Elizabeth George - Punizione
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L’autrice
Elizabeth George, sempre in vetta alle classifiche del New York Times, è
autrice di venti thriller psicologici, quattro romanzi per ragazzi, un saggio e
due raccolte di racconti.
Una carriera che le ha valso molti riconoscimenti fra cui l’Anthony Award,
l’Agatha Award, due nomination agli Edgar Awards, il primo posto al Grand
Prix de Littérature Policière e al MIMI, il prestigioso premio tedesco dedicato
alla crime fiction. Vive nello stato di Washington.
www.ElizabethGeorgeOnline.com
www.longanesi.it
facebook.com/Longanesi
@LibriLonganesi
www.illibraio.it
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Longanesi & C. © 2018 - Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
ISBN 978-88-304-5162-9
Titolo originale
The Punishment She Deserves
In copertina: foto © Sandra Cunningham / Arcangel Images
Grafica di Andrea Falsetti / Cahetel
Copyright © 2018 by Susan Elizabeth George
Prima edizione digitale: maggio 2018
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
PUNIZIONE
Per Tom, Ira e Frank
Con amore e gratitudine.
Sono stata fortunata.
Perché stendersi sulla ruota da tortura
del passato e del futuro?
La mente che cerca di dare forma al domani al di là
delle proprie capacità non troverà riposo.
RUMI
La profondità del momento è maggiore di quella del futuro.
E dai campi del passato
cosa puoi raccogliere di nuovo?
RĀBI’A AL-BAŞRĪ
PARTE PRIMA
15 DICEMBRE
Baker Close
Ludlow
Shropshire
A Ludlow cominciò a nevicare la sera, quando la maggior parte della gente
aveva già cenato e lavava i piatti prima di piazzarsi sul divano a guardare la
televisione. A dire il vero non c’era molto da fare in città in quelle ore, a parte
scegliere un canale tv oppure andare al pub. Ma dal momento che Ludlow,
coi suoi palazzi medievali e le stradine lastricate, era diventata nel corso degli
anni una meta sempre più ambita da pensionati in cerca di tranquillità, era
raro che qualcuno si lamentasse per l’assenza di vita notturna.
Come tanti altri abitanti di Ludlow, anche Gaz Ruddock stava lavando i
piatti quando si accorse che nevicava. Fuori era buio e nel vetro della finestra
sopra il lavello Gaz vedeva quasi soltanto il proprio riflesso e quello
dell’anziano signore in piedi accanto a lui con uno strofinaccio in mano. Ma
una luce in fondo al giardino dietro la casa illuminava i fiocchi. E nel giro di
pochi minuti quella che sembrava una lieve spolverata si trasformò in una
vera e propria cortina che scendeva mossa dal vento.
«Non mi piace per niente, sai? Lo dico sempre. Ma è fiato sprecato.»
Gaz si voltò a guardarlo. Non credeva che Robert Simmons stesse parlando
della neve, e ne ebbe la conferma quando vide che il vecchio con lo
strofinaccio in mano non stava guardando la finestra bensì la spazzola con cui
lui strofinava i piatti.
«Quella roba è poco igienica» disse il vecchio Rob. «Continuo a
ripetertelo, ma tu non mi dai retta.»
Gaz sorrise, non al vecchio Rob – pensava sempre al suo coinquilino con
quell’aggettivo prima del nome, come se in casa con loro ci fosse anche un
giovane Rob – ma al proprio riflesso. Non passava sera senza che Rob
brontolasse perché lavava i piatti con la spazzola, e ogni volta lui gli faceva
notare che era molto più igienico che immergerli insieme con posate,
bicchieri e pentole in una bacinella di acqua e sapone come se a ogni
passaggio l’acqua miracolosamente si sterilizzasse.
«L’unica cosa che funziona meglio di questa» diceva Gaz agitando in aria
la spazzola «è la lavastoviglie. Basta che me lo dici e vado a comprartene
una, Rob. Questione di un attimo. E te la installo pure.»
«Bah» replicava Rob. «Ho resistito ottantasei anni e passa senza
lavastoviglie e penso di poter arrivare tranquillamente alla tomba così. Le
comodità della vita moderna, bah!»
«Il forno a microonde ce l’hai, però» gli ricordava allora Gaz.
«Quello è diverso» era la risposta, brusca.
Se Gaz a quel punto chiedeva cosa c’era di diverso tra possedere un forno
a microonde e una lavastoviglie, il vecchio Rob rispondeva immancabilmente
con uno sbuffo, un’alzata di spalle e un «È diverso e basta» e l’argomento era
chiuso.
A Gaz non importava granché. Non era un gran cuoco, quindi non c’erano
mai molte stoviglie da pulire. Quella sera avevano mangiato patate farcite con
una scatoletta di chili con carne e, come contorno, insalata di lattuga e mais.
Le patate le aveva cotte nel microonde e la lattina del chili era di quelle con
l’apertura a strappo, quindi non c’era voluto neppure l’apriscatole. Si trattava
di lavare in tutto due piatti, un cucchiaio di legno, alcune posate e le due
tazze in cui avevano bevuto il tè.
Gaz avrebbe potuto lavare e asciugare tutto da solo, ma il vecchio Rob
insisteva per dargli una mano. La sua unica figlia, Abigail, telefonava una
volta alla settimana per avere notizie del padre, e per Rob era importante che
Gaz le riferisse che era in forma e pieno di grinta esattamente come il primo
giorno della loro convivenza. Ma Gaz era convinto che, anche senza
l’appuntamento telefonico settimanale con Abigail, il vecchio Rob avrebbe
comunque insistito per aiutare. Era l’unica condizione che aveva posto per
accettare di prendere in casa qualcuno.
Dopo che gli era morta la moglie, Rob Simmons aveva vissuto da solo per
sei anni, poi la figlia aveva deciso che stava diventando troppo sbadato.
C’erano le medicine da prendere due volte al giorno, e poi il timore che
cadesse e nessuno lo trovasse per chissà quanto tempo. Qualcuno doveva
occuparsi di lui, aveva detto Abigail al padre, e Rob, di fronte all’alternativa
fra dividere la propria casa con uno sconosciuto scelto con cura e lasciare
Ludlow per andare a stare con Abigail, i suoi quattro figli e il marito – che
non gli era piaciuto fin dal giorno in cui si era presentato per portare la sua
unica figlia a ballare a Shrewsbury – si era aggrappato all’idea di un
coinquilino come a un salvagente.
E il coinquilino in questione era Gaz Ruddock, al secolo Gary. Gaz era un
agente di polizia ausiliario, lavoro che svolgeva prevalentemente di giorno, e
dal momento che di solito faceva i suoi giri di pattuglia a Ludlow a piedi o in
bicicletta, come i bobbies degli anni Venti, se necessario poteva passare a
dare un’occhiata al vecchio Rob anche durante la giornata. L’accordo per lui
era perfetto: come agente ausiliario guadagnava poco e Rob, oltre all’alloggio
gratis, gli dava anche qualcosina a fine mese.
Il cellulare suonò mentre Gaz puliva il piano del lavandino e Rob piegava
con cura lo strofinaccio per appenderlo ad asciugare sopra i fornelli. Gaz
lanciò uno sguardo al display per vedere chi fosse e, notando l’occhiataccia
del vecchio Rob, prese in considerazione di non rispondere. Ormai vivevano
insieme da parecchio tempo e Rob aveva capito che cosa stava per succedere.
Una telefonata a quell’ora di solito voleva dire un cambiamento dei
programmi per la serata.
«Tra poco comincia Ballando con le stelle» gli ricordò Rob. Era la sua
trasmissione preferita. «E su Sky danno un film con Clint Eastwood. Quello
con la donna fuori di testa.»
«Non sono tutte fuori di testa?» Gaz decise di lasciar scattare la segreteria.
Doveva piazzare il vecchio Rob davanti alla tv con il telecomando in mano.
«Non così tanto» replicò il vecchio. «Questa qui è la tizia che gli chiede di
trasmettere alla radio una certa canzone. Hai presente? Poi decide che Clint
Eastwood deve diventare il suo uomo, forse finiscono anche a letto, non mi
ricordo. Certo che gli uomini non capiscono più niente quando c’è di mezzo
una donna, eh? E lei gli entra in casa e spacca tutto quello che le capita sotto
mano.»
«Brivido nella notte» disse Gaz.
«Allora te lo ricordi.»
«Certo che me lo ricordo. Mi è passata la voglia di mettermi con una
donna, da quando ho visto quel film.»
La risata del vecchio Rob si trasformò in un attacco di tosse che a Gaz non
piacque per niente. Rob aveva fumato fino a settantaquattro anni, quando
quattro bypass lo avevano convinto a rinunciare al tabacco. Ma i sessant’anni
di sigarette prima dell’operazione avevano comunque lasciato strascichi
sufficienti a farlo morire di cancro o di enfisema.
«Tutto bene, Rob?»
«Tutto bene, sì. Perché me lo chiedi?» ribatté il vecchio guardandolo male.
«Così, nessun motivo in particolare» disse Gaz. «Vediamo di sistemarti
davanti alla tv, allora. Hai bisogno di andare in bagno, prima?»
«Che razza di domande mi fai? Lo so da solo, quando devo pisciare.»
«Non stavo dicendo che non lo sai.»
«Bene. Quando avrò bisogno di qualcuno che mi scrolla il...»
«Capito, capito.» Gaz seguì il vecchio Rob in salotto. Non gli piaceva il
modo in cui camminava, tutto storto, con una mano appoggiata alla parete per
non perdere l’equilibrio. Avrebbe dovuto usare il bastone, ma era cocciuto
come un mulo. Non ne voleva sapere e, appena qualcuno glielo consigliava,
di colpo sembrava saldo come la rocca di Gibilterra.
Appena arrivato in salotto, Rob si accomodò in poltrona. Gaz accese il
caminetto elettrico e chiuse le tende, poi recuperò il telecomando e trovò il
canale di Ballando con le stelle. Mancavano cinque minuti all’inizio della
trasmissione, giusto il tempo per andare a preparare l’Ovomaltina.
Trovò la tazza della sera di Rob al suo posto nella credenza. Era decorata
con una foto dei suoi nipoti assieme a Babbo Natale, sbiadita a furia di
lavaggi, e aveva il manico – a forma di corona di edera e agrifoglio – un po’
sbeccato. Ma il vecchio Rob si rifiutava di bere l’Ovomaltina in un’altra
tazza. Aveva sempre da ridire sui nipoti, ma Gaz ci aveva messo poco a
capire che in realtà li adorava.
Tornò nel salotto con l’Ovomaltina. Il cellulare ricominciò a squillare e di
nuovo Gaz lo ignorò per finire di sistemare Rob. Il programma era appena
cominciato e l’inizio era la sua parte preferita.
Gli piaceva guardare le ballerine, sia le concorrenti sia le professioniste che
insegnavano il cha-cha-cha, il foxtrot, i balli viennesi o quello che era. Più di
tutto gli piacevano le scollature generose dei costumi e la vista di quelle
donne che scuotevano il seno nella foga della danza, ricordandogli
piacevolmente che a ottantasei anni suonati era ancora vivo.
«Guarda che roba, eh?» Il vecchio Rob sospirò e sollevò la tazza in un
brindisi allo schermo. «Hai mai visto delle poppe del genere? Avessi dieci
anni di meno, glielo farei vedere io cosa si può fare con delle poppe così,
altro che storie!»
Gaz ridacchiò, ma suo malgrado, perché veniva da un ambiente in cui le
donne erano tenute su un piedistallo. Esseri sessuati, certo, ma perché la
sessualità rientrava nel piano di Dio e quel piano non prevedeva di mettersi a
disposizione degli uomini mostrando le «poppe» in tv. Ma era inutile cercare
di far cambiare idea a un vecchietto assatanato come Rob Simmons, per il
quale Ballando con le stelle rappresentava il momento clou della settimana.
Gaz prese il plaid posato sullo schienale del divano e glielo sistemò sulle
gambe magre come stecchi. Consultò Radio Times per accertarsi che in
seconda serata fosse effettivamente in programma Brivido nella notte e lasciò
Rob a ridacchiare delle battute insulse del presentatore e dei giurati.
Aveva appoggiato il cellulare in cucina. Lo recuperò e si sedette al tavolo.
La chiamata lo aveva messo un po’ in agitazione. Al West Mercia College
stava per concludersi il quadrimestre autunnale. Finiti gli esami, gli studenti
si preparavano alle vacanze di Natale e molto probabilmente quella sera si
sarebbero ubriacati in massa.
Toccò il display per richiamare. Clo rispose dopo il primo squillo e disse:
«Qui da noi nevica, Gaz. E lì?»
Sicuramente non gli aveva telefonato per fornirgli un aggiornamento sulle
condizioni meteo. Era solo un modo per cominciare una conversazione che,
altrettanto sicuramente, sarebbe sfociata in una richiesta non del tutto
ortodossa. Gaz decise di darle del filo da torcere. «Anche qui» rispose. «Sarà
un disastro per il traffico, ma se non altro la gente se ne starà a casa.»
«Siamo alla vigilia delle vacanze, Gaz. I ragazzi non staranno a casa. Non
gliene frega niente se nevica, grandina, piove o tira vento.»
«Non devono mica consegnare la posta» le fece notare.
«Cosa?»
«Neve, grandine, pioggia. Nulla ferma i postini britannici.»
«Ecco, facciamo conto che siano come i postini. Non si lasceranno fermare
dal maltempo.»
Gaz aspettò il seguito. Che impiegò un istante ad arrivare.
«Le dispiacerebbe buttare un occhio su mio figlio, Gaz? Mentre fa il suo
solito giro. Perché farà un giro, vero? Con questo tempo, immagino che non
sarà l’unico agente ausiliario a cui viene chiesto di controllare i ragazzi nei
pub, stasera.»
Gaz ne dubitava. Il West Mercia College era l’unico di tutto lo Shropshire
ed era poco verosimile che gli ausiliari dei dintorni si avventurassero sotto la
neve senza motivo. Ma non stette a discutere. Era affezionato a Clo e alla sua
famiglia. Pur sapendo che lei se ne approfittava, esaudire quella richiesta non
gli sarebbe costato molto.
Sollevò ugualmente una piccola obiezione: «Trev non sarà contento che io
vada a controllare, però».
«Trev non lo saprà mai, perché lei non glielo dirà. E io non glielo dico di
sicuro.»
«Se ha paura che qualcuno faccia la spia, non è certo di me che si deve
preoccupare.»
Seguì un breve silenzio. A Gaz parve di vederla incassare il colpo. Se, per
qualche motivo, Clo era ancora al lavoro, era senza dubbio seduta alla
scrivania, immacolata e in perfetto ordine. Se invece si trovava a casa, era
probabilmente in camera da letto con indosso qualcosa che le sembrava
adatto a una mogliettina desiderosa di far contento il marito. Gli aveva già
detto più di una volta, scherzando, che a Trev piaceva tenera, dolce e
ubbidiente, tutte caratteristiche che non le venivano particolarmente naturali.
«Come le dicevo, fra poco iniziano le vacanze, i ragazzi festeggiano
ubriacandosi, c’è ghiaccio sulle strade... Nessuno si stupirà di vederla in giro
a controllare che non combinino guai, nemmeno Finnegan.»
Non aveva tutti i torti. E comunque uscire a fare un giro avrebbe avuto altri
vantaggi, oltre a quello di prendere una boccata d’aria gelida. «D’accordo, ci
vado» disse. «Ma ha senso solo se esco più tardi. A quest’ora sono ancora
tutti sobri.»
«Capito» rispose Clo. «Grazie, Gaz. Mi faccia sapere cosa combina.»
«Certo.»
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Missa Lomax osservò i vestiti che la sua amica Dena – Ding per gli amici –
aveva steso sul letto. Tre gonne, un pullover di cachemire, due camicette di
seta, un top di maglia con applicazioni argentate che sembravano ghiaccioli.
Li aveva tirati fuori da un grosso zaino. «La più adatta è quella nera, Missa. È
molto elastica» disse.
Era indispensabile che lo fosse: i vestiti erano di Ding, e lei e Missa
avevano un fisico molto diverso. Ding era piccolina e formosa, con curve da
donna ma bassa di statura, Missa era fatta a pera – se non stava attenta,
ingrassava sui fianchi –, ma era quindici centimetri più alta dell’amica. Missa
però non si era portata a Ludlow nulla di adatto a una festa. Non ci aveva
proprio pensato, quando era partita per il college, perché il suo scopo non era
divertirsi e uscire la sera, ma studiare biologia, chimica, matematica e
francese in vista dell’università.
«Sono tutte troppo corte per me» disse, indicando le gonne.
«Vanno di moda corte, e poi che differenza fa?»
Per Missa faceva differenza eccome. «Non potrò andare in bici» si limitò a
rispondere.
«Non si va in giro in bici con questo tempo.» Era stata Rabiah Lomax a
intervenire, entrando in camera di Missa con una tuta da ginnastica viola e i
piedi nudi, con lo smalto alle unghie, sui toni del rosso e del verde in
omaggio al Natale e con un alberello dorato sull’alluce. «Prendete un taxi.
Offro io, andata e ritorno.»
«Ma Ding è venuta in bici, nonna» ribatté Missa. «Non può...»
«Sei una temeraria, Dena Donaldson» disse la nonna di Missa. «Puoi
andare in taxi e tornare a prendere la bici un altro giorno, no?»
«Grazie, signora Lomax. A buon rendere» disse Ding sollevata.
