amplitud se identifique con el acto de

ser del sujeto intelectual: el esse hominis 24 . El estudio de este acto de conocer

escapa de los límites de la teoría del conocimiento y debe ser tratado por la

antropología. En concreto, para Polo, se trata de uno de los trascendentales personales

25 .

Gracias a esta iluminación, la conciencia operativa da lugar al hábito de conciencia.

La absoluta carencia de implícitos del objeto de esta operación hace que

este hábito no posibilite ningún desarrollo posterior. En cambio, la iluminación

de la operación articulante, la abstracción, es, a su vez, un hábito articulante: el

hábito abstractivo. Para Polo el tema 26 desvelado por este hábito es la articulación

verbo-nombre, y, por lo tanto, es el hábito lingüístico por excelencia 27 .

6. Las declaraciones de insuficiencia del abstracto y la doble prosecución

de la inteligencia

El tratamiento de las operaciones que suceden a la abstracción es difícil de

condensar en unas pocas páginas. Sin embargo, pienso que puede ser provechoso,

asomarse al menos a su planteamiento, para conocer sus líneas maestras y

hacerse una idea ordenada de sus contenidos. Advierto, por tanto, al lector que

24 «Si el intelecto agente está en el orden del esse hominis y admitimos la distinción real, el

intelecto agente no puede ser más humano: pertenece al orden personal. Por consiguiente,

ha de iluminar a la presencia en su ocultamiento. No por eso se eliminan los actos de la

inteligencia ni son substituidos por el sujeto. El sujeto comparece en el momento justo y

como tiene que comparecer, es decir, sin eliminar la operación intelectual ni los hábitos; al

revés, justificando los hábitos. Además, en este planteamiento el intelecto agente deja de

ser una mera pieza teórica colocada en el inicio de la actividad de la inteligencia y se

entiende como la unidad del esse hominis en orden al crecimiento intelectual» (CTC, III, p.

12).

25 Cfr. Antropología trascendental, cit., pp. 212-216.

26 Polo reserva el término objeto para lo conocido por la operación, mientras que usa el de

tema para lo conocido por actos superiores.

27 Se trata de una articulación en la que el verbo no se separa del nombre. Por tanto no explica

formas lingüísticas como los verbos copulativos. La presencia desocultada en el hábito se

describe en la forma lluvia-llueve, blanco-blanquea, etc. «Este doble valor nominal verbal

corresponde a la articulación temporal en presencia. Una articulación temporal en presencia

no deja de ser una articulación. Si se quiere, lo que tiene de presencia es lo que tiene de

nominal; lo que tiene de articulación es lo que tiene de verbal. Pero no puede separarse la

presencia de su valor articulante sin caer en la mudez lingüística de la presencia pura»

(CTC, II, p. 210).

330


José Ignacio Murillo

las explicaciones serán en ocasiones demasiado sumarias, y que me resigno a

dejar muchos cabos por atar, con la esperanza de que lo expuesto sirva como una

breve introducción a lo que en la obra de Polo es extensamente tratado.

En virtud del desocultamiento de la presencia en el hábito abstractivo, la inteligencia

es capaz de declarar la insuficiencia del abstracto en dos sentidos. De

una parte, cabe declarar que el abstracto no satura la capacidad de conocer, pues

se puede conocer más; y, de otra, que no basta en orden al conocimiento de la

realidad.

Comenzaremos por exponer la primera de dichas declaraciones de insuficiencia.

Con ella la inteligencia muestra que ningún contenido es todo lo pensable.

Su infinitud operativa es aquí patente. Polo denomina a las operaciones que se

abren desde esta declaración con el nombre de vía negativa, generalización o

reflexión objetiva. El hábito abstractivo desoculta la presencia mental, que objetiva

los abstractos, y permite advertir que los abstractos no son unificables en su

nivel, pues cuando se piensa uno no se piensa otro. Es éste un problema que preocupó

a la filosofía griega desde sus orígenes. Según Anaximandro, las cosas se

pagan mutuamente una deuda 28 . Pero la concepción de lo real de este filósofo

presocrático supone una extrapolación de la presencia a la realidad, es decir,

entender que la presencia es el fundamento de los entes; y se debe a una detención

apresurada del conocimiento intelectual. La solución más drástica a este

problema es la de Parménides, que declara impensable la diferencia: «ente-es» es

la última palabra de la inteligencia, aun a costa de dejar impensados el movimiento

y la pluralidad. Parménides rechaza así la prosecución negativa de la

inteligencia 29 .

En cambio, cuando, una vez conocida la operación que lo piensa, se cae en la

cuenta de que el abstracto no es lo real, sino un objeto, cabe unificar los abstractos

en otro nivel, sin recurrir directamente a lo real. Así, por ejemplo, si «perro»

y «gato» son unos abstractos determinados, es claro que ninguno de ellos es todo

lo pensable 30 . La noción de «todo lo pensable» es la que orienta la búsqueda de

una idea que los abarque a ambos, y que se objetiva como una idea general: animal.

Pero una de las notas del objeto pensado es la constancia. Todo lo pensado,

28 Simplicio reporta la siguiente enseñanza de Anaximandro: «(los seres) se pagan mutua pena

y retribución por su injusticia según la disposición del tiempo». Cfr. G.S. KIRK - J.E. RAVEN

- M. SCHOFIELD, Los filósofos presocráticos, Gredos, Madrid 1987, p. 177.

29 «Pues bien, yo te diré (y tú, tras oír mi relato, llévatelo contigo) las únicas vías de investigación

pensables. La una, que es y que le es imposible no ser, es el camino de la persuasión

(porque acompaña a la Verdad); la otra, que no es y que le es necesario no ser, ésta, te lo

aseguro, es una vía totalmente indiscernible, pues no podrías conocer lo no ente (es imposible)

ni expresarlo» (G.S. KIRK - J.E. RAVEN - M. SCHOFIELD, o.c., p. 354).

30 El término pensamiento es usado por Polo tan sólo referido al conocimiento intelectual de

objetos, es decir, a aquel que obtiene la presencia mental. Por eso la inteligencia no es sólo

capaz de pensar, pues, como hemos visto, conoce también mediante los hábitos y, como

veremos, mediante operaciones que, gracias a los hábitos, abandonan en cierta medida la

presencia mental.

331


note e commenti

por serlo, es constantemente objeto, cualquiera que sea el contenido objetivado.

Luego en el conocimiento no cabe un pensar más que no se corresponda con un

pensar menos: no hay ganancia sin pérdida. Esto es lo que Polo denomina pugna

y compensación en las operaciones que siguen a la abstracción. En el caso de la

generalización, la pugna se entabla entre la idea general obtenida y los abstractos

a que se refiere. Los abstractos se pueden describir como un complejo de notas.

En cambio, la idea general es homogénea —consta de lo que Polo llama una

mononota—, y no puede ser objetivada al margen de los abstractos que unifica.

La idea general comporta una ganancia en claridad, pero, a su vez, una pérdida

de contenido respecto a los abstractos. La idea general unifica los abstractos

iluminándolos intencionalmente, es decir, versando intencionalmente sobre ellos,

y, de este modo, conectándolos. Pero, como, según el axioma C, las operaciones

son insustituibles, no se puede sostener que la idea general —que, por otra parte,

no es una operación, sino un objeto intencional— ilumine todo el abstracto. Su

versión intencional es parcial, y, respecto de ella, el abstracto aparece sólo como

un caso particular de la idea. Polo distingue la consideración del abstracto desde

la idea general de la que ejerce la operación de abstraer denominando a esta última

determinación primera y a aquella determinación segunda. Desde la idea

general, el abstracto, no es una determinación primera, como en la operación de

abstraer, sino una determinación segunda.

A la determinación primera, el abstracto tal como comparece en la operación

de abstraer, Polo le denomina lo vasto. Se trata de un objeto cuya unidad significativa

se da sin conectivos lógicos o, dicho de otro modo, es pura semántica sin

sintaxis. Por eso el abstracto es prelógico, pues la lógica implica conexión entre

los contenidos del conocimiento. La prosecución negativa objetiva, en cambio,

un conectivo lógico entre objetos, es decir, la idea general como conectivo de los

abstractos.

En la generalización es patente la imposibilidad de culminación del conocimiento

operativo. En cada nueva objetivación la presencia torna a ocultarse y es

desocultada por el hábito posterior, que manifiesta que tampoco ese nuevo objeto

la satura. El objeto último es imposible, impensable, pues la presencia de que

dependen todos los objetos no comparece en ninguno y se puede separar de

todos ellos. No existe, por tanto, el máximo pensable 31 .

Pero, como decíamos, la inteligencia puede declarar también la insuficiencia

del abstracto en orden al conocimiento de la realidad. Esto se consigue explicitando

lo que en él se encuentra implícito. Todos los abstractos guardan implícita

una diferencia. Esta diferencia es la responsable de que no haya un solo objeto.

No se trata de una oposición negativa entre los abstractos. Tampoco contradice el

axioma A, es decir, no se trata de algo en el objeto que quede por pensar, porque

31 En esto basa Polo su crítica al argumento a simultaneo de San Anselmo. Cfr. M.A. BALIBREA,

La crítica de Polo al argumento anselmiano, «Anuario Filosófico», XXIX/2 (1996), pp. 373-

380.

332


José Ignacio Murillo

todo lo que tiene el objeto de objeto es conocido por la operación. Esta diferencia

remite más bien al estatuto anterior respecto del cual el abstracto ha sido

obtenido. La progresiva explicitación de esta diferencia es llevada a cabo por la

inteligencia en varias fases, que permiten irlo conociendo tal como se da fuera de

la mente, es decir, devolverlo a la realidad desde la que se ha objetivado por

intermedio de la sensibilidad. Esta devolución progresiva nos conduce a conocer

las causas físicas y es llamada por Polo vía racional o razón.

El abstracto representa un valor formal, pero se trata de una forma pensada.

La operación que objetiva esta forma la exime precisamente de existir. Este es

otro modo de notar el carácter de límite de la presencia mental gracias al hábito

abstractivo. El abstracto es unum in praesentia. Si el hábito permite una operación

posterior que mantenga el desocultamiento de la presencia —en lugar de

reponerla, como ocurre en la generalización—, la inteligencia puede pugnar con

los principios reales en los cuales la forma es un principio extramental. Polo sostiene

que estos principios son las causas físicas, que se van conociendo a medida

que avanza la explicitación. Éstas no pueden ser causas por separado —esa separación

sólo puede ser fruto de la introducción de la presencia mental—, el valor

causal de una es inseparable de las otras: las causas físicas lo son siempre ad

invicem, y sólo pueden ser conocidas como causas en su mutua respectividad 32 .

El principio a que se puede devolver el abstracto en primer lugar no es otro

que la causa material. Al hacerlo, el unum in praesentia se explicita como unum

in multis, como concepto. Pero es preciso tener en cuenta que la simultaneidad es

propia de lo pensado. Mientras la presencia pugna con la materia, la unidad del

concepto se da entre unos muchos que no son simultáneos; es más, son inestables.

Por tanto, aparece un sentido causal que permite conectarlos, que es la

causa eficiente extrínseca, que plasma la forma en la materia.

A esta operación le sigue a su vez un hábito que desoculta la operación: el

hábito de analogía. Gracias a él es posible conjurar la amenaza de ignorancia

que comportaría detener en este punto la explicitación. Esta primera fase de la

explicitación se muestra insuficiente por su incapacidad de dar razón del primer

movimiento de que dependen las sucesivas transformaciones. Esto puede precipitar

en el enigma objetivo: la admisión de un proceso al infinito. Además el abstracto

no se explicita en el concepto: la sustancia bicausal —hilemórfica— que

se explicita en él es incapaz de enviar especie impresa, pues ni siquiera tiene

accidentes (lo que comportaría que la causa eficiente le fuera intrínseca). Se trata

de la sustancia elemental o el sentido mínimo de la sustancia física.

El hábito de analogía permite avanzar en el conocimiento de la realidad física,

al manifestar (no se trata de una explicitación, pues no es una operación, ni,

por tanto, conlleva pugna) la insuficiencia de la operación de concebir. Acerca de

32 Nos referimos a las cuatro causas aristotélicas: material, formal, eficiente y final. Polo las

reconsidera desde la explicitación racional, rectificando en ocasiones la física de

Aristóteles.

333


note e commenti

la realidad extramental permite conocer de qué modo son ordenables los explícitos

conocidos en el concepto. La causa del orden no es otra que la causa final. En

el hábito de analogía se manifiesta el modo en que la causa final llega hasta las

concausalidades hilemórficas, que es el movimiento circular, la circunferencia

física. Mediante ella, la causa final es concausa extrínseca de esas concausalidades.

Ese influjo de la causa final es la ordenabilidad.

Pero de este modo la unidad no se comunica a la pluralidad. Esto es lo que se

consigue con el juicio, como explicitación que constituye la segunda fase de la

vía racional de la inteligencia. En él lo explicitado no sólo depende de la causa

final, sino que es concausal con ella. Explicitar la analogía es ampliar su unidad.

Ahora la causa formal aparece en concausalidad con la causa final; se trata de

una analogía de analogados. Así, en el juicio comparece la concausalidad completa,

es decir, las cuatro causas. Se trata de una pugna especialmente intensa,

porque explicita la causa final, mientras que, recordemos, el abstracto era poseído

precisamente como fin de la operación. En esta ocasión, la diferencia que

cada abstracto guarda implícita es explícita como analogado. Los analogados son

afirmados porque cumplen el orden. En esta fase se conoce la sustancia tricausal,

en la que la causa eficiente es intrínseca, y, por tanto, aquella que tiene accidentes.

Por eso, en el juicio se explicitan las categorías 33 .

Sigue al juicio el hábito judicativo, que Polo denomina hábito de ciencia. En

él se manifiesta el balance de la explicitación de los sentidos causales: el universo.

Se trata de un balance completo pues recoge no sólo el conjunto de explicitaciones

judicativas, jerarquizadas de acuerdo con la medida en que se amplía la

intervención de la causa final, sino también el de las conceptuales. Ese balance

conduce a una aparente afirmación: un universo es. Se trata de una aparente afirmación

porque esta expresión no traduce una explicitación judicativa, sino una

manifestación habitual. Hasta ahora, las causas físicas se han explicitado en la

medida en que la inteligencia separaba su prioridad de la prioridad de la presencia,

por medio de la pugna de esta última. Ahora, el hábito judicativo manifiesta

el carácter potencial del universo: el universo así conocido no comparece como

acto. Pero ese carácter potencial no puede deberse tan sólo a que se distingue de

la actualidad de los objetos pensados 34 . Por eso este hábito obliga a poner a

prueba la presencia, para ver si su pugna con la realidad física da más de sí y

puede proporcionar un nuevo explícito que dé razón de esa potencialidad.

La nueva operación que permite el hábito no es sino la guarda definitiva del

implícito, la declaración de que la presencia no da más de sí en orden a conocer

prioridades extramentales. Se trata de la operación de fundar o fundamentación,

33 Polo propone una rectificación de las categorías aristotélicas, pues considera que Aristóteles

las ha logificado, al extraerlas de la proposición y no del juicio como acto racional. Cfr.

CTC, IV/2, pp. 301 ss.

34 Polo distingue entre la actualidad, que corresponde a lo pensado, y la actuosidad o actividad,

que corresponde a lo real.

334


José Ignacio Murillo

que declara a la presencia incapaz de pugnar con principios más altos. Esta

declaración es una pugna que aporta un último explícito: el fundamento. Pero

éste es explícito como exclusividad, es decir, como exclusivamente fundamento.

A partir de aquí la presencia no aporta nada más. De hecho, no puede ni siquiera

mantenerse insistentemente en este último explícito.

Esta situación sólo se puede subsanar si a la última operación racional le

sigue un hábito al que ya no sigue ninguna operación. Se trata del hábito de los

primeros principios. El ser sólo se puede conocer con el ser. Por tanto, este hábito

ya no puede ser entendido como una perfección de la inteligencia, sino como

la coexistencia del ser cognoscente (el ser personal) con el ser del universo, y

permite una intelección que se deja llevar por la actividad real sin suponerla, es

decir, sin objetivarla, y que entiende el ser creado en dependencia del Creador 35 .

7. La reposición de la presencia mental en las operaciones racionales

Las diversas fases por las que pasa la explicitación racional se corresponden

con sendas amenazas de ignorancia, es decir, con modos distintos de detener la

explicitación obteniendo un nuevo objeto. Como hemos visto, la prosecución

requiere un despojo por parte de la presencia, que ha de ejercerse sin poseer un

objeto. La ausencia de objeto es ineludible si queremos conocer una prioridad

distinta de la presencia mental pues, al ser objetivado, lo real es conocido en el

nivel de la operación, y, por eso mismo, no como es en la realidad, mientras que

lo conocido en la prosecución racional es de un nivel inferior a la presencia. Por

tanto, los explícitos no son objetos, sino progresivos abandonos de la objetividad.

35 Ya hemos señalado que la presencia exime al objeto de existir. Esto se debe a que lo

supone, al sustituir la actividad real que lo funda por la operación intelectual. Esta suposición

hace imposible que la actividad real misma comparezca de modo objetivo. Dicho de

otro modo, se puede pensar (objetivamente) la esencia, pero nunca el ser, pues la actividad

de pensar lo oculta al presentar. Por otra parte, el acto de ser del universo físico como primer

principio no puede entenderse adecuadamente como mero fundamento de la esencia.

Tampoco cabe entenderlo como principio de un modo aislado. En el hábito de los primeros

principios éstos comparecen en su mutua vigencia. Para Polo estos principios son la no

contradicción y la identidad reales y la causalidad trascendental. El autor menciona en su

apoyo a una afirmación de Tomás de Aquino: «esse quod rebus creatis inest non potest intelligi

nisi ut deductum ab esse divino» (De Potentia, q. 3, a. 5, ad 11). Cfr. L. POLO, El conocimiento

habitual de los primeros principios, Cuadernos de Anuario Filosófico (10),

Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1993; S. PIÁ, Los primeros

principios en Leonardo Polo. Un estudio introductorio de sus caracteres existenciales

y su vigencia, Cuadernos de Anuario Filosófico, Serie de Filosofía española (2),

Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1997. Acerca de la

compatibilidad entre la perspectiva de Polo y la de Tomás de Aquino, puede consultarse J.I.

