Speciale panettone
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SPECIALE PANETTONE
TUTTO QUELLO CHE AVRESTI VOLUTO
(O DOVUTO) SAPERE SUL VERO
PANETTONE
ARTIGIANALE
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Speciale Panettone artigianale
Autori dei testi
A cura di Gianfranco Lo Cascio
e della redazione BBQ4All Magazine e Gastronomicamente
Revisione
Rossella Neiadin
Impaginazione
Carlo Trono
Fotografie
Rossella Neiadin
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SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE:
tutta la verità sul grande lievitato delle feste
Fino a qualche anno fa il panettone era esclusivamente quello di balsa del supermercato,
da comprare solo perché “fa Natale”, da regalare ai parenti che avremmo preferito
non avere. Quello che poi ci fai colazione per i tre mesi successivi, tanto a occhio
è soltanto un Buondì più grosso, ma dopo aver imprecato per ogni candito di plastica,
tassativamente da scartare, con l’uvetta che ti si pianta nelle otturazioni e sa di posacenere
mediorientale.
Invece il panettone artigianale, quello vero, è fatto di farina, zucchero, tuorli freschissimi,
burro, uvetta, scorze di agrumi candite e lievito naturale costituito da pasta
acida e sale. Infatti cos’è un panettone lo decide
una legge della Stato, nel senso che se lo vuoi chiamare
così devi attenerti al Decreto Ministeriale del
16 Maggio 2017, che recita:
“La denominazione legale “PANETTONE” è
riservata al prodotto dolciario da forno a pasta
morbida, ottenuto per fermentazione naturale da
pasta acida, di forma a base rotonda con crosta
superiore screpolata e tagliata in modo caratteristico,
di struttura soffice ad alveolatura allungata
e aroma tipico di lievitazione a pasta acida.
I suoi ingredienti principali sono: farina di frumento;
zucchero; uova di gallina di categoria “A” o
tuorlo d’uovo (derivato da uova di gallina di categoria
“A”), o entrambi, in quantità tali da garantire non
meno del 4% in tuorlo; burro ottenuto direttamente
ed esclusivamente dalle creme di latte vaccino con
un apporto in materia grassa butirrica, in quantità
non inferiore 16%; uvetta e scorze di agrumi canditi,
in quantità non inferiore al 20%; lievito naturale
costituito da pasta acida; sale (compreso il sale
iodato). Sono invece ingredienti facoltativi: latte e
derivati; miele; malto; burro di cacao; zuccheri; lievito
(fino al limite dell’1%); aromi naturali e “natural
identici” (di sintesi ma uguali a quelli naturali n.d.r);
emulsionanti; conservante acido sorbico; conservante
sorbato di potassio.”
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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PRODOTTI SPECIALI E ARRICCHITI
Insieme alle versioni “classiche” vengono disciplinate anche le versioni “speciali
e arricchite”, cioè quelle con farciture, ripieni, glassature e decorazioni, che comunque
dovranno contenere almeno il 50% dell’impasto base. Tutte le variazioni dovranno
essere riportate in etichetta accanto alla denominazione riservata, così chi compra può
distinguere facilmente le caratteristiche del prodotto che lo differenziano dalla versione
classica.
“Il processo tecnologico della fabbricazione del panettone prevede le seguenti fasi
di lavorazione, anche fra loro accorpabili:
a) preparazione della pasta acida
b) fermentazione;
c) preparazione impasto con dosaggio ingredienti e aggiunta inerti (uvetta e
canditi) e impastamento;
d) porzionatura;
e) “arrotondamento della porzione della pasta (pirlatura)”, con deposizione dell’impasto
nello stampo di cottura;
f) lievitazione;
g) “scarpatura” (incisione a croce);
h) cottura;
i) raffreddamento;
j) confezionamento”
COSA SCRIVERE IN ETICHETTA
In tema di etichettatura, l’art. 8 DM 2017 è tassativo indicare gli ingredienti obbligatori,
facoltativi, e la presenza o assenza di uva passa, canditi, glassature o farciture.
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LE DIFFERENZE TRA PANETTONE
ARTIGIANALE E PANETTONE
INDUSTRIALE
La tradizione che abbraccia il Panettone è quella dei pani dolci popolari e dei più
ricchi pan “drogati” o “speziati”. Una famiglia che vede il pandoro e il nadalin di Verona
apparentati con lo strüdel e il bussolà bresciano, e ancora pan papale, pan giallo e
pan nociato per limitarci ai parenti più stretti. Una tradizione artigianale migrata dal
laboratorio-negozio all’industria vera nei primi del ‘900 grazie ai due giovani imprenditori
lombardi Angelo Motta e Gioacchino Alemagna.
Distinguere un panettone artigianale da uno industriale non è affatto semplice,
oramai pure sugli scaffali del supermercato sono comparsi i canditi blasonati e i
pistacchi di Bronte infilati nel panettone di fascia “premium” da GDO. E chi prima
girava col grembiule ancora sporco di farina ora sfreccia su una Lamborghini, poiché
la bottega di pasticciere ha fatto spazio alla catena di montaggio.
Se fino a qualche anno fa ci sembrava abbastanza semplice definire i criteri
(volume di vendita contenuto, originalità della ricetta, assenza di conservanti, impiego
di materie prime di qualità) con gli anni dobbiamo ammettere di aver sfiorato il cortocircuito,
per tutta una serie di fattori. Alcuni tra i prodotti artigianali preferiti si allontanano
sensibilmente dal profumo di sold out – tipico, fino a qualche anno fa- , mettendo
a disposizione il panettone praticamente sempre, spedibile a qualsiasi indirizzo
italiano e internazionale.
Se la legge per quanto riguarda i panettoni si limita alla denominazione di cui
sopra, c’è invece una legislazione abbastanza strutturata per definire ciò che è impresa
artigiana. Per sommi capi, l’impresa è artigiana quando:
• L’imprenditore artigiano si assume tutte le responsabilità e tutti i rischi non
solo gestionali dell’impresa, ma anche della produzione del prodotto “in
misura prevalente” (quindi deve essere costantemente, o quasi, in laboratorio);
• L’imprenditore artigiano può lavorare da solo oppure avvalersi di collaboratori
e dipendenti, sempre entro certi numeri: con sottili distinzioni di categoria,
non si possono superare in ogni caso i 40 dipendenti assunti (a condizione
che ci sia un numero minimi con contratto di apprendistato).
• Nessuna impresa può adottare la scritta “artigianale” , né come insegna né
come marchio, se non è iscritta nell’apposito albo.
La legge sull’artigianato, quindi, c’è. Ma quanti la applicano davvero?
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Stando alla succitata legge sull’impresa artigiana, dobbiamo ammettere che ben
pochi tra i nostri pasticcieri preferiti rispettano tutti i passaggi: a partire dalla grandezza
dell’azienda, passando per macchinari e… diciamola tutta: trovare in GDO gli
stessi panettoni che si fregiano di esser “freschi e naturali”, o ancora di trovarli in 3-4
punti di vendita parecchio competitivi… beh, fa pensare.
Ed ecco che si manifesta in tutta la sua potenza la crisi di identità del degustatore
di panettoni artigianali: cos’è veramente artigianale? Finora abbiamo chiamato
artigianale anche un prodotto che si fregia di essere tale perché proviene da una
tradizione pasticciera, da volti che utilizzano materie prime di altissima qualità ma
allo stesso tempo facendo economia di scala, raggiungendo cifre invidiabili e capaci
di far concorrenza ai supermercati, quantomeno nella loro fascia “premium” da 12-18
euro con candito pregiato e uvetta antani.
Riassumendo, possiamo dire che:
#01 Il prezzo basso dei panettoni industriali dipende dalle dinamiche della grande
distribuzione, dal costo inferiore del tempo lavoro di una macchina rispetto a
quello di un uomo, dalla necessità di standardizzare i processi, dalle economie
di scala, dalla durata più lunga. Non fate gli snob, però, quelli industriali sono
tutt’altro che panettoni di serie B. La gestione di prodotti a base di lievito naturale
su vasta scala è un vanto dell’industria italiana.