«Non ti preoccupare» replicò Rabiah. «L’importante è che vi divertiate.»
Poi si rivolse a Missa. «Niente libri, almeno per una sera. Nella vita non si
può solo studiare e far contenti i genitori.» Missa le lanciò un’occhiata, ma
tacque. La nonna proseguì in tono allegro. «Vediamo un po’ questi vestiti.»
Si avvicinò al letto, guardò le varie opzioni e scelse la gonna nera. Missa vide
che Ding sorrideva soddisfatta.
«Provati questa e vediamo come ti sta» ordinò Rabiah. «Ti presterei
volentieri qualcosa io, ma nel guardaroba ho solo costumi da ballo e tute per
andare a correre. Non ho niente di adatto. A parte le scarpe, forse. Ti ci
vogliono un paio di scarpe.» Agitando una mano, si avviò verso la sua
camera mentre Missa si toglieva le scarpe da ginnastica e i jeans, e Ding
frugava nel comò in cerca di «un paio di calze decenti».
Missa si infilò la gonna di Ding. Essendo elastica, le stava, ma le stringeva
in vita come un laccio emostatico. «Uff, non so, Ding» disse.
Ding si voltò con un paio di collant neri in mano. «Ti sta da dio!» esclamò.
«È perfetta. Vedrai che ti sbaveranno dietro tutti.»
«Non ci tengo particolarmente.»
«Sì, invece. Non vuol mica dire che ci devi stare. Tieni, mettiti queste. Ti
devo far vedere una cosa.» Le passò le calze e andò a prendere nello zaino un
reggiseno di pizzo.
«Non mi starà mai» disse Missa.
«Non è mio» le disse Ding. «È il tuo regalo di Natale. Te lo do adesso,
però. Su, prendilo. Non morde.»
Missa non portava biancheria di pizzo, ma non voleva offendere Ding.
«Che bello!» commentò Rabiah quando vide il reggiseno che Ding faceva
dondolare tenendolo con due dita. «Da dove viene?»
«È il mio regalo per Missa» spiegò Ding. «Così forse smetterà di portare la
canottiera.»
«Non porto la canottiera» protestò Missa. «È che... il pizzo mi dà prurito.»
«Mi sembra un sacrificio accettabile per...» Rabiah s’interruppe. «Dena
Donaldson, non le avrai mica comprato un reggiseno push-up?» esclamò poi.
Ding rise. Missa arrossì, ma prese il reggiseno, si voltò pudicamente di
spalle e se lo provò. Si guardò allo specchio e arrossì ancora di più.
«Vieni qui!» Ding le diede il top con i ghiaccioli argentati. La scollatura
metteva in risalto l’effetto push-up del reggiseno. «Fa-vo-lo-so!» decretò
Ding. «Guardati allo specchio. Oh, signora Lomax! Che meraviglia! Anche
quelle sono per Missa?»
Missa vide che si riferiva a un paio di scarpe. Le guardò e si chiese quando
fosse stata l’ultima volta che sua nonna le aveva messe. La Rabiah che
conosceva lei portava esclusivamente scarpe da corsa o da ginnastica, a meno
che non fosse scalza o vestita per i suoi balli tradizionali. Da quando era in
pensione, non seguiva più la moda, neppure di sfuggita, e le scarpe che aveva
in mano dovevano risalire a prima ancora che diventasse insegnante.
Dovevano essere del periodo in cui faceva parte delle Rockettes.
«Non saprei» disse Missa, dubbiosa.
«Poche storie!» replicò Rabiah. «Sono comodissime. Provatele. Vediamo
se sono della tua misura.»
Lo erano. Rabiah disse che Missa doveva assolutamente metterle e che non
voleva sentire «discorsi assurdi». «Tanto con questo tempo non dovrai certo
attraversare a piedi la città. Ora, Dena Donaldson, immagino che tu abbia
portato dei trucchi per fare bella la nostra Missa mentre io chiamo il taxi.»
«Devo strapparle anche le sopracciglia?» chiese Ding.
«Servizio completo, grazie» rispose Rabiah.
Quality Square
Ludlow
Shropshire
In realtà non era un taxi, ma una macchina a noleggio con conducente. La
nonna di Missa insistette per pagare in anticipo sia l’andata che il ritorno, in
modo che fosse ben chiaro a tutti che null’altro era dovuto alla fine della
serata.
«Allora siamo a posto così» disse all’autista.
L’uomo parlava un inglese così stentato che Ding dubitava avesse capito
che doveva portarle in Quality Square, figuriamoci riaccompagnarle a St.
Julian’s Well. Ma l’uomo annuì alle parole di Rabiah e si diede un gran
daffare per assicurarsi che Ding e Missa allacciassero le cinture sul sedile
posteriore della sua Audi.
Se possedeva un’Audi, pensò Ding, gli affari tanto male non dovevano
andargli. Il fatto però che alla prima curva la macchina avesse sbandato sulla
strada ghiacciata induceva a pensare che avesse bisogno di gomme nuove.
Ding si mise comoda e prese Missa per la mano. «Ci divertiremo un sacco.
Ce lo meritiamo tutte e due, nella maniera più assoluta» disse.
La verità era che a meritarselo era solo Missa, perché Ding non perdeva
mai un’occasione per divertirsi. Per Missa, però, le cose stavano
diversamente.
Da tempo Ding aveva l’abitudine di cercare su Google tutte le persone con
cui pensava di poter fare amicizia e, dopo tre sole lezioni del corso di
matematica che seguivano insieme, aveva deciso che la bella ragazza di
origine indiana con la pelle perfetta e i denti leggermente distanziati poteva
essere una conoscenza interessante. L’aveva cercata su Internet, aveva
seguito qualche link e aveva scoperto che Melissa Lomax era la maggiore di
tre sorelle e che quella di mezzo era mancata dieci mesi prima. Aveva
appreso anche che era di Ironbridge, che suo padre faceva il farmacista e sua
madre la pediatra, e che sua nonna Rabiah era una ex Rockettes, insegnante
in pensione e campionessa in carica della Maratona di Londra per la sua
fascia d’età.
A Ding piaceva essere informata sulle persone che frequentava e credeva
che tutti fossero come lei. Si stupiva, perciò, quando scopriva che gli altri non
andavano a curiosare in rete per decidere se valeva la pena di fare amicizia o
di mettersi con una certa persona. A suo parere, le ricerche su Internet
facevano risparmiare parecchio tempo. Era sempre meglio sapere se si aveva
a che fare con un potenziale psicopatico.
Il tragitto da St. Julian’s Well a Quality Square non era lungo, ma sotto la
neve ci volle più del solito. Con quel tempaccio non c’era praticamente
nessuno in giro – un fatto insolito, in quel periodo dell’anno – ma Corve
Street e il Bull Ring erano illuminati e le vetrine dei negozi con luci e
decorazioni natalizie creavano un’atmosfera allegra in cui quasi ci si
aspettava di vedere cantori dickensiani a ogni angolo di strada.
La prospettiva del Natale non era particolarmente allettante per Ding.
Erano anni che vacanze e feste comandate la lasciavano indifferente, ma era
disposta a fingere, se necessario, quindi disse in tono entusiasta: «Che bello!
È come essere nel paese delle fate, no?»
Missa guardava fuori e Ding le lesse in faccia i dubbi che aveva, non tanto
sulla bellezza dello scenario che stavano attraversando, quanto sui
divertimenti promessi da Ding. «Secondo me non ci sarà nessuno stasera»
disse.
«Alla vigilia delle vacanze? Senza più esami da dare? Ci sarà un sacco di
gente, soprattutto dove andiamo noi.»
Ding aveva le idee chiare su quale fosse il pub migliore di Ludlow, dal
momento che abitava vicino al West Mercia College e passava un numero
considerevole di serate a bere con gli amici allo Hart and Hind in Quality
Square.
Il taxi non poteva portarle fino a destinazione. Era entrato nel centro
storico di Ludlow e percorreva strade sempre più strette, fra edifici medievali,
diretto in Castle Square, la piazza del castello del XII secolo dove, da sempre,
i banchi del mercato offrivano merci di ogni genere, dai pasticci di maiale
alle scodelle per il porridge. Il groviglio di viuzze tutto intorno ospitava nei
suoi palazzi storici negozi, pensioni, bar e ristoranti.
L’auto percorse King Street e le lasciò davanti all’unico accesso a Quality
Square, un vicolo attraverso il quale, volendo, gli autisti più coraggiosi
sarebbero potuti entrare nella piazza in macchina. Dal momento però che, una
volta entrati, non potevano uscire se non ripassando di lì, gli unici che si
arrischiavano erano i residenti che abitavano sopra i negozi, le boutique e le
gallerie d’arte che delimitavano tre lati della piazza.
Sul quarto lato una stradina acciottolata si affacciava su uno spiazzo verde
ed era lì che Ding intendeva portare Missa, dopo essersi fatte dare il numero
di cellulare del tassista per chiamarlo quando fosse stata l’ora di tornare a
casa. «Su, andiamo a divertirci» disse Ding, mentre Missa prendeva il
biglietto da visita con un sorriso pieno di gratitudine e lo infilava nella borsa
a tracolla.
Si infilarono nel vicoletto stando attente a dove posavano i piedi, perché il
rischio di prendere una storta camminando sull’acciottolato con i tacchi era
altissimo; la piazza era scivolosa per la neve e anche i marciapiedi erano poco
praticabili. Passarono tra due macchine ferme all’altezza di una galleria
d’arte; accanto all’ingresso c’era la scultura di metallo di una donna vestita di
pizzo che la neve aveva già coperto di bianco. I rami dei sempreverdi nelle
vicinanze stavano cominciando a piegarsi sotto il peso del manto candido.
Come previsto da Ding, non erano le sole ad aver scelto quella meta:
quando arrivarono sul quarto lato della piazza, videro che nonostante la neve
sullo spiazzo c’era un folto gruppo di fumatori. Alcuni avevano posato i
bicchieri sui davanzali del pub, mentre altri erano seduti ai tavoli all’aperto,
riscaldati da stufe e coperte.
«Questo è lo Hart and Hind» spiegò Ding all’amica. Nato nel Cinquecento
come locanda di posta per le diligenze, il pub era uno dei ritrovi preferiti
degli studenti del West Mercia College. In realtà di pub ce n’erano molti altri
in città, ma lo Hart and Hind era il più gettonato, non solo perché era vicino
al college e consentiva di ubriacarsi appena usciti da lezione, ma anche
perché il proprietario tollerava lo smercio di «sostanze psicotrope illegali».
«Ding, io droga non ne prendo» disse Missa.
«Certo che no!» approvò Ding. «Sei pure astemia!» Dopodiché le confidò:
«Ovviamente ci sono anche delle camere al piano di sopra, visto che una
volta era una locanda. Però lui non le affitta».
«Lui chi?»
«Jack. Il proprietario. Ne ha due, di stanze, voglio dire, e se lo paghi in
contanti te le lascia usare per un po’.»
Missa aggrottò la fronte. «Non hai appena detto che non le affitta?»
Massì, ci siamo capite, dai!, stava per esclamare Ding, ma Missa viveva in
un mondo tutto suo e certe cose bisognava spiegargliele a chiare lettere.
Ding aveva scoperto quasi subito che per Missa la verginità era molto
importante. Era una ragazza d’altri tempi, che si manteneva pura nel caso
fosse arrivato il principe azzurro con una scarpa di cristallo in cerca di una
fanciulla illibata. L’unica disponibile nel raggio di mille miglia e due
continenti sarebbe stata lei.
Ding aveva perso la verginità a tredici anni. Ci aveva provato anche prima,
ma finché non le erano cresciute due tette degne di quel nome nessuno era
parso interessato. Per lei togliersi il pensiero di farsi deflorare era stato un
enorme sollievo e non capiva come mai Missa ci tenesse tanto. Il suo ricordo
di quel momento topico cominciava con lei che, per quanto obnubilata
dall’alcol, esclamava inorridita: «E io dovrei farmi infilare dentro quel
coso?», proseguiva con il disagevole posizionamento su una delle panche in
fondo alla chiesa di St. James, non lontano da Much Wenlock, e si
concludeva con il suo amante che alla decima spinta esalava un grugnito di
soddisfazione.
La porta del pub si aprì e Ding e Missa furono investite da un’ondata di
musica a tutto volume. I Bee Gees, pensò Ding. Oddio, fra poco metteranno
gli Abba. Prese per mano Missa e la trascinò lungo un corridoio rivestito di
legno scuro molto antico, in un mare di spalle nude, gambe nude, paillettes,
lustrini e glitter, pantaloni aderenti e gente che ballava scatenata sulle note di
Stayin’ Alive.
In fondo al corridoio c’era il bar. La musica faceva vibrare il pavimento.
Lo scopo era far ballare la gente per farle venire sete e indurla a comprare
birra, sidro, cocktail e altre bevande. Ding faticò parecchio per farsi largo tra i
gruppi di ragazzi che si dimenavano a tempo di musica, scrivevano sms o
scattavano selfie e i gruppi altrettanto folti in attesa al banco, dove il titolare
del pub e il nipote facevano il possibile per stare al passo con le ordinazioni.
Sentì frammenti di frasi:
«Non ci posso credere!»
«Se ti dico che l’ha fatto!»
«... e ha mancato il gabinetto di un chilometro. I maschi sono veramente...»
«... durante le vacanze e ti avverto se...»
«... in Costa Azzurra a Capodanno, cazzo, e non chiedermi perché...»
«... si crede che, se me lo scopo, allora...»
Ding rischiò di perdere la mano di Missa nella folla, ma riuscì a stringerla
finché vide uno dei suoi due coinquilini maschi seduto a un tavolo sotto una
sfilza di vecchie foto di Ludlow ai tempi che furono. Era Bruce Castle, suo
assiduo compagno di letto, soprannominato ironicamente Brutus per la sua
bassa statura. Beveva sidro e Ding, vedendo che aveva davanti due bicchieri
vuoti, capì qual era il suo obiettivo: essere abbastanza ubriaco da avere una
giustificazione nel caso una ragazza lo prendesse a schiaffi per averle infilato
una mano sotto la gonna.
Brutus era elegantissimo come al solito e, quando Ding e Missa lo
raggiunsero, la prima cosa che disse fu: «Wow, che sventola!» Lo disse a
Missa, alludendo ovviamente ai vestiti superaderenti. «Vieni qui e fatti
palpare.»
Ding gli si mise accanto e indicò a Missa una delle sedie, poi disse a
Brutus: «Smettila. Pensi che a una donna faccia piacere sentirsi dire queste
cose?»
Brutus non era per nulla imbarazzato. «Non so cosa toccare prima, se il
culo o le tette.» Ciò gli valse un pugno sul braccio, assestato in modo da
fargli il più male possibile. «Cristo, Ding! Cos’è che ti brucia?» reagì.
«Vai a prenderci da bere» ribatté Ding.
«Oh, io non...» provò a obiettare Missa.
Ding la mise a tacere con un gesto. «Non necessariamente qualcosa di
alcolico. Un sidro. Vedrai che ti piace.» Lanciò un’occhiata a Brutus, che si
alzò pesantemente e si avviò barcollando verso il banco. Ding lo guardò
impensierita. Non le piaceva, quando era sbronzo. Alticcio, d’accordo;
fumato, okay; ma quando si sbronzava non era più lui, e Ding non capiva
come mai avesse cominciato a darci dentro già a inizio serata. Non era nei
piani.
Vide che Missa si guardava intorno osservando le ragazze in abiti succinti
che sghignazzavano e sgomitavano e i maschi che stavano loro addosso e
cercavano di attaccar discorso. Si chiese se la sua amica si fosse accorta della
manovra in corso vicino al bar, dove il titolare, Jack Korhonen, lanciava la
chiave di una delle due camere a un ragazzo che teneva un braccio intorno
alla vita di una tipa con un tubino di paillettes, un po’ malferma sulle gambe.
Il ragazzo afferrò al volo la chiave e fece voltare la ragazza verso le scale.
Brutus tornò con tre pinte e ne posò una davanti a Missa. Ding osservò
attentamente la sua amica mentre beveva il primo sorso e capì che non si era
accorta che la bevanda era alcolica. Il sidro era dolce e frizzante, un modo
gradevole per raggiungere la felicità in breve tempo.
Brutus avvicinò la sedia a quella di Ding e le disse all’orecchio: «Hai un
profumo divino, stasera», poi le posò una mano sulla coscia e cominciò a
salire. Lei lo bloccò e gli piegò le dita all’indietro. «Ehi! Cosa cazzo hai,
stasera?» gridò Brutus.
Non ci fu bisogno di rispondere, perché in quel momento li raggiunse il
terzo coinquilino. «Cerca di essere un po’ più romantico, Brutus. Così ti fotti
da solo» disse.
«Vorrei che mi fottesse lei, invece» ribatté Brutus.
«Mi fai morire!» Finn Freeman rise e prese una sedia da un tavolo vicino,
ignorando una ragazza che protestò: «Ehi! È nostra, quella!»
Si sedette, prese il sidro di Brutus e ne bevve un gran sorso. Poi fece una
smorfia. «Cazzo, come fai a bere ’sta merda?»
Ding vide che Missa aveva abbassato lo sguardo, scandalizzata dal
turpiloquio di Finn. Era un’altra delle caratteristiche di Missa che le
ispiravano tenerezza: non diceva mai parolacce e non cercava di nascondere
il proprio imbarazzo davanti a chi imprecava in sua presenza.
