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LIV

Viola non trovava una melodia da canticchiare, e la cosa la

preoccupava molto. Non sia mai, pensava, che abbia perso il mio

potere. Sarebbe la fine.

La madre continuò, imperterrita:

«In un ospedale pubblico e in questo quartiere… incredibile! E ti

rifiuti di spiegarmi che ci facevi qua, in piena notte, invece di startene

per una volta nella vita buona e ferma. Ma già, sarebbe stato troppo

facile, no? Una mattina, come ogni donna normale, si chiamava la

macchina e si andava in clinica, una camera singola, non come

questo lazzaretto: guarda che schifo, quattro letti e un unico bagno,

inconcepibile nel terzo millennio… E lei, signora, è inutile che mi

guardi, dovreste essere voi le prime a ribellarvi!».

E dài, pensò Viola, è mai possibile che non mi venga nessuna

canzone? Nemmeno in italiano?

«D’altra parte il figlio di una vagabonda e di un inetto dove poteva

nascere se non in un quartiere anonimo, abitato da piccolo borghesi

e commercianti? Che orrore. E nemmeno hai avuto la decenza di

avvisarmi tu, mi è arrivata una telefonata da un centralino: “Pronto,

la signora Visco? Qui ci sarebbe una che sostiene di essere sua

figlia, ha partorito stanotte. Se vuole venire, venga e arrivederci”. Ma

una signora lo deve sapere così, che ha avuto un nipote? Purtroppo

era ovvio, trattandosi di te, che sei sempre stata una ribelle fin dalla

nascita.»

Arrivò l’infermiera a cambiare la flebo, e Viola le rivolse uno

sguardo disperato.

La donna, dal peso di circa un quintale e dall’aria sbrigativa,

aveva sentito solo una parte dell’infinita litania prodotta da Rosaria,

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