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sara-al-tramonto

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«Siccome nessuno lo ascoltò e l’avvocato d’ufficio non gli

credette…»

«Non fu colpa mia, maledizione!»

«Lorusso si impiccò in carcere, convinto che a causa sua i figli

sarebbero stati marchiati per sempre dall’accusa di appartenere a

qualche clan. Invece lui con la malavita non aveva mai avuto

legami.»

L’ultima frase, pronunciata col tono piatto di una litania, cadde nel

silenzio dell’auto come un macigno prima di una frana. Davide

ansimava piano, con gli occhi strabuzzati e le labbra serrate.

La donna continuò, sussurrando:

«Io sono sicura della sua buona fede. È lei ad avere dei dubbi

visto che, almeno fino a due anni fa, ha continuato a spedire in

forma anonima dei soldi alla famiglia Lorusso. Non è così?».

Davide replicò a denti stretti:

«Il carcere è una brutta bestia, collega. Quando sei dentro, hai

l’impressione che sia finito tutto, che la speranza sia morta.

Dovrebbe rieducare, invece è l’inferno. Ma credo lei sappia anche

questo».

Sara scrollò le spalle:

«Ognuno fa il suo mestiere, collega. L’ha detto lei, no? Non sta a

noi decidere. Altrimenti non servirebbero i magistrati».

Pardo fermò l’auto e aprì lo sportello, ma prima di scendere

aggiunse:

«I figli di Lorusso, un maschio e una femmina, si sono diplomati.

Uno all’alberghiero, e adesso l’hanno assunto come cameriere in un

hotel del lungomare; l’altra al liceo artistico, ed è figurinista da un

famoso sarto di Chiaia. Sono bravi ragazzi».

Il medico legale, il dottor Curzio, era piuttosto anziano, con baffi

spioventi da tricheco macchiati di nicotina e un paio di occhi acquosi.

«Ancora con questa storia? Che c’è di nuovo? Mica dovremo

riesumare il cadavere e procedere con altri esami, vero? Mi pare che

abbiamo verificato tutto.»

Pardo lo rassicurò:

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