#02 Il prezzo alto di un panettone artigianale dipende dalla scelta degli ingredienti, da
uno spreco inevitabilmente superiore rispetto all’industria, dal costo elevato del
lavoro umano, dall’abilità tecnica e creativa del produttore, dall’esclusività della
ricetta quando c’è, e da un fattore che fa tutta la differenza del mondo, ovvero
l’estrema freschezza del prodotto.
Un panettone artigianale è sicuramente più fresco di uno industriale, ma dura
molto meno: l’ideale è consumarlo entro un massimo di dieci giorni dalla produzione,
anche se, ben conservato, può arrivare ad un massimo di 45-60 giorni di vita. Tenendo
a mente che perderà buona parte dell’umidità interna, che affiorerà inevitabilmente
sulla crosta bagnando la glassa, se presente. Sono i rischi che dipendono dell’artigianalità
del prodotto: chi acquista un panettone industriale a dicembre mette in conto
la possibilità di poterlo consumare fino a maggio, ma anche la probabilità a settembre
fosse già pronto.
Altra differenza fondamentale tra i due contendenti lievitati è rappresentata
dalla scelta delle materie prime. Un artigiano appassionato usa solo uova freschissime,
la farina calibrata per l’uso e il burro francese da centrifuga. Sono i dettagli che
ci aiuta a distinguere il buono dal cattivo, perché la qualità passa anche dall’uva e dai
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canditi di frutta. Raramente l’industria,
dovendo produrre tonnellate di impasti,
investe su materie prime sofisticate,
tendendo piuttosto a ridurre i costi con
ingredienti non necessariamente scadenti
ma di qualità media.
Ultima, ma non meno importante
differenza, la lievitazione. Un panettone
a norma di legge è realizzato sì
con lievito madre, ma un laboratorio
artigianale sottoporrà il suo panettone
a una lievitazione di 24, 48 o addirittura
72 ore, cosa che di rado avviene per un
panettone industriale, che può fermarsi
anche 30, sfruttando la tecnologia del
sottovuoto. Il risultato ottenuto dall’artigiano
sarà senz’altro un dolce più
leggero, soffice, digeribile, sebbene
in fabbrica si usi lievito naturale.
Trattandosi di prodotto fatto a
mano, ogni panettone avrà la sua carta
d’identità coi suoi segni particolari.
La cupola è più ambrata del resto
ma mai bruciata, la distribuzione di
uvetta e canditi è omogenea e ricca
nella superficie, ma altrettanto uniforme
all’interno.
L’alveolatura del panettone artigianale,
la trama di piccole cavità scavate
dalla laboriosità dei gas, è ben
distribuita, la fetta è giallo ocra, dovuto
all’utilizzo di un numero di tuorli maggiore
(può capitare, però, che l’uso di
uova di galline biologiche restituisca
un colore più tenue).
Il profumo di un panettone artigianale
è suadente ma non arrogante:
non sa di finto e soprattutto non
esce dalla scatola. Diffidate di aromi
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pungenti e artificiali che aggrediscono le narici anche a distanza, così come puzzette
acri di lievito.
Infine, il panettone artigianale è un cuscinetto sofficissimo grazie a un lievito
madre gestito con cura, che permette all’impasto di mantenersi umido e morbido,
ma soprattutto alla freschezza del prodotto. Mentre l’élite dei pasticcieri si concentra
sulla produzione di panettoni con data di scadenza piuttosto corta, l’industria è
costretta a buttar fuori scatole e scatole, che rimarranno appollaiate sugli scaffali
dei supermercati fino a 6 lunghissimi mesi. A consentire la conservazione di prodotti
che devono durare così a lungo, al netto del lievito naturale, sono dei conservanti
che prendono il nome di mono e digliceridi degli acidi grassi. Le suddette parole
“mostruose” descrivono in realtà degli additivi alimentari fatti di olio di cocco, palma,
colza, nonché di residui animali (corno, gelatine, collagene vario), che occorrono agli
impasti per “stabilizzarsi” e garantire una conservabilità da scaffale.
Si tratta di conservanti che esistono anche in natura e consentiti dalla legge, cercateli
per esempio tra gli ingredienti delle merendine, delle fette biscottate, degli snack
da forno. Senza arrivare a demonizzarli, va detto con chiarezza che tra un panettone
con i mono-digliceridi e un altro che deve la sua freschezza al solo fatto di essere stato
preparato pochi giorni prima, le differenze al palato si sentono eccome. E si vedono.
chemical corner
MONOGLICERIDE
DIGLICERIDE
Mono- e digliceridi degli acidi
grassi costituiscono degli additivi
alimentari, indicato anche con
le sigle E471 e E472. La miscela
è talora denominata gliceridi
parziali. Monogliceridi e digliceridi
sono presenti in natura in vari
oli di semi, ma a concentrazioni
troppo basse, pertanto l'utilizzo
nell'industria alimentare su larga
scala prevede una produzione
mediante reazione glicerolitica
tra trigliceridi (oli e grassi, anche
di origine animalie) e glicerina.
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SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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Le dieci regole del panettone perfetto
Come si riconosce un buon panettone tradizionale
artigianale? Attraverso 10 punti
chiave che ci aiutano a capire di più del
prodotto che abbiamo davanti. Si comincia
dall’esterno, ovvero dalla scatola.
#01 – GLI INGREDIENTI
La scatola non è soltanto un bell’involucro
che contiene il panettone. Possiamo già
avere alcune preziose indicazioni riguardo
alla qualità effettiva del dolce leggendo con
attenzione l’etichetta, in cui sono riportate
le percentuali d’ingredienti presenti nel prodotto.
Un buon panettone artigianale sarà
sicuramente privo di conservanti, aromi di
sintesi e emulsionanti. E un buon panettone
non sarà troppo pasticciato. Non basta
buttarci dentro ingredienti a caso per farlo
strano o ricco per forza. Un buon panettone
è anche molto semplice: all’assaggio
sarà più piacevole assaporare le sfumature
e le caratteristiche di tutti gli ingredienti
caratterizzanti.
#02 - LA SCADENZA
Deve essere breve. Un prodotto artigianale
senza conservanti ha una shelf life di 45-60
giorni. È sconsigliato degustarlo appena
fatto perché i canditi devono ancora rilasciare
i loro aromi, meglio aspettare 2-3 giorni
da quando è stato sfornato. Dopo i primi
15-20 giorni il prodotto artigianale vero
comincia inevitabilmente a perdere umidità.
#03 – LA FORMA
Il panettone ha una forma a base rotonda
e superficie a cupola, e presenta il caratteristico
taglio a croce, la “scarpatura”, che è
segno della corretta produzione del dolce.
Deve essere bello dritto e non deve uscire
troppo dal pirottino (non deve sembrare
un fungo, per intenderci). Può essere, nella
variante di tipo pinerolese, con la glassa
di nocciola e mandorle o di tipo milanese,
senza glassa.
#04 – IL COLORE
All’esterno il panettone ha il caratteristico
colore ambrato e dorato, mentre all’interno
la pasta deve essere di un giallo intenso. Il
colore più o meno giallo non indica la quantità
di tuorli utilizzati, ma la loro qualità: un
panettone con una pasta più gialla intensa
potrebbe sottolineare, ad esempio, che le
galline sono allevate seguendo una dieta
particolare. Se all’interno si presente pallido,
simile al pane, significa che è scarico
di burro, zucchero e uova.
#05 – GLI AROMI
L’odore del panettone appena aperto deve
sprigionarsi immediatamente, ma deve risultare
naturale. Si deve sentire il profumo di
uvetta, di arancia e di vaniglia Le zaffate di
alcol o di solfiti, utilizzati per inibire la formazione
di muffe, devono insospettirci. Se
percepiamo aromi stucchevoli e vanigliati
dalla distanza, vuol dire che c’è qualcosa
che non va.
