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sara-al-tramonto

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Il gelo scese di colpo. La guardia assunse un’aria perplessa; la

detenuta, che pareva pietrificata, incrociò lo sguardo con quello

inespressivo di Sara che se ne stava seduta composta, le mani sul

piano del tavolo pieno di segni di penna e bruciature di sigaretta.

Dopo una pausa, Dalinda fece un cenno alla guardia e si sedette

a sua volta.

La donna in divisa, infastidita per non poter seguire la

conversazione, uscì dalla stanza e si posizionò in maniera da tenere

sotto controllo le due attraverso il vetro della porta.

Dalinda domandò in un fiato:

«L’avete vista? Come sta? Vi ha… vi ha chiesto di me?». La voce

era incrinata dall’angoscia, e anche dall’amore.

Sara ebbe molta pietà di lei. «Sì, l’abbiamo incontrata. È davvero

una splendida bambina. Ha parlato subito di te, le manchi

moltissimo.»

Gli occhi neri della ragazza si riempirono all’istante di lacrime, alle

quali però resistette. La mascella si serrò e l’espressione divenne

dura. «Ti ho chiesto come sta.»

Sara mantenne la calma. «In un certo senso bene: si muove,

chiacchiera, è reattiva. E considera che non la conosciamo da prima,

quindi magari certi comportamenti sono normali. Ma io ho avuto

l’impressione che non stesse bene. Quindi ho deciso di andare a

fondo.»

Dalinda la scrutò diffidente:

«Che intendi?».

«Ascoltami: è necessario chiarire alcuni aspetti della morte di tuo

padre, e…»

La giovane si alzò di scatto:

«Ti ripeto che non torno su quell’argomento, non ho davvero

niente da aggiungere. Per me la conversazione può finire qui».

Sara replicò, ferma:

«E magari così ammazzi tua figlia, senza nemmeno aver ucciso

tuo padre».

La ragazza si accasciò sulla sedia, stravolta:

«Di che parli?».

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