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XXIX

L’ispettore Davide Pardo aspettava da quasi dieci minuti quando si

accorse, come al solito senza averla sentita arrivare, che Sara era in

piedi dietro di lui. «Primo: sei in ritardo, e dieci minuti di sonno il

sabato mattina valgono moltissimo. Secondo: il mio contatto mi ha

già chiamato, mi aspetta in un bar col tizio, quindi dobbiamo

sbrigarci. Terzo: assomigli a un maledetto fantasma. Ma come

cacchio riesci a materializzarti sempre all’improvviso? Usi il

teletrasporto?»

La donna rispose brusca:

«Per una volta hai ragione, ispettore. Ho tardato, scusami.

Credevo che nel frattempo potessi far prendere un po’ d’aria a quel

povero cucciolone che ha la disgrazia di abitare con te».

Il poliziotto aggrottò la fronte:

«Sono io che abito con lui, invece. Stanotte ha deciso di dormire

in diagonale sul mio letto, e mi sono dovuto adattare. Ho un mal di

schiena da record. Certo, pure tu non sembri al meglio, oggi».

Era vero. Il colorito di Sara era terreo, gli occhi cerchiati e l’aria

assonnata. Il corpo, privato dell’aiuto delle pillole, reagiva così.

«Come al solito, grazie del complimento. Adesso muoviamoci.»

Il tragitto fu breve e silenzioso. Davide era piuttosto preoccupato

di presentarsi all’incontro con un informatore in compagnia, e per di

più di una donna; il sottile gioco di ruoli che costituiva la rete

professionale ci metteva assai poco a incrinarsi.

Invece Sara, reduce da una notte di cupi, schiumosi sogni di cui

ricordava solo l’angoscia, rifletteva su quanto fosse innaturale per le

sue abitudini investigative rimestare nel passato. In trent’anni di

servizio aveva esaminato il presente, dai volti alle parole: gli eventi

trascorsi competevano ad altri, lei doveva solo tradurre. Non era

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