#06 – LA CONSISTENZA
Una volta aperta la confezione bisogna
prestare attenzione al taglio. Quando si
taglia il dolce con un coltello seghettato a
lama lunga, il panettone non si deve sbriciolare.
Un panettone ben fatto ha una mollica
filata, con una tessitura sottile, soave. Non
deve essere né troppo umida, né troppo
asciutta. Fate una prova: strappate una porzione
di panettone con le dita. La mollica
deve “sfioccare”, deve filare. Se vi sembra
troppo umida e compatta, se quando
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la schiacciate non torna più su, è il chiaro
segnale che il panettone è ancora crudo.
La sofficità deriva sopratutto da due fattori:
1 utilizzo di un buon lievito madre, i cui
lattobacilli siano in grado di produrre molti
“polisaccaridi” che formeranno nell’impasto
del panettone una specie di gelatina a livello
microscopico, che tratterrà l’umidità rendendo
morbido il dolce per lungo tempo (è
lo stesso fenomeno che si ha nel latte dopo
la fermentazione dei lattobacilli: si forma
un materiale gelatinoso ovvero lo yogurt)
2 aggiunta di emulsionanti, come già detto
in precedenza. Il panettone da solo non
dura più di un mese, salvo che si introducano
altri additivi come gli enzimi, che non
devono essere indicati in etichetta (di cui
parleremo dopo).
#07 – GLI ALVEOLI
La struttura alveolare della fetta di panettone
è data dalle migliaia di bollicine di anidride
carbonica che si sono formate dentro
l’impasto. I “buchi”, per intenderci, devono
svilupparsi in senso verticale, devono avere
una forma ovaleggiante e salire verso l’alto.
Le caverne, quei fori grossi ed irregolari che
spesso troviamo nei panettoni artigianali,
possono nascere da una arrotondatura non
perfetta, con della farina o una sostanza
grassa lasciata in prossimità della chiusura
del bolo di pasta. Una sfera perfetta non
esiste, per cui la cella di lievitazione deve
sempre avere dell’umidità proprio per chiudere
al meglio la sfera preparata con l’arrotondatura
manuale o meccanica. L’impasto
deve inoltre essere perfettamente omogeneo,
l’impastatrice deve riuscire a mescolare
tutti gli ingredienti in modo da evitare
nell’impasto concentrazioni di alcune materie
prime. Un pezzo di burro non disciolto
porta facilmente alla formazione di una
caverna. L’aggiunta di grandi quantità di
“lievito” può portare ad una alveolatura “a
nido d’ape”, ma può anche causare la formazione
di caverne.
#08 – I CANDITI
In entrambe le versioni tradizionali (piemontese
e milanese) uvetta e canditi sono
imprescindibili. È importante vedere quanti
ce ne sono e di che qualità. L’uvetta deve
essere dolce e abbastanza grande (meglio
la californiana o l’australiana della turca), il
candito artigianale deve misurare dagli 8
ai 10 millimetri di lato e deve essere molto
morbido. All’assaggio, non dobbiamo sentire
solo di zucchero ma anche il gusto dell’arancia,
del cedro, che deve essere preponderante,
sinonimo di canditura artigianale di
qualità.
#09 – L’EQUILIBRIO
Ora abbiamo tutti gli elementi per capire
se stiamo per assaggiare un vero panettone
tradizionale artigianale. Il rispetto del
disciplinare e gli ingredienti sull’etichetta, il
colore ambrato e dorato all’esterno e giallo
all’interno, i profumi e gli aromi avvolgenti,
i canditi e gli alveoli, la mollica nella parte
interna dalla consistenza soffice che fila,
sono tutte caratteristiche che indicano un
sostanziale equilibrio del panettone.
#10 – IL SAPORE
Il sapore deve essere intenso, esplosivo. Si
devono sentire gli ingredienti caratterizzanti,
il burro, le uova, lo zucchero. Deve risultare
piacevole al palato. Non dobbiamo percepire
retrogusto acido, sintomo di un lievito
troppo forte.
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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LA CHIMICA ODOROSA:
aroma del panettone
La ricetta del panettone è costituita da tre componenti principali: impasto (contenente:
acqua, farina, uova, burro, lievito, zucchero e vaniglia), uvetta e scorza d’arancia
candita. Grazie agli innumerevoli composti presenti all’interno di queste componenti si
viene a creare il complesso ed inimitabile aroma del panettone.
Qui trovate una selezione di molecole rappresentative per ogni elemento del
panettone.
È possibile quindi individuare:
ESANALE – un’aldeide alchilica presente
naturalmente in molti estratti e utilizzata
nell’industria profumiera come aroma fruttato.
Questa molecola è presente nell’impasto
donandogli il tipico aroma floreale,
fresco e grasso
GERANIOLO – un alcol terpenico alifatico
naturalmente presente in molte piante, frutta
ed anche nell’uvetta (o uva sultanina) a cui
dona un caratteristico aroma floreale e dolce
Una curiosità chimica sul Limonene:
questa molecola è
presente in natura in forma chirale,
ovvero esiste in due diverse
conformazioni (dette enantiomeri),
molecole identiche in tutto,
salvo l'essere una l'immagine
speculare dell'altra tra loro non
sovrapponibili. Il "D-Limonene"
(in cui la "D" indica la conformazione
"destrogira") ha un aroma
di arancia, mentre il "L-Limonene"
(conformazione "levogira)
ha un aroma di trementina.
D-LIMONENE – un monoterpene ciclico
naturalmente presente negli agrumi
(difatti questo composto prende il nome
dal limone). È ovviamente presente anche
nella buccia d’arancia candita e conferisce
un aroma agrumato.
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IL LIEVITO MADRE: cos'è?
(Fonte: PH 4.1 Scienza e artigianalità della pasta lievitata di Giambattista Montanari, Chiriotti Editon, 2017)
Premessa: il lievito naturale o lievito madre è la base indispensabile per la produzione
del pane e di molti dolci tradizionali, come il panettone, pandoro e colomba, specialità
che si distinguono dalle altre proprio per un aroma specifico che solo i composti delle
fermentazioni secondarie, tipiche del lievito naturale, sanno dare.
Il lievito naturale è un impasto di acqua e farina, generalmente di frumento di grano
tenero, lasciato maturare nell’ambiente. Dentro questo impasto si riproducono spontaneamente
una popolazione di microrganismi, acidificando la pasta. Questa microflora,
che darà vita alla formazione del lievito naturale, è influenzata dalla carica batterica
delle materie prime (farina in primis), veicolo di batteri buoni, dalla composizione delle
materie prime e dalle condizioni ambientali (pH, temperatura, umidità). I batteri lattici
donano un’acidità caratteristica, mentre lo sviluppo combinato di batteri lattici e lieviti
determina la produzione di anidride carbonica, lo sviluppo del sapore distintivo e la formazione
di sostanze che influenzano la struttura della mollica e il valore nutrizionale
del prodotto. Gli attori principale nel lievito naturale sono quindi lieviti e batteri lattici,
che danno vita a una cooperazione (tra blastomiceti o lieviti e batteri lattici) che permette
di ottenere un beneficio comune, chiamata anche “associazione mutualistica”.
IDROLISI
In senso generico, è la reazione di scissione prodotta dall’acqua.
LIEVITO NATURALE
Si tratta di un impasto a base di farina di grano tenero (ma anche di altri cereali) e
acqua, che determina uno sviluppo spontaneo di popolazioni microbiche (lactobacilli) e
fungine (lieviti) e mantenuto attivo attraverso una serie di rinfreschi. Protagonista assoluto
nella produzione di grandi lievitati da ricorrenza.
PASTA ACIDA
Prodotto ottenuto dalla fermentazione della farina con batteri lattici. Abitualmente
si chiama pasta acida la pasta di riporto del giorno prima, ma non è molto corretta come
denominazione perché dentro ci sono pure i lieviti.
LIEVITO DI BIRRA
Cellule viventi per lo più di Saccharomyces cerevisiae, che vengono impiegate nella
panificazione e nella pasticceria da colazione.
