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XXXII

Viola riponeva con cura gli obiettivi nel mobiletto, canticchiando a fior

di labbra. Non era stata secondaria nella scelta della professione la

passione per la manualità; e poi la forma, i metalli, i filtri e le

manopole, insieme ai dati che apparivano sul display, le sequenze e

i colori, i grafici.

Anche la fase successiva, la postproduzione, stare davanti allo

schermo del computer per intervenire dopo sugli scatti con le

regolazioni, i livelli, i frame da alternare e ricomporre, rappresentava

per lei una bellezza intima e straordinaria.

Possedeva perfino due vecchie macchine manuali, che utilizzava

ancora caricando rullini quasi introvabili. La sorpresa che le

procuravano le immagini nel momento in cui, nella camera oscura,

emergevano dalla nebbia sulla carta, le pinze e il liquido amniotico

dal quale nascevano, le mollette e i fili su cui stenderle come

minuscole lenzuola l’avevano sempre ammaliata. Un amore

ereditato dal padre, fotografo dilettante che condivideva con lei quel

silenzioso spazio, intrigante e incantato.

Da bambina si perdeva a osservare quella danza di gesti e

movimenti, dopo aver passeggiato per ore alla ricerca di

inquadrature.

Viola era figlia unica, e riteneva già un mezzo miracolo l’essere

venuta al mondo da una relazione durata assai più di quanto fosse

lecito aspettarsi, visto che una delle due persone coinvolte era la

madre. Suo papà, di cui conservava una memoria dolcissima, era un

uomo schivo e silenzioso, sorridente e arrendevole, un medico bravo

e abbastanza noto. La chirurgia per lui era un’estensione di quella

manualità che Viola aveva ereditato; ne ricordava la morte,

improvvisa e devastante, la corsa verso la clinica dove si era

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