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XLIX

Mai come quella sera la tentazione della boccetta sul tavolo era

forte.

Sara aveva lasciato Viola e Davide, e invece di avviarsi verso

casa aveva deciso di andare vicino al mare.

Le capitava di rado, perché era un’abitudine sua e di Massimiliano

e, come tutto quello che avevano condiviso, le acuiva in modo

insostenibile il senso della perdita. Aveva provato a cercarlo, l’uomo

che aveva amato, scoprendo presto che era inutile: non lo ritrovava

davanti alla superficie azzurra, perché l’aveva sempre dentro di sé, e

non riusciva ad allontanarlo per lo stesso motivo.

Ma quella sera aveva bisogno di cogliere gli ultimi raggi del

tramonto sulla collina guardando dal basso. Come se i dettagli rosa

e le case edificate sui canali scavati dalla lava fossero simili ai

particolari di quella storia inestricabile che si andava man mano

componendo, in un quadro per lei ancora incomprensibile, e di

nuovo disfacendo.

Sara non era un’investigatrice, era un’interprete. Non ricostruiva

fatti ma conversazioni. Poteva intercettare uno stato d’animo, non

penetrare le maglie di un articolato complotto. Non era attrezzata.

Perciò Davide magari aveva ragione quando protestava per come lei

conduceva quella strana indagine, senza un filo logico, al pari di un

puzzle complesso in cui chiunque collocava le tessere ma nessuno

seguiva uno schema.

Si sedette sul muretto che separava il lungomare dalla scogliera.

Era proprio l’attimo preciso in cui Massimiliano, un secolo o cinque

minuti prima, le chiedeva di girare il viso verso il sole morente e la

fissava sorridendo.

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