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sara-al-tramonto

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«Lui era una merda, signora. Una vera merda. Gli importava solo

di se stesso e dei soldi, io e mio fratello siamo cresciuti per conto

nostro da quando mamma è morta. Io, che alla fine me ne sono

sempre fregata di papà, in un certo senso mi sono salvata. Invece

Gianpiero, poveretto, è rimasto all’ombra del grand’uomo».

Sara tenne gli occhi fissi su quelli della ragazza:

«Voglio sapere se l’hai ucciso».

«Ho capito, e le sto rispondendo. Non posso escluderlo, non ero

in me. Sono stata in un bar, dove ho preso della roba, tanta roba.

Sono tornata a casa sulle mie gambe, forse, non ricordo bene. Potrei

averlo ammazzato, sì. Lo odiavo. Per questo sono qui, e non

combatto per uscire. Se non l’ho ucciso io, è solo perché magari

qualcuno è stato più veloce di me.»

Sara la scrutò con intensità.

Fuori dalla stanza le due guardie si scambiarono qualche parola e

tornarono a spiare dentro. Il tempo stava per scadere.

«Averlo odiato non ti rende colpevole di omicidio. Dici che una

madre certe cose le sente e che sei in pena per tua figlia… Allora

devi difenderti.»

Un’espressione triste si dipinse sulla faccia di Dalinda, che rimase

in silenzio.

Quindi la porta si aprì e le due agenti entrarono nella stanzetta.

La ragazza mormorò:

«Magari è meglio così, meglio per tutti. Anche per Bea».

La presero per le braccia e lei si voltò verso il corridoio. Prima di

uscire, da sopra la spalla destra, disse:

«Mia figlia non sta bene. Voglio solo che qualcuno la aiuti.

Pensate a lei, non a me».

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