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VI

Teresa Pandolfi si domandò per la centesima volta se Mora si

sarebbe presentata.

Seduta a un tavolino sulla terrazza dello scalcinato bar che

inalberava la presuntuosa insegna CAFFETTERIA AZZURRA, si ripeté

che, essendo in anticipo, non poteva escludere alcuna eventualità.

In effetti, di azzurro nei dintorni non c’era proprio niente. Il luogo

era stato classificato anni prima come abbastanza sicuro, con

quell’affaccio sull’ampia strada tutta buche a doppio senso che

collegava i malinconici sobborghi della cinta urbana: troppo allo

scoperto per la criminalità organizzata e troppo decentrato per i

colletti bianchi della città. Il frastuono dei camion in perenne transito

confondeva la ricezione dei microfoni direzionali, all’epoca strumenti

assai in voga; inoltre era impossibile avvicinarsi senza essere notati.

La cosiddetta terrazza consisteva in uno stretto balconcino di certo

abusivo, come gran parte dei piani sopraelevati della zona, ma che

garantiva una perfetta visuale per sorvegliare le vie d’accesso.

Per questo, “pizza” significava un appuntamento alla Caffetteria

Azzurra, tributo alla passione calcistica del vecchio proprietario,

impegnato full time a discutere di quell’unico argomento con uno

staff di quattro pensionati in servizio permanente effettivo. Un posto

pessimo, insomma. In compenso il caffè era sorprendente e,

nell’attesa di sciogliere il dubbio sull’arrivo dell’amica, Teresa ne

stava sorbendo una seconda tazzina, quando una voce calma alle

sue spalle sussurrò:

«Addirittura due. Ti sveglierai, se continui così».

Senza voltarsi la Pandolfi rispose:

«Come diavolo riesci a passare inosservata, accidenti a te?

Nemmeno un rumore. Certe volte credo che tu sia morta, e che io

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