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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I lievitati prodotti con lievito naturale, rispetto a quelli ottenuti con lievito di birra,
si comportano diversamente, così come sono diversie le caratteristiche, decisamente
migliori; su tutti una maggior digeribilità e conservabilità, ma non solo.
Ad esempio:
• Tempi di fermentazione e lievitazione diversi
• Comportamento diverso a seconda delle temperature e della consistenza
dell’impasto
• Effetto dell’acidità sull’impasto
A cosa è dovuta la maggior conservabilità? All’acidità che si sviluppa e che dà vita,
appunto, ad un ambiente acido, idoneo per i lieviti che sono acidofili, ossia, organismi che
amano vivere e riprodursi in questa condizione. Allo stesso tempo, l’acidità inibisce la proliferazione
di altri microrganismi come le muffe, e influisce su un processo naturale che
determina il raffermamento di un prodotto. Questo processo è conosciuto come retrogradazione
dell’amido. L’ambiente acido tipico delle lievitazioni naturali ritarda questo
processo allungando la shelf-life e di conseguenza la morbidezza del prodotto stesso.
E la maggior digeribilità? È dovuta alla durata prolungata del processo di fermentazione
dei prodotti a lievito naturale, che favorisce una maggior azione degli enzimi
proteolitici che trasformano le proteine del glutine in elementi più semplici, gli aminoacidi.
La presenza di batteri lattici fa sì che i prodotti fatti con lievito naturale siano più
digeribili anche perché distruggono l’acido fitico, un prodotto contenuto nelle farine e
potenzialmente dannoso per noi, responsabile del mancato assorbimento di certi minerali
come calcio, zinco, ferro e altri nutrienti.
Quando al termine di un ciclo produttivo, il lievito naturale viene messo a riposare
(un processo purificatore con lo scopo di avere la mattina seguente un pezzo di pasta
sana da cui ripartire), si identifica come lievito madre, proprio perché come una madre,
dà vita alla formazione di altri microrganismi, formando di fatto nuovo lievito naturale.
È per questo che parlare di lievito madre secolare non ha senso: conservare una madre
per 100 anni testimonia l’abilità del “lievista”, ma le madri di 50 o 100 giorni o di 50 o
100 anni, sono matematicamente diverse.
Il lievito di birra o lievito compresso può definirsi un lievito naturale? No, perché
pur avendo una popolazione di lieviti appartenenti alla stessa famiglia, Saccharomyces
cerevisiae, non può essere definito tale perché non è presente la componente batterica,
i lactobacilli. La legislatura italiana, però, permette che pane, grissini, fette biscottate e
altro, prodotti sì con lievito di birra ma che nel processo di lavorazione vanno incontro
ad una acidificazione, possano essere etichettati come prodotti con lievito naturale.
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L’uso del lievito naturale, se da una parte migliora le caratteristiche organolettiche
di un prodotto, dall’altra necessita di un metodo produttivo con modi e tempi diversi, così
come diverso è il processo di fermentazione. Questo è uno dei motivi per cui non si fa
il panettone in maniera diretta ad un unico impasto ma a due impasti (o persino 3), con
tempi di fermentazione ben definiti. Il lievito naturale è, infatti, responsabile di un processo
di fermentazione piuttosto lungo mentre il lievito di birra, impiegato nel metodo diretto
o indiretto con uso di poolish, biga o pre-impasto, è un metodo più semplice e breve.
VANTAGGI DEL LIEVITO NATURALE
+
+
MAGGIOR DIGERIBILITÀ:
• Presenza di lattobacilli che favorisce la trasformazione delle proteine in elementi
semplici (aminoacidi)
• Mancata formazione di acido fitico, che impedisce all’organismo di assorbire
gli oligoelementi
MAGGIOR CONSERVABILITÀ:
• L’ambiente acido rende inadatta la proliferazione di microrganismi potenzialmente
dannosi
• La forte presenza di acido lattico rallenta, o addirittura inibisce, la formazione
di muffe
• Retrogradazione dell’amido e successivo raffermamento rallentato
+
PRODOTTO PIÙ SOFFICE E MORBIDO
PRODOTTO PIÙ PROFUMATO, FRAGRANTE E GUSTOSO.
UNICITÀ DEL GUSTO
SVANTAGGI DEL LIEVITO NATURALE
-
-
PROCESSO PRODUTTIVO E CON TEMPI DI FERMENTAZIONE PIÙ LUNGHI
DIFFICOLTÀ DI STABILIZZAZIONE
RISCHIO DI CONTAMINAZIONE, E DIFFICOLTÀ A MANTENERE COSTANTE
LA POPOLAZIONE DEI MICRORGANISMI
COSTI PIÙ ALTI DI MANODOPERA
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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LA FERMENTAZIONE
La fermentazione è un processo chimico che trasforma gli zuccheri in gas (anidride
carbonica), in misura minore alcool (etanolo) e acidi organici, prevalentemente
acido lattico e acido acetico. I prodotti realizzati con lievito naturale presentano due
tipi di fermentazioni: la fermentazione alcolica, che è alla base della produzione delle
principali bevande alcoliche, ma anche dei prodotti da forno, pane, pizza, lievitati, e la
fermentazione lattica.
La fermentazione alcolica, nei lievitati, trasforma l’amido presente nell’impasto
in etanolo e anidride carbonica. L’etanolo evapora durante la cottura, mentre l’anidride
carbonica innesca la lievitazione.
Nella fermentazione lattica, che come ogni altra fermentazione avviene in assenza
di ossigeno, il glucosio viene convertito in acido lattico.
La fermentazione lattica è fondamentale e responsabile di:
#01 Gusto e profumo
Durante la cottura, gli acidi organici (fermentazione lattica) interagiscono con l’etanolo
(fermentazione alcolica) dando vita ad una serie di sostanze aromatizzanti,
per lo più volatili, che conferiscono al prodotto finito sapore e profumo unici. Ecco
perché un prodotto fatto con lievito di birra profuma meno, ha meno sapore e
meno conservabilità di un prodotto ottenuto con lievito naturale.
#02 Conservabilità del prodotto
È legata direttamente alla qualità della fermentazione lattica, infatti se la produzione
di acido lattico e acetico rispetta il rapporto di 3:1 (considerato 100 l’acidità
totale un buon lievito avrà 60% acido lattico, 20% acido acetico, 20% altri acidi
organici), gli acidi influenzano positivamente il prodotto finito, favorendo una conservazione
maggiore. L’acido lattico inibisce in maniera esponenziale l’insorgere
di muffe e un essiccamento veloce.
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La fermentazione è un processo metabolico fondamentale negli organismi che lavorano in ambiente anaerobico
(in assenza di ossigeno) per rigenerare il NAD (nicotinammide adenina dinucleotide), un coenzima
ossidoriduttivo che partecipa alle reazioni di ossidazione e riduzione, in particolare a quelle relative alla
glicolisi, fondamentale per la produzione di energia a partire dal glucosio. Poiché il NAD è presente nelle
cellule in una quantità limitata rispetto al numero di reazioni nelle quali è coinvolto, è necessario rigenerare
continuamente il coenzima cedendo i due elettroni e il protone acquisiti durante la glicolisi attraverso l'azione
di altri enzimi. Negli organismi animali pluricellulari, gran parte del NADH+H viene riportato alla forma
ossidata durante la respirazione cellulare (quindi in presenza di ossigeno) producendo ulteriore energia
metabolica. Negli organismi monocellulari, avvengono altri processi di rigenerazione: i Lactobacilli utilizzano
la fermentazione lattica, i Saccharomyces adoperano quella alcolica, gli Acetobacter trasformano l'etanolo
in acido acetico, il Clostridium acetobutylicum produce acetone, i Propionibacterium danno luogo alla fermentazione
propionica.
chemical corner
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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GLI AIUTINI
o "coadiuvanti" della lievitazione
I coadiuvanti alla lievitazione per i prodotti lievitati, è così che si chiamano tecnicamente
gli “aiutini”, sono diventati col tempo sempre più determinanti, al punto che
il mercato si è riempito di pozioni più o meno miracolose che promettono panettoni
sempre morbidi e perfettamente lievitati. Oggi mantenere soffice un prodotto e dargli
più shelf-life è più facile di un tempo, e questi risultati si possono ottenere in più modi.