Ding sapeva che Finn non lo faceva apposta. Era un bravo ragazzo, in
fondo, nonostante si fosse rasato mezza testa per farsela tatuare. Non era un
look particolarmente attraente ma, contento lui...
«Chi mi offre una Guinness?» chiese Finn senza rivolgersi a nessuno in
particolare.
«A proposito di merda» commentò in tono disinvolto Ding.
Brutus invece lo prese sul serio. Sapeva che altrimenti, nonostante quello
che aveva appena detto sul sidro, prima avrebbe svuotato il suo bicchiere, poi
sarebbe passato a quelli di Ding e Missa. Finn aveva qualche problemino con
l’alcol ma, come Ding aveva appreso in quei mesi, non era l’unico dei suoi
guai.
Il più grosso era la madre. Finn la chiamava Hovercraft perché tendeva a
controllargli la vita come se lavorasse per i servizi segreti. Era per colpa della
madre che Finn aveva ideato un piano per andare in Spagna dai nonni anziché
passare le vacanze di Natale con i suoi. Purtroppo non aveva i soldi per
arrivarci e quando aveva telefonato a sua nonna per chiederle di finanziarlo,
si era sentito rispondere dal nonno che, dopo aver accolto la duplice richiesta
di un invito a passare il Natale in Spagna e di un biglietto aereo, aveva
chiamato a sua insaputa la madre per assicurarsi che fosse d’accordo a
trascorrere le festività senza il suo unico figlio.
E così era saltato tutto. Finn era riuscito a farsi dare il permesso di
rimanere a Ludlow due giorni in più inventandosi di dover assistere alla recita
natalizia dei bambini organizzata dalla chiesa. Fortunatamente sua madre se
l’era bevuta. Il massimo che era riuscito a ottenere, però, erano stati due
giorni di libertà dopo gli esami, e non era per niente contento.
«Allora, come ha fatto Ding a convincerti a uscire?» chiese a Missa. «Ti ho
sempre visto con la testa sui libri.»
«Lei è una che si impegna sul serio» lo informò Ding.
«Contrariamente a te» ribatté Finn. «Non ti ho mai visto studiare niente.»
Brutus tornò con la Guinness. «Sei in debito» gli disse.
«Come al solito» replicò Finn e brindò alla loro salute. «Buon Natale e
balle varie.» Ingollò un quarto del boccale in un sorso solo. «Siamo seri»
aggiunse poi. «Abbiamo una missione: bere fino alla devastazione.»
Ding non poté fare a meno di sorridere. Finn non lo sapeva, ma anche lei
aveva la stessa intenzione.
Quality Square
Ludlow
Shropshire
I problemi legati all’abuso di alcol erano molteplici: ragazze che vomitavano
per strada, ragazzi che orinavano dove gli pareva, marciapiedi pieni di
sporcizia, bottiglie rotte, aiuole calpestate e bidoni della spazzatura rovesciati,
liti furibonde, alterchi con tanto di capelli strappati e ditate negli occhi, risse,
furti di borse, portafogli e cellulari... L’elenco dei guai era lungo, benché la
situazione fosse meno grave rispetto alle grandi città dove, quando i pub
chiudevano, c’erano altri locali che restavano aperti fino a tardi e
permettevano ai giovani di tracannare alcolici tutta la notte.
A Ludlow no, ma Gaz Ruddock aveva scoperto che non faceva una grande
differenza. Nella prima settimana di servizio come agente ausiliario si era
reso conto che, a fronte di una popolazione in cui la percentuale di pensionati
aumentava di anno in anno, i proprietari dei pub avevano imparato a coltivare
fasce di clienti abituati a fare le ore piccole.
Gaz arrivò a Castle Square a mezzanotte passata. Aveva iniziato il suo giro
dai pub di periferia pensando che, se Finnegan Freeman era intenzionato a
sbronzarsi sul serio, non sarebbe stato così stupido da farlo nel pub più vicino
al West Mercia College, di cui era studente. Ma la sua ipotesi si rivelò errata.
Parcheggiò la Panda davanti alla rosticceria Harp Lane Deli, che come al
solito partecipava al concorso per la miglior vetrina natalizia. A Halloween
aveva vinto il primo premio e con ogni probabilità l’avrebbe vinto di nuovo,
a giudicare dall’enorme Babbo Natale con una fila di finti bambini che
aspettavano di salirgli sulle ginocchia e a fianco un elfo dall’aria vispa con
una catasta di doni fra le braccia.
Gaz aprì la portiera e scese. La neve cominciava ad accumularsi sui
davanzali e la piazza del mercato era già coperta da una coltre candida. Con
le mura illuminate del castello sullo sfondo pareva di essere dentro
un’enorme boccia in un turbinio di fiocchi. Era bellissimo e Gaz si sarebbe
fermato volentieri ad ammirare la scena, se non avesse avuto un freddo cane e
una gran voglia di concludere al più presto la ricerca di Finnegan Freeman.
Prese il vicoletto che dalla piazza del mercato portava a Quality Square.
Quando vi sbucò, sentì subito il chiasso: musica, voci e risate rimbombavano
nella piazza come se il pub fosse dentro una cassa di risonanza. Non fu
sorpreso di trovare cinque residenti usciti di casa con giacca a vento, sciarpa,
berretto e stivali, comprensibilmente furibondi. Due di loro gli andarono
incontro appena lo videro comparire alla luce di uno dei lampioni e lo
informarono che «era ora che venisse qualcuno a fare qualcosa per questo
casino». Su quale fosse il casino cui si riferivano non occorrevano ulteriori
spiegazioni.
Gaz consigliò loro di tornare a casa e lasciare che ci pensasse lui. A
giudicare dal fracasso, doveva esserci un bel numero di ragazzi sia dentro il
pub sia fuori e per farli andare via ci sarebbe voluto un po’ di tempo.
Girò l’angolo e mentre andava verso lo spiazzo notò una ventina di ragazzi
ubriachi radunati intorno alle stufe. Alcuni bevevano e fumavano appoggiati
al muro del pub, altri pomiciavano nell’ombra. L’odore dolciastro della
marijuana era sempre più forte a mano a mano che si avvicinava all’ingresso
del locale.
Soffiò nel fischietto, ma il suono fu sovrastato dalle note di Waterloo che
provenivano dall’interno del pub. La prima cosa da fare era fermare la
musica. Nel corridoio vide due ragazze ubriache fradice, palpeggiate da
cinque ragazzi ben vestiti che scommettevano fra loro – in termini che Gaz
non avrebbe osato ripetere nemmeno al vecchio Rob – su quanto in là
sarebbero riusciti ad arrivare prima che le loro vittime si rendessero conto di
quel che stava succedendo.
Si rabbuiò. Era schifato. Si fece largo in mezzo al gruppetto mettendo fine
a quell’assalto. Uno dei ragazzi gli si rivoltò contro, pronto a fargli assaggiare
qualcosa di cui Gaz non aveva nessuna voglia, ma nel vedere la divisa
abbassò il pugno.
«Bravo» disse Gaz. «Ora vattene e porta via anche i tuoi amici.»
Prese per mano le due ragazze e proseguì fino al bar. Sentì puzza di vomito
e fece sedere lì le due malcapitate nella speranza che il tanfo le inducesse a
rimettere o facesse passare loro la sbornia. Quale delle due, per lui era
indifferente.
Il proprietario, Jack Korhonen, era dietro il banco e chiacchierava con una
ragazzina che poteva avere al massimo quindici anni. Non si accorse di nulla
finché Gaz non prese per il colletto la ragazzina urlandole in faccia:
«Minorenne».
«Ho diciotto anni» farfugliò lei.
«Se tu hai diciotto anni, io ne ho settantadue. Sparisci prima che ti riporti a
casa io a forza.»
«Non può...»
«Posso, l’ho già fatto e lo farò ancora. Puoi tornare a casa in punta di piedi
sperando che nessuno si accorga di niente, oppure ti accompagno io, busso
alla porta e ti affido personalmente a mamma e papà. Scegli tu. Cosa
preferisci?»
La ragazzina lo guardò male, ma se ne andò. Gaz la vide sparire nel
corridoio diretta all’uscita e con una certa soddisfazione vide altre tre ragazze
più o meno della stessa età che la seguivano a ruota. Si voltò verso Korhonen,
che alzò le mani come a dire Io non c’entro niente e gli ordinò: «Spegni la
musica. È ora di darci un taglio».
«Non è ancora l’orario di chiusura» protestò lui.
«Annuncia che stai per prendere le ultime ordinazioni, Jack. C’è qualcuno
nelle stanze di sopra?»
«Quali stanze?»
«Già, quali stanze? Di’ a come-si-chiama» ribatté Gaz indicando con un
gesto il nipote di Jack, «di andare ad avvisarli che la festa è finita. Altrimenti
entro io a interromperli sul più bello. Allora, la spegni questa musica, sì o
no?»
Jack Korhonen sbuffò, ma Gaz sapeva che era tutta scena, infatti gli Abba
vennero zittiti. Si alzò qualche grido di protesta. «Ultimo giro, signori. Mi
dispiace» annunciò Jack nel silenzio che seguì.
Ci furono altre proteste, che Gaz ignorò avviandosi verso i tavoli. Non
aveva ancora visto Finnegan Freeman. Lo trovò seduto a un tavolo in fondo,
con la testa appoggiata sulle braccia, intrecciate sul ripiano. Vicino a lui c’era
un ragazzo azzimato con uno smartphone in mano e il braccio teso; una
ragazza indiana gli stava appiccicata e insieme guardavano ridendo un video
sul cellulare.
Gaz si incamminò verso il gruppetto e inciampò in qualcosa. Guardò per
terra e vide una ragazza stesa a sonnecchiare contro il muro. La riconobbe:
Dena Donaldson, Ding per gli amici e, per Gaz, una che rischiava di
diventare alcolista.
Si chinò, la prese per le ascelle e la mise in piedi. Quando Dena lo
riconobbe, si svegliò come se le fosse passata di colpo la sbornia. «Sto bene,
sto bene. Tutto a posto» disse.
«Sicura?» le domandò Gaz. «Io non direi. A me sembra che questa
potrebbe essere la volta che ti porto a casa da tua madre e tuo padre, così
vedono come...»
«No.» L’espressione di Dena si irrigidì.
«Ah, no? Quindi pensi che tua madre e tuo padre...»
«Non è mio padre.»
«Be’, mia cara, anche se non lo è, probabilmente gli interessa sapere come
passi le serate. Non trovi? Se non sei d’accordo dimmelo, perché...»
«Non posso lasciare qui Missa. Ho promesso a sua nonna che sarei stata
con lei. E non mi tocchi!» Cercò di liberarsi dalla stretta di Gaz. «Missa,
andiamo. Cerca il numero di telefono del taxi» gridò.
Missa distolse gli occhi da quello che stava guardando, e il ragazzo anche.
Entrambi videro l’agente ausiliario. «Ehi, non è pericolosa. La lasci andare.
Se la prenda con qualcun...» disse il ragazzo a Gaz.
«Vaffanculo, Gaz.» Era la voce di Finnegan, che aveva alzato la testa e
naturalmente aveva subito capito come mai Gaz fosse lì.
«Alzati, Finn» gli disse Gaz. «Devo portarti a casa e metterti a letto.»
Finnegan reagì indietreggiando verso il muro. «No, cazzo!»
Gli altri assistettero perplessi a quello scambio, stupiti che Finn desse del
tu all’agente ausiliario di Ludlow. «Non a Worcester. Intendo qui a Ludlow,
nel tuo letto, con quello che preferisci: cioccolata calda, Ovomaltina, quello
che vuoi» disse Gaz.
«Com’è che conosci così bene ’sto pezzente, Finn?»
Gaz sentì ribollire il sangue. Detestava l’arroganza dei ragazzini
privilegiati. Si voltò di scatto.
«Brutus!» disse Dena, e dal tono evidentemente il ragazzo capì che gli
conveniva lasciar perdere. Con un’alzata di spalle riabbassò gli occhi sullo
smartphone e riportò l’attenzione su quello che stava guardando.
Gaz glielo strappò di mano e se lo infilò in tasca prima ancora che Brutus –
che razza di nome era per uno che a rugby poteva essere più un mediano di
mischia che una seconda linea? – si accorgesse di non averlo più. «Adesso ve
ne tornate tutti a casa. Ultimo giro, come avete già sentito. Avete cinque
minuti al massimo per bere quello che ordinate» disse poi a lui e agli altri.
Vide con soddisfazione che alcuni ragazzi se ne stavano andando e che dalla
scala in fondo al locale scendeva il più giovane dei due baristi seguito da due
coppie di ragazzi. Erano scarmigliati e si sarebbero meritati un predicozzo,
ma Gaz aveva già abbastanza da fare con i quattro che aveva davanti.
«Deciditi, signorina» disse a Dena.
«Ti porto a casa» fece poi, rivolto a Finn.
«E voi due filate prima che mi venga in mente cosa fare di voi» aggiunse,
rivolto agli altri.
«Va bene, ho deciso. Può portarci tutti» rispose Dena. E prima che Gaz
avesse il tempo di spiegarle che non svolgeva servizio taxi, aggiunse:
«Abitiamo insieme, come ben sa. Accetto volentieri il passaggio e penso che
anche gli altri siano d’accordo. Venite?» chiese sfacciatamente agli amici,
prendendo il cappotto e cercando la borsetta da sera vintage che aveva
mollato per terra. «Possiamo continuare a festeggiare a casa, come mi sembra
di capire che ci stia suggerendo il poliziotto. Giusto, agente ausiliario?»
A Gaz non sfuggì il tono sarcastico di quell’ultima domanda da cui
traspariva la soddisfazione di aver avuto la meglio su di lui. Sì. Certo.
Vedremo.
4 MAGGIO
Soho
Londra
Prima di tutto si era dovuta procurare l’abbigliamento adatto e aveva optato
per la massima semplicità. Aveva già decine di T-shirt con scritte che
potevano andare bene – solo alcune erano veramente inaccettabili –, quindi
l’unica cosa che aveva dovuto comprare erano due paia di leggings, neri
perché il nero snellisce e se c’era una cosa che voleva era sembrare più
snella. Poi naturalmente occorrevano le scarpe, e lì c’era una scelta
straordinariamente vasta di cui mai avrebbe immaginato l’esistenza su
Internet o da qualsiasi altra parte. Nere, certo, la maggior parte erano nere,
ma ce n’erano anche beige, rosa, rosse, bianche e argentate. Oppure glitterate.
Con la suola in cuoio, resina, gomma e di un materiale sintetico di origine
non meglio precisata ma auspicabilmente ecocompatibile. Poi bisognava
scegliere tra lacci e fiocchi. Oppure cinghino con fibbia alla caviglia. E infine
c’erano i ferri. Punta, punta e tacco, né punta né tacco... Ma per quale motivo
qualcuno avrebbe dovuto comprarsi un paio di scarpe da tip tap senza
claquette? Alla fine optò per il rosso – il suo colore standard in fatto di
calzature – e per il cinghino con fibbia, perché non pensava di riuscire a
tenere sotto controllo lacci o fiocchi per tutto il tempo necessario, ovvero i
novanta minuti di ciascuna lezione.
L’ultima cosa che Barbara Havers avrebbe mai immaginato, quando aveva
accettato di iscriversi a un corso di tip tap con Dorothea Harriman, la
segretaria del dipartimento della Metropolitan Police in cui lavorava, era che
la danza potesse piacerle. Aveva detto di sì soltanto perché non ne poteva più
di ascoltare le infinite argomentazioni di Dorothea sui benefici del tip tap.
Barbara aborriva qualsiasi forma di esercizio fisico, fatta eccezione per la
corsa con il carrello su e giù per i corridoi del supermercato, ma aveva
esaurito le scuse dietro cui nascondersi.
Se non altro era riuscita a far sì che Dorothea la smettesse di impicciarsi
della sua vita sentimentale o, più precisamente, della sua mancanza di una
vita sentimentale. Era bastato invocare il nome di un poliziotto italiano –
Salvatore Lo Bianco – conosciuto l’anno precedente. La notizia aveva
suscitato l’interesse di Dorothea, ulteriormente stuzzicato quando Barbara le
aveva comunicato che aspettava una visita dell’ispettore Lo Bianco e dei suoi
due figli durante le vacanze di Natale. Il viaggio, purtroppo, era stato
annullato perché Marco, il figlio dodicenne di Lo Bianco, era stato ricoverato
per un’appendicectomia d’urgenza. Ma Barbara aveva saggiamente evitato di
confidare la propria delusione a Dorothea. Per quanto ne sapesse la segretaria
del dipartimento, la visita era avvenuta e presto sarebbe sfociata in un più o
meno plausibile lieto fine.
Sul corso di tip tap, tuttavia, Dorothea era stata assai meno malleabile e
così, da ormai sette mesi, Barbara si era ritrovata una volta alla settimana in
una scuola di danza di Southall dove aveva appreso che uno shuffle era
composto da un brush avanti e indietro, uno slap era un brush tap senza
trasferire il peso, e un Maxie Ford era composto da quattro passi base diversi
che i deboli di cuore e lenti di gamba non sarebbero mai riusciti a
padroneggiare. Lo stesso si poteva dire per quegli allievi che non si
allenavano tutti i giorni.
Nei primi tempi Barbara si era semplicemente rifiutata di allenarsi a casa.
