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un po’ più indulgente. Lo faresti per me? Tratteresti meglio il mio

amore?

Sapeva bene che la schiavitù passava per quella boccetta

all’apparenza innocente che aveva davanti.

Se avesse svitato il tappo, se avesse ingerito le pillole e atteso

l’energia, non sarebbe uscita mai più dalla voragine.

Il medico aveva ragione, ricette o non ricette.

Si chiese chi fosse, mentre l’orologio scandiva, nel silenzio, i

secondi della notte, mentre il camion della spazzatura svuotava

cassonetti a venti metri da lei, in strada, mentre non c’erano finestre

illuminate da guardare interpretando solitudini e litigi, mentre la

boccetta di vetro scuro attendeva stolta e ottusa il suo destino.

Chi sei tu, Sara?

Una donna con un corpo che urla e una mente muta.

Una vecchia di cent’anni che tiene prigioniera una ragazza.

Una bambina piccola e spaventata dentro una cella di diffidenza.

Io non aprirò quella boccetta, pensò. O forse sì.

E se scegliessi una via di mezzo? Se l’aprissi e inghiottissi in una

volta tutte le maledette pillole, e magari aggiungessi il contenuto

delle scatole di antidolorifici di Massimiliano che sono ancora

nell’armadietto in bagno, e per sicurezza stendessi questo dannato

corpo nudo nella vasca con due bei tagli longitudinali lungo i polsi?

Se risolvessi il problema concedendomi al sonno e fregandolo per

sempre? Eccomi qui, mi vuoi? E prendimi, allora. Prendimi.

Amore mio, solo io so quanto sei bella, nessuno potrebbe

immaginarlo. È una stupenda metafora, no? Passiamo le giornate a

cercare la verità sotto la superficie, a interpretare segni per scoprire

la bruttezza, la finzione, il male che si nasconde dietro l’esteriorità, e

tu invece occulti il tuo splendore. Con quella voglia di apparire

insignificante, nascondendoti perfino allo specchio. Sei magnifica.

Nel corpo, nella pelle, nello sguardo. Nell’anima. Quanto sei bella,

amore mio.

Non era la prima volta che accarezzava quell’idea.

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