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sara-al-tramonto

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XLI

Nel chiudere lo sportello dell’auto, posteggiata come sempre nel

vicolo di fianco all’edificio sul quale campeggiava la vecchia insegna

della ditta di import-export, la bella bionda sorrise.

A chiunque altro sarebbe sfuggito, ma al suo occhio attento la

lieve variazione nell’ombra del portone di fronte aveva raccontato

tanto.

Anzitutto le era tornata alla mente la serie infinita di giornate

grigie, o luminose, di serate fredde e piovose passate in giro per il

Paese ad aspettare che qualcuno entrasse in una porta o a

riconoscere qualcun altro a una finestra. Ore e ore trascorse in piedi,

ferma, senza poter respirare, mangiare, fumare, trattenendo la

pungente voglia di liberare la vescica e reprimendo il travolgente

desiderio di grattarsi una guancia o la schiena. Tempo immobile e

colpevole, lo sguardo incollato sull’apertura che la proiettava in un

mondo diverso, quello dei segni da interpretare e decifrare.

Un’altra epoca, pensò Teresa mentre senza voltarsi armeggiava

con la chiave della macchina. Quando non esistevano i software che

decodificavano le aggregazioni di termini, quando la gente per

comunicare si parlava, invece di chattare in un linguaggio criptico

fatto di icone comprensibili solo al destinatario. Quando le facce, i

movimenti e le posture valevano più delle cose dette.

Bei tempi, tutto sommato.

Con un sospiro, sentendosi molto più vecchia degli anni che

aveva, che erano tanti di più di quelli che dimostrava, l’elegante

signora si avvicinò all’androne e sempre senza voltarsi disse:

«Ciao, Mora. Devo riabituarmi un po’ alla volta ad averti di nuovo

tra i piedi, dannato fantasma».

Una voce risuonò dal buio:

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