MALTO
Con il termine “malto” non s’identifica un prodotto presente in natura, ma il “figlio”
di un processo di germinazione che vede coinvolti i cereali, in primis orzo, ma anche
frumento, mais e riso. Generalmente ci si riferisce al malto d’orzo, che è il cereale naturalmente
più ricco in fibre, vitamine ed elementi salutari.
Come si produce il malto?
Attraverso la maltazione.
Si comincia immergendo l’orzo (o altri cereali) in acqua tiepida, i semi così idratati
vengono poi stesi in locali areati a temperature miti e umidità elevata, in modo da indurre
il chicco ad attivare gli enzimi presenti nel chicco stesso, e poi a germinare e cominciare
lo sviluppo della radichetta. Quando il germoglio si trova nel pieno del processo
germinativo e ha raggiunto la misura giusta, viene bloccato per passare alla seconda
fase, l’essiccazione.
Essiccazione
Serve per portare al giusto grado
di umidità il chicco maltato e renderlo
così idoneo alla macinazione. Tutto questo
avviene scaldando i semi a 40°C per
circa 48 ore, in modo da salvaguardare
l’attività enzimatica all’interno del chicco.
Bloccando la germinazione si bloccano
tutti i processi chimici, permettendo di
ottenere dei chicchi ricchi di enzimi e
zuccheri semplici, poveri di umidità e
facilmente conservabili, che trasformeranno
l’amido in zuccheri semplici, come
fonte di nutrimento in vista della crescita
di una spiga che non crescerà mai.
A questo punto del processo produttivo,
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possiamo parlare di malto d’orzo o di frumento. Macinando il malto d’orzo si ottiene la
farina di orzo maltata, macinando il malto di frumento si ha la farina di frumento maltato.
La farina di malto, che viene utilizzata prevalentemente nella panificazione (dove
per molti è un sostituto dello zucchero e impiegato per dare colore) in realtà serve a
migliorare la lievitazione essendo ricca di enzimi ma povera di zuccheri semplici, che
deve trasformare dall’amido. Questo determina un processo lievitativo inizialmente più
lento, ma successivamente più veloce. Contribuisce ad asciugare maggiormente la crosta
esterna di un prodotto, rendendolo più friabile all’esterno e più morbido all’interno.
L’uso scellerato può provocare un’eccessiva colorazione esterna e il rischio di sfornare
un prodotto meno cotto all’interno.
Potere diastasico (metodo
Pollak): si definisce "potere
diastasico" la quantità in grammi
di maltosio prodotta da 1 kg di
farina o di estratto di malto, per
saccarificazione di una soluzione
di amido in 30 minuti a 40 °C.
La farina di malto, grazie alla presenza enzimatica, permette la scissione degli amidi
in zuccheri e destrine. Gli zuccheri sono solubili (e sono utilizzabili come nutrimento dai
lieviti e dai lattobacilli), così come le destrine a basso peso molecolare.
Estratto di malto
Si ottiene partendo come base da una farina di malto, ma intervenendo sulle caratteristiche
e la funzionalità.
L’estratto di malto può essere diastasico o non diastasico. Quello diastasico contiene
una quantità importante di diastasi, l’insieme degli enzimi propri del malto d’orzo
(alfa e beta amilasi, emicellulasi, proteasi) in grado di trasformare il maltosio in glucosio.
Per capire quanto le diastasi siano importanti, ricordiamoci
che l’attività sia dei lieviti, sia dei batteri lattici è determinata
dalla presenza di zuccheri semplici, i quali, soprattutto
se la fermentazione è lunga come in un grande lievitato,
tendono a diminuire gradualmente, rallentando la
lievitazione ed aumentando l’acidificazione. Aggiungendo
estratto di malto diastasico, facciamo sì che le beta amilasi
(gli enzimi presenti in quantità maggiori) demoliscano
l’amido producendo maltosio e compensando così gli zuccheri
metabolizzati dal lievito durante la fermentazione.
La percentuale di maltosio in eccesso contribuisce alla
Reazione di Maillard e quindi al colore finale del prodotto.
L’estratto di malto non diastasico, non avendo enzimi,
contribuisce solo con la percentuale di zuccheri presente
e per questo non innesca lievitazioni che si fanno notare,
poiché la percentuale di zuccheri disponibili per la Reazione
di Maillard diminuisce col progredire della fermentazione.
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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Come suggerito nel fantastico libro “PH 4.1, Scienza e artigianalità della pasta lievitata”
di Giambattista Montanari, aggiungere farina di malto è come invitare a cena
una persona, farla sedere e aspettare che lo chef cominci a cucinare, per poi trovarsi
improvvisamente con la tavola piena di cibo. Con l’estratto di malto diastasico arriviamo
sempre a cena, solo che in cucina ci sono trenta chef (gli enzimi) che hanno cucinato
(zuccheri) e sono pronti a cucinare per noi (i microrganismi), così da trovare la tavola
imbandita, ma soprattutto, non veniamo mai lasciati senza cibo, visto che finito un piatto,
ne viene servito un altro.
FOSFOLIPIDI
I fosfolipidi sono un elemento fondamentale delle strutture cellulari. Sono lipidi
complessi perché costituiti, oltre che da carbonio, idrogeno e ossigeno (come i lipidi
semplici), anche da fosforo e da azoto. Agiscono come emulsionanti grazie ad una
caratteristica unica: la presenza di una testa polare o comunque carica elettricamente
definita idrofila (in grado di legare l’acqua) e una coda apolare definita idrofoba o lipofila
(che lega i grassi). Questa loro struttura, chiamata anfifilica, cioè a doppia funzione,
permette a due fasi, immiscibili tra loro, di creare una miscela stabile conosciuta come
emulsione. Pur essendo naturalmente presenti in tutti i lipidi, si estraggono dai vegetali
come il girasole e la soia.
I fosfolipidi si suddividono in due categorie: fosfogliceridi e sinfofosfolipidi.
Ai fosfogliceridi appartengono le lecitine usate in pasticceria per
le loro proprietà emulsionanti. Le lecitine (dal greco lekitos = tuorlo) sono
estratte quasi esclusivamente dalla soia e dal girasole. Le lecitine hanno
e avevano un problemino, dovuto allo squilibrio tra l’attività lipofila (legare
la parte grassa), che prevale, e l’attività idrofila (legare la parte acquosa),
limitandone le capacità emulsionanti. Questo “difetto” ha permesso nel
tempo la diffusione dei mono e digliceridi degli acidi grassi, di cui parleremo
dopo, che sono risultati più idonei a conservare un prodotto finito
per lunghi periodi. Per capire meglio il potere emulsionante della lecitina
basta analizzare il valore che esprime il bilanciamento tra la parte idrofila
e quella lipofila. Questo rapporto prende il nome di HLB (acronimo di
Hydrophylic-Lipophylic-Balance) ed è il rapporto tra il peso molecolare
della parte idrofila e quella lipofila. Analizzando questi valori la lecitina, in
una scala da 1>12, ha un valore di 4, i mono di 8.
In natura si poteva trovare qualcosa di simile ai mono e digliceridi?
Sì, i liposomi. Sono costituiti da fosfolipidi, l’insieme dei principi attivi delle
lecitine, a struttura liposomica, ovvero strutturati in aggregazioni che racchiudono una
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molecola d’acqua. La struttura liposomica è sferica e/o lamellare
a doppio strato fosfolipidico. Questo vuol dire avere una
doppia presenza di emulsionanti racchiusi attorno a una fase
acquosa “combinata”, che rappresenta e caratterizza le funzionalità
delle strutture liposomiche.