MURILLO, Operación, hábito y reflexión. El conocimiento como clave antropológica en

Tomás de Aquino, Eunsa, Pamplona 1998. Allí se aborda el estudio de estas nociones tomistas,

reconsideradas desde la inspiración de Polo.

335


note e commenti

Pero la presencia se puede introducir después de cada una de las explicitaciones,

y entonces logra un objeto nuevo en el que lo ganado aparece en presencia.

Si describimos las causas reales conocidas en pugna, como una sintaxis sin

semántica, estos nuevos objetos son reposiciones de la semántica, que aportan

nuevas conexiones lógicas, y que son traducciones objetivas de las pugnas racionales.

Reciben el nombre de compensaciones. Esto permite matizar la descripción,

en apariencia peyorativa, que de ellos hemos dado. Se trata de amenazas de

ignorancia sólo en la medida en que son detenciones y pueden invitar a una

extrapolación que los confunda con el estatuto de lo real. Es lo que Polo denomina

metafísica prematura.

Las compensaciones racionales no son objetos en el sentido pleno de esa

noción, puesto que su unidad es muy débil. Por eso, para ser objetivadas deben

consolidarse. Su consolidación consiste en su referencia intencional a objetos

inferiores de la propia línea prosecutiva. Cuando estos últimos son iluminados

por aquéllos aparecen al margen de la intencionalidad que les corresponde. Al

iluminar esos objetos, las compensaciones suplen a la presencia, pero, como

otorgar la condición de objeto corresponde sólo a ella, las compensaciones otorgan

a aquello sobre lo que versan tan sólo el valor de término de la intencionalidad.

La primera de estas compensaciones es el universal lógico. En él los muchos

en que se encuentra el uno aparecen como simultáneos. Éste es un signo de que

se reintroduce la presencia mental, pues la simultaneidad no corresponde a las

causas físicas. Se consolida remitiendo intencionalmente al abstracto, que, desprovisto

de su intencionalidad, no es otra cosa que la especie impresa intelectual.

El universal recupera el valor semántico del abstracto, y permite la deíctica, es

decir, su atribución a singulares.

La ampliación del explícito en el juicio sólo permite una compensación por

partes, que se consolida también por partes. Se trata de la proposición, que es la

conexión de las consolidaciones de los predicamentos: las categorías. El término

que necesita para consolidarse dicha conexión es la noción de ente; mientras que

los conectados se consolidan por su cuenta con objetos sensibles tomados como

términos.

A su vez, la operación de fundar también se puede compensar. Es más, dada

su naturaleza, la pugna es especialmente cercana a la compensación. Dicha compensación

recibe el nombre de base. Ésta indica al fundamento en tanto que

funda, pero de un modo meramente lógico; se trata de la vuelta demostrativa

desde el fundamento hacia lo fundado. El complemento que precisa la base para

consolidarse es el raciocinio.

Pero, como decíamos, las operaciones de la vía racional —concepto, juicio y

fundamentación— son unificables con la generalización. Esta unificación, que

recibe el nombre de logos, se consigue cuando las compensaciones racionales

versan sobre las ideas generales aclarándolas. En primer lugar, la versión intencional

del concepto sobre la idea general permite poner en el mismo nivel los

336


José Ignacio Murillo

casos conectados por ésta. El objeto así obtenido, que Polo denomina conceptoide,

es una forma pura, una pura relación. Se trata del estatuto intelectual del

número. A su vez, la versión de la conexión predicativa sobre las ideas generales

dan lugar al judicoide, en el que se aclara lo que de conexión tiene el objeto del

logos. «La aclaración desde la compensación judicativa es lo que se llama función:

cualesquiera que sean los cuantos, hay relación determinada con cuantos»

36 .

La intencionalidad de los objetos del logos es llamada hipotética, porque

éstos son hipótesis sobre los números físicos. Son estos objetos los que permiten

la matemática y la física matemática. Los números pensados nunca pueden traducir

directamente los números físicos, pero no por su imperfección, sino por su

superioridad respecto de estos últimos. Por eso la física matemática no conoce la

realidad física en el nivel propio de esta última, a diferencia de las operaciones

racionales 37 .

8. La teoría del conocimiento como rehabilitación de la filosofía

En estas páginas hemos expuesto algunos de los puntos más importantes de la

teoría del conocimiento de Polo. En mi opinión, uno de los méritos principales

del autor es su matizada y coherente aproximación a la noción de intencionalidad:

la atribución de la intencionalidad cognoscitiva al objeto, y no a la operación,

y la descripción de sus características. Aunque no nos hemos detenido en

ello, una de las partes más interesantes del tomo II es la descripción de las notas

del objeto pensado, y, junto con él, de la presencia mental.

El conocimiento intencional es valorado positivamente, pero esto no impide

denunciar claramente su limitación, conectada con su índole aspectual, de la que

no se libra la intencionalidad intelectual, a pesar de su superioridad sobre la sensible.

Esta clara delimitación de lo intencional permite al autor proponer una

nueva explicación del juicio y de otras operaciones intelectuales, cuya ganancia

no consiste en aportar objetos intencionales. En este punto se ofrece un buen

complemento a la teoría clásica del juicio, mediante una propuesta que respeta y

ordena las tres dimensiones que clásicamente se le asignan: afirmación, composición

y conciencia 38 .

El autor pone a prueba su teoría intentando dar razón de las deficiencias que

se pueden señalar en otros autores. Para Polo, el error en filosofía consiste en

intentar conocer un tema determinado con unas operaciones que no le corresponden.

En este sentido, señala que la filosofía clásica ha demostrado su preferencia

36 CTC, IV/1, p. 79.

37 Un estudio acerca del estatuto de la física matemática en Polo se puede encontrar en J.M.

POSADA, La física de causas en Leonardo Polo. La congruencia de la física filosófica y su

distinción y compatibilidad con la física matemática, Pamplona, Eunsa 1996.

38 Cfr. CTC, IV/2, p. 29.

337


note e commenti

por las operaciones racionales. El mismo progreso de la filosofía clásica se debe

a la progresiva tematización filosófica de lo adquirido por las diversas operaciones

racionales. En cambio, la filosofía moderna, parece optar unilateralmente por

las operaciones generalizantes o negativas. Esto explica, para Polo, sus quiebras

en metafísica: las causas reales y el fundamento no pueden ser pensados con

ideas generales, si bien éstas son de gran importancia para la acción transformadora

del hombre.

Respecto de la metafísica, conviene señalar una notable aportación de esta

obra. Uno de sus objetivos fundamentales es evitar la confusión de lo mental con

lo real, lo que implica detectar los peligros que tiene nuestra mente de investir a

lo real de los atributos de su objeto. Como hemos señalado, la posibilidad de esta

extrapolación se debe a las diversas detenciones de la explicitación, que comportan

otras tantas amenazas de ignorancia, porque sustituyen el tema extramental

de la operación por un objeto intencional. Esto comporta una revisión de la teoría

clásica de la sustancia y de las causas, y una más clara formulación de la distinción

real entre la esencia y el acto de ser.

Una de las más interesantes contribuciones de Polo a la teoría del conocimiento

humano es, sin duda, su replanteamiento de los hábitos intelectuales. Si

bien es cierto, que la axiomática por él propuesta se centra en torno a la noción

de operación, se puede decir que el conocimiento habitual es la clave explicativa

del conocimiento intelectual humano. El hábito aparece como un acto intelectual,

que permite explicar el progreso intelectual a partir de la abstracción, el conocimiento

de la operación y la posibilidad de deshacer la confusión de lo mental con

lo real. En último extremo, los hábitos intelectuales innatos (hábito de los primeros

principios y sabiduría) son los que permiten emprender un estudio de los

trascendentales tanto metafísicos como antropológicos. La teoría del conocimiento

conecta en este punto con la antropología trascendental.

Como conclusión final, tan sólo quisiera resaltar algo que espero que hayan

permitido traslucir, aunque sea tenuemente, estas páginas: el gran calado de los

temas que se abordan y de las soluciones que se proponen, y su interés para enriquecer

la aproximación filosófica a algunos de los temas más actuales: desde la

rehabilitación del pensamiento metafísico y la elaboración de una antropología

que formule claramente la distinción del acto de ser del hombre respecto del acto

de ser del universo, hasta las cuestiones filosóficas que plantea la investigación

científica en física, biología y matemáticas.

338


cronache di filosofia

a cura di Juan A. MERCADO

L’estetica della formatività: due saggi recenti

A nove anni dalla sua morte, avvenuta nel 1991, Luigi Pareyson resta tuttora

un autore che attrae gli studiosi e suscita dibattiti. In questi anni, però, l’attenzione

del mondo filosofico si è prevalentemente concentrata sulle sue ultime proposte

speculative, ovvero l’ontologia della libertà e l’ermeneutica dell’esperienza

religiosa. Ciò è comprensibile, perché si tratta del punto culminante del suo itinerario,

ma forse tale interesse predominante ha indotto a trascurare i suoi studi

sull’estetica e a dimenticare che non li si può lasciare da parte se si vogliono

comprendere a pieno la genesi e la portata delle opere date alla stampa nel periodo

a noi più vicino.

Perciò mi è sembrata opportuna la recente pubblicazione di due saggi sull’estetica

pareysoniana, che viene presa in esame anche alla luce degli scritti successivi,

mettendo in evidenza le linee guida di un pensiero che non ha conosciuto

inversioni di rotta. Ne darò di seguito una breve presentazione.

Alla fine dello scorso anno, è uscito in Italia il libro di Rosanna FINAMORE,

Arte e formatività. L’estetica di L. Pareyson (Città Nuova, Roma 1999, pp.

234), che ha il pregio della chiarezza e della linearità. Come osserva nella prefazione

X. Tilliette, amico e studioso di Pareyson, ad una prima impressione l’estetica

della formatività può sembrare una teoria quasi astratta, per il suo rigore, la

sua severità e l’estrema sobrietà nei riferimenti e negli esempi (cfr. p. 7). Ma

forse proprio per questo essa si presenta scorrevole e convincente, e permette

comunque di intuire la grande ricchezza della cultura artistica (musicale, letteraria,

pittorica) di chi l’ha elaborata.

Nei capisaldi dell’estetica pareysoniana si rivela la vena esistenzialistica e

personalistica del suo pensiero, perciò l’autrice del volume (che insegna nella

Pontificia Università Gregoriana) sin dall’introduzione, in cui delinea l’itinerario

filosofico pareysoniano attraverso le sue principali opere, non perde di vista queste

caratteristiche di fondo. Il saggio è strutturato in due parti: la prima, che offre

una veduta d’insieme, risale al 1976 e fu letta dallo stesso Pareyson, benché sia

stata rivista e integrata per la pubblicazione; la seconda parte è stata elaborata

successivamente e traccia un raffronto tra Pareyson e Maritain, ricollegando l’estetica

pareysoniana alla sua teoria dell’interpretazione. Le due parti hanno come

cerniera una lettera autografa dello stesso Pareyson, che costituisce un elemento

di notevole interesse.

339


cronache di filosofia

In effetti, nel suddetto manoscritto il professore dell’Università di Torino loda

il valore della ricerca della prof.ssa Finamore e rettifica o chiarisce un proprio

giudizio riguardante la presenza dell’estetica nella filosofia antica e medioevale.

Vale la pena trascrivere il brano della lettera in questione perché contiene un’ammissione

fino ad allora per certi versi inaspettata: «Lei mi attribuisce l’idea che

prima dell’età moderna non ci fosse estetica. Certo, se questa parola si prende

nel significato moderno, a rigore non si può giungere se non a questa conclusione;

ma è in fondo una questione di parole, giacché nell’antichità e nel medio evo

c’era pure una teoria del bello e una filosofia dell’arte. Sono ben lontano dal

mettere in dubbio questa elementare verità (vedi ad esempio Conversazioni di

estetica, p. 57 ss.); anzi devo dire che la mia estetica è tutta una rivalutazione del

concetto antico e medievale dell’arte come fare; sul concetto di forma, poi, so

bene d’essere per molti aspetti d’accordo con Aristotele e S. Tommaso. Le sarà

di qualche interesse sapere che uno dei testi su cui nella mia giovinezza più

meditai è Art et scholastique di Maritain; e del resto è molto significativo che ai

miei due migliori alunni in estetica, Umberto Eco e Gianni Vattimo, assegnai

come tesi di laurea rispettivamente S. Tommaso e Aristotele, e ne vennero fuori

due lavori molto seri, entrambi pubblicati, intesi a mettere in luce in questi grandi

pensatori concetti a me cari, come il concetto di forma in S. Tommaso e i concetti

di fare e di organismo in Aristotele» (pp. 143-144; la lettera è del 2 febbraio

1977).

L’ammissione cui mi riferivo concerne la frequentazione dell’opera del filosofo

francese e furono proprio queste parole di Pareyson a spingere l’autrice a

proseguire la sua riflessione: se già aveva tentato di tracciare un confronto tra la

nozione pareysoniana di forma e quella di bellezza in Tommaso d’Aquino (cfr.

pp. 63-66), nella nuova parte del suo studio avvia il confronto diretto tra J.

Maritain e L. Pareyson, con particolare riferimento alle soluzioni da loro proposte

riguardo al problema dei rapporti tra arte e moralità.

L’esposizione dei capitoli è chiara e vigile, attenta a mostrare sintonie e rilievi

critici. Tra l’altro, l’autrice osserva, a mio avviso giustamente, che la teoria estetica

pareysoniana non sembra attribuire la dovuta importanza alla crescita umana

dell’artista in quanto persona (cfr. pp. 46-47, 87-89, 136-137). Volendo cercare

un chiarimento in merito (e penso sia possibile trovarlo) bisognerebbe coglierlo

nei saggi più strettamente personalistici dell’autore studiato.

Circa un anno prima del libro della prof.ssa Finamore, in Spagna è stato pubblicato

il volume di Pablo BLANCO SARTO, Hacer arte, interpretar el arte.

Estética y hermenéutica en Luigi Pareyson (Eunsa, Pamplona 1998, pp. 338).

Si tratta di un saggio frutto della ricerca dottorale svolta nella Pontificia

Università della Santa Croce e pertanto possiede le caratteristiche proprie di un

lavoro del genere: copiosi riferimenti bibliografici e costante confronto con la

letteratura critica. Ciò nonostante, l’autore ha affrontato l’argomento con tale

congenialità e passione da imprimere al testo un buon ritmo espositivo.

Dopo un’accurata presentazione della figura di Pareyson, ben inquadrata nel

contesto storico-culturale, si cerca di offrire al lettore una risposta alle due

340


cronache di filosofia

seguenti domande: come si forma l’arte? come si interpreta l’arte? Al primo

interrogativo è dedicata la prima parte del libro, che esamina il rapporto tra l’arte

e la natura, il ruolo della materia nelle opere d’arte, la nozione di forma, il ruolo

dell’artista con la sua libertà, la sua personalità e la sua eticità. Al secondo quesito

è dedicata la seconda parte, in cui vengono analizzati il problema del giudizio

estetico, il gusto artistico, l’intervento della personalità nell’interpretazione, l’esecuzione

e la contemplazione; chiudono questa sezione alcune pagine in cui si

parla di Pareyson interprete di Dostoevskij (cfr. pp. 279-289).

Il volume è corredato da un’utile cronologia storico-biografica e da un’esauriente

bibliografia delle opere di Pareyson e su di lui. Visti i numerosissimi rinvii,

sarebbe forse stato utile anche un indice analitico, che avrebbe reso più facile

la consultazione e rispecchiato ancor di più l’ampiezza della ricerca.

Francesco RUSSO

LEZIONI E CONFERENZE

■ Nel periodo marzo-maggio 2000 si è svolto un programma di lezioni

(Lecturae Christianorum) presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma in

cui è stato preso in esame il tema del dialogo dei cristiani con i non cristiani.

Sono stati affrontati come momenti fondamentali Paolo, Giustino e Origene,

Agostino, Abelardo, Tommaso, Bonaventura, Lullo e Cusano. In ogni lettura,

dopo una breve introduzione storica e storiografica, segue la lectio vera e propria

dei brani prescelti per poi avviare il dibattito fra i partecipanti. Alcuni degli

incontri sono stati, Agostino, Contro gli accademici (Marta Cristiani, 30 marzo);

Abelardo, Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano (Giulio D’Onofrio,

13 aprile); Tommaso, Le ragioni della fede; Bonaventura, I sei giorni; Lullo,

Dialogo del Gentile e dei tre savi (Andrea Di Maio e Marta Romano, 4 maggio);

Levinas, Un Dio Uomo? [in Tra noi], Rosenzweig, La stella della redenzione

(Francesco Paolo Ciglia, 11 maggio); Lecturae di filosofia ortodossa e luterana

(Antonis Fyrigos e Stefano Leoni, 18 maggio). In collegamento con questo ciclo

sono state proposte alla comune discussione alcune questioni sui diversi possibili

approcci del cristiano filosofo al dibattito attuale (il 23 marzo: Philippe-André

Holzer, C’è intelligenza nei calcolatori?; il 6 aprile, una tavola rotonda con Sara

Bianchini, Simone D’Agostino, Mario Piazza, Pavel Rebernik, Come “rendere

ragione” oggi della “follia della ragione”?).

■ Il Centro di Studi Filosofici della Libera Università Maria SS. Assunta ha

organizzato un ciclo di conferenze su La filosofia nel Novecento, fra l’8 marzo

e il 12 aprile 2000. La prima conferenza è stata del prof. Armando Rigobello

(Esiste un’unità filosofica nel Novecento?, 8 marzo); il 15 marzo il prof. Marco

M. Olivetti ha parlato su Il problema dell’“umanesimo” nella filosofia contem-

341


cronache di filosofia

poranea (Husserl, Heidegger, Levinas); il prof. Luigi Alici ha spiegato il tema La

libertà e il bene: volti dell’etica contemporanea (30 marzo); infine, il prof. Dario

Antiseri ha chiuso il ciclo con la conferenza Epistemologia e ermeneutica. Karl

Popper e Hans Georg Gadamer: diversità e somiglianza (12 aprile).

