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XIX

Con lo sguardo fisso sui bambini che giocavano a pallone nell’aiuola

al centro dei giardinetti, Viola disse:

«La seconda volta in due giorni. Devo preoccuparmi?».

Mentre si sedeva sulla panchina, Sara mormorò:

«La seconda volta in due giorni cosa?».

«Che arrivi in ritardo.»

La donna invisibile non riuscì a nascondere un moto interiore di

gioia per quel piccolo rimprovero. Era da tanto che non si sentiva

attesa da qualcuno. «Devo organizzare meglio i miei impegni. Ho

avuto… sto avendo alcuni imprevisti.»

La ragazza teneva il broncio, dimostrando meno anni di quelli che

aveva.

«Perché hai ripreso a lavorare, beata te. Certe donne, come mia

madre, sono capaci solo di stare a casa e impicciarsi di continuo

degli affari altrui; giocano a burraco, si truccano, vanno dal

parrucchiere e rompono le palle alle figlie. Noi due non siamo fatte

per stare con le mani in mano. Solo che io ho un piccolo

impedimento, come vedi.»

Era di malumore, pensò Sara. Aveva bisogno di distrarsi,

prendendosela con qualcuno. O parlando d’altro.

«Come va, oggi?»

La giovane fece spallucce, contemplando il vuoto davanti a sé.

«Al solito. Mi si gonfiano le caviglie, sono un cesso e rimarrò un

cesso per sempre, ho freddo quando tutti gli altri hanno caldo,

mangerei una mandria di buoi e non ho capito se mi

addormenteranno per squartarmi o se mi spezzerò da sola con una

giornata intera di travaglio. E non ho scelto ancora il nome di Alien,

qui. Per il resto, tutto bene.»

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