Questa struttura migliora l’attività emulsionante ed emolliente
permettendo di agire prevalentemente nei confronti
della parte idrofila legando acqua in quantità simili ai mono
digliceridi. Non per niente il valore di riferimento nella valutazione
HLB è di 8, esattamente come i mono. Lo scopo è quello
di legare una maggior quantità d’acqua da liberare in un secondo momento, quando
per effetto dell’invecchiamento parte dell’umidità presente fuoriesce ottenendo così un
allungamento della shelf-life.
MONO E DIGLICERIDI DEGLI ACIDI GRASSI
Inizialmenti utilizzati nella produzione di margarine, possiamo individuarli nei prodotti
da forno e nei gelati, dato il loro potere emulsionante o volumizzante. In pratica
li troviamo in:
• margarine
• gelati industriali e non
• prodotti di pasticceria
• surrogato di cioccolato
• grandi lievitati
Generalmente, con il termine mono e digliceridi, si tende ad identificare un prodotto
unico, anche se in realtà comprende due categorie: gli E471 e gli E472. Per legge
sono considerati additivi e per questo identificati con sigla e numero. Se li analizziamo
da un punto di vista chimico ci accorgiamo che sono prodotti noti al nostro sistema
metabolico (ad eccezione di E472 che in natura non esiste), infatti quotidianamente
attraverso l’alimentazione riceviamo trigliceridi, costituente base dei lipidi e presenti in
grassi e olii, formati da una molecola di glicerolo legati a tre acidi grassi, formando una
sorta di “E”. Se a tale struttura togliamo un acido grasso abbiamo un digliceride; se ne
togliamo due, un monogliceride.
Cosa li rende così efficaci? Il loro potere nasce dalla trasformazione che il trigliceride
subisce per diventare mono o di-gliceride: il glicerolo, molecola a cui sono legati i tre acidi
grassi, è a differenza di quest’ultimo idrosolubile, quindi quando alla struttura trigliceride
vengono a mancare uno/due acidi grassi, la sua affinità con l’acqua aumenta. È proprio
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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questo che accresce le capacità emulsionanti dei mono, rendendoli largamente utilizzati
in campo industriale per la loro capacità di tenere unite due fasi distinte: acquosa
grazie al glicerolo e lipidica grazie agli acidi grassi. A questo punto il mono o digliceride,
privato di uno due acidi grassi, aumenta la capacità di legare acqua, rendendo i prodotti
morbidi e a lungo. Se a questo aggiungiamo il basso costo di estrazione, è facile capire
perché sono così diffusi.
I modo e digliceridi degli acidi grassi sono naturali?
Abbiamo detto che, tranne l’E472, i mono e digliceridi si formano in modo naturale,
ma attraverso una scissione enzimatica naturale causano un processo peggiorativo del
prodotto: l’irrancidimento degli oli. In questa fase, disgregandosi o disunendosi dal resto
della struttura trigliceride, si vengono a trovare acidi grassi liberi di vagare all’interno del
prodotto, che conferiscono un sapore decisamente sgradevole.
Sono pericolosi per la salute?
Da un punto di vista tossicologico, assolutamente no. Ciò che non è possibile stabilire
a priori, e quindi conoscere, è la percentuale di acidi grassi saturi, insaturi e idrogenati.
A questo dato, non proprio incoraggiante, possiamo aggiungere le fonti da cui
vengono estratti:
• oli di scarsa qualità come olio di cocco e olio di palma.
• scarti animali (scarti della macellazione come corna, unghie e grasso)
L'AROMA PANETTONE
È generalmente una miscela di oli essenziali di agrumi,
aromi, olio di girasole, etanolo, triacetato di glicerile (un
umettante), propilenglicole (serve per diluire e disperdere
gli aromi) e curcuma, che serve a colorare il panettone di
giallo. Si aggiunge all’impasto per caricarlo di profumi agrumati
e vanigliati, oltre a donare una tinta ocra alla mollica.
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PANETTONE ARTIGIANALE
il processo produttivo step by step
(Fonte: PH 4.1 Scienza e artigianalità della pasta lievitata di Giambattista Montanari,
Chiriotti Editon, 2017)
01. IMPASTAMENTO
Lo scopo principale dell’impastamento è quello di formare la struttura che dovrà
reggere l’intero prodotto, ovvero il glutine.
Impastare correttamente vuol dire:
• Essere in grado di valutare quando l’impasto è lavorato poco, quando è il
momento di aggiungere l’ingrediente successivo, se si sta scaldando. Questi
sono i momenti critici che possono compromettere la riuscita dell’impasto.
• Permettere alle proteine delegate alla formazione del glutine (gliadine e glutenine)
di idratarsi a sufficienza, assorbire energia dall’azione della macchina
impastatrice (a braccia tuffanti o spirale) e quindi formare una maglia glutinica
salda e resistente, su cui si reggerà la struttura del prodotto finito. Un impasto
lavorato poco o male svilupperà un glutine debole e con poca capacità contenitiva
nei confronti sia dei gas prodotti dalla fermentazione, sia degli altri
ingredienti, in particolare i grassi.
LE 7 REGOLE PER UN IMPASTO PERFETTO:
1. Iniziare sempre un impasto a bassa velocità per permettere una migliore idratazione
e la formazione di una maglia glutinica più coesa.
2. Prima di incorporare lo zucchero è opportuno aver “incordato” bene l’impasto,
ossia aver sviluppato una buona maglia glutinica. Questo per due motivi:
lo zucchero, per effetto dello sfregamento dei granelli con la macchina che
impasta, crea delle micro lacerazioni alla maglia glutinica, che normalmente
si saldano subito, ma che in presenza di una scarsa qualità della farina potrebbero
dare piccoli problemi in lievitazione. Inoltre dobbiamo ricordare che lo
zucchero rende la struttura glutinica più debole, e questo significa tempi d’impastamento
più lunghi.
3. Prestare la dovuta attenzione al momento in cui si aggiungono i grassi, da
questo dipende il risultato finale. Se venissero aggiunti troppo presto, ovvero
quando la maglia glutinica non è ancora perfettamente coesa, i legami proteici,
indispensabili per la formazione del glutine, verrebbero parzialmente
impediti, creando problemi di tenuta dell’impasto. Al contrario, se inseriti correttamente,
a fine impasto per intenderci, i grassi migliorano la lavorabilità e
l’estensibilità della pasta. Come per lo zucchero, prima d’inserirli verificare la
tenuta della maglia.
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4. Per evitare inutili rotture e riformazione della maglia, aspettare sempre che un
ingrediente sia stato assorbito prima di passare a quello successivo.
5. Il sale, pur essendo presente in quantità minime, va unito all’impasto nel
momento giusto. Se aggiunto subito, rende la pasta molto più tenace, che
tende a strapparsi e lievitare lentamente. Se messo troppo tardi, si avranno
problemi di distribuzione, mentre aggiunto a metà impasto, dopo una mezz’oretta,
aumenta l’estensibilità, non interferisce coi lieviti e migliora l’inserimento
successivo del burro.
6. Attenzione alle temperature finali dell’impasto. Se superiori ai 28°C, si ha un
allentamento della maglia, sotto i 24°C, una difficoltà di lievitazione.
7. Controllare lo stato della maglia con la prova del velo: se si riesce a tirare la
pasta fino a farne un velo, è segno che l’impasto si è formsato bene.
02. PUNTATURA, SPEZZATURA e FORMATURA
Conclusa l’operazione dell’impastamento si passa alla fase che viene chiamata
di puntatura, ossia la messa a riposo, in cella di lievitazione o a temperatura ambiente,
dell’intera massa. Quest’operazione non comporta grossi aumenti di volume della pasta,
ma la prepara per la successiva fase di lievitazione. Possiamo dire che un impasto che
ha puntato, lievita meglio rispetto ad uno che non lo ha fatto. Questa fase ha tempi
diversi, in base al tipo di lievito usato e alla macchina che è stata usata per impastare.
Nel caso dei grandi lievitati, come il panettone, molti operatori hanno l’abitudine di
spezzare subito la pasta e far puntare i singoli pezzi. Una volta spezzato l’impasto gli si
fa fare la pelle a temperatura per 15/20 minuti per poi formare o pirlare (arrotondare)
in via definitiva e mettere nello stampo di carta, il pirottino.
