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sara-al-tramonto

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Sara domandò:

«Hai escluso di chiamarlo Giorgio?».

Viola protestò:

«Scherzi? È morto. Non posso provare malinconia ogni volta che

pronuncio il nome di mio figlio, ti pare? Poi ci sono altri motivi».

«Se vuoi spiegarmi, ti ascolto.»

La ragazza si voltò, sul viso aleggiava un’espressione ancora

ostile:

«Continuiamo con lo scambio di notizie. Ok?».

L’altra sospirò. Voleva che Viola smettesse di rimuginare e, se

doveva sacrificare qualche informazione, andava bene.

«D’accordo. Che vuoi sapere?»

«Qualcosa in più sul tuo incarico. Quanto ha contato nella

decisione di abbandonare Giorgio?»

Me ne sono andata, Massi. Li ho lasciati. Non potevo vivere

nemmeno un istante nella doppiezza, nella falsità. Sarebbe stata

solo sofferenza, per lui, per me e per il bambino. Per tutti. Me ne

sono andata senza dirtelo, perché non volevo metterti davanti a un

aut aut, con le spalle al muro. Me ne sono andata, e non mi sono

mai pentita. Mai.

«Te l’ho accennato, l’altra volta. Ero assegnata a una particolare

unità di pubblica sicurezza, specializzata nelle intercettazioni

ambientali. Erano anni diversi da questi, c’era la mafia, la lotta

politica dura e il terrorismo. C’erano attentati e morti ammazzati,

omicidi di magistrati e civili innocenti. Tempi duri.»

«E di preciso qual era il tuo ruolo?»

«Io riuscivo a… insomma, ascoltavo le conversazioni degli altri.

Anche da molto lontano.»

Viola piegò la testa. Aveva un modo graziosissimo di prestare

attenzione, e Sara sperò che il figlio si fosse innamorato di quella

caratteristica. «Non sono sicura di aver capito. Fammi un esempio.»

La donna invisibile sospirò, guardandosi intorno. I suoi occhi

captarono un anziano che si rivolgeva a un ragazzino, dall’altra parte

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