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XXXIII

Gianpiero Molfino fece il suo ingresso nel salone mano nella mano

con la piccola Bea. La moglie li seguiva a distanza di un paio di

passi. Quell’atteggiamento, per Sara, era significativo. Mentre la

bambina camminava verso di loro, con lo sguardo basso, svuotato di

ogni curiosità, lui stava esclamando senza parlare: io sono suo zio, il

sangue del suo sangue, l’unico che le è rimasto, e nessuno può

permettersi di separarci.

La stessa Doriana, appassionata nel fugare ogni dubbio

sull’intesa tra lei e la bimba, insistente e un po’ ottusa nell’affermare

l’armonia di quella situazione domestica, esprimeva la piena

condivisione della volontà del marito.

Ma c’era ancora da sciogliere il nodo fondamentale: come stava

Beatrice?

Il padrone di casa li fissò, calmo. Indossava un maglione azzurro

e sembrava molto più giovane rispetto al precedente incontro.

«Buon pomeriggio. Bea, questi nostri amici sono venuti a trovarti.

Salutali con un bel sorriso.»

Lei alzò gli occhi, e all’istante sia Sara sia Davide si resero conto

che dietro il tenero volto di quella bimba si annidava l’ombra di un

grave dolore.

«Ciao» disse incerta la piccola, «siete amici anche della mia

mamma?»

Sembrava soprattutto molto stanca. Sugli occhi infossati, un velo

di tristezza. La voce era impastata e il colorito pallido. L’effetto

complessivo non era l’immagine della salute. La sofferenza però

poteva essere di natura psicologica, come confermato da quella

domanda, che mise in evidente imbarazzo i coniugi Molfino.

Fu Gianpiero a rispondere:

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