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sara-al-tramonto

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Le ragazze, diverse come il giorno e la notte sia nel fisico sia nel

carattere, erano destinate a diventare acerrime rivali o grandi

amiche. Poiché erano intelligenti, non ci misero troppo a capire che

la seconda era l’opzione migliore. Il soprannome di Teresa, che

assomigliava a una tedesca, fu inevitabile; quello di Sara derivò di

conseguenza da una storpiatura del cognome. Diventarono Bionda e

Mora, e così rimasero anche per i colleghi che si alternavano in

servizio, ignari delle loro vere identità.

Sara si accomodò e lanciò un’occhiata fugace al locale.

Teresa restò in silenzio, terminando la lettura. Alla fine trasse un

sospiro profondo e fissò l’ex collega con il suo sguardo azzurro.

«Dimmi come stai.»

Si erano incontrate qualche mese prima, in occasione della morte

di Giorgio, il figlio di Sara, dopo circa quattro anni senza scambiarsi

nemmeno un messaggio. Il protocollo prevedeva questo, certo; ma

Mora si sarebbe aspettata qualche contatto, soprattutto negli ultimi

giorni di Massimiliano.

«Io? Bene. Come sempre.»

Non posso fare altro, Bionda. Sono arrivata qui che ero moglie e

madre, avevo un lavoro ma lo dimenticavo una volta a casa. Avevo

pensieri piccoli, la spesa, le vacanze, le vaccinazioni e la scuola di

Giorgio. E ora, ora mi sembra di essere in una navicella, in orbita

nello spazio. Ci sono quest’ufficio e Massimiliano, ci siete voi: e il

resto è sparito, non esiste più niente, solo il mondo qui dentro. E

basta. Non riuscirei più a vivere, là fuori.

«E tu, Bionda?» continuò.

La Pandolfi si guardò attorno, distratta. Poi rispose, rapida:

«Coppia, angolo destro, vicino alla vetrata».

Il frastuono era assordante, ma loro sussurravano, abituate a

capirsi, quasi fossero sorde, leggendosi le labbra.

Sara non si voltò, il punto di cui parlava l’amica era proprio alle

sue spalle. Inclinò la testa. Sembrava che stesse orecchiando una

melodia lontana. Dopo un attimo disse:

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