CONVEGNI

● Nei giorni 6-7 aprile 2000 si è tenuto un colloquio internazionale su

L’Europe. Ses valeurs et ses défis a Leuven e Lovain-la-Neuve con i seguenti

relatori: L. Dupré (Europe’s Spiritual Identity); D. Janicaud (L’humanisme: des

malentendues à l’enjeu) e E.W. Orth(Humanisme et science: leur rapport conflictuel

au sein de la culture. Réflexions à partir de E. Husserl et E. Cassirer);

Ch. Larmore (The Moral “We” That We Are), G. Vattimo (Pluralisme religieux

et sécularisation). Inoltre si sono svolte le seguenti tavole rotonde: Humanisme

et religion (con la partecipazione di H. de Dijn, W. Desmond, L. Dupré, M.

Maesschalck, J. van der Veken), L’humanisme aujourd’hui (con la partecipazione

di R. Bernet, O. Depré, M. Dupuis, D. Janicaud e E.W. Orth), Le pluralisme

a-t-il besoin de fondements? (con la partecipazione di Chr. Arnsperger, A.

Berten, P. Canivez, E. Clemens, Ch. Larmore, G. Vattimo, R. Visker) e Le religieux

doit-il / peut-il lutter contre le pluralisme? (con la partecipazione di A.

Burms, L.L. Christians, W. Lesch, J. Reding, A. van de Putte, G. Vattimo).

● Il Dipartimento di filosofia dell’Università degli Studi Federico II, di Napoli,

ha organizzato un convegno su Levinas e la cultura del XX secolo nei giorni 10-

12 aprile 2000. I relatori sono stati Stephane Moses (Levinas e Rosenzweig), Irene

Kajon (Hermann Cohen ed Emmanuel Levinas come innovatori del linguaggio

della filosofia), Silvano Petrosino (Levinas e l’ebraismo contemporaneo), Emilia

D’Antuono (Filosofia del paganesimo. Tra Rosenzweig e Levinas); Mario Signore

(Levinas interprete di Husserl. Ontologia e modo di essere della coscienza),

Marlène Zarader (L’essere e l’altro. Heidegger e Levinas), Jacques Rolland (De la

persistance: Sartre, Adorno et Levinas), Danielle Cohen-Levinas (Levinas e l’estetica

prima e dopo Auschwitz); Jacques Colette (Levinas et Kierkegaard. Deux philosophies

de la subjectivité. Emphase et paradoxe), Guy Petitdemange (Patience,

Révolution, Messianité. Levinas et Benjamin), Emilio Baccarini (Levinas e il pensiero

cristiano), David Banon (Levinas et Leibovitz), Paolo Amodio (Levinas e

Bloch); Elena Arseneva (Un Levinas russe?), Ethan Levine (Levinas and the

Talmud), Fabio Ciaramelli (Il desiderio dell’altro tra Merleau-Ponty e Levinas),

Mariangela Caporale (Un uomo Dio. Il Gesù di Levinas), Gianluca Giannini

(Scoprire l’altro con Ricoeur e Levinas).

● Le XXXIX “Reuniones filosóficas” del Dipartimento di Filosofia

dell’Università di Navarra (Spagna) hanno avuto come argomento un Esame del

neoplatonismo (Revisión del neoplatonismo) e si sono svolte nei giorni 3, 4, e

342


cronache di filosofia

5 maggio 2000. I relatori sono stati Giovanni Reale (Fundamentos y estructura

de la metafísica en Plotino), John Cleary (El rol de las matemáticas en la teología

de Proclo), Juan Arana (¿Es el mundo un libro escrito en caracteres

matemáticos?), Maria Bettetini (El neoplatonismo en Agustín de Hipona: a

propósito del mal y de la materia), Juan Cruz Cruz (Emanación: un concepto

neoplatónico en la metafísica de Tomás de Aquino), Werner Beierwaltes (Lo neoplatónico

en el pensamiento de Schelling), Jan A. Aertsen (Pensamiento cristiano:

¿primacía del ser “versus” primacía del bien?), Rafael Alvira (“Unidad” y

“diversidad” en el neoplatonismo cristiano), Ysabel de Andía (Teología platónica

y teología cristiana en Dionisio el Areopagita), Francisco García Bazán

(Antecedentes, continuidad y proyecciones del pensamiento neoplatónico), Zeev

W. Harvey (Filosofía y poesía en Ibn Gabirol), Miguel Cruz Hernández (La teología

del Pseudo Aristóteles y la estructuración del neoplatonismo islámico),

Agnieszka Kijewska (El fundamento epistemológico en el sistema de Eriúgena),

Giuseppe Girgenti (La metafísica de Porfirio entre la henología platónica y la

ontología aristotélica: neoplatonismo cristiano medieval), María Jesús Soto

(Causalidad, expresión y alteridad. Neoplatonismo y modernidad).

● L’Istituto di Antropologia ed Etica dell’Università di Navarra ha organizzato

il suo II Simposio Internazionale su Fede cristiana e Cultura contemporanea

dal titolo Comprender la religión, nei giorni 15-16 maggio 2000. I relatori sono

stati Salvatore Abbruzzese (Religión y cultura en la sociedad laica), José

Morales (Secularización y religión), Linda Zagzebski (Diversidad religiosa y

responsabilidad civil), Paul C. Vitz (Los orígenes psicológicos del ateísmo),

Víctor Sanz (Religión y verdad: un punto de vista filosófico), Massimo

Introvigne (El renacer de una religiosidad sin Iglesia), Juan Arana (La fe del

sabio: actividad científica y creencia religiosa), Luis Romera (La experiencia

humana y la apertura religiosa a Dios).

● Dal 3 al 10 settembre 2000 è previsto a Roma l’Incontro Mondiale dei

Docenti Universitari, comprendente numerosi convegni. Ne informeremo,

riguardo alle attività di carattere filosofico, nel prossimo fascicolo.

● È indetta per i giorni 6-7 ottobre 2000 la “St. Louis University Graduate

Conference” dal titolo I filosofi americani classici (The Classical American

Philosophers). Il relatore principale sarà Vincent Colapietro (Pennsylvania State

University). Le relazioni verteranno sui diversi aspetti delle proposte filosofiche

di Peirce, Royce, James, Santayana, Dewey, Mead e Whitehead; le comunicazioni

sono di tipo interdisciplinare. Ulteriori informazioni si possono chiedere a

Kevin S. Decker (neoprag@stlnet.com).

● Per il mese di novembre del 2000 (22-25) si sta organizzando presso

l’Università Complutense (Madrid) il congresso dal titolo A Cent’anni dalla

teoria quantistica: Storia, fisica e filosofia (100 Years of Quantum Theory:

History, Physics and Philosophy). Il programma provvisorio prevede le

343


cronache di filosofia

seguenti relazioni: prof. Juan Arana (Las paradojas de un cuántico de la cuántica:

Erwin Schrödinger y la noción de causalidad), prof. José Campos (Miguel

Catalán y el descubrimiento de los multipletes en física atómica) prof. Nancy

Cartwright (Causation, Models and Equations), prof. Brigitte Falkenburg

(Correspondence, Complementarity and the Unity of Physics), prof. Antonio

Fernández-Rañada (El espacio, el vacío cuántico y la expansión del universo),

prof. Alberto Galindo (Quanta e Información), prof. Manuel García Doncel (La

revolución cuántica: nueva visión en física y filosofía), prof. Peter Mittelstaedt

(Universality and Consistency of Quantum Physics. New problems of an old

theory), prof. Michel Paty (Quantum physics or the drift of physical thought by

mathematical forms), prof. Franco Selleri (The Einstein, Podolsky and Rosen

Paradox: Truth and Fiction), prof. Ana Rioja (Sobre ondas y corpúsculos: Un

punto de vista lingüístico). Informazione su altri particolari è reperibile nel sito

web del congresso: http://fs-morente.filos.ucm.es/centenario/index.htm.

SOCIETÀ FILOSOFICHE

Dal 2 al 5 gennaio 2000 si è svolto a Paestum (SA) il XVIII Convegno

Nazionale dell’A.D.I.F. (Associazione Docenti Italiani di Filosofia) sul tema

Filosofia e religione: riposte all’uomo del terzo millennio. L’argomento è stato

affrontato da sette relazioni principali: Religione e religioni, P. Giustiniani

(Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale “San Tommaso d’Aquino”); Filosofia

e filosofie, A. Masullo (Università di Napoli); Filosofia e religione, A. Molinaro

(Pontificia Università Lateranense); Filosofia ed esperienza religiosa, S.

Sorrentino (Università di Salerno); Filosofia, religione e progetti politici, U.

Pellegrino (Milano); Filosofia, mondo giovanile e scuola, R. Serpa (Cosenza);

Eredità e speranza, F. Russo (Pontificia Università della Santa Croce). Alle relazioni

si sono unite diverse comunicazioni, che hanno arricchito ulteriormente i

dibattiti. Nel corso del convegno l’Assemblea dei Soci ha eletto Presidente il

prof. Aniceto Molinaro e Presidente Onorario il prof. Battista Mondin; è stato

nominato un nuovo Vicepresidente (il prof. G. Schiff) e sono state rinnovate le

nomine dei Consiglieri Nazionali.

L’Associazione Filosofica Ligure ha organizzato nei giorni 4 e 5 maggio

2000 un convegno su Donne e filosofia. Per la prima giornata si è scelto il tema

La presenza femminile nella storia del pensiero e sono intervenuti i seguenti

relatori: Vidgis Songe Møller (Matter, Gender and Death in Aristotele); Paolo

Aldo Rossi (L’immagine filosofica della donna tra Medio Evo e prima età

moderna); Paola De Cuzzani Solbakk (Essere donna e cittadinanza. La differenza

sessuale nella filosofia di Spinoza); Mirella Pasini (Eva moderna: l’immagine

della donna nel lessico dei positivisti); Silvana Castignone (Le donne e il diritto);

Luisa Montecucco (Donne, scienza e filosofia della scienza). La seconda

giornata è stata dedicata al tema Femminismo e pensiero contemporaneo con le

344


cronache di filosofia

seguenti relazioni: Arianna Betti (La donna nella filosofia analitica mitteleuropea);

Flavio Baroncelli (Femminismo e multiculturalismo); Luisella Battaglia

(L’etica femminile della cura); Pieranna Garavaso (La varietà delle epistemologie

femministe); Margherita Benzi (Alcune critiche all’epistemologia

femminista); Nicla Vassallo (Teoria della conoscenza: tradizionalismo e femminismo);

Anna Grazia Papone (Donne e filosofia nel secolo breve); Rosangela

Barcaro (Bioetica al femminile); Luciana Di Serio (Le donne come soggetti di

conoscenza); Valeria Ottonelli (Femminismo e libertarismo). Per informazioni

rivolgersi a Michele Marsonet, Univesità di Genova, Dipartimento di Filosofia,

Via Balbi 4, I-16126 Genova - tel. +39-010-209-9793; fax. +39-010-209-9864;

e-mail marsonet@nous.unige.it.

Il World Phenomenology Institute ha organizzato il suo XLVII Congresso

Internazionale nella città di Puebla (Messico) dal titolo La passione per la verità:

realtà, conoscenza, illusione e falsità riesaminate (The Passion for Truth:

Reality, Cognition, Deceit, Illusion Revisited) dal 20 al 22 maggio 2000.

La North American Patristics Society, seguendo le discussioni sorte durante

la XIII International Patristics Conference (Oxford, 1999) ha tenuto il suo incontro

annuale nei giorni 25-27 maggio 2000 su La Città di Dio, di Sant’Agostino

per promuovere gli studi sui molteplici temi passati in rassegna nella monumentale

opera di Sant’Agostino: storia, filosofia, filologia e archeologia, insieme ai

collegamenti con altre opere del Vescovo di Ippona sono state messe in rapporto

per cercare di comprendere meglio l’ambiente della tarda Antichità. L’incontro si

è svolto presso la Loyola University of Chicago. Ulteriori informazioni si possono

chiedere a Stanley P. Rosenberg, Ph.D. (srosenberg@cmrs.org.uk) e a Peter

Burnell, Ph.D.: (burnell@usask.ca).

L’Università di Oviedo (Spagna) in collaborazione con la Sociedad

Española de filosofía analítica ha organizzato un convegno sui diversi Aspetti

della filosofia di Barry Stroud nei giorni 22-24 giugno 2000. L’evento è stato

coordinato dal prof. Luis M. Valdés e si è svolto alla presenza del prof. Stroud.

La Aristotelian Society e la Mind Association hanno avuto la loro sessione

congiunta nei giorni 7-10 luglio 2000 presso l’Università di Sheffield (Gran

Bretagna), con la partecipazione dei soci. La relazione inaugurale è stata tenuta

da Jane Heal (Other Minds, Rationality and Analogy) e gli interventi sono stati

moderati da David Wiggins. Le conferenze successive si sono svolte attorno ad

un tema sul quale hanno parlato due relatori, con l’intervento di un moderatore

per le discussioni. I relatori sono stati: Peter Simons e Joseph Melia (Continuants

and Occurrents, moderatore Hugh Mellor); Frances Kamm e John Harris (The

Doctrine of Triple Effect, mod. Adam Morton); Brian McLaughlin e David

Owens (Self-Knowledge, Externalism, and Skepticism, mod. Jennifer Hornsby);

il 9 luglio hanno partecipato Stephen Makin e Nicholas Denyer (Aristotle on

Modality, mod. David Evans), Peter Lipton e John Worrall (Induction, mod.

345


cronache di filosofia

Dorothy Edgington), Elliot Sober e Peter Hylton (Quine, mod. Christopher

Hookway), Tim Scanlon e Jonathan Dancy (Intention and Permissibility, mod.

Peter Carruthers).

Dal 1º al 4 agosto 2000 si è svolta la conferenza Linguaggio, pensiero e

realtà: proposte scientifiche, religiose e filosofiche della Society for Indian

Philosophy and Religion, di Calcutta. Per ulteriori informazioni ci si può mettere

in contatto con Chandana Chakrabarti, Campus Box 2336, Elon College, Elon

College, NC 27244 chakraba@numen.elon.edu.

La International Association for Greek Philosophy (IAGP),

l’International Center for Greek Philosophy and Culture, la Society for

Ancient Greek Philosophy (SAGP-USA) e il Dipartimento di Filosofia della

Università di Atene hanno organizzato la XII Conferenza Internazionale di filosofia

greca sul tema La ricerca della verità: la filosofia greca e l’epistemologia

(The Quest for Truth: Greek Philosophy and Epistemology) nei giorni 20-27 agosto

2000.

Nei giorni 9-10 settembre 2000 si è svolto l’incontro inaugurale del Central

Canada Seminar for the Study of Early Modern Philosophy presso

l’Università di Toronto, coordinato dal prof. James M. Morrison (St. Michael’s

College, University of Toronto, 81 St. Mary St., Toronto, Ontario, M5S 1J4; e-

mail: morrison@chass.utoronto.ca).

La Society for European Philosophy (SEP) ha organizzato la sua terza conferenza

annuale dal titolo Tempo, verità e storia (Time, Truth and History) nei

giorni 6-8 settembre 2000. Hanno partecipato come relatori Etienne Balibar

(Parigi), Catherine Malabou (Parigi), Joanna Hodge (Manchester). Ulteriori

informazioni si possono chiedere al dott. David Corfield o al dott. Jon

Williamson (Department of Philosophy, King’s College London, Strand, London

WC2R 2LS, tel. 020-7848 2327; email philosophy.ai@kcl.ac.uk).

Dal 25 al 28 ottobre 2000 si terrà a Bologna un convegno internazionale dal

titolo Frontiere della transculturalità nell’estetica contemporanea. È un’iniziativa

congiunta del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna e

dell’Associazione Italiana per gli Studi di Estetica (A.I.S.E.), al fine di allestire

un foro di discussione sugli apporti cruciali che la transculturalità, l’interdisciplinarietà

e il comparativismo forniscono all’estetica teorica del tempo presente.

Si prevede la partecipazione di quaranta relatori provenienti da vari continenti. Il

dibattito avrà come punto di riferimento la tensione fra il cosiddetto “particolarismo

etnocentrico” e l’“universalismo multicentrico”. Tra gli obiettivi, c’è quello

di avviare, tramite studi comparativi in ambito europeo ed extra-europeo, la revisione

dello statuto dell’estetica, facendo di questa disciplina, intesa non più

restrittivamente come “filosofia dell’arte”, il baricentro speculativo di indagini

346


cronache di filosofia

interdisciplinari in ambito sia scientifico che umanistico. Per maggiori informazioni

è possibile rivolgersi a Roberta Giacomini, via S. Stefano, 97 - I-40125

Bologna, tel +39-051.302980; fax+39-051.309477; e-mail info.planning@planning.it.

Per il mese di dicembre del 2000 (14-16) è indetto il congresso Tommaso

d’Aquino come autorità? (Aquinas as authority?) organizzato dal Thomas

Instituut di Utrecht. Per ulteriori ragguagli, ci si può rivolgere al comitato organizzatore:

Thomas Instituut, c/o Harm Goris, PO Box 80101, NL-3508 TC

Utrecht, Olanda.

Revista de Filosofía

ANALOGÍA es una revista de investigación y difusión filosóficas del

Centro de Estudios de la Provincia de Santiago de México de la Orden

de Predicadores (Dominicos). ANALOGÍA publica articulos de calidad

sobre las distintas áreas de la filosofia.