Le sue mansioni di sergente investigativo a New Scotland Yard non le
lasciavano molte ore libere in cui esercitarsi nello shuffle, nel Buffalo o in
chissà che altro. E l’istruttore, pur avendo avuto la bontà di iniziare i neofiti
per gradi e con molti incoraggiamenti, non era rimasto del tutto soddisfatto
dei suoi progressi e alla decima lezione glielo aveva detto chiaro e tondo.
«Bisogna impegnarsi» le aveva detto mentre lei e Dorothea riponevano le
scarpe da ballo negli appositi sacchetti di tela in cui le portavano
religiosamente a Southall una volta alla settimana. «Se pensa ai progressi che
hanno fatto le altre signore, che pure hanno impedimenti maggiori...»
Sì, certo. Era la sacrosanta verità. Barbara sapeva che l’istruttore si riferiva
al gruppo di giovani donne musulmane che frequentavano lo stesso corso cui
si erano iscritte lei e Dorothea e che, nonostante l’abbigliamento pudico,
erano quasi tutte già in grado di eseguire un Cincinnati mentre Barbara era
ancora al semplice flap. Era il risultato della disciplina con cui facevano ciò
che veniva loro raccomandato, ovvero allenarsi, allenarsi, allenarsi.
«La aiuterò a mettersi in pari» aveva promesso Dorothea all’istruttore, che
si chiamava Kazatimiru – «Ma potete chiamarmi Kaz, naturalmente» – e che
per essere immigrato di recente dalla Bielorussia parlava un inglese
straordinariamente corretto, con una lieve traccia di accento slavo. «Abbia
fiducia in lei» gli aveva detto Dorothea.
Barbara sapeva che Kaz si era invaghito di Dorothea. Pochi uomini
resistevano al suo fascino. Perciò, quando Dorothea l’aveva pregato in tono
fascinoso di avere pazienza, Kaz si era lasciato lavorare come cera calda fra
le sue mani curatissime. A quel punto Barbara aveva pensato di essere a
posto. Si era illusa di potersi presentare a lezione e fingere di sapere quello
che faceva: purché producesse i rumori giusti con le sue scarpette rosse, tutto
le sarebbe stato perdonato. Ma aveva fatto i conti senza Dorothea.
Avrebbero fatto allenamenti supplementari dopo il lavoro, le aveva
annunciato la segretaria del dipartimento. Non voglio sentire scuse, sergente
Havers. C’era una lista d’attesa di donne che non vedevano l’ora di iscriversi
al corso di Kaz e, se Barbara non si fosse dimostrata all’altezza con le
claquette, sarebbe stata prontamente sostituita.
Solo giurando sulla testa di sua madre Barbara era riuscita a convincere
Dorothea a desistere. L’idea della segretaria era allenarsi al dipartimento, in
fondo alle scale, vicino ai distributori automatici, dove c’era abbastanza
spazio per provare shim sham, shuffle e scuffle, riffle e riff. Ci mancava solo
quello, aveva pensato Barbara, per dare il colpo di grazia alla sua reputazione
agli occhi dei colleghi. Aveva giurato che si sarebbe esercitata a casa tutte le
sere, e l’aveva fatto. Per almeno un mese.
Era migliorata quanto bastava per ottenere un cenno di approvazione da
parte di Kaz e un sorriso da Dorothea. Ma aveva tenuto nascosta a tutti la sua
passione per la danza.
Dopo un po’ si era accorta di aver perso quasi sette chili praticamente
senza sforzo. Si era dovuta comprare una gonna di una taglia in meno e
quando annodava la coulisse dei pantaloni la parte di cordone che avanzava
era ogni settimana un po’ più lunga. Presto avrebbe dovuto scendere di una
taglia anche per quelli. Forse un giorno sarebbe diventata il ritratto della
bellezza filiforme, aveva pensato. A questo mondo erano successe cose anche
più strane.
D’altro canto, i chili persi aprivano la strada alla possibilità di rimpinzarsi
di curry due sere alla settimana. E di mangiare quantità enormi di naan. Non
scondito, si badi bene, ma con burro all’aglio, oppure burro e spezie e miele e
mandorle. Tutte le varianti di naan che riusciva a trovare, insomma.
Stava per recuperare tutto il peso perduto quando Kaz aveva cominciato a
parlare della Tap Jam Session. Barbara era al settimo mese di lezioni e stava
pensando a un buon dahl di lenticchie servito con naan e tagliatelle al
salmone (non era contraria alle mescolanze etniche in fatto di cibo) quando
Dorothea le aveva detto: «Dobbiamo assolutamente andarci, sergente
investigativo Havers. È libera giovedì sera, vero?»
Barbara si era riscossa dalla sua visione di carboidrati senza limiti. Giovedì
sera? Libera? Esisteva forse un altro aggettivo che si poteva applicare a una
qualsiasi delle sere della sua vita? Stupidamente, aveva annuito. «Ottimo!»
aveva esclamato Dorothea, poi, rivolta a Kaz, aveva gridato: «Conti su di
noi!» Barbara avrebbe dovuto intuire che c’era sotto qualcosa. Ma fu solo
dopo la lezione, mentre andavano verso la stazione della metropolitana, che
scoprì in cosa si era lasciata coinvolgere.
«Ci divertiremo da matti!» disse Dorothea. «E ci sarà anche Kaz. Sarà sul
palco con noi per la Renegade.»
Fu dalla parola palco che Barbara capì che per il giovedì successivo si
sarebbe dovuta inventare un’improvvisa malattia invalidante. A quanto
pareva, infatti, si era appena impegnata a partecipare a una jam session di tip
tap, che decisamente non rientrava fra le dieci cose che desiderava fare prima
di morire.
Tentò di farsi esonerare adducendo piedi piatti e alluci valghi. «Non provi
nemmeno a tirarsi indietro, sergente investigativo Havers» fu la serafica
reazione di Dorothea. E, come se non bastasse, informò Barbara che doveva
portare le claquette al lavoro il giorno prestabilito e che, in caso contrario, il
sergente investigativo Winston Nkata sarebbe stato lieto di accompagnarla a
casa a prenderle. Oppure l’ispettore Lynley. Gli piaceva usare la sua bella
macchina, no? Sicuramente avrebbe fatto volentieri un giro fino a Chalk
Farm e ritorno.
«Va bene, va bene.» Barbara si arrese. «Ma se pensa che io abbia
intenzione di esibirmi, si sbaglia di grosso.»
E così il giovedì sera si ritrovò a Soho.
Le strade erano affollate, non solo perché era ufficialmente cominciata la
stagione turistica, ma anche perché era bel tempo e perché Soho attirava
frequentatori di locali notturni, cinema, teatri e ristoranti nonché gente cui
piaceva guardarsi intorno, ballare e bere. Fu necessario sgomitare parecchio,
quindi, per arrivare in Old Compton Street dove si trovava il nightclub Ella
D’s.
Al piano superiore, due volte al mese, si teneva una Tap Jam Session che,
come Barbara apprese ben presto, consisteva in Jam Mash, Renegade Jam e
Solo Tap. Tre eventi che Barbara si ripromise di evitare come la peste non
appena scoprì in cosa consistevano.
La Jam Mash era in pieno svolgimento, quando arrivarono. Rimasero per
un quarto d’ora fuori ad aspettare che Kaz si palesasse e illustrasse loro le
tanto decantate delizie dell’Ella D’s. Poi Dorothea annunciò spazientita che
«gli abbiamo dato una chance e l’ha sprecata» ed entrò nel club, da dove
provenivano musica e qualcosa di molto simile allo scalpitare di un branco di
pony appena ferrati.
Il volume aumentò a mano a mano che salivano le scale e, oltre alle voci
dei Big Bad Voodoo Daddy, sentirono una donna che urlava al microfono:
«Scuffle, scuffle! E ora un flap! Bene. Adesso guardate».
In realtà Kaz non le aveva affatto abbandonate. Lo scoprirono entrando in
una grande sala con una pedana rialzata da una parte, una ventina di sedie
accostate al muro e un gruppo di persone meno numeroso di quanto Barbara
sperasse. Era chiaro che non sarebbe passata inosservata, se si fosse unita alle
danze.
Kaz era sulla pedana assieme a una donna robusta con un look anni
Cinquanta. Niente tacchi alti, naturalmente, ma claquette lucidissime di cui
faceva uso con straordinaria perizia. Annunciava i passi e li eseguiva con
Kaz. Davanti alla pedana, tre file di ballerini tentavano di imitarli.
«Oh, che bellezza!» esclamò Dorothea.
Per motivi imperscrutabili, aveva scelto per l’occasione una mise vintage.
A lezione andava sempre in body e calzamaglia, nascosti sotto i pantaloni
fino al momento di entrare in pista, ma quella sera aveva optato per gonna a
ruota, camicetta annodata sotto il seno e, in testa, fascia con fiocco alla Betty
Boop. Barbara stabilì che doveva essere un modo per rimanere in incognito e
si rammaricò di non aver pensato anche lei a una soluzione del genere.
Dorothea non era però in incognito per Kaz, che individuò lei e Barbara in
meno di trenta secondi, saltò giù dal palco e andò loro incontro al ritmo di
Cincinnati. Con il sesto senso di un provetto ballerino, appena prima di finire
loro addosso mandandole entrambe a gambe all’aria si produsse in una
giravolta impeccabile.
«Che spettacolo!» esclamò, alludendo ovviamente a Dorothea. Barbara
aveva optato come sempre per la semplicità: scarpe da ginnastica, leggings e
una T-shirt con la scritta: NON STO RIDENDO DI TE. HO SOLO
DIMENTICATO DI PRENDERE LE PASTIGLIE.
Dorothea sorrise e fece una piccola riverenza. «Complimenti!» disse
riferendosi all’esibizione di poco prima. «Chi è lei?» chiese poi.
«È KJ Fowler» rispose Kaz fiero, «la ballerina di tip tap numero uno nel
Regno Unito.»
KJ Fowler intanto continuava ad annunciare passi e combinazioni. La
musica finì e subito partì un altro brano, Johnny Got a Boom Boom.
«Mettetevi le scarpe, signore. È ora di darsi una mossa» disse Kaz.
E lo fece in direzione della pedana, dove KJ Fowler stava eseguendo una
serie di passi che misero a dura prova coloro che cercavano di seguirla, con il
risultato che sembrava di essere nella metropolitana all’ora di punta anziché
in una sala da ballo. Con gli occhi accesi, Dorothea disse a Barbara:
«Claquette».
In disparte, si infilarono le scarpe da tip tap. Mentre Barbara cercava
disperatamente un motivo credibile per una improvvisa paralisi, Dorothea la
trascinò in pista. Sul palco KJ Fowler stava eseguendo un cramp roll cui Kaz,
dietro sue istruzioni, fece seguire una combinazione vertiginosa di passi che
solo un pazzo avrebbe tentato di emulare. Alcuni tuttavia ci provarono e, fra
questi, anche Dorothea. Barbara si fece da parte e rimase a guardare.
Bisognava ammetterlo: Dorothea era brava. Era quasi al livello di potersi
esibire in un assolo. E avendo come rivali Barbara e le giovani musulmane, ci
sarebbe arrivata in un batter d’occhio.
Sopravvissero a quasi venti minuti di Jam Mash. Barbara grondava sudore
e cercava di escogitare un modo per tagliare la corda senza che Dorothea se
ne accorgesse, quando la musica si interruppe – grazie a Dio – e JK Fowler
informò i presenti che il tempo era scaduto. Sulle prime Barbara pensò a una
beneaugurata liberazione, ma un attimo dopo KJ annunciò un evento molto
speciale: i Tap Jazz Fury, ospiti d’onore all’Ella D’s.
La notizia fu accolta con applausi e acclamazioni e come dal nulla si
materializzò sul palco un complesso di musicisti jazz. Appena cominciarono
a suonare, i presenti si scatenarono. Alcuni dei ballerini erano così lesti di
gambe che a Barbara venne una mezza idea di continuare solo per il gusto di
vedere se riusciva a raggiungere un decimo della loro bravura.
Ma era solo una mezza idea e fu stroncata sul nascere da una vibrazione
proveniente dall’altezza della cintura, dove aveva il cellulare. Anche se, in
via del tutto eccezionale, aveva dedicato quel giovedì sera al tip tap, era pur
sempre reperibile. E il cellulare che vibrava poteva voler dire una cosa sola: il
dovere la chiamava.
Estrasse il telefono dai recessi del girovita e lo guardò. Era il
sovrintendente Isabelle Ardery. Generalmente la chiamava solo per
rinfacciarle qualche malefatta, perciò prima di rispondere Barbara procedette
a un rapido esame di coscienza, senza riscontrare anomalie di sorta.
Considerato il baccano nella sala, ritenne opportuno andare a rispondere
altrove. Toccò una spalla a Dorothea, le mostrò il telefono e senza emettere
suono sillabò Ardery. Dorothea gemette «Oh no!» ma naturalmente sapeva
che non c’era niente da fare: Barbara doveva rispondere.
Non fece però in tempo a prendere la chiamata prima che scattasse la
segreteria. Uscì dalla sala facendosi largo a spallate e si diresse nel bagno
delle donne, in fondo al corridoio. Entrò e ascoltò il breve messaggio. «Non
la chiamo perché è reperibile, sergente, ma le ricordo che è tenuta a
rispondere al telefono. Perché non lo fa?»
Barbara richiamò. «Mi scusi, capo. Sono in un posto rumoroso. Non ho
fatto in tempo a rispondere. Che succede?» disse prima che Isabelle Ardery si
lanciasse in un’invettiva.
«Domani lei va alla sede della West Mercia Police» disse il sovrintendente
Ardery senza preamboli.
«Ma... Ma cosa ho fatto? Non ho sgarrato nemmeno una volta da
quando...»
«Non sia paranoica» la interruppe Isabelle. «Ho detto ’lei va’, non ’lei è
stata trasferita’. Domattina si porti la valigia in ufficio e cerchi di arrivare
presto.»
Wandsworth
Londra
Isabelle Ardery aveva capito subito che le era stato affidato un compito molto
delicato. Un’indagine su un altro corpo di polizia era sempre e comunque
imbarazzante, ma se di mezzo c’era la morte di una persona in custodia
cautelare era ancora peggio. La cosa peggiore in assoluto, poi, era quando in
quel genere di indagine si intrometteva la politica. Pochi istanti dopo essere
entrata nell’ufficio del vicecommissario Sir David Hillier, Isabelle capì che
gli ingredienti c’erano tutti.
Da dietro la sua scrivania di segretaria, Judi MacIntosh – Judi con la i, mi
raccomando – le diede una discreta indicazione di quello che l’aspettava
specificando che Sir David era a colloquio con un membro del Parlamento.
«Uno che non ho mai sentito nominare» ammise, dal che Isabelle dedusse che
il parlamentare in questione era uno sconosciuto senza incarichi ufficiali.
«Come si chiama?» chiese a Judi prima di girare la maniglia ed entrare
nella stanza.
«Quentin Walker» rispose la segretaria. E aggiunse: «Non ho la minima
idea del motivo per cui è qui, ma sono sessantacinque minuti che parlano».
Quentin Walker era stato eletto nel collegio di Birmingham. Quando
Isabelle aprì la porta, lui e Hillier si alzarono dalle sedie intorno a un piccolo
tavolo da riunioni su cui si trovavano un bricco di caffè e due tazze già usate,
più una terza pulita. Dopo le presentazioni, Hillier la invitò con un cenno a
servirsi e Isabelle lo fece.
Il vicecommissario le raccontò senza tanti giri di parole che il 25 marzo,
sotto la giurisdizione della West Mercia Police, un uomo era morto in stato di
fermo. Come di consueto, sull’episodio era stata aperta un’inchiesta della
commissione indipendente per i reclami contro la polizia, secondo la quale,
nonostante alcune irregolarità, non vi erano gli estremi per coinvolgere il
Crown Prosecution Service. Non era stato commesso alcun reato: si trattava
di suicidio.
Isabelle guardò Quentin Walker. Non sembrava esserci alcuna
giustificazione per la sua presenza, a meno che l’individuo in questione non
fosse morto a Birmingham, ovvero nel suo collegio elettorale. Ma il fatto che
il defunto fosse sotto la custodia della West Mercia Police sembrava
escludere questa ipotesi.
«Chi era il morto?» chiese Isabelle.
«Un certo Ian Druitt.»
«Ed era sotto custodia dove?»
«Ludlow.»
Strano. Ludlow non era affatto vicino a Birmingham. Isabelle guardò di
nuovo Quentin Walker.
Era impassibile. Isabelle notò che era un bell’uomo, capelli castani curati e
mani che non dovevano mai aver fatto un lavoro pesante. Aveva anche una
pelle splendida. Isabelle si chiese se nel suo ufficio al Parlamento si
presentasse tutte le mattine un barbiere che dopo la rasatura gli applicava
panni caldi sul viso.
«Perché Druitt era in custodia cautelare? Lo sappiamo?» domandò.
Di nuovo fu Hillier a rispondere. «Molestie sessuali su minorenni.» Il tono
era asciutto.
«Ah.» Isabelle posò la tazza sul piattino. «Come si sono svolti esattamente
i fatti?» Stava ancora aspettando di sentire la voce di Quentin Walker. Non
era certo andato alla Metropolitan Police per una visita di cortesia. E aveva
almeno dieci anni meno di Hillier, quindi non potevano essere ex compagni
di studi.
