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Sara si lasciò cadere al fianco di Viola, sulla solita panchina, con

un sospiro.

La ragazza, incuriosita, le domandò se fosse stanca.

«No» rispose la donna invisibile, «piuttosto, un po’ preoccupata.»

«Come mai?»

Per un attimo Sara pensò di portare la conversazione sul vago,

confidando nell’egocentrismo di Viola. Poi, quasi senza

accorgersene, disse:

«La faccenda di cui mi sto occupando… non sono sicura di

capirla bene. Se sbaglio, potrei allontanarmi dalla soluzione, e

sarebbe un guaio… O potrei anche avvicinarmi».

Viola corrugò la fronte:

«Mamma mia, quanti condizionali… Sei sempre così sicura di te e

adesso hai addirittura paura! Non vuoi spiegarmi meglio?».

L’aria del tardo pomeriggio era dolce. I bambini cinguettavano e

svolazzavano attorno a loro come uno stormo di passerotti, sulle

panchine mamme e nonne sferruzzavano, chiacchieravano o

giocavano coi cellulari: non c’erano brutture da interpretare, e la

primavera danzava il suo ballo indisturbata. Perfino i piani alti dei

palazzi alle loro spalle sembravano belli, riflettendo la luce del sole

morente.

Giusto allora Sara ritenne di trovarsi nell’unico magico momento

delle ventiquattr’ore in cui forse avrebbe potuto aprirsi. Con una

ragazza lontana ma vicina, con cui condivideva un codice genetico

altrimenti perduto, che la obbligava a un futuro a cui altrimenti

avrebbe rinunciato.

Sara al tramonto era diversa.

Sara al tramonto aveva nel cuore una porta aperta in cima a una

scala a chiocciola, e quella porta era la sua debolezza.

Allora cominciò a parlare col tono sommesso di chi inizia a

raccontare una favola, consapevole di tradire le regole che aveva

osservato per tutta la vita, certa che non ci fosse nulla di utile in

quello sfogo.

E descrisse una madre, come non era stata lei se non per pochi

anni e come presto sarebbe stata Viola, chiusa in carcere con una

terribile accusa che non aveva negato e dalla quale non si era

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