Director: Mauricio Beuchot. Consejo editorial: Ignacio Angelelli,

Tomás Calvo, Roque Carrión, Gabriel Chico, Marcelo Dascal, Gabriel

Ferrer, Jesús García, Jorge J. E. Gracia, Klaus Hedwig, Angel Muñoz

García, Lorenzo Peña, Livio Rosetti, Philibert Secretan, Enrique

Villanueva, Luis Flores H.

Colaboraciones (artículos, notas, reseñas) y pagos enviarse a:

Gabriel Chico, O.P.

Apartado 23-161,

Xochimilco

16000 México, D. F.

MEXICO

Suscripción anual (2 números):

México: $200.00, M.N.

Otros países: US $ 35.00

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bibliografia tematica

Pubblichiamo una sintetica rassegna bibliografica, curata dal prof. Antonio

MALO, su alcuni libri recenti riguardanti l’affettività dal punto di vista dell’antropologia

filosofica.

Antonio R. DAMASIO, L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello

umano (titolo originale: Descartes’ Error. Emotion, Reason and the Human

Brain), Adelphi, Milano 1995, pp. 252.

L’autore, professore di neurologia e preside del Dipartimento di neurologia

presso il College of Medicine della Università di Iowa, è noto per le sue ricerche

sulla neurologia della visione, della memoria e del linguaggio. In quest’opera

prende in esame, sulla base non soltanto di argomentazioni speculative

ma anche dell’analisi di casi clinici e della valutazione di fatti neurologici

sperimentali, le infauste conseguenze della separazione cartesiana fra emozione

e intelletto. Tutte le linee della ricerca dell’autore convergono verso uno

stesso risultato: l’essenzialità del valore cognitivo del sentimento. La sua tesi

si può riallacciare così alla tesi classica della conoscenza per connaturalità.

L’aspetto più interessante del libro è la distinzione fra il sentire di base e il

sentire delle emozioni: distinzione che qui è fondata su osservazioni di architettura

anatomico-funzionale del sistema nervoso centrale e non su motivazioni

di solo funzionalismo psicologico. Anche se l’autore interpreta il sentire

delle emozioni in riferimento al solo scopo della sopravvivenza, non evita di

parlare di sentimenti che rispecchiano conflitti individuali e sociali, le cui

cause restano un mistero.

Juan Antonio MARINA, El laberinto sentimental, Anagrama, Barcelona 1996,

pp. 280.

L’opera è il quarto saggio dell’autore. Come nei libri precedenti, Marina tenta

di elaborare un modo nuovo di fare filosofia, in cui le riflessioni teoretiche si

intersecano con le vicende dei personaggi di un romanzo. Nel labirinto sentimentale

si trovano illustri visitatori: Rilke, Kafka, Proust, Sartre, Rimbaud,

Kierkegaard, Don Nepomuceno Carlos de Cárdenas, e un misterioso personaggio

chiamato G.M. Le conclusioni di questo viaggio attraverso il labirinto

mettono in rilievo che i grandi temi della psicologia girano attorno ai sentimenti:

la conoscenza, il desiderio, i progetti, il carattere, l’azione..., per cui la

scienza del sentimento appare come una scienza pratica. Forse il prezzo da

pagare per adoperare la tecnica del romanzo in ambito filosofico è la mancan-

349


bibliografia tematica

za di profondità e di rigore nel modo di affrontare i temi. D’altro canto anche

se ci sono molti spunti validi per un’ulteriore riflessione su questi argomenti,

alcune conclusioni sono poco fondate; ad esempio, l’affermazione che l’origine

dell’etica non è altro che un’intelligenza messa al servizio dell’affettività.

Quentin SMITH, The Felt Meanings of the World. A Metaphysics of Feeling,

Purdue University Press, West Lafayette 1986, pp. 324.

Il libro offre un’esauriente tassonomia dei sentimenti, all’interno di uno schema

generale che permette l’organizzazione della variegata ricchezza del

mondo affettivo. Il pregio principale dell’opera è la descrizione della molteplicità

dei fenomeni affettivi in termini di flusso delle intenzioni secondo una

certa direzionalità e determinati modi (ogni specifica qualità di piacere o di

dolore ha un proprio flusso affettivo analizzato accuratamente dall’autore).

Lo scopo dell’opera non è però la semplice descrizione dei sentimenti, bensì

quella di sostenere la tesi che l’unica metafisica possibile è quella basata sui

sentimenti, invece di quella fondata sulla ragione. L’esistenza umana non

sarebbe accessibile alla ragione, ma soltanto alla comprensione di situazioni

emozionali. Nel ridurre la metafisica ai significati affettivi, l’autore sembra

accettare le tesi centrali del nichilismo postmoderno.

W. George TURSKI, Toward a Rationality of Emotions: An Essay in the

Philosophy of Mind, Ohio UP, Athens 1994, pp. 158.

L’opera è una raccolta di articoli di diversa lunghezza, in parte già pubblicati,

su differenti temi. Sebbene il libro tratti dell’integrazione dell’affettività nella

totalità della coscienza, il titolo potrebbe suggerire un approccio datato e

superato, cioè la falsa riduzione dell’intenzionalità dell’affettività a quella

della ragione. Ma così non è, poiché l’affettività ha un’intenzionalità che corrisponderebbe

all’interazione vissuta con il mondo, per cui nel sentire non si

può staccare l’aspetto passivo da quello attivo. L’intenzionalità affettiva viene

intesa — sulla scia dell’esistenzialismo — come co-determinazione del se

stesso e dell’altro, sicché ogni emozione implicherebbe responsabilità nei

confronti dell’altro. Infatti — sostiene l’autore — le emozioni sono costituite

dalle risposte che ci fanno sempre essere degli interlocutori. Anche se è vero

che attraverso la riflessione e gli abiti siamo responsabili dei nostri sentimenti,

pensiamo tuttavia che non possa essere annullata la differenza fra il sentire

e l’acconsentire, per cui non si può affermare — come fa Turski — una totale

responsabilità nei confronti dei nostri sentimenti.

Xavier ZUBIRI, Sobre el sentimiento y la volición, Alianza Editorial, Madrid

1992, pp. 457.

Il volume raccoglie alcuni testi non pubblicati appartenenti a tre corsi:

“Acerca de la voluntad” (1961), “El problema del mal” (1964) e “Reflexiones

filosóficas sobre lo estético” (1975). Tutt’e tre hanno in comune lo studio del

sentimento e della volizione, per cui costituiscono il complemento indispen-

350


bibliografia tematica

sabile delle analisi fatte sull’intelligenza nella trilogia dell’autore

(Inteligencia sentiente: Inteligencia y realidad; Inteligencia y logos, e

Inteligencia y razón). La riflessione zubiriana si dirige a scoprire l’essenza

del sentimento estetico attraverso una triplice domanda: Che cosa è il sentimento?

Qual è il rapporto fra sentimento e realtà? Che cosa è il sentimento

estetico? L’autore individua l’aspetto formale del sentimento nell’ atemperamiento,

cioè nel modo di trovarsi in un adeguamento tonico con la realtà, per

cui si tratta di un atto del soggetto contenente in modo formale un momento

di realtà. Anche se lo stile è scorrevole, il libro non è di facile lettura sia per

quanto si riferisce alla terminologia adoperata sia per quanto si riferisce alla

densità concettuale. Ciò nonostante, l’opera è ricca di spunti in ambito antropologico.

Si veda anche su questa rivista la nota El sentimiento en la

Noología de Zubiri, fascicolo I, vol. 8 (1999), pp. 193-197.

351


352


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni

recensioni

Rafael ALVIRA, La razón de ser hombre. Ensayo acerca de la justificación

del ser humano, Rialp, Madrid 1998, pp. 205; Filosofía de la vida cotidiana,

Rialp, Madrid 1999, pp. 112.

Rafael Alvira è autore di diversi titoli di carattere metafisico e antropologico

e curatore di molteplici opere collettive. In questi due saggi raccoglie gli aspetti

più importanti della sua visione dell’uomo, e anche se nel primo si offre una

visione complessiva dei grandi temi della vita umana, non si può pensare ad

un’opera di tipo manualistico. I quattro lunghi capitoli in cui è diviso il lavoro

costituiscono profonde riflessioni dell’autore, che si ispira al pensiero di filosofi

moderni e antichi per confrontare le loro posizioni e ricavare un insieme di

nozioni con le quali ritrarre le sembianze della persona nel mondo contemporaneo.

Il primo capitolo — Cómo se conoce el hombre a sí mismo — presenta diversi

approcci per la considerazione dei problemi umani. Siccome l’uomo non è un

mero “oggetto” da studiare dall’esterno, bisogna sviluppare certe capacità di

riflessione e di considerazione dei “fenomeni interni” dello spirito. È necessario

imparare a ricononoscere e a riconoscersi nel proprio agire per capire gli altri e

l’ambiente sociale di cui si fa parte. Inoltre, si propone un’armonizzazione dei

diversi livelli di conoscenza, cioè quello razionale-filosofico, quello religioso e

quello estetico. L’ultima parte del capitolo mette in rapporto questi tipi di conoscenza

con la triade classica dei trascendentali, il bello, il bene e il vero.

El planteamiento antropológico filosófico, titolo del secondo capitolo, rispecchia

il suo scopo, che è quello di circoscrivere l’oggetto di studio della filosofia

dell’uomo, partendo dal problema della posizione della persona come argumento

per se stessa. Si passa in rassegna il problema della oggettività kantiana per esporre

il rapporto realtà-conoscenza e infine l’approccio conoscitivo all’esistenza.

Nel terzo capitolo, Alvira presenta la sua analitica antropologica, e riprende i

temi classici della composizione anima-corpo, dei rapporti fra il naturale e il

soprannaturale, la storicità umana, la sessualità, e la cultura.

353


recensioni

Il quarto capitolo intitolato Sintética antropológica presenta la dinamicità

della vita umana sotto quattro aspetti: il processo di diventare essere umani, la

proiezione umana davanti all’inevitabile questione del fine ultimo, la strutturazione

della vita nell’ “abitare” e nel “produrre”, e infine un abbozzo di filosofia

del quotidiano che è presentato come l’autentico palcoscenico dell’autorealizzazione.

È in occasione degli argomenti di questo quarto capitolo che mi sembra

opportuno aggiungere una breve presentazione di una seconda opera di questo

autore, Filosofía de la vida cotidiana. Pur essendo un libro basato su varie conferenze

tenute negli ultimi dieci anni, riprende i grandi temi dello sviluppo della

persona nel processo del quotidiano, e ripropone a livello filosofico gli argomenti

dell’abitare e del produrre come ambiti di scambio della persona con la natura,

che resta sempre umanizzata dopo questo commercio con l’umano.

Altri argomenti di non facile esame filosofico che l’autore riesce a tematizzare

sono l’arte di invitare come punto di partenza del donare e dello scambio che

ogni rapporto umano esige: dire, insinuare, condividere un festeggiamento, partecipare

alla gioia di una nuova nascita, sono tutte manifestazioni della spiritualità

umana.

Il gioco, i suoi rapporti con la festa, lo spirito sportivo — la sportività spiegata

come una spinta nei diversi ambiti dell’agire umano oltre allo sviluppo delle

virtù agonistiche — chiudono gli argomenti della prima parte.

Nella seconda si trattano la noia, la felicità abbinata alla sofferenza, lo spirito

di finesse, e una reinterpretazione del tema del cuore. Sorprende come da una

sola parola (la noia) si possa tessere un discorso filosofico sui desideri e i bisogni

umani, visti nella prospettiva della storia e presentati ad un pubblico che oggi ha

troppe cose da desiderare e poche idee direttrici per comprendere quali fra di

loro siano all’altezza della sua condizione spirituale.

Negli altri temi si ritrova come filo conduttore il condividere (compartir), sia

nelle forme dell’amicizia per quanto riguarda la felicità e la sofferenza, sia nella

capacità di capire gli altri per comunicare e per andare incontro ai loro bisogni

(la finesse ovvero finura de espíritu in spagnolo), nonché nella concezione del

cuore come l’ubi della mediazione, della conciliazione con gli altri per poterli

accogliere e servire. Tutti questi sviluppi mirano ad offrire elementi affettivi e

razionali — nell’agire umano devono sempre andare insieme, secondo la prospettiva

dell’autore — perché ognuno possa imparare a valutare criticamente e a

gestire in prima persona i molteplici elementi di una società in continua evoluzione.

Juan A. MERCADO

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni

Mariano ARTIGAS, Filosofía de la ciencia, Eunsa, Pamplona 1999 pp. 291.

Vivimos en una civilización fuertemente modulada por la ciencia. Gran parte

de los problemas humanos se encuentran mezclados con nuestras ideas sobre el

alcance y el valor del conocimiento científico. Por eso comprender la naturaleza

de la ciencia y su valor es hoy una exigencia ineludible. Filosofía de la ciencia

de Mariano Artigas se nos ofrece como una ayuda para este cometido.

En los últimos decenios, la publicación de ensayos, manuales, monografías y

artículos sobre filosofía de la ciencia se ha multiplicado. Sin embargo, la imagen

de la ciencia que emerge de toda esta literatura es poco homogénea y, muchas

veces, contrastante. En algunos casos prevalece un enfoque logicista, en otros se

da primacía a los aspectos históricos o sociológicos y, en muchos trabajos, se

advierten todavía residuos de la mentalidad positivista. Esta situación resulta

poco favorable para formarse una representación cabal de la naturaleza de la

ciencia. Especialmente en el sector de la manualística es donde más se advierte

la ausencia de exposiciones equilibradas que reflejen —en lo sustancial— toda

su riqueza y complejidad.

Reconociendo los méritos que indudablemente tienen algunos manuales, el de

Artigas cubre una laguna importante que advertirán rápidamente quienes conozcan

lo que se ha escrito sobre el tema.

Esquemáticamente, la obra se ajusta al siguiente plan. Una Introducción en la

que se sitúa la importancia de la ciencia en la vida actual y se explican a grandes

rasgos los temas y métodos de la filosofía de la ciencia. Los dos capítulos

siguientes, que prolongan de algún modo la introducción, tratan del desarrollo

histórico de la ciencia y de la filosofía de la ciencia, con especial atención a las

corrientes más influyentes del período contemporáneo. Los capítulos IV y V se

dedican respectivamente a la naturaleza y método de las ciencias. En el siguiente

capítulo titulado Las construcciones científicas, se analizan los resultados a los

que conduce la aplicación del método científico. Lo que hasta aquí ha considerado

Artigas, puede entenderse como preámbulo necesario para el último capítulo

355


recensioni

titulado El valor de la ciencia, en el que se estudian las tres cuestiones fundamentales

de la filosofía de la ciencia: la verdad científica, la relación entre ciencia

y filosofía, y la relación entre ciencia y valores.

Una primera característica que salta a la vista es su amplitud temática. Toca,

en efecto, todas las cuestiones esenciales de la filosofía de la ciencia, y en su lectura

se advierte, además, que combina de modo equilibrado los enfoques lógico,

histórico y sociológico; el resultado es una presentación ordenada de la ciencia

real en todas sus dimensiones.

A mi entender, el marco del manual parece estar constituido por dos ideas

centrales. La primera es la concepción de la ciencia como actividad humana que

se propone unos objetivos y utiliza para lograrlos unos métodos que, en su aplicación,

producen unos resultados. Artigas supera así —incluyéndola— la perspectiva

lógica de la ciencia, centrada exclusivamente en el ideal de pureza

metodológica que, siendo válida, resulta parcial e insuficiente. Su enfoque, en

cambio, permite abrir cauces para el encuentro recíprocamente beneficioso de las

ciencias con las humanidades. Su concepción de la racionalidad científica no se

presenta como algo cerrado que, sólo en un segundo momento, hay que relacionar

o integrar con otras perspectivas; es en la misma racionalidad científica

donde Artigas ve dimensiones filosóficas implícitas que no comprometen la legítima

autonomía de las ciencias.

Estas consideraciones nos llevan a la segunda idea-marco que es precisamente

la perspectiva filosófica con la que Artigas aborda el estudio de la ciencia. Se

trata de una perspectiva realista en la que tienen cabida los aspectos convencionales

y las construcciones de la ciencia, así como la enorme dosis de creatividad

que comporta. Como ha desarrollado más ampliamente en otros escritos, el realismo

al que se refiere Artigas no significa poner a la ciencia en dependencia de

una base filosófica sobre la que existen discrepancias, sino que se trata únicamente

del realismo filosófico implícito en la actividad científica.

Respecto a los contenidos, merece destacarse el espacio que concede a las

ciencias humanas. Como es sabido, la mayor parte de los manuales existentes de

filosofía de la ciencia se limitan a las ciencias de la naturaleza y, dentro de éstas,

casi exclusivamente a las de método experimental-matemático, concretamente a

la física. Mérito de esta obra de Artigas es presentar un panorama completo de la

racionalidad humana, incluyendo también la teología e indicando cauces muy

oportunos para el diálogo entre ciencia y fe cristiana. Asistimos aquí a una recuperación

del concepto analógico de ciencia que comienza a revelar su fecundidad

en el deseado diálogo interdisciplinar. Otro aspecto que merece destacarse —por

ser tema poco contemplado en la mayor parte de los manuales— es el estudio de

las dimensiones éticas de la ciencia, que el autor realiza desde la explicación de

los valores constitutivos de la actividad científica.

Yendo más puntualmente a algunos temas, destacaría, entre otros, la excelente

caracterización de la novedad de la ciencia moderna. También la argumentación

que ofrece del carácter auténtico de la verdad científica, aunque se trate de una

verdad parcial y contextual; en este punto —como señala explícitamente el autor

356


recensioni

y lo evidencian las numerosas referencias— Artigas es deudor en bastantes de

estas consideraciones de la obra de Agazzi. Por último, cabe mencionar también

la sistematización que presenta de los diferentes niveles en los que las ciencias se

articulan con la filosofía.

Desde el punto de vista pedagógico, la obra destaca por la exposición lúcida

de los temas. Abundan los ejemplos, siempre oportunos. La sistematización está

bien lograda y la división en apartados es equilibrada. Puede decirse que el

manual tiene densidad científica y filosófica, pero no resulta teórico ni, mucho

menos, formalista. Dentro de la sobriedad propia del género, tiene el vigor y la

vitalidad que puede darle quien conoce bien y con experiencia personal el tema

del que habla. Además, Artigas sabe ver en la ciencia un reflejo de la racionalidad

del Creador y una manifestación de la capacidad cognoscitiva del hombre.

