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XXXI

«Mente, vero? È certo che mente. Una come lei non poteva non

essere a conoscenza della malattia del vecchio. Ed è pure gelosa,

gelosissima anzi, della famosa infermiera. Quindi, secondo me, ha

scelto di rimuovere il fatto che non era stata informata, che lui

l’aveva estromessa.» Mentre guidava completando la sua analisi

psicologica della Astolfi, Pardo lanciava occhiate a Sara che invece,

seduta di fianco a lui, assomigliava a una statua di sale. «Poi, scusa,

tutto quel ribadire che la bambina era legata al nonno, che solo il

nonno passava del tempo con lei, che il destino infame aveva

regalato una figlia a Dalinda e non alla povera Doriana: questo non

denota un certo risentimento nei confronti della ragazza? Facile

prendersela con una che sta in galera ed è così rincoglionita da non

ricordarsi nemmeno se ha ucciso il padre.»

Niente. Sara continuava a guardare la strada, le mani in grembo a

palmi in su, immobile.

«Senza contare che i Molfino non sembrano proprio tipi da

entrare in confidenza con una dipendente, no? Per me l’hanno

tenuta all’oscuro. Quindi, siccome la mortifica non essere riuscita a

ritagliarsi un ruolo qualsiasi in una famiglia presso cui ha lavorato

per più di trent’anni, finge di sapere e straparla. È così, vero?»

Lei rispose sussurrando:

«No, sbagliato. Era sincera, dalla prima all’ultima parola».

Per poco Pardo non mise sotto una giovane in sella a uno scooter

del peso stimabile in una tonnellata. Quella gli rivolse una colorita

espressione di saluto che coinvolgeva madre ed eventuali sorelle del

poliziotto. «E sentiamo, come avresti capito che non mentiva? La

luna in Acquario?»

Sara scosse appena la testa.

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