«Si è impiccato mentre aspettava che lo trasferissero da Ludlow alla
camera di sicurezza di Shrewsbury» le disse Hillier. «Era stato portato alla
stazione di polizia di Ludlow in attesa dell’arrivo dei colleghi di
Shrewsbury.» Alzò le spalle, ma sembrava sinceramente dispiaciuto. «Un
gran pasticcio.»
«Ma perché l’avevano portato a Ludlow? Perché non direttamente a
Shrewsbury?»
«Magari qualcuno ha pensato che le accuse imponessero di intervenire
subito e, dal momento che a Ludlow c’è una stazione di polizia...»
«Non c’era nessuno a sorvegliarlo?»
«La stazione non è presidiata.»
Isabelle guardò prima Hillier, poi il parlamentare, poi di nuovo Hillier. Un
suicidio in una stazione di polizia non presidiata non era «un gran pasticcio»,
ma un disastro colossale che preannunciava un’azione legale.
Era molto strano, perciò, che la commissione IPCC avesse deciso di non
coinvolgere il Crown Prosecution Service. Nella vicenda c’erano parecchie
irregolarità e Isabelle aveva la sensazione che la risposta di Hillier alla sua
domanda successiva ne avrebbe rivelate altre.
«Chi ha eseguito il fermo?»
«L’agente ausiliario di Ludlow. Ha seguito alla lettera gli ordini ricevuti:
prelevare il soggetto, portarlo alla stazione di Ludlow e aspettare che una
pattuglia venisse a prenderlo da Shrewsbury.»
«Non occorre che io le faccia notare quanto sia anomalo, Sir David. Un
fermo eseguito da un agente ausiliario? I giornalisti ci si saranno buttati a
pesce, quando questo... come ha detto che si chiamava?... Druitt, giusto?
Quando questo Druitt si è ammazzato. Perché la commissione per i reclami
non ha sottoposto la cosa al Crown Prosecution Service?»
«Come le ho detto, la commissione ha svolto le sue indagini senza trovare
gli estremi di reato. Si tratta di una questione disciplinare, non di un illecito.
Tuttavia, il fatto che Druitt sia stato portato in una stazione non presidiata,
che il fermo sia stato effettuato da un agente ausiliario, che il suicida dovesse
rispondere di presunte molestie sessuali su minorenni... Lei capirà qual è il
problema.»
Isabelle capiva benissimo. I pedofili erano odiati e detestati. Un pedofilo
morto in stato di custodia non lasciava presagire nulla di buono. Ma il fatto
che si richiedesse un supplemento di inchiesta, dopo che la commissione
IPCC aveva concluso che non sussisteva alcun reato, voleva dire che c’era
sotto qualcos’altro.
«Non capisco come mai lei è qui, onorevole Walker. È in qualche modo
coinvolto nella vicenda?» disse Isabelle.
«Il decesso sembra sospetto.» Quentin Walker estrasse dal taschino un
fazzoletto bianco e se lo premette con delicatezza sulle labbra.
«Ma evidentemente la commissione IPCC non l’ha ritenuto tale, se ha
concluso che è stato un suicidio. È una disgrazia, ma pare si tratti solo di
abbandono del posto di servizio da parte dell’agente ausiliario. Perché il
decesso sarebbe sospetto?» replicò Isabelle.
Walker le spiegò che Ian Druitt aveva aperto un circolo per l’infanzia, un
doposcuola per maschi e femmine presso la chiesa parrocchiale di St.
Laurence a Ludlow. L’iniziativa aveva avuto successo ed era molto
ammirata. Non c’era mai stata la minima ombra di scandalo e nessuno dei
bambini che frequentavano quella sorta di oratorio aveva mai espresso la
minima lamentela sul conto di Druitt. Da ciò nascevano le perplessità, tanto
che qualcuno si era rivolto al proprio rappresentante in Parlamento per
ottenere delle risposte.
«Ma Ludlow non rientra nel suo collegio elettorale» osservò Isabelle. «Il
che mi fa pensare che questo qualcuno avesse un rapporto personale o con lei
o con il morto. Sbaglio?»
Dall’occhiata che Walker lanciò a Hillier, Isabelle dedusse che la sua
domanda lo aveva in qualche modo rassicurato. Evidentemente l’onorevole
nutriva dei dubbi sul suo conto. Vederglieli manifestare, sia pure in modo
indiretto, la irritò. Era esasperante che le donne fossero ancora poco
considerate.
«C’è un rapporto personale, onorevole Walker?»
«Tra i miei elettori c’è Clive Druitt» rispose il parlamentare. «Ha mai
sentito nominare la Druitt Craft Breweries?»
Isabelle scosse la testa, anche se le suonava vagamente familiare.
«È un birrificio con annesso gastropub» spiegò Walker. «Ha aperto il
primo a Birmingham. Adesso ne ha otto.»
Questo probabilmente significava che Druitt era ricco, pensò Isabelle. E a
sua volta questo significava che il suo politico di riferimento lo teneva in
attenta considerazione. «È parente del morto?» chiese Isabelle.
«Ian Druitt era suo figlio. Clive, comprensibilmente, non crede né che
fosse pedofilo, né che si sia suicidato.»
Quale genitore vuole sentirsi dire che suo figlio è un criminale? pensò
Isabelle. Tuttavia, dopo aver indagato, la commissione IPCC aveva dato al
padre del defunto la deplorevole e tragica conferma che Ian Druitt si era tolto
la vita. Walker non poteva non averlo spiegato a Druitt senior. Isabelle
faticava a capire per quale motivo la Metropolitan Police fosse stata coinvolta
nella vicenda.
Lanciò un’occhiata a Hillier. «Continuo a non vedere...» disse.
Hillier la interruppe. «I fondi per le forze dell’ordine hanno subito tagli
pesantissimi in quella zona del Paese. L’onorevole Walker ci sta chiedendo di
accertare che queste ristrettezze finanziarie non abbiano alcuna attinenza con
i fatti in questione.» Aveva sottolineato la parola accertare. Il compito di
Isabelle, dunque, era incaricare qualcuno di calmare le acque e rassicurare il
signor Druitt in modo che non ricorresse alle vie legali. L’idea non le
sorrideva affatto, ma Isabelle sapeva che non era il caso di polemizzare con il
vicecommissario.
«Posso mandare Philip Hale, Sir David. Ha appena finito...»
«Preferirei che se ne occupasse personalmente, Isabelle. È una questione
che richiede una certa delicatezza.»
Il sovrintendente Ardery rimase impassibile. Era un compito adatto a un
ispettore investigativo, a dir tanto. Ma anche se non fosse stato così, l’ultima
cosa di cui aveva bisogno in quel momento era una trasferta nello Shropshire.
«Se parliamo di delicatezza, potrebbe essere più adatto l’ispettore
investigativo Lynley.»
«Forse. Ma io vorrei che se ne occupasse lei. Con il sergente investigativo
Havers a farle da braccio destro. Vista la buona prova di sé che ha dato nel
Dorset, sono certo che se la caverà egregiamente anche nello Shropshire.»
A Isabelle non sfuggì che il vicecommissario stava cercando di dirle
qualcosa e subito recepì il messaggio. «Ah, sì» disse. «Non avevo pensato al
sergente. Sono pienamente d’accordo con lei, signore.»
Hillier le scoccò un sorriso. «Lo immaginavo» disse. Poi si rivolse al
parlamentare e aggiunse: «Sarò sincero, onorevole Walker. Siamo sotto
organico ovunque, a causa dei provvedimenti del governo. Possiamo
dedicarle non più di cinque giorni. Dopodiché, il sovrintendente Ardery e il
sergente investigativo Havers dovranno rientrare a Londra».
Walker ebbe il buon senso di non obiettare. «La ringrazio. Ho capito. Mi
consenta di essere altrettanto sincero. Ero contrario ai tagli alle forze
dell’ordine. Sono dalla vostra parte. E lo sarò ancora di più quando questa
faccenda sarà stata risolta» disse.
Poco dopo si congedò. Hillier aveva già fatto segno a Isabelle di rimanere
dov’era e, quando la porta si fu chiusa alle spalle del deputato, tornò a
sedersi. Scrutò Isabelle con aria meditabonda.
«Confido che questa avventura nello Shropshire ci consentirà di
raggiungere finalmente il nostro scopo» disse poi.
Isabelle aveva capito benissimo a cosa alludeva il vicecommissario. «È
mia intenzione fare in modo che sia così» gli disse.
Wandsworth
Londra
Quella sera, a casa, Isabelle Ardery fece i bagagli per la trasferta nelle
Midlands. Prima, però, andò a cercare la vodka. Aveva già bevuto un martini,
ma si disse che aveva diritto a un altro drink, visto che la giornata era stata
lunga e piena di sviluppi inaspettati.
Lo sorseggiò mentre sceglieva biancheria, pantaloni, maglie e camicia da
notte per il viaggio. Aveva preso l’abitudine di mescolare vodka e ghiaccio,
anziché metterli nello shaker, perché così le faceva più effetto: la vita
assumeva contorni più morbidi, e in quel periodo Isabelle aveva un gran
bisogno di cambiare prospettiva, per via del bastardo dell’ex marito e del suo
cosiddetto «indispensabile» avanzamento di carriera. «Potrai venire a trovarci
durante le vacanze, Isabelle» le aveva detto in tono viscidamente cortese.
«Avremo una casa abbastanza grande o, se preferirai stare per conto tuo,
sicuramente ci saranno degli alberghi adatti nelle vicinanze. O magari un bed
and breakfast.Non sarebbe male, no? E, prima che tu me lo chieda, no, i
ragazzi non potranno venire a passare le vacanze da te. È fuori discussione.»
Isabelle non intendeva dare all’ex marito la soddisfazione di perdere le
staffe. Sapeva in quali sabbie mobili si sarebbero impantanati, se gli avesse
detto anche soltanto «Per piacere, Bob»: sarebbe iniziata una disquisizione
del genere «Sai benissimo perché non è possibile, Isabelle». E da lì sarebbero
finiti a parlare del loro passato comune, con l’ennesima discussione inutile
che sarebbe prontamente degenerata in uno scambio di accuse e smentite.
Meglio lasciar perdere.
Finì il vodka martini prima di terminare i bagagli, ma aveva già preso
quasi tutto il necessario e quindi sapeva che non rischiava di combinare
grossi guai. Soddisfatta del proprio grado di sobrietà, rabboccò il cocktail e
mise con cura in valigia la bottiglia di vodka. Ultimamente dormiva male e di
sicuro avrebbe dormito anche peggio in un letto non suo. La vodka le serviva
come sonnifero. Non c’era niente di male.
Dopo aver terminato i preparativi per il viaggio e aver messo la valigia
vicino alla porta, andò al telefono. Sapeva a memoria tutti e due i numeri e
fece quello di casa, anziché del cellulare. Se non avesse risposto, avrebbe
lasciato un messaggio. Non voleva disturbarlo, nel caso avesse deciso di
passare la notte altrove.
Lynley la riconobbe dalla voce, come prevedibile. Parve sorpreso e anche
un po’ diffidente. Dopo un «Pronto, ciao», proseguì con un «Tutto bene?» in
tono decisamente troppo disinvolto.
Isabelle si diede un contegno. Occorrevano dizione impeccabile e
sicurezza. «Bene, grazie, Tommy. Ti disturbo?» disse, che era un modo per
chiedere velatamente «Daidre è con te?» e «Siete affaccendati in quello in cui
spesso sono affaccendati gli amanti alle dieci di sera?»
«Stavo facendo una cosa, ma può aspettare» rispose affabile Lynley.
«Charlie mi ha chiesto di aiutarlo a ripassare la parte. Ti ho detto che gli
hanno affidato un ruolo niente male in una pièce di Mamet? Non è nel West
End, e nemmeno a Londra, a dire il vero, ma a quanto pare purché sia nelle
Home Counties è da considerarsi un successo.»
In sottofondo si sentì una voce che Isabelle riconobbe: Charlie Denton, che
da anni viveva con Thomas Lynley nella bella casa di Belgravia e, in cambio
di vitto e alloggio, fungeva da cameriere, cuoco, governante, attendente e in
generale da factotum, salvo prendersi il tempo necessario per perseguire una
carriera teatrale che fino a quel momento era consistita soltanto in occasionali
particine qua e là, anzi, più là che qua.
«Sì, certo, hai perfettamente ragione» disse Lynley a Charlie. «Quello che
conta è che sia Mamet.» Poi, a Isabelle: «È anche in attesa di una chiamata
dalla BBC».
«Davvero?»
«L’esperienza che ha fatto qui in Eaton Terrace gli ha dato una certa
credibilità, diciamo così, in fatto di ruoli in costume. Con un po’ di fortuna,
impersonerà il valletto irascibile in una serie di dodici episodi ambientata a
fine Ottocento. Sta chiedendo a tutti di tenere le dita incrociate.»
«Digli che le mie lo sono già.»
«Sarà felice di saperlo.»
«Hai qualche minuto da dedicarmi?»
«Certo. Abbiamo finito. O perlomeno io ho finito. Charlie andrebbe avanti
fino all’alba. È successo qualcosa?»
Isabelle gli fece un resoconto abbreviato: il suicidio, la West Mercia
Police, la commissione IPCC, un parlamentare e il suo ricco sostenitore. Alla
fine Lynley disse quel che era logico aspettarsi: «Se l’IPCC ha stabilito che
non ci sono reati da perseguire, cos’altro vuole Walker?»
«È solo una formalità, si tratta di gettare acqua sul fuoco. La Metropolitan
Police getta l’acqua nell’interesse di un parlamentare cui senza dubbio in
futuro chiederà di ricambiare il favore.»
«Tipico di Hillier.»
«Eh, già.»
«Quando vuoi che parta? Volevo fare una puntata in Cornovaglia, ma
posso tranquillamente rimandare.»
«Ti devo chiedere di rimandare, Tommy, ma non per andare nelle
Midlands.»
«Ah. E allora chi...?»
«Hillier mi ha chiesto di occuparmene personalmente.»
L’annuncio fu accolto dal silenzio di Lynley. Anche lui si rendeva conto di
quanto fosse anomalo che Isabelle seguisse una faccenda che normalmente
sarebbe toccata a un collega di rango inferiore. Inoltre, c’era il problema non
indifferente di chi avrebbe preso il posto del sovrintendente durante la
trasferta.
«Mi sostituirai tu. La missione nelle Midlands non sarà lunga, quindi non
dovrai rimandare di molto la Cornovaglia. A proposito, tutto bene, spero?»
disse Isabelle.
Alludeva ai parenti di Lynley, che vivevano in Cornovaglia, non lontano
dal mare, in una tenuta – a quanto si diceva – enorme che fino a quel
momento erano riusciti a conservare intatta senza alzare bandiera bianca e
cedere tutto al National Trust o all’English Heritage. Lynley la rassicurò. Si
trattava semplicemente della visita che faceva ai suoi ogni anno, resa un po’
più complicata in quella occasione dal fatto che sua sorella e la figlia
adolescente avevano venduto nello Yorkshire per trasferirsi in Cornovaglia
dalla madre e dal fratello. «Ma, come dicevo, è un viaggio che posso
rimandare senza problemi» concluse.
«Grazie della disponibilità, Tommy. So che ti spettano dei giorni di ferie, a
proposito.»
Erano arrivati alla parte più delicata della conversazione. Thomas Lynley
era un uomo cortese, colto, di sangue blu, con un polveroso titolo nobiliare
che probabilmente sfoderava per prenotare senza difficoltà nei ristoranti
migliori di Londra, ma di sicuro non era uno stupido. Aveva senza dubbio
subodorato che c’era sotto qualcosa e non ci avrebbe messo molto a capire di
che cosa si trattava. Tanto valeva parlare chiaro. «Porterò con me il sergente
Havers. Le ho detto di presentarsi con lo zaino pronto. Te lo dico perché, nel
caso arrivassi dopo che siamo andate via, non stia a chiederti dov’è sparita».
Anche a questo Lynley reagì con un silenzio. A Isabelle pareva di vedere
gli ingranaggi che lavoravano dentro la sua testa. Un attimo dopo le disse:
«Isabelle, non sarebbe meglio...»
«Non chiamarmi Isabelle!»
«Scusa» disse lui. «Riguardo al farti accompagnare da Barbara... Non
sarebbe più adatto il sergente Nkata? Considerando di cosa si tratta, non ti
sembra che ci vorrebbe una... una mano più leggera?»
Certo, Nkata sarebbe stato più adatto. Winston Nkata era un uomo che,
quando gli si dava un ordine, lo eseguiva, un abile professionista che fino a
quel momento non aveva mai avuto difficoltà a collaborare con il resto del
team investigativo agli ordini di Isabelle Ardery. Il sergente Nkata era
sicuramente più affidabile di Barbara, ma non si prestava al raggiungimento
dello scopo ultimo di Isabelle Ardery. Lynley l’avrebbe di certo capito, presto
o tardi.
«Mi piacerebbe assistere alla riabilitazione completa di Barbara» replicò.
«Si è comportata discretamente dopo la trasferta in Italia e questa è, almeno
per me, l’ultima prova che le resta da superare.»
«Stai dicendo che se Barbara riesce a portare a termine questa inchiesta
senza...» Lynley esitò nella scelta delle parole e alla fine optò per: «... senza
uscire dal seminato, strapperai la domanda di trasferimento?»
«Distruggendo il suo sogno naïf di un futuro a Berwick-upon-Tweed? Sì,
sono pronta a mettere la lettera nel tritadocumenti.»
