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Sara si tolse gli occhiali. Il poliziotto pensò a quanto fosse diversa

rispetto alla sua prima impressione.

«Non è rilevante, Pardo. Tanto le assicuro che non avrà molte

occasioni di rivolgersi a me. Piuttosto, prima di entrare mi spieghi

perché non è più così certo dell’indubbia colpevolezza della

Molfino.»

Se c’era ironia in quelle parole, Davide non la apprezzò.

«Senta, Mora, o come diavolo si chiama, io ho svolto il mio lavoro

secondo le regole. E pure il PM, il GIP e gli altri.»

«Siamo qui, però. Quindi qualcosa è successo.»

Davide sembrava in evidente difficoltà:

«La tizia, la Molfino, mi ha mandato a chiamare tramite una

guardia carceraria, che è una vecchia amica. Senza seguire la

procedura, insomma. Ed è strano, le pare? Mica capita spesso che

una colpevole di omicidio, del padre per di più, contatti il poliziotto

che l’ha arrestata».

«E lei ci è andato.»

«Sì, e forse non avrei dovuto. Però per motivi miei ho preferito

incontrarla.»

Sara lo fissava, inespressiva.

«Capisco. Magari per evitare che si ripetesse la faccenda del ’97,

immagino.»

L’ispettore si irrigidì:

«A che si riferisce, accidenti?».

«Via, Pardo. Non giriamoci intorno. Conosco il caso di Lorusso

Gaetano, arrestato durante un’operazione antimafia nel giugno di

quell’anno, accusato di appartenere a una banda che imponeva il

pizzo a San Giovanni, e…»

«Non c’entro niente con quella storia!»

«E Lorusso non c’entrava proprio niente con le estorsioni, si

trovava nella sala giochi per caso.»

«Erano cinque, e stavano insieme al momento dell’irruzione.»

«Lo portaste via insieme agli altri, benché sostenesse di essere

innocente.»

«Basta, cazzo! Chi è lei, il diavolo? Prima, quando ero col cane,

ha intuito da lontano che stavo bestemmiando e…»

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