Se muestra también buen conocedor de los autores y planteamientos más

significativos de la filosofía de la ciencia y sabe aprovechar sus aportaciones más

valiosas. Da muestras con esto de lo que se ha considerado siempre característica

de los buenos maestros: la apertura y la capacidad de aprender de todo aquél que

tenga algo verdadero que decir.

Aunque buena parte del contenido del manual está recogido en otras obras de

Artigas, principalmente en Filosofía de la ciencia experimental (2ª ed., 1992), El

desafío de la racionalidad (1994) y La mente del universo (1999), el manual es

una nueva síntesis que esperamos ver pronto traducido a las principales lenguas.

Por último, cabe añadir que el trabajo está en perfecta sintonía con una de las

temáticas principales de la Encíclica Fides et ratio. En efecto, la Encíclica supone

una llamada a recuperar el vigor de la razón, su capacidad de conocer la verdad,

también en el ámbito de las verdades últimas. En esta desconfianza en la

razón, tan característica de nuestra época, que ha abocado en el clima generalizado

de relativismo y escepticismo, ha tenido históricamente mucho que ver la

interpretación y valoración que se ha dado al conocimiento científico. Por eso,

devolver al hombre la confianza en la capacidad de su razón ha de pasar necesariamente

por la recuperación de la verdad científica. No cabe duda de que este

manual de Artigas cumplirá una función especulativa y pedagógica importante

en esta línea.

Por la síntesis que hace de muchas de las mejores aportaciones sobre el tema

y por la originalidad de su enfoque y propuestas, esta obra de Artigas puede considerarse,

a la vez, un manual clásico y de vanguardia.

Ma. Angeles VITORIA

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ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni

Gabriel CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino [Studi di

Filosofia n. 19], Armando, Roma 2000, pp. 155.

Gabriel Chalmeta, professore di Etica e filosofia sociale della Pontificia

Università della Santa Croce, ci offre un saggio molto originale su alcuni aspetti

della filosofia politica di Tommaso d’Aquino. Il prof. Chalmeta aveva già dimostrato

la sua originalità nel manuale Etica applicata. L’ordine ideale della vita

umana (Le Monnier, Firenze 1997), fondato sui principi della philosophia perennis,

e con approcci propri della sociologia relazionale che permettevano un’analisi

realistica dei problemi posti dalla società contemporanea. In questo caso, si

tratta di un breve saggio che, partendo dalla consapevolezza della crisi dello

Stato liberal-democratico, tenta di gettare nuove luci su una possibile nuova configurazione

della società, ispirandosi ad alcuni principi presenti nella filosofia

politica di san Tommaso.

Secondo Chalmeta, le due correnti di pensiero politico più influenti nell’attuale

dibattito politico — e che sono elementi teorici indispensabili per capire la

configurazione odierna della società —, sono l’utilitarismo e il contrattualismo.

Entrambe le correnti rappresentano tentativi di fornire una razionalità etico-politica

all’umano vivere insieme. Se la società del Welfare è in crisi, si tratta soprattutto

di una crisi di questa razionalità. Le risposte dell’utilitarismo e del contrattualismo

sono unilaterali, e non risolvono il problema di una razionalità eticopolitica

che possa fondare la vita in società.

Chalmeta afferma che la caratteristica specifica di ogni teoria utilitarista è la

struttura teleologica del seguente ragionamento: «il bene del cittadino viene definito

prima e indipendentemente dal politicamente giusto, e il politicamente giusto

(lo Stato giusto) è definito successivamente come quel sistema di relazioni

politiche (di leggi, di istituzioni, di costumi, ecc.) che massimizza il bene dei cittadini

all’interno della società» (p. 13). L’utilitarismo identifica nozioni quali il

“dover essere” o la “giustizia della società politica” con quelle di “massima soddisfazione

dei nostri desideri” e di “benessere massimamente diffuso”. Secondo

358


recensioni

tale teoria queste categorie ammetterebbero un’espressione in termini matematici

tale che la loro realizzazione pratica si ridurrebbe fondamentalmente a un problema

di natura tecnica. Chalmeta non nega che l’utilitarismo che si trova alla base

del Welfare State abbia ottenuto importanti risultati riguardo alla libertà individuale

e alla solidarietà politica, ma considera che l’esaurimento dell’attuale configurazione

politica della società si deve all’impiego «della logica matematica

per la determinazione di ciò che è politicamente giusto, quando, in realtà, la rilevanza

in questo ambito umanistico delle nozioni ed i valori aritmeticamente

espressa è molto secondaria, quasi esclusivamente indiziaria» (p. 15).

Per quanto riguarda il contrattualismo, Chalmeta lo considera alternativo

all’utilitarismo. La sua essenza sarebbe costituita dall’applicazione analogica

all’ambito politico della teoria del contratto propria del Diritto privato: la giustizia

politica si basa sul consenso di tutte le parti. Ognuno è libero di seguire il

proprio progetto di felicità; pertanto la società non deve privilegiare nessun concetto

di vita buona. Secondo il contrattualismo che, al contrario dell’utilitarismo,

difende la priorità del giusto sul bene, la giustizia politica si raggiungerebbe

mediante il consenso e il dialogo razionale. «Di fatto, se nella visione utilitarista

veniva riconosciuta una priorità assoluta alla nozione di bene su quella di giustizia

politica, nel senso che l’ultima deriverebbe interamente dalla prima per via di

semplice massimizzazione aritmetica, il neocontrattualismo sosterrà invece la

priorità della nozione di giustizia su quella di bene; oppure, per dirlo con il significativo

titolo di un’opera di Rorty, la priorità della democrazia sulla filosofia. Si

vuole indicare, con questa idea, che i rapporti sociali dovrebbero essere ordinati

secondo una serie di principi di giustizia politica tali da non presupporre alcuna

concezione etica specifica nei cittadini; oppure, detto in forma positiva, occorre

che i principi di giustizia che modellano la vita politica siano condivisi da tutti i

cittadini, quale che sia la concezione etica professata, vale a dire, la rispettiva

visione sulla vita buona e, in ultima analisi, sulla natura della felicità umana» (p.

18). Chalmeta valuta negativamente il neocontrattualismo perché, se si riconosce

il valore autonomo delle pretese dei cittadini per il mero fatto di trarre origine dal

loro volere, e non quali espressioni di un ordine etico oggettivo, è molto improbabile,

se non impossibile, trovare un terreno comune su cui giungere all’accordo.

Se né l’utilitarismo né il contrattualismo presentano soluzioni soddisfacenti al

problema politico contemporaneo, è legittimo volgersi indietro, al passato, per

cercare motivi di ispirazione. Chalmeta lo fa guardando a san Tommaso

d’Aquino, ma è consapevole che la filosofia politica di Tommaso non offre una

risposta completa ai problemi contemporanei. L’Aquinate è condizionato dal suo

tempo. Infatti, la cosmovisione dei suoi coetanei era molto diversa da quella di

oggi, e inoltre, «la concezione politica di Tommaso, in quanto teologo cattolico,

può essere pienamente compresa solo da quanti ne condividono la fede in Cristo,

o perlomeno in un’altra vita cui è destinato l’uomo, mentre a tanti cittadini del

Welfare State, che questa fede non hanno, tale concezione apparirà in tutto o in

buona parte irrazionale» (p. 20). Ciononostante, Chalmeta considera che, da una

359


recensioni

certa lettura di Tommaso, potrebbero scaturire alcuni principi molto generali di

giustizia politico-giuridica idonei a superare l’alternativa utilitarismo-contrattualismo,

nonché a contribuire positivamente alla soluzione dei problemi del

Welfare State.

L’autore divide il suo saggio in tre parti. Nella prima — Presupposti storici e

dottrinali — si descrive il panorama politico, giuridico e culturale del contesto

storico di san Tommaso. Chalmeta, allontanandosi dai clichés storiografici che

considerano il Medioevo come un’epoca oscura e intellettualmente sterile, situa

san Tommaso in un periodo di rinascimento culturale (XII e XIII secolo), che

lascerà tracce profonde nell’ambito delle teorie e delle istituzioni politico-giuridiche.

Poi presenta brevemente la personalità del Dottore Angelico — un figlio

del suo tempo, pienamente inserito nelle preoccupazioni e interessi dei suoi

coevi — nonché i suoi scritti politici.

Secondo Chalmeta, nell’avvicinarsi all’opera politica tommasiana è necessario

rispettare alcuni principi ermeneutici: fondamentalmente il principio d’interpretazione

dei singoli testi alla luce del tutto, e poi la subordinazione delle opere

di commento ad Aristotele alle dottrine espresse in opere completamente sue.

Chalmeta conclude la prima parte presentando le fonti della filosofia politica di

san Tommaso: oltre alla Sacra Scrittura — utilizzata, nelle opere politiche, con

un approccio filosofico —, spiccano le figure di Aristotele e di Agostino, di cui

Chalmeta sottolinea rispettivamente gli elementi tendenzialmente utilitaristici e

contrattualistici. L’autore considera la filosofia politica di Tommaso d’Aquino

una sintesi della concezione “utilitarista” di Aristotele e della concezione “contrattualista”

di Agostino. Dunque, essendo presenti in germe le due dottrine politiche

contemporanee, la filosofia politica di Tommaso può offrire elementi di

riflessione sulla problematica politica attuale.

Nella seconda parte — Determinazione dialettica della concezione tomista

della giustizia politica — Chalmeta adopera un metodo dialettico per arrivare

alla nozione di giustizia politica secondo san Tommaso. Il metodo “deduttivo”, o

più strettamente filosofico, lo utilizzerà nella terza parte. Seguendo lo schema

prefissato sin dall’introduzione, l’autore fa dialogare la teoria politica tomista

con quella utilitarista e con quella contrattualista. L’elemento principale che

accomuna san Tommaso all’utilitarismo è la concezione teleologica della teoria

della giustizia politica. Fedele in questo aspetto all’insegnamento del suo maestro

Aristotele, Tommaso considera l’uomo come naturalmente sociale e politico.

Il fine ultimo della società è orientato alla felicità dei singoli. Se lo schema fondamentale

delle due teorie è simile, il contenuto della felicità è diverso, dato che

la concezione tomista è imperniata sulla dottrina aristotelica delle virtù. La somiglianza

si ferma qui. La considerazione matematizzante dell’utilitarismo non ha

nessun spazio nella teoria politica di Tommaso. La “massimizzazione del bene”

di Stuart Mill e di altri utilitaristi misconosce il valore unico della persona

umana, che trascende una trattazione meramente matematica della felicità.

Secondo Chalmeta, il concetto di dignità della persona opera la più radicale rottura

tra la posizione tomista e quella utilitarista. L’uomo naturaliter liber e prop-

360


recensioni

ter seipsum existens — e ancora di più l’uomo in quanto immagine di Dio —

non ammette l’oppressione delle minoranze e dei più deboli, inevitabile in un’ottica

utilitarista matematizzante. L’uomo non è solo parte di un tutto: «non sarà

mai eticamente razionale considerare l’uomo come una semplice unità al servizio

del maggior bene per il maggior numero, una parte che si possa sacrificare al servizio

del tutto sociale» (p. 77).

Riguardo al contrattualismo, Chalmeta considera che Tommaso d’Aquino

riconosce alcune delle sue “buone ragioni”, ad esempio, nell’apprezzamento da

lui dimostrato per la libertà o autonomia come un bene prezioso e irrinunciabile

dell’uomo, anche quale membro della società politica. Se per Tommaso il fine

ultimo di tale società è la vita virtuosa dei cittadini, la libertà o autonomia è una

condicio sine qua non per l’agire secondo virtù. L’autore cita passi dell’opera

tommasiana, da cui si evince una forte simpatia per l’assetto politico-istituzionale

più favorevole all’autodeterminazione dei cittadini (ad es. S.Th. I-II, 97, 3, ad

3; ivi, 90, 3,c). San Tommaso non esita a far sua la definizione “contrattualista”

di società in Agostino: “moltitudine legata da un accordo giuridico” (S.Th. I-II,

105, 2, c). Per Chalmeta, c’è un altro punto importante sul quale Tommaso si

sarebbe trovato d’accordo con il contrattualismo: il fatto che «la libertà degli altri

costituisce, in linea di massima, un limite all’esercizio della legittima libertà da

parte di ciascun uomo. Anzi, proprio come in questa teoria moderna, nella filosofia

dell’Aquinate tale esigenza si fonda su un’istanza morale oggettiva presente

nella ragione umana: la legge naturale» (p. 82).

Malgrado questi aspetti comuni, la teoria politica di Tommaso si allontana dal

contrattualismo in un punto centrale: Tommaso ha una visione della vita buona

piena di contenuto e ricca di conseguenze sociali, e in ciò si oppone al rifiuto

contrattualista di fondare la società su un concetto completo della vita buona. Per

l’Aquinate, la vita buona individuale è rivolta essenzialmente alla promozione

del bene comune di tutti. Tommaso dunque non può essere d’accordo con il contrattualismo

che concepisce la vita sociale soltanto in base ad un consenso dove

si devono rispettare le libertà individuali nella misura in cui non ledano le libertà

altrui. Non basta un saggio “non fare”, poiché la giustizia implica favorire la vita

buona delle altre persone, contribuendo così al bene comune della società. Dalla

concezione di giustizia politica di Tommaso risulta «che la società dispone di un

criterio razionale per valutare le varie rivendicazioni di libertà e per risolvere i

relativi conflitti. Dovrà ritenere giuste quelle libertà dei cittadini che contribuiscano

positivamente alla vita buona (virtuosa) degli altri, e dunque fare il possibile

per garantirle e promuoverle di più o di meno, a seconda dell’importanza di

questo contributo. Altre libertà, invece, perché a tale fine irrilevanti, dovranno

semplicemente essere valutate non ingiuste, e comunque meritevoli di rispetto.

Infine, le libertà contrarie alla creazione o sussistenza di questi rapporti di collaborazione

positiva tra i concittadini, saranno considerate ingiuste, e verranno

punite o, nel migliore dei casi, tollerate» (p. 86).

Una volta analizzata la concezione della giustizia politica di san Tommaso, a

partire dalle “buone ragioni” e dai “torti” che il Dottore Angelico darebbe sia

361


recensioni

all’utilitarismo che al contrattualismo, Chalmeta affronta l’ultima parte del suo

studio, abbandonando il metodo dialettico. Nella parte terza, intitolata La sintesi

tomista: il bene comune politico, l’autore cambia prospettiva: se prima ha sottolineato

l’aspetto “umanista” della dottrina tomista, in cui si afferma che il fine ultimo

della società politica dovrebbe essere la vita buona dei suoi membri, adesso

si analizza la teoria tomista asserendo che il singolo, per vivere bene, dovrebbe

proporsi come fine la realizzazione del bene comune della comunità, ossia la vita

virtuosa di tutti i suoi membri. Secondo Chalmeta, entrambe le letture sono valide,

sulla base del De regno I, 15, dove l’Aquinate scrive che “bisogna che il fine

della comunità coincida con quello del singolo”. L’autore dà grande importanza

all’affermazione tomista homo homini naturaliter amicus (S.Th. II-II, 114, 1 ad

2): Tommaso considera il bene umano come bene comune in quanto tale. Non è

solo l’utilità (ambito dei mezzi) che fa sì che l’uomo sia naturalmente socievole

e politico, ma è la stessa natura umana ad implicare che la collaborazione fra gli

uomini si dia persino nell’ambito dei fini: gli uomini desiderano una felicità

comune, che deriva dal desiderio della propria felicità. Perché? Per il fatto che

ciascun uomo è per natura amico di tutti gli uomini. «Per il nostro autore, l’amicizia,

ossia l’amore verso l’altro che mette a frutto questa inclinazione naturale

dell’uomo fa sì che la cosa (o la persona) stessa che è amata venga ad unirsi in

qualche modo a chi l’ama: il bene o la virtù altrui diventa in questo modo un

bene anche mio, un bene comune» (pp. 98-99).

San Tommaso si rende conto che c’è una distinzione ed una gerarchia nella

costituzione dei vincoli di amicizia tra persone. Ci sono diversi sistemi di relazioni

sociali, cui corrispondono diversi tipi di amicizia e diversi tipi di beni

comuni. Per Chalmeta ci sono fondamentalmente tre tipi di beni comuni: il bene

comune della famiglia, quello dei rapporti di lavoro, e il bene comune politico.

Quest’ultimo, fondato sull’amicitia concivium, viene studiato nell’ultimo capitolo

di questo saggio: L’attuazione del bene comune politico: dall’ideale alla

realtà. Chalmeta sostiene che da un’ottica tomista, il compito di attuare esistenzialmente

il fine ultimo della vita appartiene in modo incomunicabile a ciascuno.

Nel contempo, la vita buona del singolo può crescere solo nel “clima” di una

comunità amicale. Perciò, la realizzazione esistenziale della vita buona spetta

anche ai gruppi amicali, in particolar modo alle famiglie. Poiché i legami amicali

dell’uomo virtuoso non devono però escludere nessuno, tendenzialmente abbracciano

tutti i membri della comunità politica. A sua volta, tale società è chiamata a

contribuire alla vita virtuosa dei propri cittadini. Come agiscono sia i cittadini

virtuosi, sia la società, per raggiungere lo scopo della vita buona? Principalmente

creando le condizioni di possibilità della vita virtuosa, che sono l’unità della

pace e il bene materiale. Inoltre, Chalmeta considera che il fine specifico del

bene comune politico è, con parole di Tommaso, “stimolare i sudditi a diventare

virtuosi”. Questo fine specifico, «pur essendo incombenza principale di ogni cittadino

in quanto tale e dell’intera società politica, lo è soltanto in modo sussidiario

ed indiretto. Da parte loro, più che altro, richiederà un serio sforzo per creare

quelle condizioni più idonee, affinché altri agenti sociali, specialmente le fami-

362


recensioni

glie, possano occuparsene direttamente e con successo» (pp. 113-114). Chalmeta

presenta i due strumenti fondamentali per creare tali condizioni: l’influsso benefico

degli usi e costumi sociali e gli interventi mirati dell’autorità pubblica

(soprattutto le leggi).