03. LIEVITAZIONE
Fase che serve alla pasta per raggiungere il volume giusto prima della cottura. La
temperatura influenza non solo la velocità di lievitazione, ma pure la struttura alveolare
del prodotto finito. Nel caso del panettone, mettere a lievitare a 27°/28°C rappresenta
una buona soluzione per avere un’alveolatura omogenea e regolare, senza “crateri”
troppo grandi. Una temperatura superiore ai 30°C innesca una lievitazione più accelerata
e produce alveoli eccessivi, mentre sotto i 26°C si formeranno alveoli omogenei,
regolari ma piccoli.
Come sostenuto da Leonardo Di Carlo, illustre pasticciere, consulente e formatore,
il panettone è fatto anche di compromessi: se da una parte si ottiene un’alveolatura
meno pronunciata, dall’altra si ha un consumo minore di zuccheri, con relativa sensazione
di maggior dolcezza e maggior conservabilità. C’è da dire che negli ultimi anni i
pasticcieri preparano gli impasti in maniera da poterli lasciar lievitare 12/14 ore a 20°C,
prima di cuocerli, con risultati apprezzabili.
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04. COTTURA
È risaputo che i lieviti rimangono attivi per un certo periodo dopo l’inizio delle operazioni
di cottura (fino al cuore del prodotto), contribuendo così ad un maggior sviluppo
del panettone. Iniziare la cottura del prodotto ad una temperatura di 20°/30°C più bassa
del dovuto, per poi assestarsi su quella ottimale a metà cottura, vuol dire ritardare la formazione
della crosta superficiale, mantenere vivi i lieviti più a lungo, avere un prodotto
più sviluppato. È importante però non esagerare con partenze a temperature molto
basse, associate a prodotti infornati molto giovani, perché si formerebbero alveoli molto
grandi, soprattutto nella zona sotto la crosta esterna, che potrebbero formare bolle o
crepe. Una pratica usata nel pane ma utile nella cottura dei grandi lievitati, è dare un
po’ di vapore, 3/5 secondi, ad inizio cottura. Questo contribuisce a ritardare l’insorgere
della crosta e facilita un miglior sviluppo. Abbiamo parlato di cottura, non possiamo non
parlare di temperature di cottura. Come per tutti i cibi, è fondamentale verificare la temperatura
al cuore, che nel caso del panettone deve essere di 93°/94°C.
DEBUNKING: il panettone sempre morbido…
anche con etichetta pulita!
Intervista di Nunzia Clemente a Valentino Tafuri del Pizzificio 3 voglie di
Battipaglia (SA)
Abbiamo chiacchierato a lungo sulla questione con Valentino Tafuri, patron del
pizzificio 3 Voglie a Battipaglia (SA), tecnico dei lievitati nonché docente della scuola
di cucina In Cibum, Scuola di Alta Formazione Gastronomica con sede a Pontecagnano
Faiano (SA), che propone formazione sia per novizi che per professionisti del settore in
cerca di giusti aggiornamenti. Valentino parla sì da tecnico, ma anche da professionista
e proprietario di un’attività che ha un buon appeal sul mercato e che, quindi, è anche un
modello per le aziende che cercano di “piazzare” prodotti: quello che comunemente si
chiama, insomma, “imprenditore di successo”.
A Valentino abbiamo chiesto poche cose e precise: quali sono gli “aiutini” (coadiuvanti)
più utilizzati in panificazione, il perché del loro utilizzo, come utilizzarli senza indicarli
per forza in etichetta.
I “sacchi magici”: mix e starter
Chi vi sta parlando, adesso, è il Valentino che ogni giorno va in laboratorio e (quasi)
ogni giorno si ritrova a fare i conti con proposte di aziende molto quotate. Proposte che
si presentano sotto forma di sacchi magici che si propongono di semplificare il lavoro
di panificazione (processi più veloci e facilità di delega ai collaboratori), un’alta personalizzazione
dei prodotti (risultati uniformi) e la diversificazione dell’offerta (come, ad
esempio, la facilità di gestione di richieste complesse in tempi relativamente ridotti).
Insomma: sacchi magici, per davvero!I produttori di questi mix o starter non dicono
certamente bugie: l’utilizzo di questi preparati possono facilitare di molto il lavoro di un
panificatore che si ritrova, senza di essi, a lavorare molte e molte più ore al giorno, oltre
ad uno studio incessante e cura del proprio lievito madre.
Cosa contengono questi mix e starter?
Mix e starter sono preparati secondo precise proporzioni chimiche e scientifiche,
spesso con studi durati molti anni da esperti, prima di proporre sul mercato prodotti
che danno risultati “infallibili”. Parliamo di prodotti studiati davvero al millimetro. Al.
Millimetro. Niente è lasciato al caso.
Infallibili, sì, ma a quale prezzo? A parte il costo elevato, ma… cosa c’è dentro
questi preparati?
Ho stilato per voi una lista delle componenti più comuni di mix e starter. Cioè quelle
componenti che al 90% vi ritrovereste all’interno di un mix o starter per panificazione
proposto dalle grandi aziende.
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Lievito madre essiccato: e qui c’è il primo problema, perché da che mondo e mondo
il lievito madre è un prodotto vivo e per poter avere funzioni lievitanti deve essere composto
anche dall’acqua in percentuali al 40% in stato solido e 100% se mantenuto
liquido (cosiddetto “Licoli”).
Lievito di birra secco: invece, qui, la risoluzione del “problema” di sopra. Queste
miscele che promettono prodotti con lievito madre senza aver la minima capacità di
gestirla, utilizzano il lievito madre essiccato per dare un minimo di profumo e sentore
al prodotto e il lievito di birra secco per farlo lievitare;
Enzimi. Ecco, qui c’è il vero problema normativo. Gli enzimi possono essere considerati
additivi o coadiuvanti di processo a seconda che siano attivi o meno nel prodotto finito.
Nella panificazione, i fornitori di enzimi confermano che il calore causato dalla cottura
nel processo di panificazione tradizionale li rende inattivi, con una differenza con
le α-amilasi batteriche, più resistenti alle temperature. In ogni caso, con le temperature
da panificazione, tutte le α-amilasi tendono a disattivarsi, solitamente a 70°C secondo
le dichiarazioni dei produttori. Da questo, possiamo facilmente dedurre che gli enzimi
sono quindi considerati come ingredienti non soggetti a etichettatura, ma coadiuvanti di
processo che ne sono esentati, in accordo con la disposizione della normativa Europea
(Normativa EU n. 1169/2011 sulle disposizioni delle informazioni alimentari ai consumatori).
Andiamo a vedere più da vicino quali sono gli enzimi utilizzati? Amilo-glucosidasi,
α-amilasi maltogenica, xilanasi, lipasi, glucosiossidasi, protease, trans-glutaminasi.
Nomi difficili che “nascondono” dietro di essi delle proprietà notevoli, per chi deve
panificare e dichiarare allo stesso tempo etichette pulite. Parliamo, nell’ordine, del
miglioramento della fermentazione dell’impasto e della produzione di gas, miglioramento
dell’impasto e “rafforzamento” della mollica, rafforzamento della maglia glutinica,
aumento dell’estensibilità della pasta, aumento di volume del nostro lievitato,
colorazione dell’interno nonché della crosta.
Emulsionanti: Mono e digliceridi degli acidi grassi (E471)
Arriviamo al dunque, i tanto temuti “mono e di”, come li chiamano gli amici. Cosa
fanno, nello specifico? Amalgamano e donano morbidezza al prodotto per evitare che
si indurisca e perda la sua freschezza; interagiscono con la molecola di amilosio dell’amido.
Questi bisogna necessariamente dichiararli in etichetta.
Esteri acetici dei mono e digliceridi degli acidi grassi (E472e oppure f)
Migliorano la tenuta dell’impasto e conferiscono maggiore spinta in fase di cottura,
interagiscono con le proteine del glutine.