Benché sembrasse soddisfatto, Lynley avrebbe continuato a dubitare delle
sue intenzioni. Isabelle lo sapeva ed era pronta a scommettere che, non
appena chiusa la telefonata con lei, l’ispettore avrebbe chiamato subito il
sergente per farle un predicozzo, nella speranza che quella donna esasperante
per una volta gli desse retta. Le pareva quasi di sentirlo, con quella sua voce
pacata, un misto tra l’inglese di Eton e quello della BBC: «Barbara, questa è
un’occasione potenzialmente decisiva per il suo futuro. Se mi è concesso,
suggerisco di non sottovalutarla.»
«Sono sul pezzo» avrebbe risposto il sergente Havers. «Sopra, sotto,
dentro, dove le pare. Eviterò anche di fumare durante il viaggio. Dovrebbe
fare buona impressione, no?»
«L’impressione migliore la farà offrendo suggerimenti costruttivi anziché
polemiche, scegliendo un abbigliamento professionale e rispettando le
procedure in ogni fase dell’inchiesta» avrebbe replicato Lynley. «Sono stato
chiaro?»
«Come l’acqua del mar dei Caraibi» gli avrebbe risposto lei, spigliata. «Si
fidi di me, ispettore. Non combinerò guai, stavolta.»
«Mi raccomando» avrebbe concluso lui. Poi avrebbe chiuso la chiamata,
ma sarebbe rimasto dubbioso. Nessuno meglio di lui conosceva Barbara
Havers, avendo lavorato con lei per anni. Combinare guai era la sua
specialità.
Isabelle, dal canto suo, era ragionevolmente sicura di aver dato a Barbara
Havers corda sufficiente per impiccarsi con le sue stesse mani: non le restava
che indietreggiare un po’ rispetto al patibolo per avere una visuale migliore
nel momento in cui la botola si fosse aperta sotto i suoi piedi.
5 MAGGIO
Hindlip
Herefordshire
La prima cosa che Barbara Havers notò quando finalmente le lasciarono
entrare nel grande complesso dove aveva sede la West Mercia Police fu che
era un luogo molto isolato. Si erano dovute fermare alla reception, che si
trovava in un edificio a sé, per mostrare i tesserini e informare l’agente di
guardia che avevano appuntamento con il capo della polizia, il quale in teoria
doveva aver già dato disposizioni perché fossero autorizzate a entrare
immediatamente. In pratica non l’aveva fatto e Barbara ne dedusse che i
pezzi grossi locali non le avrebbero accolte con una pioggia di petali di rosa.
Quando furono finalmente autorizzate a passare, risalirono in macchina e
superarono vari cancelli lungo una strada da cui non si vedeva una
costruzione che fosse una. L’unica cosa bene in vista erano le telecamere. Ce
n’erano ovunque, ma puntate su ettari di campagna che nessun terrorista sano
di mente – sia del posto sia di altra provenienza – si sarebbe mai azzardato ad
attraversare. Perché non c’era un solo albero dietro cui nascondersi, non un
cespuglio, non una pecora di passaggio. Niente di niente fino al parcheggio.
Gli uffici amministrativi si trovavano in una ex villa sontuosamente
ricoperta di vite americana. Il vialetto che portava al maestoso edificio era
addolcito dalla presenza di arbusti e di alcune aiuole ben curate in cui stavano
cominciando a fiorire le rose. Oltre alla villa c’erano alcuni edifici di più
recente costruzione e dal parco circostante provenivano latrati che facevano
pensare a un centro di addestramento per unità cinofile. Quando si
avvicinarono all’ingresso principale, Barbara notò che probabilmente era in
corso qualche attività didattica per allievi ufficiali: un cartello a forma di
freccia con la scritta FORMAZIONE CADETTI indicava il percorso verso un
edificio che, a giudicare dalla forma, doveva essere stato la cappella della
villa.
Barbara e Isabelle erano partite da Londra quattro ore e mezzo prima. Non
esisteva un itinerario diretto: bisognava scegliere fra varie autostrade e strade
a grande percorrenza dove, con un po’ di fortuna, ogni tanto c’era un tratto a
quattro corsie senza cantieri. Quando finalmente erano arrivate a Hindlip,
l’unico pensiero di Barbara era trovare il modo di accendersi una sigaretta e
mettere sotto i denti un bel pasticcio di carne e rognone. Perché lungo la
strada Isabelle Ardery si era fermata per fare benzina, ma per il resto aveva
limitato le soste ai bisogni fisiologici particolarmente urgenti. E comunque
appena uscite dal bagno erano risalite subito in macchina. Barbara aveva
ritenuto prudente non suggerire pause pranzo.
«Questa è un’occasione più unica che rara» le aveva detto a quattr’occhi
l’ispettore Lynley prima della partenza. «Spero che saprà sfruttarla al
meglio.»
«Ho intenzione di chinare il capo tutte le volte che sarà necessario» gli
aveva assicurato Barbara. «Probabilmente al ritorno sarò diventata gobba.»
«Non la prenda alla leggera, Barbara» aveva replicato Lynley.
«Contrariamente a me, il sovrintendente ha una tolleranza limitata per le
iniziative estemporanee. Le converrà seguire le regole, altrimenti le
conseguenze saranno pesanti.»
Barbara si era spazientita. «Sì, sì, d’accordo. Non sono un’idiota,
ispettore.»
Il colloquio era stato interrotto da Dorothea Harriman. Evidentemente la
segretaria del dipartimento era stata informata della partenza da Lynley o da
Ardery, perché aveva indicato il piccolo trolley di Barbara dicendo: «Spero
che abbia messo in valigia anche le claquette, sergente investigativo. Sa
quanto è facile rimanere indietro. Come mai ieri sera non mi ha detto che
sarebbe partita? Avrei chiesto a Kaz di prepararle una registrazione della
musica per esercitarsi in albergo. Così dovrà provare senza
accompagnamento. Quante lezioni perderà? Con il saggio a luglio...»
«Saggio?» La domanda era giunta da Lynley, che aveva ascoltato con aria
decisamente troppo interessata per i gusti di Barbara.
Dorothea l’aveva informato che «il 6 luglio ci sarà un saggio di danza e
parteciperà anche il corso principianti».
«Un saggio di danza?» Lynley aveva inarcato un aristocratico sopracciglio.
Barbara aveva capito che la chiacchierata con Dorothea andava troncata al
più presto. «Sì. Bene. Certo. Comunque sia. A proposito dello Shropshire,
ispettore» si era affrettata a dire, sperando di dirottare la conversazione.
Era una pia illusione, naturalmente. Dorothea Harriman era la campionessa
europea delle tecniche antidirottamento. «Non ricorda, ispettore, che le ho
parlato di iscrivermi a un corso di tip tap con il sergente investigativo?»
aveva detto a Lynley.
«Vi siete iscritte, quindi. E siete già abbastanza brave da partecipare a un
saggio? Complimenti.» Lynley aveva rivolto un cenno del capo a Barbara e
aveva detto: «Sergente, lei non finirà mai di sorprendermi. Dove si terrà il
saggio di luglio? Mi piacerebbe...»
«Inutile che glielo dica» aveva ribattuto Barbara lanciando un’occhiata
minacciosa a Dorothea. «Non sarà invitato.» Poi aveva detto a Lynley con
una certa foga: «Non si offenda, ispettore: non inviterò nessuno. E se sono
fortunata nelle Midlands mi romperò una gamba, così non potrò nemmeno
salire sul palco».
«Pfui!» aveva esclamato Dorothea. «Ispettore investigativo Lynley, la
inviterò io.»
«Dorothea, sbaglio o ha appena detto pfui?» aveva replicato Lynley
pacatamente.
«Neanche Dorothea finirà mai di sorprenderci, ispettore» aveva detto
Barbara.
In quel momento, invece, non fu una sorpresa né per Barbara né per
Isabelle Ardery scoprire che, dopo essersi presentate all’enorme banco
rotondo della reception nell’atrio della villa, l’anticamera non era finita. Il
capo della polizia era in riunione. Le avrebbe ricevute solo dopo essersi
liberato.
Hindlip
Herefordshire
Isabelle non si aspettava un’accoglienza calorosa da parte dei funzionari della
West Mercia Police. L’intervento di New Scotland Yard significava che
qualcuno pensava che avessero violato le procedure operative e che quel
qualcuno era assai scontento.
Di solito quel genere di scontentezza si manifestava con la nomina di
avvocati che intraprendevano azioni legali potenzialmente molto costose,
oppure con incessanti telefonate da parte di infimi tabloid e di autorevoli
quotidiani che disponevano ancora di fondi sufficienti per quel tipo di
inchieste giornalistiche, invise alla maggior parte delle persone e alla maggior
parte delle istituzioni. Tuttavia non si era verificata nessuna di quelle due
ipotesi. Non era stato nominato alcun avvocato, non c’erano state minacce di
querele e i giornali che avevano dato la notizia della morte del fermato e delle
relative indagini dopo un po’ erano passati ad altro. Il fatto che ci fosse un
supplemento di inchiesta, voluto da un parlamentare... Non c’era da
meravigliarsi, secondo Isabelle, che lei e il sergente Havers venissero lasciate
a rinfrescarsi le idee per ben venticinque minuti.
Dopo i primi cinque, Barbara Havers chiese educatamente il permesso di
uscire a fumare una sigaretta. Isabelle fu tentata di ordinarle di rimanere
dov’era, ma doveva riconoscere che nel viaggio, durante il quale lei si era
deliberatamente fermata soltanto per fare benzina e una volta per andare in
bagno, Barbara si era dimostrata quanto mai collaborativa. Si era persino
vestita con cura, anche se chissà dov’era andata a pescare quell’orrendo
cardigan di un grigio che decisamente non le donava, pieno di pelucchi che
parevano pustole di vaiolo. Alla richiesta di fumare una sigaretta, perciò,
Isabelle annuì. Le disse solo di sbrigarsi, e il sergente obbedì.
Finalmente una poliziotta venne a prenderle e fece loro strada lungo uno
scalone e oltre l’imponente porta a due battenti di quello che un tempo
doveva essere stato il salotto della villa. Era una grande stanza con finestre
spettacolari e splendidi bassorilievi sul soffitto, al centro del quale pendeva il
lampadario originale di cristallo, circondato da un rosone di frutta di gesso;
sulla mensola dell’enorme caminetto di marmo, sorretta da cariatidi, facevano
bella mostra di sé due foto di matrimonio e una targa.
Dopo essersi sentita dire che il capo della polizia era momentaneamente
fuori ufficio ma le avrebbe raggiunte subito, Isabelle incrociò le braccia e
represse l’istinto di ribattere acida qualcosa tipo «Abbiamo capito l’antifona».
Si sforzò invece di concentrarsi sulla stanza e su come doveva essere stata in
passato. Con l’arredamento attuale era difficile immaginare divani e poltrone
d’epoca graziosamente disposti intorno a tavolini ideali per il caffè, per il tè e
per garbate conversazioni postprandiali. Dietro la scrivania del capo della
polizia, che occupava buona parte dello spazio, c’era una libreria da ufficio
con una serie di faldoni telati o plastificati, tenuti su da pile di cartelline in
diversi stadi di decomposizione. Sopra le cartelline c’erano una polverosa
collezione di giocattoli in ferro battuto e un cestino con tre palle da cricket.
Su un lato, fra due finestre con spessi tendoni, c’era un tavolo con cinque
sedie intorno e una caraffa d’acqua con cinque bicchieri, il che faceva
pensare che il colloquio con il capo della polizia si sarebbe svolto lì.
Il sergente Havers si era avvicinata a una delle finestre. Senza dubbio
avrebbe voluto essere fuori a fumare un’altra sigaretta. E, senza dubbio,
aveva fame. Anche Isabelle aveva una fame da lupo, ma non era il momento
per mangiare.
I due battenti della porta si spalancarono contemporaneamente, come aperti
da due valletti invisibili, e nella sala entrò un uomo in divisa che
assomigliava vagamente al duca di Windsor dopo dieci anni di matrimonio
con Wallis Simpson. Senza dare loro il benvenuto, rivolse a Isabelle Ardery
un «Signora» e riservò a Barbara Havers un’occhiata da cui si capiva
chiaramente che non la considerava neppure degna di un saluto.
Non si presentò, ma Isabelle non si scompose per questo, né per il fatto che
l’avesse chiamata «signora». In ogni caso, non c’era bisogno che si
presentasse: Isabelle sapeva che era il comandante Patrick Wyatt. Riguardo al
«signora», l’avrebbe corretto al momento opportuno.
Senza neppure invitarle ad accomodarsi, Wyatt esordì: «Non sono contento
di vederla qui» e rimase in attesa della sua reazione.
Isabelle Ardery fu collaborativa. «Nemmeno io sono contenta di essere
qui. E neppure il sergente Havers. Abbiamo intenzione di restare il meno
possibile, stendere un rapporto per i nostri superiori e andarcene.»
Questo parve ammorbidirlo leggermente. Indicò il tavolo con le cinque
sedie. «Caffè?» chiese. Dopo aver declinato l’offerta e lanciato un’occhiata a
Barbara, che declinò a sua volta, Isabelle disse che l’acqua andava benissimo,
grazie infinite. Senza attendere che Wyatt riempisse i bicchieri, si sedette e
fece gli onori di casa. Anche Barbara prese posto e bevve un sorso con
l’espressione di chi si aspetta la cicuta ma, visto che non ci sono altri liquidi a
disposizione, preferisce morire avvelenato anziché di sete.
Quando anche Wyatt si fu accomodato, Isabelle andò dritta al nocciolo
della questione. «Il sergente Havers e io ci troviamo in una posizione non
facile. Non siamo qui per criticare.»
«Mi fa piacere sentirglielo dire.» Wyatt prese il bicchiere, lo vuotò d’un
fiato e lo riempì di nuovo. Isabelle notò che Barbara sembrava sollevata nel
vedere che non era collassato dopo il primo sorso.
«I tagli stanno facendo danni ovunque» continuò Isabelle. «So che per voi
è stato un duro colpo...»
«Talmente duro che siamo ridotti a milleottocento agenti per tutto lo
Herefordshire, lo Shropshire e il Worcestershire. Non abbiamo abbastanza
uomini per svolgere i tradizionali servizi di pattuglia e intere città sono
affidate a volontari di polizia e alla vigilanza di vicinato. Se succede
qualcosa, ci vogliono come minimo venti minuti perché uno dei nostri arrivi
sul posto. Sempre che non siano già tutti impegnati in altri interventi.»
«A Londra la situazione è più o meno la stessa» osservò Isabelle.
Wyatt si schiarì la gola e guardò Barbara Havers come se fosse la
personificazione delle conseguenze nefaste dei tagli di bilancio. Barbara lo
guardò a sua volta senza dire nulla, tutt’altro che intimidita.
«Innanzi tutto vorrei mettere in chiaro una cosa» disse Wyatt. «La sera in
questione, non appena è arrivata la segnalazione, è stata subito mandata
un’ambulanza, ma non c’era più nulla da fare. A quel punto è intervenuto
l’ispettore investigativo di turno. Non un agente di pattuglia, badi bene – non
ce n’era uno disponibile, purtroppo – e nemmeno un ispettore di turno. Il
capo della centrale operativa ha mandato un funzionario investigativo, che si
è precipitato immediatamente a Ludlow, ha condotto le necessarie indagini e
a tempo debito ha avvertito la commissione per i reclami.»
«A tempo debito?»
«Nel giro di tre ore. Prima ha effettuato un sopralluogo, ha interrogato sia i
soccorritori sia l’agente presente alla stazione e ha chiamato il medico legale.
È stato fatto tutto come da regolamento.»
«Capisco» disse Isabelle. La West Mercia Police aveva applicato una
versione comprensibilmente abbreviata della procedura standard: anziché
mandare un agente di pattuglia, seguito da un ispettore di turno e infine da un
funzionario della divisione investigativa, avevano mandato direttamente
quest’ultimo. In caso di decesso in custodia cautelare era prevista una
procedura speciale e chi aveva ricevuto la chiamata al 999 non poteva non
saperlo.
«È stata condotta un’altra indagine, parallela a quella dell’IPCC?» chiese
Isabelle Ardery.
«Un’inchiesta su come è potuto accadere questo guaio? Sì» rispose Wyatt.
«Entrambe le indagini sono state molto approfondite e i due rapporti sono
stati portati a conoscenza dei familiari della vittima, ma solo il rapporto della
commissione IPCC è stato reso pubblico e messo a disposizione della stampa.
Se devo essere sincero, il motivo per cui a questo punto la Metropolitan
Police abbia deciso di intervenire va al di là della mia comprensione.»
«Siamo qui per fornire rassicurazioni a un membro del Parlamento che sta
ricevendo notevoli pressioni dal padre del defunto.»
«Maledetta politica!» In quel momento suonò il telefono sulla scrivania,
grossa come una portaerei, e Wyatt si alzò per andare a rispondere. «Mi
dica.» Ascoltò la risposta. «La faccia salire subito» aggiunse poi.
Si avvicinò agli scaffali dietro la scrivania, prese una pila di cartelline, le
posò sul tavolo e tornò a sedersi.
Isabelle le guardò senza toccarle. Avrebbe avuto tutto il tempo per
esaminarle. Per il momento, voleva soltanto farsi dare un quadro generale.
«Sappiamo che il decesso è avvenuto alla stazione di polizia di Ludlow e che
quella sera la stazione non era presidiata. Com’è esattamente la situazione a
Ludlow?»