Dalla presente lettura della filosofia politica di san Tommaso emerge un progetto

di società dove ogni membro della comunità gode di un valore incommensurabile,

in virtù della sua dignità. Ma tale dignità è relazionale: la libertà umana

è una libertà “per” gli altri, che deve creare reali possibilità di autodeterminazione.

Il bene comune politico tomista ha compiti etici, ma san Tommaso non crea

uno Stato etico more hegeliano: fa parte dell’essenza del bene comune politico

favorire la libera autorealizzazione dei cittadini, uniti da legami di amicizia civica.

Secondo Chalmeta, Tommaso oggi raccomanderebbe di applicare il principio

di sussidiarietà per porre rimedio al malessere della società del benessere: lo

Stato deve favorire l’iniziativa dei gruppi del Terzo settore (famiglia, volontariato,

scuola), che creano le condizioni adeguate per l’amicizia civica (o solidarietà).

Il saggio del prof. Chalmeta è realmente profondo ed originale. Attraverso le

frequenti analisi dei testi di Tommaso, e senza forzature, Chalmeta pone dei problemi

di scottante attualità, quali il diritto alla vita, il rispetto delle minoranze, il

problema del fondamentalismo. Questo saggio è un esempio di tomismo ben

inteso: non è la semplice riproposta di teorie medioevali caduche, ma la riflessione,

a partire dai principi tomisti, sui problemi della società attuale. Tommaso dialogò

con tutte le correnti culturali del suo tempo. I discepoli dell’Aquinate

dovrebbero seguire la stessa strada. Chalmeta lo fa e con successo.

Mariano FAZIO

363


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni

Alejandro LLANO, Humanismo cívico [Ariel Filosofía], Ariel, Barcelona

1999, pp. 219.

La constatazione da cui muove questo saggio è ogni giorno che passa più

palese: la crisi strutturale, e non puramente congiunturale, del Welfare State o

Stato sociale classico. Tutti noi abbiamo purtroppo potuto sperimentare, in prima

persona, le carenze che in numero sempre crescente manifesta questa forma di

organizzazione politica: sia quelle più di fondo, che riguardano importanti aspetti

della nostra libertà in quanto cittadini comuni oppure in quanto minoranze; sia

quelle forse meno gravose, ma quotidiane, imputabili all’inflazione giuridica, al

vecchio problema della burocratizzazione, ecc. Anzi, non è assolutamente da

escludere che possiamo riconoscere in noi stessi i sintomi di quella grave “malattia”,

causata da tutte queste circostanze negative, che si è soliti denominare anomia:

la disaffezione o persino il malcontento e la ribellione verso tutto ciò che è

politico. Di conseguenza, diventa sempre più difficile trovare persone spontaneamente

propense a sacrificare alcune delle loro libertà a favore dell’affermazione

attraverso gli automatismi dello Stato sociale delle libertà degli altri.

Le più gravi conseguenze di questa malattia sociale sono state finora evitate

grazie ad alcuni interventi trasformisti, miranti alla realizzazione del cosiddetto

«Stato del welfare sostenibile». Esistono diverse interpretazioni sulle caratteristiche

precise che dovrebbe avere questo Stato sociale in versione ridotta. Mentre

alcuni (perché più socialisti, ossia “lab”) chiedono solo il ridimensionamento di

alcune prestazioni sociali, l’impedimento di abusi e duplicazioni, lo spostamento

delle risorse dai gruppi sovraprotetti a quelli sottoprotetti, la migliore armonizzazione

tra assicurazione statale, aziendale e privata, altri (perché più liberali, ossia

“lib”) vorrebbero invece che venisse operata una demolizione quasi totale dello

Stato sociale, riducendo il sistema pubblico di sicurezza sociale alla garanzia dei

minimi vitali ed a cure mediche assolutamente fondamentali.

Quando però si esamina il nocciolo filosofico e sociologico di ciascun programma,

spesso, troppo spesso si scopre che in entrambi i casi si tratta di un

364


recensioni

semplice tentativo di matrice ancora una volta utilitarista (con qualche spruzzatina

di contrattualismo) volto mantenere in piedi alcuni degli elementi del vecchio

impianto politico: infatti, «el planteamiento lib/lab no pasa de ser una fina reelaboración

de la visión moderna que sitúa en el vértice y en el centro de la sociedad,

respectivamente, al Estado y al mercado» (p. 13); l’ultimo nel ruolo di

motore della società, il primo in quello di detentore del «monopolio de la benevolencia»

(p. 17). Ma questo vecchio palazzo, secondo l’opinione (a mio avviso

più che giustificata) di Alejandro Llano, sarebbe ormai inagibile, a meno di pagare

un prezzo troppo alto in termini di diritti sociali (dei malati terminali, dei prigionieri,

degli handicappati, degli anziani...) nonché, soprattutto, di disumanizzazione

dei diversi settori della vita, a cominciare da quello del lavoro (con effetti

negativi sul lavoratore e, di rimbalzo, sulla propria famiglia) (cfr. Conclusión).

Ci vuole, dunque, dirà il nostro autore, un impegno serio da parte di tutti per

cambiare rotta; ma per operare questo cambiamento non sono più sufficienti le

misure palliative: dobbiamo abbandonare definitivamente il moderno paradigma

della giustizia politica e del Diritto, cercando da qualche altra parte un modello

nuovo. L’augurio del prof. Llano è che il modello scelto sia quello che lui a voluto

chiamare, sulla scia di Hans Baron e dei suoi studi sulla Firenze rinascimentale,

Civic humanism o Humanismo cívico; un lemma che in italiano dovremmo forse

tradurre come “Umanesimo civile”. Esso, in estrema sintesi, propugna una società

contrassegnata da tre caratteristiche inseparabili. «La primera y más radical es, sin

duda, el protagonismo de las personas humanas reales y concretas, que toman conciencia

de su condición de miembros activos y responsables de la sociedad, y procuran

participar efectivamente en su configuración política. En segundo lugar figura

la consideración de las comunidades humanas —en sus diferentes niveles—

como ámbitos imprescindibles y decisivos para el pleno desarrollo de las mujeres y

de los hombres que las componen, los cuales superan de esta forma las actitudes

individualistas, para actuar como ciudadanos dotados de derechos intocables y de

deberes irrenunciables. Por último, el humanismo cívico vuelve a conceder un alto

valor a la esfera pública, precisamente porque no la concibe como un magma

omniabarcante, sino como ámbito de despliegue de las libertades sociales como

instancia de garantía para que la vida de las comunidades no sufra interferencias

indebidas ni abusivas presiones de poderes ajenos a ellos» (p. 15).

Due autori contemporanei, fra tutti, sembrerebbero aver avuto un influsso più

determinante nella configurazione di questo umanesimo civile: il sociologo italiano

Pierpaolo Donati, senz’altro uno dei più attenti e penetranti osservatori della società

attuale, ed il filosofo Alasdair MacIntyre. A quest’ultimo riguardo è però opportuno

notare (anche se forse la stessa osservazione potrebbe essere sottoscritta da

MacIntyre), che la proposta del prof. Llano si mantiene sempre lontana dai binari

comunitaristi, «en cuyo curso acontece un error categorial consistente en la pretensión

de aportar un sentido comunal y humanamente abarcable al propio aparato

administrativo del Estado-nación; tarea indeseable, a fuer de contradictoria» (p. 192).

La riflessione scorre veloce, amena (a tratti, quasi ridente) e piena di spunti e

suggerimenti che spronano continuamente il lettore a riflettere per conto proprio.

365


recensioni

Il prezzo di tutto questo è un certa mancanza di sistematicità nell’esposizione, la

quale però non è sinonimo di disordine né, tanto meno, di incoerenza o confusione.

Avviene semplicemente che essa, come si suol dire, ha un suo ordine, che

sfugge ad ogni tentativo di razionalizzazione.

In questo senso, i quattro capitoli attorno a cui appare strutturato il discorso

non rispecchiano bene né il numero né la varietà e ricchezza degli argomenti

trattati. Più che altro per dovere di cronaca, riporto i titoli dei capitoli in questione:

Cap. I: «¿Qué es el humanismo cívico?» (pp. 15-53); Cap. II: «La razón

pública» (pp. 55-97); Cap. III: «Democracia y ciudadanía» (pp. 99-143); Cap.

IV: «Imagen humanista del hombre y del ciudadano» (pp. 145-193). Chiudono il

saggio alcune brevi e molto gustose considerazioni conclusive (più che una vera

e propria esposizione sintetica dei risultati raggiunti), riunite sotto il titolo: «El

valor de la verdad como perfección del hombre» (pp. 195-207).

In questo panorama ricco e variegato, preziose mi sono sembrate le considerazioni

che l’autore dedica specificamente a (ri)pensare la libertà moderna e postmoderna

(specialmente nel capitolo II, nn. 3-4). Già Ch. Taylor, in un articolo non

recentissimo al quale sembra riallacciarsi almeno idealmente il prof. Llano

(What’s Wrong with Negative Liberty, 1979), aveva indicato i limiti e le contraddizioni

della concezione negativa della libertà (o “libertà da…”), tipicamente contrattualista,

nonché di una determinata concezione positiva di questa capacità

umana (“libertà di…”), che sarebbe invece tipica dell’utilitarismo. Ora, la proposta

specifica del nostro autore, che in questo punto si spinge ben al di là di Taylor,

appare così formulata: «aunque parezca inverosímil, este trance histórico [ossia, il

nostro] nos ofrece una oportunidad única de alcanzar un sentido de la libertad que

supere y englobe los que hasta ahora he venido considerando, o sea, la libertad-de

y la libertad-para, […] al que podríamos llamar liberación de sí mismo» (p. 87).

A prescindere dalla discutibile scelta terminologica (non ci piace davvero

questa «liberazione da se stessi»), ritengo che la proposta di fare della libertà in

questo terzo senso la struttura portante della società politica postmoderna sia più

che plausibile, nel duplice significato (sociologico ed assiologico) di questa

parola. Questa idea di libertà, segnala espressamente il prof. Llano, ha molto a

che vedere con l’agostiniano «amor meus, pondus meus»; ma anche, aggiungerei

io parafrasando V. Solov’ëv, col potere di conoscere la verità degli altri non in

maniera astratta ma essenziale, e di trasportare effettivamente grazie all’amore il

centro della propria vita al di là dei limiti della nostra particolarità empirica. In

questo modo, infatti, «riveliamo e realizziamo la nostra verità e il nostro valore

assoluto che consistono appunto nella capacità di trascendere i limiti della nostra

esistenza fattuale e fenomenica, nella capacità di vivere non solo in noi stessi ma

anche negli altri» (cfr. Il significato dell’amore: II, 3).

Utopia, sogno? Può darsi. È però altrettanto vero che l’incontro con la realtà

(anche politica) avviene in modo compiutamente umano, solo se noi riusciamo

ad avviarci in essa senza abbandonare il sogno. La vita, infatti, dà risposte soddisfacenti

solo a chi sa formulare le domande e le richieste giuste.

Gabriel CHALMETA

366


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni

Alfredo Luigi TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore.

7: Filosofia del dolore, Istituto per lo Studio e la Terapia del Dolore,

Firenze 1998, pp. XVI + 277.

Il prof. Luigi Zucchi sta coordinando, da ormai diversi anni, il programma di

pubblicazione del Compendio di Semantica del Dolore, avvalendosi della consulenza

di un Comitato Editoriale composto da settantotto studiosi di diverse

nazioni. Finora erano stati pubblicati sei volumi: “Il dolore: basi anatomiche e

fisiologiche”, “Bioetica”, “Teologia” (in due volumi), “Semeiologia del dolore”

(in due volumi). Il settimo tomo è dedicato alla “Filosofia del dolore” ed è un

importante complemento all’intero progetto del Compendio, che «affrontando

l’articolata fisionomia del sintoma dolore sotto un profilo multidisciplinare, vuol

considerare la complessità della persona umana nella sua unità psico-fisica

inscindibile. È proprio per questo che compaiono nelle diverse sezioni anche le

branche umanistiche che completano in maniera corale quelle scientifiche sensu

strictiore» (p. 5). La convinzione del prof. Zucchi, che immagino sia condivisa

dai suoi consulenti e collaboratori, è che per un corretto approccio medicopaziente

siano necessarie nel primo un’adeguata formazione interiore e una

visione globale dell’uomo (cfr. ibidem), raggiungibili grazie a una preparazione

culturale non settoriale.

Al volume che sto recensendo hanno lavorato A. Benaglia, N. Della Casa, R.

Melli e F. Negri, sotto la direzione di A.L. Tirabassi, autore dell’Introduzione.

Come nelle pubblicazioni precedenti, tutti i testi, compreso l’indice dei nomi,

sono in italiano e in inglese.

L’impostazione scelta è quella di un dizionario, che presenta in ordine alfabetico

quarantuno concezioni del dolore umano, situate in un arco di tempo che va

dalla cultura greca ad un libro di S. Natoli, pubblicato nel 1986. Ho utilizzato il

termine generico di “concezioni” perché talune voci si riferiscono a un’intera

corrente di pensiero, quali l’Illuminismo francese, il Mito greco, i Presocratici, lo

Scetticismo e lo Stoicismo. Originale ed utile la conclusiva “Tavola sinottica sto-

367


recensioni

rico-filosofica”, in cui sono inquadrate le concezioni esposte, accanto ad una

colonna degli eventi storico-politici (comprendenti però anche alcuni fatti culturali

e religiosi) e ad un’altra colonna con i momenti principali dell’evoluzione

della scienza medica.

Nell’introduzione viene offerta un’utile chiave di lettura, ricordando che

attualmente sta cambiando l’atteggiamento di fronte al dolore anche a causa

della mentalità tecnologica imperante: «l’uomo contemporaneo non ha più la

percezione immediata dell’ineluttabilità del dolore; di fronte alla eventualità del

dolore la prima domanda non è più una ricerca di senso, la domanda di Giobbe,

ma il quesito tecnologico sulla possibilità di eliminarlo o almeno di ridurlo. Si è

aperta quella che, con un po’ di enfasi, potremmo chiamare era analgesica, un’era

in cui il dolore non è un dato ma una frontiera da spostare sempre più lontano»

(p. 13). Malgrado ciò, il problema della sofferenza resta in tutta la sua profondità,

perché comprende non solo il dolore fisico ma anche quello psicologico e

morale.

Ma volendo anche limitarsi al dolore fisico, l’approccio esclusivamente

“analgesico” «non può donarci nessun Giobbe perché impedisce quel corpo a

corpo col dolore che solo può rafforzarci e renderci più solidi di fronte ad esso. Il

paradosso di tutto ciò è che la tecnologia è meno forte di quanto vorremmo e la

convivenza col dolore, benché occultata, è ancora quotidiana, mentre l’illusione

di una battaglia già vinta ci ha spogliati molto più rapidamente delle nostre difese

morali. Il dolore è poco meno forte e noi molto più deboli» (p. 15). Tale diagnosi

si ricollega con le riflessioni di S. Natoli, secondo il quale la tecnica

rimuove il dolore ma non lo supera e pertanto lo lascia emergere come ansia, in

una cultura secolarizzata in cui viene meno l’offerta di senso all’esperienza dolorosa

(cfr. p. 175).

Per inquadrare le diverse concezioni presentate in queste pagine è utile la

panoramica storica dell’introduzione, sintetica ma precisa; rilevo solo una coloritura

forse eccessivamente fosca dell’epoca medioevale (cfr. p. 19). In questa

sezione viene spiegato che era oggettivamente difficile operare una scelta tra gli

autori di circa ventisette secoli, ma mi sembra che quelli proposti siano effettivamente

tra i più rappresentativi riguardo all’argomento in esame. Mi è parsa adeguata,

inoltre, la formula adottata per le singole presentazioni: non una semplice

antologia né una mera interpretazione critica, ma un’esposizione equilibrata in

cui la parola è data soprattutto ai testi di alcune opere, sobriamente imbastiti.

Trattandosi di un dizionario, non viene offerta una valutazione delle varie tesi,

che talvolta, come nel caso di Nietzsche, appaiono in tutta la loro contraddittorietà.

Certamente, il periodo per il quale era più complesso operare una cernita è il

Novecento, anche perché ci è più vicino; personalmente, alla presentazione della

teoria di D.C. Dennett (che non appare molto significativa) avrei preferito quella

delle opere di G. Marcel o di L. Pareyson; mi è sembrata, invece, quasi inattesa e

sorprendente la forza dei testi di Simone De Beauvoir, almeno nella selezione

offerta. A parte ciò, comunque, il risultato finale va giudicato senz’altro positiva-

368


recensioni

mente, tenendo presente che si è trattato di un compito non facile. Lo studioso di

filosofia potrà probabilmente trovare in talune voci qualche semplificazione o

piccola imprecisione, ma va ricordato che l’opera non è stata concepita per soddisfare

gli specialisti, bensì per rendere più agevole a quanti sono impegnati

nello studio e nella terapia del dolore l’approccio con la visione filosofica del

problema.

I volumi non sono in vendita; gli studiosi dell’argomento possono richiederli

all’Istituto per lo Studio e la Terapia del Dolore, Via Venezia 10, 50121 Firenze.

Francesco RUSSO

369


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/recensioni

Jeremy J. WHITE, A Humean Critique of David Hume’s Theory of Knowledge,

edited by John A. Gueguen, University Press of America, Oxford 1998, pp.

IX+180.