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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Stearoil lattilato di Sodio o di Calcio, E481 o E482
Mantengono la fragranza, la morbidezza e l’umidità interna dei prodotti. Assicurano
una mollica regolarmente e finemente alveolata e aumentano la shelf life del prodotto
finito. Interagiscono con le proteine del glutine e l’amilosio.
… e come si fa ad avere l’ “etichetta pulita”?
Avrete ben capito, dalla lista – lunga, ma ci sarebbe ancora molto altro da aggiungere
– che gli enzimi (data la loro natura termolabile, ossia tendono a ridursi in percentuali
così minime da essere considerati “non etichettabili” dalla legge) permettono di
personalizzare un panificato in volume, colore, shelf life, crosta e mollica senza intaccare
l’etichetta.
Mi spiego meglio: se scelgo di utilizzare un mix che prevede i “soli” enzimi, non
devo modificare l’etichetta in alcun modo, secondo la legge.
Oppure, per spiegarmi ancora meglio: le aziende propongono i loro prodotti proprio
secondo “l’etichettabilità” del mix scelto.
Nei ricettari vari (sì: insieme al prodotto, vi vendono anche i ricettari!), vengono indicati
quali mix possono essere “omessi” dall’etichetta e quali, invece, devono comparire.
Bene, ammettiamolo: siamo abbastanza confusi. Cosa dobbiamo dedurre?
Che non dobbiamo fidarci di nessuno?
Il consumatore può facilmente dedurre l’etichetta parla, ma può anche nascondere
e… la legge, lo permette! C’è una incomprensione normativa molto grande e, almeno al
momento, nessuno pare interessato a colmarla.
Scegliere di utilizzare questi preparati non fa certo di un panificatore il demonio:
sono scelte commerciali, ci mancherebbe altro, perfettamente legali tra le altre cose.
Ma, per rispetto nei confronti della platea dei consumatori, i panificatori con un’etica
dovrebbero informare gli stessi delle proprie scelte.
Sarebbe sleale per il nostro lavoro – un lavoro che è praticamente uno dei più antichi,
in costante aggiornamento scientifico ed evoluzione – omettere particolari così
importanti.
Ultima considerazione, certo non ultima in ordine di importanza.
Starter per la lievitazione e mix sono l’esatto contrario di ciò che dovrebbe fare un
lievito madre. Il lievito madre ben gestito dovrebbe donare ai nostri lievitati un bouquet
di profumi ed aromi impagabile, che rende ogni prodotto diverso dall’altro.
E, quindi, ogni panificatore in grado di gestire un lievito madre dovrebbe offrire
prodotti ben diversi gli uni dagli altri.
Un mix si pone l’obiettivo di standardizzare il prodotto – e questo, a livello imprenditoriale,
è certamente impagabile – ma fa letteralmente crollare a pezzi tutto il discorso
di artigianalità che si fa intorno al panificato.
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La vittima sacrificale di tutto questo?
Il panettone, che domande!
Quanti prodotti – quanti panettoni
– vi sono sembrati davvero UNICI
quest’anno? Quanti prodotti erano
DAVVERO identificabili ad occhi chiusi?
Quanti, invece, vi sono sembrati soltanto
morbidissimi mappazzoni dolci,
spesso molto vanigliati, belli alveolati e
perfettamente mangiabili anche ad una
temperatura vicina allo zero?
Ve lo diciamo noi: una marea. E li
abbiamo assaggiati pensando di mangiare
prodotti unici.
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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CONSIDERAZIONI FINALI
con Gianfranco Lo Cascio
Un grande panettone, fatto in maniera totalmente artigianale, con un
lievito naturale ben sviluppato, con delle corrette tecniche di impasto e
maturazione si esprime al suo meglio se consumato almeno dopo 3 giorni
da quando è stato sfornato e non più di 7/10 giorni dopo. Superato quel
tempo inizierà a perdere umidità, inesorabilmente. A venti o trenta giorni
sarà ancora buono ma certamente non superbo come lo era all’inizio. E
questo è un dato che bisogna necessariamente conoscere quando si
acquista un prodotto di questo tipo.
Un grande lievitato consumato dopo due mesi dalla produzione che
è ancora perfettamente morbido, profumato e fragrante è, senza dubbio,
figlio di una produzione in cui sono stati utilizzati degli adiuvanti di sintesi.
Che non sono da demonizzare, usarli non è certo un reato. Ma quel
panettone è tutta un’altra storia rispetto ad uno con pura firma artigianale.
Questo è ciò che dovete cercare in un panettone artigianale: la firma,
il bouquet della diversità, dell’originalità, l’impegno del maestro lievitista
nel maturare la madre, nel selezionare le materie prime, nella gestione
del tempo e delle fasi in cui ogni batterio e lievito fa una cosa diversa. E
soprattutto ricordatevi che è impossibile riprodurre tutto questo in un
complesso industriale.
Non è possibile paragonare un panettone di foggia puramente artigiana
con un grande lievitato in cui c’è dentro la nitroglicerina che esplode
ad ogni morso. Non è una lotta, non è una disputa. Citando Loki di Asgard,
secondo voi, “Uno stivale e una formica hanno dispute?”
Quando leggete di improbabili e spesso improponibili classifiche
dovrete indignarvi e capire quanto la manipolazione mediatica stia costantemente
offendendo non solo la cultura ma anche l’intelligenza delle
persone. Paragonare i prodotti del supermercato con quelli artigianali è
ridicolo di per sé e avrete anche ben compreso perché lo è. Ma è ancora
peggio, manipolatorio e irricevibile paragonare un prodotto artigianale in
purezza sfornato 30 o 40 giorni fa con un prodotto artigianale “dopato”
sfornato da qualche giorno decretando non solo la vittoria del secondo,
ma decantandone le lodi mentre si indugia in fervide delazioni sul primo.
È scorretto. È sbagliato per chi tenta di manipolare le informazioni a proprio
tornaconto ed è inaccettabile da parte di chi conosce la verità. È un
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concetto che va respinto, con forza. Soprattutto perché avrete capito che
l’etichetta può mentire e spesso spudoratamente.
L’unica, ipotetica e irrealizzabile classifica dovrebbe essere fatta tra
prodotti creati con la stesso tecnica, consumati tutti nella stessa finestra
di produzione e contenenti lo stesso set di ingredienti. Se fosse ammesso
l’uso degli “aiutini” allora dovrebbe essere concesso a tutti. Così come l’aroma
panettone in forma liquida o emulsionata.
Nessuno demonizza niente. Sono il primo dei fautori della scienza in
cucina e chi mi conosce lo sa bene. Ma mi sono sempre battuto per l’onestà.
Pratica e intellettuale. È la mia missione: diffondere conoscenza
per dare un contributo allo sviluppo di un consumo consapevole. Niente
più di tutto questo.
Per chiudere il capitolo, si spera in modo definitivo, abbiamo imparato
un concetto fondamentale: è più che ammissibile, ricevibile e accettabile
preferire un grande lievitato ad un altro, quello del Maestro Tizio
rispetto al Maestro Caio.
Ciò che non è ammissibile è manipolare i dati per evidenziare imperfezioni
che invece difetti non sono, ma solo la naturale conseguenza di
processi fisici e chimici diluiti nel tempo.
È più che ammissibile e lecito utilizzare adiuvanti nella produzione
di un panettone allo scopo di migliorare la riuscita del prodotto. Ma questo
non deve diventare una leva per demonizzare o sminuire chi sceglie,
altrettanto legittimamente, di usare una firma diversa, più personale, più
aderente al concetto di artigianalità.
La libertà del consumatore è quella di poter scegliere un prodotto
perché ne apprezza il buono e il bello, non perché qualcuno manipola
l’informazione per squalificarne ingiustamente un altro.
Parlo da imprenditore.
Il “non posso dimostrare che sono migliore di te quindi dimostrerò che
sei peggiore di me” sembra essere diventato il leitmotiv della vita sociale
di un’azienda. E sono certo che non sia più accettabile ai nostri tempi.
SPECIALE PANETTONE ARTIGIANALE
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