«Abbiamo dovuto chiudere diverse stazioni in tutte e tre le contee» spiegò
Wyatt. Indicò una grande mappa appesa al muro fra le due finestre, vicino al
punto in cui erano seduti, e Isabelle notò che comprendeva Herefordshire,
Shropshire e Worcestershire. «Nel caso di Ludlow, la stazione non è
presidiata ma viene usata dagli agenti in servizio di pattuglia quando hanno
bisogno di computer o di creare un’unità di crisi.»
«C’è una camera di sicurezza?»
Wyatt scosse la testa. Non c’era un luogo specifico dove tenere sotto
chiave i sospettati. Non c’erano neppure stanze per gli interrogatori, ma agli
agenti di pattuglia era consentito portare alla stazione i fermati per
interrogarli, se necessario.
«Ci hanno detto che il fermo non è stato effettuato da un agente di
pattuglia, ma da un ausiliario.»
Patrick Wyatt confermò. L’uomo morto all’interno della stazione di polizia
di Ludlow era stato portato lì da un agente ausiliario, il quale aveva ricevuto
dal suo superiore l’ordine di aspettare gli agenti di pattuglia da Shrewsbury,
al momento occupati in una serie di furti. Erano stati messi a segno colpi in
otto case e cinque negozi, in due città diverse, e gli agenti di Shrewsbury
stavano dando una mano nei sopralluoghi ai pochi ispettori disponibili.
Prevedevano che ci sarebbero volute almeno quattro ore prima di riuscire ad
arrivare a Ludlow.
«Che fretta c’era di procedere al fermo?»
Wyatt non lo sapeva, dal momento che l’ordine di fermare il presunto
pedofilo doveva essere partito dal diretto superiore dell’agente ausiliario,
responsabile di tutti gli ausiliari della zona. A lui risultava che fosse giunta
una telefonata in cui Ian Druitt veniva accusato di molestie sessuali su
minori. Una telefonata anonima. Al 999, il numero per le segnalazioni di reati
urgenti. Fatta dal telefono esterno di emergenza della stazione di polizia di
Ludlow.
«Telefono esterno?» chiese Barbara Havers. Isabelle vide che aveva tirato
fuori dalla borsa a tracolla un bloc-notes apparentemente nuovo e un
portamine.
Tutti i posti di polizia chiusi o non presidiati, spiegò Wyatt, erano dotati di
un telefono esterno per permettere agli utenti di comunicare con l’unità che
gestiva le emergenze e i reati gravi.
«Quindi si è proceduto subito al fermo sulla base di quella chiamata?»
domandò Isabelle. «Mi sembra che si sarebbe potuto benissimo aspettare
qualche ora, o anche un giorno, che si liberasse un agente di pattuglia.»
Wyatt la pensava come lei. La disgrazia, a suo parere, era frutto di due
fattori concomitanti: la serie di furti che aveva impegnato tutti gli agenti
titolari e il fatto che la denuncia riguardasse un caso di pedofilia, reato che in
quegli ultimi tempi la polizia aveva imparato a prendere molto sul serio.
In quel momento bussarono alla porta. Il comandante si alzò e fece entrare
una donna vestita in modo non molto diverso da Barbara Havers. Wyatt la
presentò: era l’ispettore investigativo Pajer. I capelli neri e lisci che le
incorniciavano il viso ovale avevano un bel taglio, ma le borse sotto gli occhi
e le labbra terribilmente screpolate le davano un’aria sfinita. Oltretutto aveva
le mani arrossate, come se avesse svolto lavori pesanti. Se non avesse avuto
con sé una ventiquattrore, Isabelle avrebbe pensato che fosse la donna delle
pulizie.
L’ispettore Pajer si rivolse a Isabelle. «Mi chiami pure Bernadette.» Si fece
avanti e strinse la mano prima a lei, poi a Barbara. Si sedette su una delle
sedie libere e si versò un bicchiere d’acqua senza aspettare che le venisse
offerto. Quindi aprì la valigetta, tirò fuori una pila di cartelline
portadocumenti e aspettò che il comandante Wyatt tornasse a sedersi.
Posò le mani sui documenti che aveva portato. «Prima di tutto, vorrei che
mi diceste per quale motivo sono stata convocata» disse.
«Il suo operato non è in discussione, Bernadette» le spiegò Wyatt.
«Con tutto il rispetto, comandante, se sono stata convocata alla sede
centrale per parlare con dei funzionari della Metropolitan Police, ho paura
che non sia così» replicò Bernadette Pajer.
A quel punto Isabelle capì di essere di fronte all’ispettore investigativo di
turno la sera in cui era morto Ian Druitt. Era l’inchiesta di Bernadette Pajer –
e quella dell’IPCC – che lei e Barbara avevano il compito di vagliare. Come
aveva fatto poco prima con Wyatt, Isabelle spiegò anche all’ispettore Pajer i
risvolti politici della situazione, ribadendo la propria intenzione di tornare a
Londra il più presto possibile.
Bernadette Pajer la ascoltò, annuì e posò le cartelline sul tavolo vicino a
quelle che vi aveva già messo Wyatt. Poi cominciò a raccontare.
Quando era arrivata alla stazione di polizia di Ludlow, disse, erano presenti
i paramedici, che avevano tentato invano di rianimare Ian Druitt, e l’agente
ausiliario che aveva proceduto al fermo, un certo Gary Ruddock. Il corpo era
stato spostato e il laccio con cui Druitt si era impiccato gli era stato tolto dal
collo.
«Che tipo di laccio era?» chiese Isabelle.
A quel punto Bernadette Pajer prese da una delle cartelline alcune foto
scattate sul posto, fra cui una di una lunga striscia di tessuto rosso scarlatto,
larga circa dieci centimetri. Era una stola, spiegò. Faceva parte dei paramenti
usati per celebrare le funzioni religiose.
«Il morto era un prete?» domandò Isabelle.
«Un diacono. Non ve l’hanno detto?»
Isabelle guardò Barbara, che aveva la bocca aperta a formare una O:
evidentemente anche lei si stava chiedendo come mai a Londra nessuno le
avesse informate di quel particolare. «Capisco. Continui, la prego», disse.
Secondo l’ausiliario che aveva eseguito il fermo, quando era andato a
prenderlo per portarlo alla stazione di polizia, Druitt aveva appena finito di
celebrare la funzione serale nella chiesa di St. Laurence e si stava togliendo i
paramenti in sacrestia. Evidentemente si era portato via la stola, infilandola
nella tasca della giacca a vento.
«Non potrebbe averla presa Ruddock, invece?» chiese Barbara Havers.
L’ispettore Pajer rispose che anche lei se l’era chiesto, ma le sembrava
altamente improbabile. Prendere la stola avrebbe presupposto un piano, una
premeditazione, mentre era un puro caso che a prelevare Druitt fosse stato
mandato proprio lui. A parte il fatto che Ruddock sapeva benissimo che se
l’uomo fosse morto durante il fermo sarebbero partite due inchieste, non una.
Bernadette Pajer sembrava aver fatto ogni cosa a dovere: aveva chiesto
l’intervento di un medico legale del ministero degli Interni; aveva fatto
allontanare i soccorritori e Ruddock; aveva raccolto le loro dichiarazioni
separatamente; per precauzione aveva telefonato anche alla Scientifica e
aveva fatto prelevare indumenti, impronte e tutto quello che poteva servire
nel caso fosse stato stabilito che si era trattato di omicidio e non di suicidio.
Non si era pronunciata in merito. Aveva fatto semplicemente quello che
bisognava fare in quelle circostanze. Era tutto documentato nei dossier:
c’erano tutte le deposizioni, da quella dell’operatore che aveva preso la
chiamata dell’ausiliario in preda al panico a quelle dei soccorritori che
avevano tentato di far ripartire il cuore di Druitt con il defibrillatore.
«E l’IPCC?» domandò Isabelle.
Bernadette Pajer ribadì di aver richiesto l’intervento di un ispettore della
commissione per i reclami contro la polizia non appena il medico legale
aveva terminato l’esame formale del corpo. L’ispettore era stato inviato
l’indomani e aveva interrogato per prima lei, e a seguire tutti gli altri.
Isabelle capì che Bernadette Pajer non intendeva aggiungere altro perché
rimise le foto nella cartellina, che allineò alle altre sul tavolo. Poi guardò
Wyatt con aria interrogativa come a dire che, se non c’era altro, visto che
erano tutti oberati di lavoro...
«Se non ha altre domande...» disse Wyatt a Isabelle, e l’ispettore Pajer fece
per alzarsi.
«Mi chiedo se qualcuno si sia premurato di verificare che questo ausiliario,
Ruddock, fosse davvero l’unico agente disponibile per procedere al fermo di
Ian Druitt» disse Isabelle.
«’Questo ausiliario’ ha sempre lavorato bene ed è rimasto traumatizzato,
non solo perché è morta una persona che era sotto la sua responsabilità, ma
anche perché è consapevole delle conseguenze che questo avrà sulla sua
carriera. Il suo compito era portare Druitt alla stazione e aspettare che lo
trasferissero a Shrewsbury. E lui lo ha eseguito alla lettera» ribatté secco
Wyatt.
«Perché non lo ha portato direttamente a Shrewsbury?» A porre la
domanda fu Barbara Havers, con la matita pronta per prendere nota della
risposta.
«Ruddock ha fatto quello che gli è stato ordinato di fare dal suo superiore»
replicò Wyatt. «Ovvero dal sergente responsabile degli ausiliari del West
Mercia. Immagino che l’ispettore Pajer abbia raccolto anche la sua
deposizione» concluse con un’occhiata a Bernadette Pajer.
«Il problema – lo vedrete leggendo il rapporto, naturalmente – è che
Ruddock si è dovuto occupare anche di un’abbuffata alcolica in corso nel
centro di Ludlow» intervenne lei.
«Sta dicendo che, dopo aver fermato Druitt, Ruddock ha lasciato la
stazione?» Di nuovo la domanda era giunta da Barbara Havers.
«Certo che no!» esclamò Wyatt.
«Ma allora come...?»
A quel punto il capo della polizia si alzò e guardò l’orologio. «Vi abbiamo
dedicato tutto il tempo che potevamo. Troverete ciò che vi serve in questi
documenti, che presumo siate tenute a leggere. O sbaglio?» disse.
Non sbagli, pensò Isabelle. Ma non lo disse perché, ovviamente, il capo
della polizia lo sapeva già.
Ludlow
Shropshire
Ding stava facendo esattamente quello che aveva giurato di non fare dopo
aver visto Brutus e quella vacca di Allison Franklin che si fermavano con il
kajak e si baciavano proprio davanti alla diga di Horseshoe. Stava scappando.
Se le cose fossero andate come dovevano andare, non li avrebbe nemmeno
visti. Se fosse entrata in casa... Da lì, pur essendo nelle vicinanze del fiume
Teme, la diga non si vedeva. Invece, rientrata a Ludlow di cattivo umore,
aveva notato la Volvo davanti al portone e aveva pensato bene di andare a
fare due passi.
Aveva trascorso il pomeriggio a guardare sua madre che faceva da guida
turistica ai pochi visitatori paganti interessati a esplorare quel mausoleo di
casa Donaldson. A Ding dava fastidio non tanto che degli estranei alitassero
sull’argenteria di famiglia – tanto più che l’argenteria di famiglia non esisteva
– quanto vedere sua madre ridotta così, a farsi in quattro per compiacerli. Si
inventava storie ridicole su quelle che aveva deciso di chiamare la «sala di re
Giacomo», la «camera della regina Elisabetta» e il «salone delle Teste
Rotonde». Ding digrignava i denti ogni volta che la sentiva pronunciare con
voce altisonante la frase «Ebbene, è qui che nel 1663...» Era l’incipit della
Presa di Cardew Hall e di chissà quali altre storie che Ding ignorava perché a
quel punto si sforzava sempre di non ascoltare. La maggior parte delle volte
ci riusciva, anche perché il suo compito consisteva nello stare all’ingresso a
vendere biglietti ai turisti e incassare i soldi dei chutney e delle marmellate di
sua madre. Chutney e marmellate che, se non altro, avevano il pregio di
essere genuini, benché Ding non si sarebbe stupita più di tanto se sua madre,
in caso di scarso raccolto, avesse comprato da Sainsbury’s qualche cassa di
marmellata di fragole da spacciare come produzione propria.
L’unica cosa vera tra le tante panzane che raccontava nel corso della visita
guidata era che la casa si chiamava Cardew Hall. Si era sempre chiamata
così, anche se la madre di Ding non aveva nemmeno un antenato che ci
avesse vissuto: aveva ereditato quella specie di rudere da un prozio senza figli
e aveva preso la folle decisione di non venderla immediatamente a un
imprenditore che intendeva trasformarlo in un albergo del circuito Relais &
Châteaux.
Per tutti questi motivi, e soprattutto perché c’era sempre un disperato
bisogno di soldi per riparare le tubature, rifare l’impianto elettrico,
ristrutturare la cucina e i bagni e liberare l’edificio da muffe, funghi e da una
varietà inimmaginabile di insetti e parassiti, Ding era costretta a presentarsi
due pomeriggi la settimana durante l’ultimo quadrimestre e tutti i pomeriggi
durante le vacanze estive per espletare il suo dovere filiale, ovvero gestire la
biglietteria. Detestava ogni minuto che passava all’ingresso di Cardew Hall,
ma il patto che aveva stretto con la madre era quello: era libera di stare a
Ludlow per conto suo a condizione di presentarsi nei giorni in cui la villa era
aperta al pubblico. Ogni volta, però, quell’esperienza la esasperava.
Quel giorno, rientrando a Ludlow, aveva voglia di rilassarsi, ma appena
arrivata sul Temeside aveva capito che in casa le sarebbe stato difficile, se
non addirittura impossibile. Aveva riconosciuto subito la Volvo parcheggiata
sul marciapiede davanti al portone, infatti, e aveva dedotto che la madre di
Finn Freeman era venuta a trovarlo. Sapendo che ogni sua visita si
trasformava in una lite – dopo due minuti che parlava con la madre, Finn ci
bisticciava – Ding aveva deciso di andare in cerca di un po’ di tranquillità sul
lungofiume e il posto più adatto le era sembrato la diga di Horseshoe, poco
più avanti. Da lì c’era una bella vista e, siccome con la primavera erano
arrivati diversi uccelli acquatici, magari sarebbe riuscita a vedere gli
anatroccoli, che la mettevano sempre di buon umore.
Invece sul Teme aveva sorpreso Brutus e Allison Franklin con le labbra
incollate, i kajak legati tra loro per facilitare il suddetto incollaggio. Vedere
Brutus che baciava Allison era stata la ciliegina sulla torta di un pomeriggio
disastroso. Era come se le si fosse spezzato qualcosa dentro. Brutus era
l’unica persona su cui poteva contare, ora che Missa se n’era andata da
Ludlow. Certo, era stata sciocca a illudersi, dal momento che Brutus aveva
messo in chiaro fin da subito che potevano solo essere amici, sia pure con un
rapporto privilegiato. Ma quando Ding aveva accettato quella clausola, aveva
dato per scontato che Brutus non avrebbe coltivato «rapporti privilegiati» con
altre ragazze, e soprattutto non a meno di duecento metri da casa. Dalla casa
in cui vivevano insieme.
Li stava guardando – Brutus e l’insopportabile Allison – quando a pochi
passi da lei partì l’allarme di un’auto e un piccolo stormo di germani reali
prese il volo starnazzando. Brutus e Allison, nel fiume, si staccarono e
fortuna volle che Brutus la vedesse. Ding si voltò di scatto per andarsene, ma
sentì un cordiale: «Ehi, Ding! Com’è andata questa volta?»
Si girò e vedendo la loro aria compiaciuta le venne voglia di correre nel
fiume come un personaggio dei cartoni animati e andare a cavarle gli occhi.
Ma l’unica cosa che fece fu strillare: «Tu... Tu...!» con una tonalità che
ricordava il miagolio di un gatto cui qualcuno avesse chiuso la coda in una
porta. Fu ancora più umiliante che vederli pomiciare ed essere beccata a
guardarli. Fece di nuovo dietrofront, scese dal marciapiede e rischiò di essere
travolta da un autobus. Il mancato investimento le provocò una scarica di
adrenalina e la fece rinsavire quanto bastava per tornare a casa senza ulteriori
incidenti.
Appena entrata, sentì Finn e la madre che se ne dicevano di tutti i colori.
Doveva essere qualcosa di grave, perché di solito lo facevano al telefono, non
di persona. In realtà Ding aveva visto la signora Freeman solo una volta,
assieme al marito, l’autunno precedente, quando erano venuti a portare a Finn
una libreria e un comò. Era stata una visita brevissima. Finn li aveva rispediti
con una fretta giustificabile solo in caso di incendio.
In quel momento, nel salotto, la signora Freeman stava dicendo: «Se c’è
una cosa che odio, e sai che non odio niente, è il modo in cui quell’uomo ti ha
gettato fumo negli occhi».
«Non è vero un cazzo. Era una brava persona. Ed era mio amico. Tu non
sopporti che io abbia degli amici, mamma. Ammettilo.»
Seguì un momento di silenzio. Ding sentì che uno dei due prendeva fiato,
probabilmente nel tentativo di calmarsi. Sapeva che avrebbe dovuto
approfittare di quell’attimo di quiete per rivelare la propria presenza, ma non
lo fece. Rimase dov’era a origliare. Se non altro, la distraeva dal pensiero di
Brutus e di Cardew Hall.