Quest’opera è stata pubblicata postuma da John A. Gueguen che ne ha curato

l’edizione e aggiunto una prefazione, in cui spiega che il suo intervento sull’opera

di White si è limitato a piccole correzioni e miglioramenti stilistici senza nulla

aggiungere o togliere al libro che, stando al progetto originale, avrebbe dovuto

contenere altri due capitoli. Comunque, ci spiega lo stesso Gueguen, il manoscritto

nello stato in cui lo lasciò l’autore — deceduto nel 1990 — si presenta

come un’opera completa e coerente. Inserisce inoltre una breve nota biografica

sull’autore, nato in Inghilterra nel 1938 e laureato a Cambridge e che volse la sua

attività docente per più di venti anni in Kenya e in Nigeria.

L’opera parte dallo schema della Enquiry Concerning Human Understanding

(Ricerca sull’intelletto umano, 1748), che si presenta come il lavoro fondamentale

per capire la filosofia della conoscenza della maturità di Hume. I riferimenti al

Treatise of Human Nature (Trattato sulla natura umana, 1739-1740) sono frequenti

e dimostrano una dimestichezza notevole con la massiccia opera giovanile

del filosofo scozzese. Sono anche frequenti i collegamenti con altre opere dello

stesso Hume, ma il pregio maggiore di questo libro è la prospettiva aperta che ci

offre delle idee humeane. Infatti, con le frequenti osservazioni sulla “filiazione”

delle nozioni humeane rispetto alle diverse tradizioni filosofiche — che sebbene

attingano principalmente alle correnti empiristiche non sono prive di un’importante

eredità cartesiana — ci propone una “mappa” abbastanza riuscita della proposta

globale di Hume, guidandoci sia dall’interno del sistema humeano che a

partire dalla storia delle nozioni che condivide con i filosofi che lo hanno preceduto.

Allo studioso di Hume mancheranno i riferimenti alle interpretazioni più

recenti dello scetticismo humeano (Norton, Baier), ma invece troverà spunti interessanti

di altri critici di Hume, o di pensatori che vedono da prospettive diverse

370


recensioni

i problemi fondamentali dell’empirismo, come Maritain, S.L. Jaki, Gilson,

Fabro, Tommaso d’Aquino e Aristotele.

Ai tre brevi capitoli introduttivi — “Introduzione”, “Influenze su Hume”, “Il

Trattato sulla Natura Umana nell’insieme della filosofia di Hume” — fa seguito

uno molto lungo, che in realtà comprende dieci brevi capitoli, presentati come

sections, riproponendo i titoli delle singole sezioni della Ricerca sull’intelletto

umano. In realtà l’opera di Hume è composta da dodici sezioni, e White non arriva

nella sua critique ad una valutazione indipendente delle ultime due, che trattano

temi molto importanti: da una parte la considerazione della Provvidenza divina

e della vita eterna, e dall’altra una valutazione della filosofia scettica (sezioni

11 e 12 della Ricerca di Hume). Ciononostante, White fa nelle sezioni precedenti

molte osservazioni che riguardano questi problemi, perché sono intimamente

collegati alle sezioni 4 e 5 per quanto riguarda lo scetticismo, e alla sezione 10

per i problemi di fondo della concezione della religione nelle opere di Hume.

Nel primo capitolo, White fa un riassunto della vita e delle opere di Hume,

rintracciando i fatti fondamentali della biografia intellettuale del filosofo. I riferimenti

alla tuttora insuperata biografia di Mossner (The life of David Hume,

1954) vengono complementati con informazioni tratte dall’autobiografia dello

stesso Hume e dal suo epistolario.

Nel secondo capitolo — sulle influenze di altri filosofi sul pensiero di Hume

— l’autore ripercorre sinteticamente le strade del nominalismo per rapportarle

all’empirismo inglese, senza trascurare gli sviluppi dello scetticismo francese del

seicento — dagli antecedenti in Montaigne fino all’Illuminismo, passando per

Bayle —, i tentativi di superazione del razionalismo cartesiano, e il grande

influsso della rivoluzione scientifica sui filosofi dei secoli XVII-XVIII. I diversi

atteggiamenti dei filosofi nei confronti della fede, divenuti più un problema di

psicologia della religione che di verità e di fondazione delle istituzioni religiose,

sono affrontati direttamente.

Il capitolo sulle linee generali del Trattato sulla natura umana è una breve

introduzione ai grandi temi della filosofia humeana (custom, habit, belief) con i

quali il filosofo scozzese si oppone al razionalismo. Segue la spegazione di alcune

delle interpretazioni più importanti del pensiero di Hume.

Nel capitolo quarto si inizia lo sviluppo della Ricerca sull’intelletto umano,

con la discussione sui diversi tipi di filosofia, tema di una sezione che non è altro

che una dichiarazione di principi sulla superiorità delle filosofie di stampo pragmatico

su quelle speculative. La vera metafisica dovrà avere una missione morale

e lasciare da parte gli sterili problemi delle polemiche scolastiche (per Hume,

scolastico vuol dire soprattutto razionalistico). Il ruolo dello scetticismo sarà

fondamentale nella mentalità del filosofo, perché un giusto dosaggio di incredulità,

abbinato alle tendenze della nostra natura che si traducono in un senso

morale — molto vicino alle dottrine del senso comune dell’epoca — gli darà una

visione equilibrata dei problemi umani. Con queste ultime annotazioni, White

ricollega l’inizio della ricerca alla sezione conclusiva, che come si è detto non ha

avuto un capitolo proprio. Vale la pena sottolineare la critica che White indica

371


recensioni

nella nota numero 7, che riprende la nozione classica di facoltà per far vedere

come si impoverisce lo studio della conoscenza se il punto di vista sono le idee

come cose reali, e non come oggetti dipendenti dall’atto di conoscere, e quindi

come oggetti intenzionali, che hanno una essenza semplicemente polarizzata

verso le cose reali.

Nel capitolo successivo si entra nella discussione sull’origine delle idee, e si

sottolinea il carattere cartesiano della nozione di idea in Hume, tramandata da

Locke e molto legata alle funzioni dell’immaginazione, descritta da molti autori

come una concezione pittorica (pictorial) della conoscenza.

L’associazione delle idee, principio rapportabile alla gravitazione della fisica

di Newton, è descritta da Hume come una gentle force nel Trattato, e nella

Ricerca mantiene il suo ruolo di motrice delle idee, che senza di essa resterebbero

come esistenze isolate. Così i collegamenti causali — il cemento dell’universo

— si possono spiegare in poche parole.

Nel capitolo sulle soluzioni scettiche ai problemi delle sezioni precedenti

(corrispondente alla sezione quarta della Ricerca), vengono messe in relazione

diverse critiche sui limiti della posizione humeana. Brentano, Anscombe, Flew e

Aristotele offrono le basi per aprire il discorso della causalità e dell’induzione

oltre i confini della proposta fenomenalistica di Hume.

Nel capitolo successivo si descrive il cosiddetto naturalismo humeano, che si

presenta come uno sfondo metafisico indimostrabile che ci permette di fidarci

della regolarità dei fenomeni perché è la natura stessa a provvedere una meccanica

stabile. Così l’assuefarsi alla sequenza uniforme dei fenomeni trova un riferimento

saldo e l’uomo può prevedere e calcolare i movimenti della natura, e degli

altri uomini in quanto appartenenti alla stessa natura.

Il capitolo seguente, sulla probabilità, è molto legato a questa concezione

della natura. Il carattere regolare dei processi naturali percepiti è il limite delle

nostre ricerche. Da lì si passa al capitolo sulla connessione necessaria, nel quale

si ricorda la concezione della libertà nel pensiero di Hume. Seguendo il filo del

discorso delle sezioni 5 e 6, nella settima e nell’ottava si presenta la natura come

limite alle nostre ricerche perché i fenomeni interni della mente sono misteriosi

quanto quelli esterni, e dobbiamo assoggettarci ai risultati delle statistiche per

“calcolare” il comportamento umano.

White rivolge una critica seria a questa nozione “provvidenzialistica” della

natura, facendo vedere quanto sia vicina ad alcune posizioni classiche che però

attribuivano tale qualità ad un Creatore della natura. Gilson è chiamato in causa

in questo argomento, per sottolineare gli estremi cui è pervenuto Hume nel criticare

la posizione malebranchiana e cartesiana, che svalutando la natura rende

inintelligibile il rapporto anima-corpo. Per Hume, basta sentire (to feel) che

abbiamo un dominio sul nostro corpo, senza moltiplicare le spiegazioni di tipo

metafisico. La critica di Anscombe, che distingue fra necessità e causalità dimostra

che la nozione humeana della causalità è riduttiva.

La sezione 9, Sulla ragione degli animali riprende quasi letteralmente la

sezione 16 della parte terza del libro 1 del Trattato. Con il lavoro delle sezioni

372


recensioni

precedenti si può affermare senza esitazioni che le differenze fra gli animali e

l’uomo non sono qualitative, perché la ragione si trova al livello degli istinti e

delle passioni. Sebbene le dichiarazioni di Hume in questo senso abbiano molte

volte un carattere retorico, partendo dalle sue premesse è facile arrivare a posizioni

comportamentistiche come quella di Skinner. White si limita a mostrare,

seguendo Flew, come sia ancora una volta il dualismo cartesiano a produrre posizioni

così divergenti dalla sua, e facendo riferimento a Fabro ricorda come una

precisa analisi delle operazioni della mente umana porta alla scoperta della spiritualità

come irriducibile ai fenomeni dipendenti dalla materia.

Nella sezione 10 — sui miracoli — si presenta la credenza nei fatti straordinari

come qualcosa di inaccettabile secondo lo schema spiegato in precedenza:

secondo Hume, le testimonianze su fatti che vanno contro “la media” sono da

ritenere false, e l’uomo saggio sa di doversi regolare secondo quelle regole statistiche

e di moderare le credenze in fatti che le contraddicano. Il popolino dovrebbe

aderire a questa posizione, e non lasciarsi trascinare dal piacere che producono

i racconti straordinari o le prediche di ferventi ministri delle diverse sette.

White riporta le critiche di Lewis e di Newman che vanno contro questa riduzione

humeana delle credenze religiose alla nozione generale di credenza. Nella

prima si denuncia il carattere circolare dell’argomentazione, e in quella di

Newman si ribadisce la possibilità di trovare una regolarità nell’agire divino, se

non si rinuncia a priori agli sviluppi di una teologia naturale.

White riassume i problemi collaterali della posizione humeana, che vuole

togliere autorità alle religioni istituzionalizzate in quanto basate su fatti soprannaturali

e miracolosi che si possono mettere assieme ai “miracoli” attribuiti agli

imperatori romani o agli dèi del paganesimo antico, e collega il discorso della

Ricerca alla Storia di Inghilterra in cui Hume esercita il suo criterio di interpretazione

con i fenomeni religiosi, sulla scia delle concezioni illuministiche della

storia. White non fa riferimento all’opera fondamentale di Hume a questo riguardo,

la Storia naturale della religione.

Alla fine è stato inserito a modo di Appendix il testo della conferenza inaugurale

del seminario della Faculty of Arts dell’Università di Lagos (Nigeria), sostenuta

dall’autore nel 1986. Nel titolo — Le scienze umane, strada verso la saggezza

— si rispecchia ciò che è ribadito nel contenuto della conferenza: la concezione

della filosofia e degli altri saperi liberali quali poli di gravitazione per ridare

all’insieme delle scienze una guida e una finalità coerenti.

Juan A. MERCADO

373


374


schede bibliografiche

Jorge J.E. GRACIA (a cura di),

Concepciones de la metafísica

[Enciclopedia Iberoamericana de

Filosofía 17], Trotta, Madrid 1998,

pp. 357.

La collana “Enciclopedia Iberoamericana

de Filosofía” ha pubblicato

il primo dei due volumi previsti di

metafisica: uno studio delle principali

caratterizzazioni che la metafisica ha

ricevuto lungo la storia della filosofia

(il secondo invece si intitolerà

“Questioni metafisiche”, e si annuncia

come una considerazione più sistematica).

Come il resto dei volumi della collana,

il libro è un’opera collettanea,

nella quale diversi autori iberoamericani

scrivono sugli argomenti di cui sono

specialisti.

L’opera comincia con l’articolo di

Santa Cruz su Platone e il neoplatonismo

— che dà una spiegazione soprattutto

cronologica — e quello di

Gómez-Lobo su Aristotele, in cui si fa

attenzione principalmente al rapporto

fra ontologia e teologia. Di seguito, nel

suo contributo sul medioevo Bazán sottolinea

lo sforzo fatto in quell’epoca

per unificare la concezione platonica e

quella aristotelica, e si sofferma sulle

diverse spiegazioni che si diedero dell’oggetto

della metafisica e, di conseguenza,

sui diversi rapporti che si stabilirono

tra Dio e l’ente, e fra teologia

naturale e ontologia.

Nel suo articolo su Suárez, Gracia

— che è il curatore dell’opera e l’autore

anche di un’interessante introduzione

— si propone di studiare il ruolo di

questo pensatore spagnolo come precedente

del processo di “mentalizzazione”

proprio del pensiero moderno: la

tesi sostenuta da Gracia sarà che Suárez

stesso non sarebbe caduto in nessuna

sorta di mentalismo.

Tocca poi esporre le conseguenze

che sulla concezione della metafisica

ebbero l’ottimismo razionalista

(Madanes) — i cui autori si domandano

come dev’essere il mondo perché sia

comprensibile — e l’empirismo britannico

(Junqueira): considerando il modo

in cui Locke, Berkeley e Hume comprendono

la metafisica, si cerca di correggere

in alcuni punti l’interpretazione

tradizionale, che vede nell’empirismo

insulare un avversario di essa; l’autore

invece ci tiene a sottolineare, da una

parte, la discontinuità fra questi tre pen-

375


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede

satori, e dall’altra, che, almeno in

Berkeley e Hume, si tratta più di un

tentativo di riformulare la metafisica

che semplicemente di negarla.

Torrevejano studia il modo in cui

la trasformazione della filosofia operata

da Kant si ripercuote sulla sua opinione

riguardo alla metafisica. Così, sebbene

egli sia un severo critico delle formulazioni

razionaliste della metafisica, allo

stesso tempo ammette un altro senso in

cui essa è accettabile: un sapere che ha

anche la libertà, Dio e l’immortalità

dell’anima come oggetto, ma che li

considera solo come idee regolatrici.

Non potevano certamente mancare

i contributi su Hegel (Díaz) e su

Husserl (Presas); e in un’opera rivolta

principalmente al pubblico di lingua

spagnola risulta anche opportuna la

scelta di due spagnoli assai significativi

per i loro contributi alla metafisica:

Ortega e Zubiri (Cerezo).

Non poteva neanche mancare un

riferimento alle più importanti critiche

rivolte alla metafisica nei due ultimi

secoli: il positivismo del secolo XIX

(Martí) e il positivismo logico (Blasco);

e per finire si aggiunge il contributo di

Velarde sulla filosofia analitica, che

oscilla da decenni fra una posizione

originaria antimetafisica e una riscoperta

di alcune delle tesi aristoteliche.

Come qualsiasi opera di questo

genere, i contributi sono di diverso

valore, ma il risultato complessivo è

abbastanza soddisfacente, e può essere

utile a chi, avendo già una formazione

di base in storia della filosofia, vuol

studiare più in particolare le “concezioni

della metafisica” che hanno i più

importanti filosofi.

M. PÉREZ DE LABORDA

Luigi PAREYSON, Kierkegaard e Pascal,

Mursia, Milano 1998, pp. 277.

Prosegue la pubblicazione delle

Opere complete di Luigi Pareyson, promossa

dal Centro Studi filosofico-religiosi

a lui intitolato. Nel presente volume,

curato da Sergio Givone, sono raccolti

tre scritti introvabili: L’etica di

Kierkegaard nella prima fase del suo

pensiero, del 1965; L’etica di

Kierkegaard nella “Postilla”, del

1971; infine, L’etica di Pascal, del

1966. L’autore li aveva elaborati perché

fossero dei sussidi per gli studenti dei

suoi corsi universitari, ma non hanno

nulla dei difetti che possono accompagnare

quanto viene chiamato una

“dispensa”: secondo il suo stile, il professore

dell’Università di Torino non

viene meno all’estrema precisione e

illustra tutto ciò che serve per capire gli

argomenti esposti e soltanto ciò che

serve, fornendo un esempio di matura

capacità didattica.

Si tratta pertanto di tre saggi indipendenti,

ma il comitato editoriale della

collana ha giustamente deciso di presentarli

assieme non solo per le evidenti

affinità dei due autori esaminati, ma

anche perché entrambi sono ispiratori

di quell’esistenzialismo, dai caratteri

ben precisi, in cui lo stesso Pareyson si

riconosceva. In effetti, queste pagine

permettono di capire meglio la genesi

dei densi saggi pubblicati in Esistenza e

persona e illuminano le diverse intonazioni

del pensiero pareysoniano, dal

personalismo ontologico fino alla filosofia

della libertà (a quest’ultimo

riguardo, è significativo quanto si legge

a p. 135).

Il curatore del libro ha inserito

una utile premessa ai due scritti su

376


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede

Kierkegaard e un’altra a quello su

Pascal, precisando alcune circostanze

storiografiche ma soprattutto sintetizzando

le tesi pareysoniane di fondo.

Inoltre, con la collaborazione della

dott.ssa F. Barigelli, ha messo a disposizione

dei lettori una completa appendice

di riferimenti bibliografici delle

opere del filosofo danese.

Con un’esposizione piacevole e

gratificante, Pareyson presenta molti

degli aspetti più interessanti del pensiero

di Kierkegaard (la contrapposizione

tra vita estetica e vita etica, la soggettività

e l’esistenza, la critica alla speculazione

e la scelta per il cristianesimo) e

di Pascal (la nozione di scienza e di

morale filosofica, il problema dell’esistenza

di Dio e dell’immortalità dell’anima,

il rapporto tra ragione e fede, il

concetto di “cuore”); non si attarda in

valutazioni o giudizi critici, anche se

affiorano qua e là, con discrezione, il

suo consenso o le sue riserve su determinate

affermazioni. La sua opera è un

esempio di corretta ermeneutica, aderente

ai testi e guidata da una congenialità

intellettuale con gli autori studiati.

