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XVI

A Davide Pardo era rimasta addosso un’inquietudine di cui ignorava

l’origine.

Di natura era un uomo semplice, che amava la chiarezza.

Quando ci rifletteva, non che accadesse spesso ma qualche volta

capitava, era a questo bisogno di evidenza che attribuiva la scelta di

diventare poliziotto. I buoni e i cattivi, per lui, dovevano essere

riconoscibili, con poca approssimazione, al primo sguardo. Come se

indossassero magliette diverse. Come due squadre di calcio

contrapposte.

Purtroppo, se ne rendeva conto, non era così che andava. Col

tempo, collezionando amarezze, aveva compreso che forse la

cattiveria nemmeno esisteva. Ma c’era l’egoismo, in diverse forme e

in molteplici proporzioni, che nella sua essenza suprema portava un

uomo a eliminarne un altro. E l’egoismo percorreva strade insolite,

infiltrandosi anche in quelle che a buon titolo avrebbero potuto

essere definite “brave persone”. Insomma, i cattivi non erano sempre

quelli che sembravano cattivi. Bisognava imparare a cercare le vene

perverse nei comportamenti normali.

I buoni, invece, secondo l’ideale che Davide aveva cullato nel

corso di tutta la sua carriera, erano o avrebbero dovuto essere

individuabili senza troppe difficoltà. Meno dubbi c’erano, più

semplice era l’esistenza.

Per questo, pensò mentre si esibiva nella consueta performance

di sci nautico dietro un Boris in gran forma, gli ultimi giorni lo

avevano disorientato. E per questo avvertiva una sorta di

turbamento e anche un po’ di preoccupazione.

Aveva creduto di mettersi la coscienza in pace segnalando a

Luca, il collega che lavorava nei Servizi, i timori della Molfino. Aveva

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