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sara-al-tramonto

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darsi benissimo che avesse avuto bisogno di aiuto e che, non

avendola trovata, fosse stata costretta a contattare Pardo; il quale

aveva provato ad avvertirla a sua volta, senza riuscirci. Il quadro la

tranquillizzò, anche se percepiva l’eco ineludibile di un’inquietudine

inattesa. Quella giovane incontrata in circostanze così strane, tanto

lontana e diversa da lei, stava diventando importante. Anche troppo.

Il colloquio con Dalinda non si poteva rinviare, però. Il messaggio

di Teresa era chiaro: se Sara voleva incontrare la donna, doveva

essere quel giorno, a quell’ora, e per l’ultima volta. Comprendeva la

perentorietà: era già difficile giustificare una visita di qualcuno che

non era un parente né un legale, figuriamoci due.

Decise di reprimere la voglia di mollare tutto per sincerarsi di

come stesse Viola, e si recò in fretta all’ingresso della casa

circondariale.

Dopo una ventina di minuti, espletate le varie formalità, si ritrovò

di nuovo di fronte alla Molfino.

La salute della ragazza sembrava peggiorata rispetto al

precedente incontro: aveva il viso più scavato, e l’occhio abile di

Sara la informò che da tempo non dormiva più di qualche ora a

notte.

Appena fu nella stanzetta dei colloqui riservati, Dalinda si guardò

attorno e chiese, con voce roca:

«Dov’è l’ispettore?».

«Non c’è. Devi accontentarti.»

La Molfino restò in piedi, accanto all’agente della penitenziaria

che l’aveva accompagnata, e la fissò ostile:

«Io non mi accontento mai, bella. Non ho ancora capito chi cazzo

sei, quindi figurati se mi accontento di te».

Restarono in silenzio.

La guardia, una donna massiccia che non c’era al precedente

incontro, si lasciò sfuggire un ghigno.

Sara la ammonì minacciosa:

«Mettiamoci d’accordo una buona volta: se sono qui, è perché

l’hai voluto tu. Quindi io posso anche andarmene e disinteressarmi di

quest’affare. Ma siccome hai ragione e Bea è in pericolo, mi

sembrerebbe un gran peccato».

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