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XXXVII

Viola era uscita presto, cercando di evitare la madre, che l’aveva

comunque sorpresa sulle scale. La ragazza aveva spiegato che

andava da una vecchia amica, ex compagna del liceo, incontrata ai

giardinetti il giorno prima: l’aveva invitata per farle conoscere i suoi

due gemelli di un anno e mostrarle il nuovo appartamento in periferia

che aveva appena finito di arredare. A Viola erano fin troppo noti i

pregiudizi di Rosaria, che tra le tante idiosincrasie annoverava

nell’ordine: i bambini, le amiche della figlia e la periferia – il pericolo

che si offrisse di accompagnarla sarebbe svanito come neve al sole.

Così fu e, salvo una lista di raccomandazioni che si lasciò dietro

le spalle mentre scendeva i gradini, la presenza della madre nella

giornata sarebbe stata limitata a una serie di telefonate e a un’infinità

di messaggi isterici in segreteria che la ragazza poteva ignorare

senza problemi, attribuendo le mancate risposte alla modalità

silenziosa del telefono dimenticato nella borsa.

Viola controllò per l’ennesima volta l’indirizzo che aveva trascritto

su un biglietto, dopo aver eliminato subito il messaggio di Sara.

Aveva deciso di comportarsi come se fosse impegnata a realizzare

un servizio riservato su commissione di una testata scandalistica.

Immaginava che rispetto alla sua esperienza fosse la situazione più

simile all’indagine che stavano svolgendo Sara e l’impacciato

poliziotto.

Prese un autobus, che l’avrebbe portata alla metropolitana.

Rosanna Rimotti abitava in un quartiere dietro la collina, verso ovest:

una pianura umida sotto il livello del mare, che aveva ospitato in

origine gli operai di un’immensa acciaieria in via di smantellamento e

che ora era diventata un quartiere residenziale medioborghese.

Avrebbe potuto chiamare un taxi, ma correva il rischio che l’autista si

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