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sara-al-tramonto

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XIII

All’uscita dall’Istituto di medicina legale, Sara si avviò verso un bar

all’angolo della strada.

Dopo un attimo di esitazione, Pardo le andò dietro con un sospiro,

accomodandosi al tavolino al quale si era seduta. «Scusi, sono

queste le maniere formali che usate tra colleghi? No, perché va bene

la riservatezza, ma la maleducazione è un’altra cosa.»

Sara gli scoccò un’occhiata gelida:

«Io sto lavorando. E quando lavoro la forma cede il passo alla

sostanza. Per me un caffè, grazie».

Davide serrò le labbra, poi fece un cenno al cameriere.

«Mi spiega per cortesia perché ha voluto cominciare dal medico

legale? Quali informazioni le ha dato che non poteva trovare nel

referto?»

Sara rispose distratta, continuando a seguire il filo dei propri

pensieri:

«Nelle carte non ci sono le espressioni facciali, e io sono abituata

a leggere quelle. Non mi serviva la descrizione del fegato, avevo

bisogno di capire quanto tempo rimaneva a Molfino se non

l’avessero ammazzato prima. E ora lo sappiamo».

Davide si grattò la testa:

«Ma che c’entra? Chi l’ha ucciso, quasi di certo la figlia, si è

accanito con rabbia. Mica ha pensato: “Vabbe’, tanto muore tra poco

per conto suo, non vale la pena di finire in galera per tutta la vita”».

La donna rispose con indifferenza:

«Forse. O forse non era a conoscenza della malattia. Adesso, per

favore, mi parli della figlia, dell’arresto e dell’incontro in carcere».

L’ispettore fece spallucce.

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