F. RUSSO

TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro

de Aristóteles “Sobre la interpretación”,

traducción e introducción de

Mirko SKARICA, estudio preliminar

y notas de Juan CRUZ CRUZ,

Colección de pensamiento medieval

y renacentista, Eunsa, Pamplona

1999, pp. LI + 202.

La “Colección de pensamiento

medieval y renacentista” di Eunsa giunge

al suo quinto titolo ed al secondo per

quanto riguarda una traduzione di opere

di San Tommaso, dopo le Cuestiones

disputadas sobre el alma.

Il celebre commento di San

Tommaso al Perihermeneias di

Aristotele è presentato da Mirko

Skarica in versiona spagnola, corredata

da abbondanti e precise note e commenti

storico-filosofici del prof. Juan

Cruz che, assieme alle due introduzioni,

mette a disposizione una miniera

straordinaria per lo studio di un’opera

profonda e di non facile assimilazione,

che affronta molti problemi filosofici

che stanno alla base di quasi tutte le

proposte ermeneutiche e della filosofia

del linguaggio.

Dopo l’introduzione di stampo

teoretico di Juan Cruz (Ontología de la

palabra), nella quale viene riproposta

in termini classici la filosofia del linguaggio

e della parola, in rapporto alle

facoltà conoscitive (sensi esterni,

immaginazione, intelletto), l’autore

della traduzione fa un resoconto del

percorso storico del testo di S.

Tommaso, dei diversi manoscritti e

delle traduzioni antiche e moderne, e

subito dopo offre un quadro dei problemi

fondamentali dell’opera di

Aristotele e del commento tommasiano.

Non presenta, però, il testo latino.

Le note a piè di pagina completano

i riferimenti di S. Tommaso e rimandano

ai passi paralleli della stessa opera

o di altre, sia di Aristotele che dello

stesso Aquinate; talune annotazioni

hanno un tono decisamente esplicativo,

riportando le interpretazioni di altri

commentatori e presentando riassunti

delle diverse posizioni con le quali si

possa completare il senso delle spiegazioni

più profonde del commento

medievale. Forse sono tali collegamenti

377


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede

il pregio maggiore di questa edizione,

che oltre a rendere più accessibile il

testo in se stesso, offre una visione

panoramica dei problemi trattati.

In questo modo, il lavoro comune

di Skarica e Cruz si presenta come un

valido strumento per coloro che si

avviano alla ricerca dei problemi dell’ermeneutica

classica, e come una

fonte di consultazione per chi vi si è già

inoltrato.

J.A. MERCADO

Aldo VENDEMIATI, In prima persona.

Lineamenti di etica generale,

Urbaniana University Press, Roma

1999, pp. 140.

L’autore del presente manuale,

ben consapevole di insegnare etica in

quel Villaggio Globale Multietnico che

contraddistingue l’attuale società postmoderna

in cui ci troviamo a vivere, ha

voluto mettere a frutto in questo prezioso,

breve manuale di etica fondamentale,

tutta la sua esperienza didattica. La

sua scelta di campo viene dichiarata fin

dal titolo (Etica di prima persona:

ovvero a partire dalla prospettiva del

soggetto agente; oppure, se si preferisce,

etica delle virtù versus etiche della

legge), e dal prologo, in cui si indica

nell’opzione fenomenologica il taglio

più adeguato ed efficace all’insegnamento

della materia nelle circostanze

attuali. Insomma, partiamo dal metodo

induttivo per attrarre il pubblico più

vasto possibile alla riflessione ed alle

problematiche dell’etica, risalendo fino

ai principi. Specialmente in campo

morale, comprendere quale sia l’essere

di chi mi sta di fronte (ovvero che tipo

di persona sia, e quindi la sua consistenza

morale) dipenderà innanzitutto

dal suo comportamento, dalla sua corrispondenza

tra dire e fare, logos e

praxis.

Agere o operari sequitur esse.

Iniziamo dunque dall’agere. La struttura

del libro mantiene fede a questa

impostazione anche quando, descrivendo

l’esperienza morale, sceglie di partire

innanzitutto dal dovere; ma non per

restarvi kantianamente ancorato, bensì

per scoprire che l’esperienza del dovere

implica un perché. Proprio tale ulteriore

perché (che non si spiega con il

dovere stesso) è rivelativo della felicità

umana, ovvero del movente basilare

dell’agire volontario conforme a ragione:

l’agire che arricchisce la persona

attraverso la libera scelta di una condotta

razionale, virtuosa e non viziosa.

Pertanto, potremmo dire che debere

sequitur felix esse aut felix fieri.

Tradiamo l’eperienza morale e la riflessione

etica quando scindiamo l’agostiniano

ordo amoris. Ci sono etiche non

corrispondenti alla persona, ma caso

mai individualistiche, che possono

nascere da un bene disordinatamente

amato (fuori da un ordo); oppure di un

ordine che risulta fine a se stesso (non

si giustifica a tutela del bene personale,

ovvero dell’amor). In fondo queste

sono le due alternative del male, riconducibili

ai due figli della parabola del

figliol prodigo.

Si parte da analisi di atteggiamenti

quale stupore, rispetto, ammirazione,

desiderio, scandalo, rimorso, gratificazione,

ecc., per fornire in modo breve e

completo, comprensivo di rapidi ed

efficaci esempi, una guida etica che

non trascura nessuno degli aspetti

morali rilevanti, tipici di ogni manuale,

378


ACTA PHILOSOPHICA, vol. 9 (2000), fasc. 2/schede

ma descritti in modo accessibile e

breve. Preziose alcune schematizzazioni,

come quella che oppone le etiche

oggi più diffuse, quelle universalistiche

(prevalenza dell’oggettivismo, l’ordo),

a quelle relativistiche (prevalenza del

soggettivismo, l’amor). L’ordo resterà

unito all’amor se la volontà cercherà il

bene conforme a ragione, e non in un

modo qualsiasi, ma attraverso la pratica

libera delle virtù etiche. Proprio esse ci

ricordano che non siamo angeli disincarnati,

ma persone in carne ed ossa. Il

vero bene, pertanto, può essere oggettivamente

determinato dalla ragione, ma

poi deve anche essere soggettivamente

voluto dalla volontà (ed in modo virtuoso):

proprio per questo un tale bene,

a maggior ragione dovrà risultare anche

soggettivamente attraente (con buona

pace di Kant). Il che significa che

anche l’inclinazione naturale al piacere

(comprensiva di tutte le gradazioni fino

alla gioia ed inclusiva di emozioni e

passioni) ha una sua ragion d’essere,

che richiede di non venire né assolutizzata,

né demonizzata. Come l’autore fa

giustamente notare, il tema aristotelico

della felicità si trova incluso alla fine

del trattato sul piacere, parte integrante

dell’Etica Nicomachea.

Oltre alle accurate citazioni dei

classici, si nota l’attenzione che l’autore

ha prestato nel redigere questa efficace

guida all’etica, ad alcuni autori

contemporanei quali: F. Rivetti-Barbò

(specialmente per l’approccio fenomenologico),

G. Abbà (cui si deve l’importante

demarcazione tra etiche di

prima e terza persona), M. Rhonheimer

(per la organicità, chiarezza e profondità

delle osservazioni sui fenomeni

etici), ed altri ancora.

G. FARO

379


Pubblicazioni ricevute

L. ALICI, L’altro nell’io. In dialogo con

Agostino, Città Nuova, Roma 1999.

L. ALICI - R. PICCOLOMINI - A. PIERETTI (a

cura di), Esistenza e libertà. Agostino

nella filosofia del Novecento/1, Città

Nuova, Roma 2000.

ANONIMO, Il monaco e la regina, Giorgio

Barghigiani Editore, Bologna 1999.

J. ARANGUREN ECHEVARRÍA, Resistir en el

bien. Razones de la virtud de la fortaleza

en Santo Tomás de Aquino, Eunsa,

Pamplona 2000.

A. BLANCO, Historia del confesonario,

Rialp, Madrid 2000.

A. CAMPODONICO, Etica della ragione. La

filosofia dell’uomo tra nichilismo e confronto

interculturale, Jaca Book, Milano

2000.

A. CRUZ PRADOS, Ethos y polis. Bases

para una reconstrucción de la filosofía

política, Eunsa, Pamplona 1999.

L. FIGUEIREDO, La filosofía narrativa de

Alasdair MacIntyre, Eunsa, Madrid 1999,

pp. 206.

F.X. FORTÚN, El sagrario y el Evangelio,

Rialp, Madrid 1999.

F. GARCÍA BAZÁN, Aspectos inusuales de

lo sagrado, Trotta, Madrid 2000.

A. LLANO, Humanismo cívico, Ariel,

Barcelona 1999.

G. MARCEL, Essere e Avere (a cura di I.

Poma), Edizioni Scientifiche Italiane,

Napoli 1999.

R. MARCHIORO, La confesión sacramental.

Guía práctica para penitentes y confesores,

Rialp, Madrid 1999.

D. MELÉ, Cristianos en la sociedad.

Introducción a la doctrina social de la

Iglesia, Rialp, Madrid 1999.

G. NICOLACI, Metafisica e metafora.

Interpretazioni aristoteliche, L’Epos,

Palermo 1999.

F. PERCIVALE, L’ascesa naturale a Dio

nella filosofia di Rosmini, Città Nuova,

Roma 2000 2 .

J. PIEPER, La fe ante el reto de la cultura

contemporánea (Sobre la dificultad de

creer hoy), Rialp, Madrid 2000 2 .

M.C. PIEVATOLO, La giustizia degli invisibili.

L’identificazione del soggetto morale,

a ripartire da Kant, Carocci, Roma 1999.

J. POLÁKOVÁ, Le possibilità della trascendenza,

Lipa, Roma 1999.

V. POSSENTI (a cura di), Corpo e anima.

Necessità della metafisica (Annuario di

filosofia - Seconda Navigazione 2000),

Mondadori, Milano 2000.

M. RHONHEIMER, La perspectiva de la

moral. Fundamentos de la Ética

Filosófica, Rialp, Madrid 2000.

J.I. SARANYANA, Historia de la filosofía

medieval, Eunsa, Pamplona 1999 3 .

M. SERRETTI, Natura della comunione.

Saggio sulla relazione, Rubbettino,

Soveria Mannelli (Catanzaro) 1999.

R. SPAEMANN, Personas. Acerca de la

distinción entre “algo” y “alguien”,

Eunsa, Pamplona 2000.

J.-P. TORRELL, Tommaso d’Aquino maestro

spirituale, Città Nuova, Roma 1998.

W. VIAL MENA, La antropología de

Viktor Frankl. El dolor: una puerta

abierta, Editorial Universitaria, Santiago

de Chile 2000.

G. VICO, La Scienza Nuova. Libro primo (a

cura di G. Consalvi), Bonomi, Pavia 2000.

380


Indice del vol. 9 (2000)

Studi

Andrea Aiello

La conoscenza intellettiva dell’individuale:

note alla soluzione di Guglielmo de la Mare p. 5

Daniel Gamarra

Un caso di platonismo ed agostinismo medievale.

Matteo d’Acquasparta: conoscenza ed esistenza p. 197

Fernando Inciarte

Heidegger, Hegel, and Aristotle: A Straight Line? p. 223

Angel Rodríguez Luño

Pensiero filosofico e fede cristiana. A proposito dell’enciclica Fides et ratio p. 33

Antonio Ruiz-Retegui

El hombre como criatura p. 59

Paulin Sabuy

La question du dualisme anthropologique. Une analyse

d’après Robert Spaemann p. 241

Giuseppe Tanzella-Nitti

L’enciclica Fides et ratio: alcune riflessioni di teologia fondamentale p. 87

Note e commenti

Javier Aranguren Echevarría

Eudaimonía e historicidad p. 267

Gabriel Chalmeta

Aristotele e Solov’ëv sul significato dell’amore p. 277

Marco D’Avenia

L’aristotelismo politico di A. MacIntyre p. 111

Giorgio Faro

Anatomia del fine ultimo in Robert Spaemann p. 121

Mariano Fazio

Tre proposte di società cristiana (Berdiaeff, Maritain, Eliot) p. 287

Patrick Gorevan

Aquinas and Emotional Theory Today: Mind-Body,

Cognitivism and Connaturality p. 141

Juan Andrés Mercado

Brief comments on Capaldi’s “We Do” interpretation of humean ethics p. 313

381


José Ignacio Murillo

Una aproximación al Curso de Teoría del Conocimiento de Leonardo Polo p. 319

Cronache di filosofia

Estetica della formatività: due saggi recenti (F. RUSSO) p. 339

Lezioni e conferenze p. 341

Convegni pp. 153 e 342

Società filosofiche pp. 154 e 344

Vita accademica p. 157

Bibliografia tematica

Sui diversi tipi di amicizia p. 161

Affettività p. 349

Recensioni

R. ALVIRA, La razón de ser hombre e

Filosofía de la vida cotidiana (J.A. Mercado) p. 353

M. ARTIGAS, La mente del universo (M. A. Vitoria) p. 165

M. ARTIGAS, Filosofía de la ciencia (M.A. Vitoria) p. 355

G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino (M. Fazio) p. 358

A. LLANO, Humanismo cívico (G. Chalmeta) p. 364

A. MALO, Antropologia dell’affettività (F. Russo) p. 168

J. MORALES MARÍN, John Henry Newman. La vita (1801-1890) (F. Russo) p. 171

A.L. TIRABASSI (a cura di), Compendio di Semantica del Dolore.

7: Filosofia del dolore (F. Russo) p. 367

J.-P. TORRELL, Tommaso d’Aquino maestro spirituale (A. Aiello) p. 175

J.J. WHITE, AHumean Critique of David Hume’s Theory

of Knowledge (J.A. Mercado) p. 370

Schede bibliografiche

F. CONESA- J. NUBIOLA, Filosofía del lenguaje (M. Pérez de Laborda) p. 181

J. FERRER ARELLANO, Metafísica de la relación y de la alteridad:

Persona y relación (A. Malo) p. 182

J.J.E. GRACIA (a cura di), Concepciones de la metafísica

(M. Pérez de Laborda) p. 375

J. NUBIOLA, El taller de la filosofía (J. A. Mercado) p. 183

L. PAREYSON, Kierkegaard e Pascal (F. Russo) p. 376

TOMÁS DE AQUINO, Comentario al libro de Aristóteles

“Sobre la interpretación” (J.A. Mercado) p. 377

A. VENDEMIATI, In prima persona. Lineamenti di etica generale (G. Faro) p. 378

382


STUDI DI FILOSOFIA

a cura della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce

1. J.J. SANGUINETI, Scienza aristotelica e scienza moderna, pp. 240, L. 33.000

2. F. RUSSO, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, pp. 255, L. 35.000

3. G. CHALMETA (a cura di), Crisi di senso e pensiero metafisico [scritti di A.

Aranda, S. Belardinelli, B. Kiely, A. Rodriguez Luño, J.J. Sanguineti], pp. 117,

L. 22.000

4. M. RHONHEIMER, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica,

pp. 368, L. 42.000

5. A. MALO, Certezza e volontà. Saggio sull’etica cartesiana, pp. 200, L. 29.000

6. R. MARTÍNEZ, Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo [scritti di

I. Biffi, S.L. Brock, A. Livi, A. Maierù, J.I. Saranyana, L. Sileo], pp. 200, L.

28.000

7. R. MARTÍNEZ, La verità scientifica, pp. 135, L. 23.000

8. F. RUSSO – J. VILLANUEVA (a cura di), Le dimensioni della libertà nel dibattito

scientifico e filosofico [scritti di C.L. Cazzullo, J. Cervós-Navarro, E. Forment, G.

Kamphausen, A. Malo, R. Tremblay], pp. 192, L. 32.000

9. L. CLAVELL, Metafisica e libertà, pp. 207, L. 30.000

10. R. MARTÍNEZ, Immagini del dinamismo fisico. Causa e tempo nella storia della

scienza, pp. 288, L. 35.000

11. I. YARZA (a cura di), Immagini dell’uomo. Percorsi antropologici nella filosofia

moderna [scritti di J. Ballesteros, F. Botturi, D. Gamarra, A. Lambertino, A.

Llano, M. Rhonheimer], pp. 192, L. 26.000

12. M. RHONHEIMER, La filosofia politica di Thomas Hobbes. Coerenza e contraddizioni

di un paradigma, pp. 271, L. 35.000

13. A. Livi, Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica, pp. 221, L.

30.000

14. R.A. GAHL jr. (a cura di), Etica e politica nella società del duemila [scritti di

G. Chalmeta, A. Da Re, P. Donati, H. Hude, R.P. George, R.J. Neuhaus], pp.

175, L. 30.000

15. M. FAZIO, Due rivoluzionari: Francisco De Vitoria e J.J. Rousseau, pp. 283, L.

38.000

16. A. MALO, Antropologia dell’affettività, pp. 302, L. 40.000

17. L. ROMERA (a cura di), Dio e il senso dell’esistenza umana [scritti di A. Ales

Bello, R.A. Gahl jr., G. Mura, P. Poupard, L. Romera, M.T. Russo, T.F.

Torrance], pp. 207, L. 30.000

18. R.M. MCINERNY, L’analogia in Tommaso d’Aquino, pp. 189, L. 27.000

19. G. CHALMETA, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino, pp. 155, L. 28.000

20. M. FAZIO, Un sentiero nel bosco. Guida al pensiero di Kierkgaard, pp. 144, L.

25.000

21. S.L. BROCK (a cura di), L’attualità di Aristotele [scritti di A. Berti, A.

Campodonico, Ll Clavell, K.L. Flannery, F. Inciarte, R. McInerny, C. Natali,

W.A. Wallace, I. Yarza, H. Zagal Arreguin], pp. 192, L. 28.000

22. M. CASTAGNINO – J.J. SANGUINETI, Tempo e universo. Un approccio filosofico

e scientifico, pp. 416, L. 45.000

383

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