«Pensi davvero...?» disse dopo un po’ la madre di Finn. Fece un’altra
pausa. «Stai cercando di difendere Ian Druitt? È questo che stai cercando di
fare?» aggiunse poi.
«C’è poco da difendere, visto che è morto» ribatté Finn.
«Ascoltami bene, Finnegan. Mi hanno detto che Scotland Yard ha aperto
un’inchiesta. È possibile che vengano a parlare anche con te.»
«Perché?»
«Perché sono qui per verificare la correttezza delle indagini svolte dopo il
suicidio di Ian Druitt.»
«Non è possibile che Ian si sia...»
«D’accordo, vedila come vuoi tu, ma sappi che stanno indagando ed è
molto probabile che salti fuori anche il tuo nome. Se ti fanno delle domande e
tu neghi qualcosa quando invece sai che è vero...»
«Non so se è vero» la interruppe Finn. «So solo che Ian era mio amico e
che io i miei amici li conosco. E questo non ho nessuna intenzione di negarlo.
Pensi che non l’avrei saputo, se avesse messo le mani addosso a dei bambini?
Era una brava persona, e le brave persone non...»
«Oddio, Finn! Cosa credi, che i pedofili se ne stiano fuori dalle scuole a
sbavare, con i pantaloni sbottonati e il batacchio di fuori? A volte credi di
conoscere una persona e poi scopri che è completamente diversa da quello
che pensavi. Promettimi che ti terrai alla larga da tutto quello che riguarda la
morte di quel disgraziato.»
«Hai appena detto che Scotland Yard mi verrà a cercare. Cosa vuoi che
faccia? Che me ne vada da Ludlow?»
«Ho detto che potrebbero venirti a cercare. E che, nel caso, dovrai dire la
verità.»
«Posso dirgli alcune cose che li metteranno di ottimo umore.»
«In che senso? Finnegan, c’è bisogno che ti dica chiaro e tondo che sono a
un passo dal chiudere questa storia del college e farti tornare a casa con noi?»
Ding pensò che poteva essere il momento adatto per interromperli, per cui
aprì e chiuse di nuovo la porta d’ingresso, questa volta sbattendola, si avviò
nel corridoio e fece retromarcia per fermarsi sulla soglia del salotto. Vide che
Finn era stravaccato sul divano nella posizione ideale per mandare
definitivamente in bestia la madre, la quale, in piedi in mezzo alla stanza, lo
squadrava dall’alto in basso. «Ah, salve» disse Ding e la signora Freeman si
voltò di scatto. «Non entrare, se non vuoi che se la prenda anche con te»
l’avvertì Finn.
«Dena.» La signora Freeman fece una faccia che era un chiaro invito a
tirare dritto, salire di sopra e non impicciarsi oltre.
Se non fosse stata reduce da una giornata funestata prima da Cardew Hall e
poi da Brutus, Ding sarebbe sicuramente entrata nel salotto e si sarebbe
piazzata su una delle grosse poltrone a sacco solo per il gusto di dar noia alla
madre di Finn. Ma nello stato in cui era preferì starsene per conto suo. E poi
doveva studiare, per cui salutò Finn e andò verso le scale.
«Riprendiamo il discorso» furono le ultime parole che sentì, dette dalla
madre di Finn.
«Sì, dai» replicò sarcastico lui.
Siccome la sua camera era sul retro, Ding non sentì altro. Soprattutto
perché, per non sbagliare, chiuse la porta.
In camera aveva un bollitore elettrico per farsi il tè la mattina. Lo accese.
Stava per mettersi a studiare, con la tazza sulla scrivania, vicino al
quaderno, quando la porta si spalancò. Si voltò e, vedendo che era Brutus, lo
incenerì con lo sguardo.
«Lasciami in pace» disse. «Ho avuto una giornata di merda.»
«Non è venuto nessuno?»
Il fatto che Brutus alludesse al pomeriggio a Cardew Hall, quando sapeva
benissimo di averle rovinato quella che poteva essere una serata decente
facendo il cretino con Allison Franklin, la mandò su tutte le furie. «Non
parlavo di quello, Bruce» ribatté.
Lui ignorò il Bruce. «Avete avuto un bel po’ di visite, allora?» disse, e con
una faccia tosta insopportabile entrò e chiuse addirittura la porta a chiave,
come se avesse in programma di spassarsela un po’.
«Se proprio lo vuoi sapere, tre tedeschi e un’americana con tanto di blocnotes
e registratore. Ora, se non ti dispiace...» Si girò verso la scrivania.
Brutus si avvicinò e cominciò a massaggiarle le spalle e il collo. Sapeva
che le piaceva. Era una tecnica che aveva usato un sacco di volte come
preliminare. Pensava veramente che lei volesse fare sesso meno di mezz’ora
dopo averlo visto ficcare la lingua in gola a Allison Franklin?
Ding se lo scrollò di dosso. «Vattene.» E poi, dato che lui continuava a
massaggiare: «Lasciami in pace».
Brutus lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, ma non se ne andò. «Quindi
mi hai visto con Allison. Cos’hai visto? Tutto?»
«Tutto cosa? Hai fatto altro, oltre a leccarle le tonsille? A cosa ti riferisci?
Le hai infilato un dito?»
Brutus taceva. Ding fu costretta a girarsi sulla sedia e guardarlo. Era
spettinato, come se Allison avesse giocato con i suoi capelli biondi e folti, e
aveva una manica spiegazzata, quanto bastava per immaginare la mano di
Allison che si insinuava su per il braccio a palpargli i muscoli. Perché Brutus
era molto muscoloso. Sollevava pesi da quando si era reso conto che più di
uno e sessantadue di statura non sarebbe mai diventato.
«Allora?» gli chiese. «Rispondi: sì o no?»
«Pensavo che io e te fossimo d’accordo. Non vuol dire un cazzo.»
«Che cosa, non vuol dire un cazzo? Quello che fai con me? Quello che fai
con Allison? O quello che fai con chiunque abbia una passera e due tette?»
«Il nostro non è un rapporto esclusivo, Ding. Te l’ho detto fin dall’inizio.
Ti ho spiegato quali sono le mie esigenze. Sono fatto così. La maggior parte
degli uomini è fatta così. Sono fedeli soltanto perché altrimenti non ne
prendono più. Quindi tu dovresti essere...»
«Non dirmi cosa dovrei essere!»
«... grata del fatto che almeno tra di noi le cose sono chiare e trasparenti. Io
ti ho sempre detto la verità.»
«Oh, scusami tanto se non ti ho mai ringraziato! Dovrei apprezzare la tua
sincerità, capisco. Dovrei complimentarmi con te perché ti senti libero di
togliere le mutande alle altre a cento metri da casa nostra e sotto gli occhi di
tutti!» Ding non riuscì a imporsi di non strillare in tono sempre più isterico.
«Se sapevi di non poter stare con me a queste condizioni, dovevi dirmelo
subito. Invece sei stata zitta. E perché? Perché pensavi che anche se sono
fatto così – e te l’avevo detto chiaro e tondo – nel tuo caso avrei fatto
un’eccezione.»
«Non è vero!»
«Ma allora perché fai tutte ’ste scene? Di solito ti piace, no? Ci stai
comunque, anche se sai che sono appena andato con...»
Ding gli diede uno spintone. «Sparisci!» gridò. «Esci da questa stanza,
altrimenti mi metto a urlare. E urlo ai quattro venti che tu... Guarda che lo
dico a tutti, giuro...» Gli lanciò un libro addosso.
Brutus si scansò, ma restò nella stanza, forse trattenuto dalle sue parole.
«Cos’è che dici a tutti, Ding?» Il tono si era fatto di colpo serissimo. «Cos’è
che vuoi urlare ai quattro venti?»
«A un certo punto mi sono svegliata, hai capito? Mi sono svegliata, e tu
non c’eri.»
Ludlow
Shropshire
L’albergo era nel centro storico di Ludlow, proprio di fronte al castello, in
cima a un promontorio sopra il fiume Teme, che scorreva placido
fiancheggiato da salici e faggi, a ovest e a sud della cittadina e, insieme al
fiume Corve sul lato nord, formava una sorta di fossato naturale.
Griffith Hall aveva vissuto molte vite, dopo essere stata la dimora di
famiglia dei Griffith, vassalli per diverse generazioni dei conti di March. Era
stata un’esclusiva scuola maschile e durante la guerra un centro di recupero
per militari feriti, poi era diventata un museo e infine era stata trasformata in
quello che era ancora oggi: uno squallido albergo che avrebbe avuto bisogno
di cospicui investimenti. I rigogliosi cespugli di peonie e ortensie fiorite
lungo il muro di pietra che separava il parcheggio dal prato non bastavano a
compensare l’aria di decadenza che aleggiava un po’ ovunque.
La camera di Isabelle era a un piano alto. Ci si arrivava dopo tante di
quelle scale, porte antincendio e corridoi che lei si pentì di non aver lasciato
una scia di briciole di pane in modo da ritrovare la strada per scendere a fare
colazione l’indomani mattina. Aveva però il vantaggio di essere una suite,
composta da due stanze spaziose e un bagno. Le finestre davano una sui tetti
della città medievale, una su un angolo del castello e la terza, nascosta da
pesanti tende, sul muro del palazzo di fronte. Quando Isabelle le aprì per far
entrare più luce, si trovò davanti un anziano signore in pigiama. La giacca era
sbottonata e lasciava scoperto il petto incavato e villoso, che il vecchietto si
accarezzava con aria meditabonda. Vide Isabelle e la salutò arditamente con
la mano. Lei tirò le tende e si ripromise di non aprirle mai più.
Disfece in fretta i bagagli. Aveva chiamato la reception per chiedere
ghiaccio e limone e, mentre era nel bagno a sistemare i cosmetici sul carrello
di vimini bianco che fungeva da toeletta, arrivò il servizio in camera. Si trovò
davanti un ragazzo sui vent’anni con un’evidente passione per le ciglia finte e
l’eyeliner nero e, ai lobi delle orecchie, due dilatatori in cui sarebbe potuta
passare una pallina da golf, lo stesso che accoglieva gli ospiti e fungeva da
facchino.
Isabelle vide che le aveva portato un bicchiere con due cubetti di ghiaccio
e una fetta di limone in bilico sul bordo. Aveva immaginato che le portassero
un secchiello, per quanto piccolo, e un piattino con più fette di limone, ma
evitò di lamentarsi subito: per quel che ne sapeva, il povero ragazzo era anche
il cameriere ed era meglio non fargli venire voglia di sputarle nel piatto. Lo
ringraziò il più calorosamente possibile, poi andò al comodino dove aveva
nascosto vodka e acqua tonica. Considerando che al momento era la sua
unica occasione per farsi un drink in segreto, decise di non lesinare sulla
vodka. Cinque cl di acqua tonica e vodka fino a riempire il bicchiere. Bevve
avidamente. Era proprio quello che ci voleva e se lo era meritato.
Era chiaro che Thomas Lynley doveva aver parlato con il sergente Havers
prima della partenza per lo Shropshire. Barbara si era dimostrata
estremamente collaborativa fin dal principio, nonostante Isabelle l’avesse
messa più volte alla prova. Durante la prima breve sosta per fare rifornimento
e la seconda per andare alla toilette, le aveva suggerito di comprarsi un
sacchetto di patatine o qualcosa del genere, perché «non ci fermeremo più»,
ma il sergente non aveva battuto ciglio. Anzi la seconda volta era tornata in
macchina con due mele e gliene aveva offerta una con aria virtuosa.
Aveva continuato a comportarsi in maniera ineccepibile anche durante
l’incontro con il capo della polizia. Se si era risentita perché lei non l’aveva
presentata al comandante Wyatt – cosa che quel galantuomo di Lynley mai
avrebbe omesso di fare – non ne aveva dato segno. Si era limitata a prendere
appunti, porre qualche domanda ogni tanto e aspettare ulteriori istruzioni.
Non aveva fatto commenti neppure quando le era stata mostrata la camera
al Griffith Hall Hotel, che Isabelle aveva chiesto spoglia e spartana come la
cella di una novizia in un convento di clausura. L’unica concessione che
aveva fatto era che ci fosse il bagno – doccia, water, lavabo, e nulla di più,
chiaro? – ma il letto doveva essere necessariamente singolo, aveva precisato.
Se invece di un letto era una branda da campeggio, meglio ancora. Isabelle
aveva scoperto da tempo che Barbara Havers viveva in una catapecchia, un
ex capanno degli attrezzi riconvertito. Se si fosse azzardata a lamentarsi,
Isabelle era pronta a rinfacciarglielo. Ma Barbara non si era lamentata. Era
entrata, aveva posato la borsa sul letto e aveva chiesto se il televisore
funzionava. A quanto pareva, seguiva EastEnders fin da quando era nel
ventre materno.
«Non avrà molto tempo per guardare la televisione» l’aveva ammonita
Isabelle consegnandole i dossier messi a disposizione dall’ispettore Pajer e
dal comandante Wyatt. «Deve leggere questi.»
Barbara aveva sgranato gli occhi, ma si era ben guardata dal proporre di
fare a metà per accorciare i tempi.
Si incontrarono al bar prima di cena, come d’accordo. Qualcuno –
sicuramente Lynley – doveva aver suggerito a Barbara di cambiarsi per la
cena, ma la sua interpretazione del termine «cambiarsi» era stata
evidentemente letterale, perché si era limitata a sostituire quel che aveva
indosso con altri indumenti dello stesso genere. Si presentò in pantaloni
beige, scarpe con i lacci marroni e una camicetta azzurra ben avviata verso la
consunzione ma non era ancora giunta alla meta. Il vodka tonic però aveva
ammorbidito Isabelle, che non fece commenti sulla mise del sergente e si
sedette su una delle poltrone di pelle facendo segno a Barbara di accomodarsi
sull’altra.
Il sergente la guardò perplessa, poi lanciò un’occhiata verso la sala
ristorante e, optando per un tono contrito, disse: «Scusi se mi permetto, ma...
Voglio dire, dato che non abbiamo pranzato...»
Era chiaro che non era mai stata in un albergo, né a cinque stelle né altro.
Qualche B&B, forse, o un pub con delle stanze, ma evidentemente non aveva
mai messo piede in un hotel con bar, ristorante e sala per la prima colazione e
non sapeva come comportarsi.
«Funziona così, sergente» disse Isabelle. «Si sieda. Ci porteranno il menu.
Io ordino un drink. Ne prenda uno anche lei. A quest’ora siamo ufficialmente
fuori servizio.»
Barbara esitò. Aveva portato con sé alcune cartelline portadocumenti e se
le stringeva al petto a mo’ di scudo.
«Non penso che l’ispettore Lynley l’abbia costretta a cenare sempre da...
che so... Little Chef? Non mi sembra il genere di locale frequentato
dall’ispettore. Si sieda, le dico. Qualcuno verrà a prendere le ordinazioni.
Negli hotel hanno un sesto senso per queste cose» continuò Isabelle.
Barbara si rassegnò, ma rimase seduta sul bordo del divano con le
cartelline strette al petto. Chiaramente si era preparata a una cena di lavoro e
forse si aspettava che Isabelle da un momento all’altro saltasse su e dicesse
che aveva scherzato.
Poco dopo, come previsto, arrivò qualcuno con il menu. E quel qualcuno
era Mister Ciglia Finte. Isabelle gli chiese come si chiamava.
«Peace» rispose il ragazzo.
«Come, scusi? Ha detto che si chiama Peace?»
«Peace on Earth» precisò il ragazzo. «Pace in terra. A mia madre piaceva
fare affermazioni di principio.»
«Ah. E ha fratelli o sorelle, Peace?»
«End of Hunger» rispose. «Ma dopo ’No alla fame nel mondo’ non è più
riuscita a rimanere incinta. Meglio così, probabilmente.» Consegnò loro i
menu. «Gradite qualcosa da bere?» chiese.
Isabelle era più che pronta per il secondo drink della serata. «Un vodka
martini, liscio, con le olive. Rimescolato e non shakerato, per cortesia.
Sergente, lei cosa prende?»
Barbara Havers stava studiando la lista dei cocktail con la fronte
aggrottata, muovendo le labbra mentre leggeva nomi e descrizioni. «Anche
per me. Quello con la vodka» rispose alla fine, con disinvoltura.
«È sicura?» Isabelle dubitava che Barbara Havers avesse mai bevuto un
vodka martini.
«Sicura come la neve sulle Alpi.»
Isabelle fece un cenno a Peace on Earth. «Due vodka martini, allora.»
«Subito» rispose il ragazzo e andò dietro il banco a prepararli.
Isabelle si chiese se facesse anche da cuoco. Fino a quel momento in tutto
l’albergo non si era visto nessun altro dipendente.
«Chissà se si tiene la madre mummificata in cantina» mormorò Barbara
guardandosi intorno nella sala. Erano le uniche clienti.
«La madre mummificata?» chiese Isabelle, accigliata.
«Be’, sa quando si dice di diffidare dei ritratti con gli occhi che ti seguono
e non fare la doccia se ha la tenda invece della porta di vetro? Anthony
Perkins? Janet Leigh? Il Bates Motel?» Vedendo che Isabelle non reagiva,
Barbara continuò: «Santo cielo, capo, non ha mai visto Psyco?» Mimò una
serie di coltellate accompagnate da opportuni effetti sonori. «Il sangue che
scorre nello scarico della doccia?»
«Devo essermelo perso.»
«Perso?» esclamò Barbara stupefatta. A giudicare dall’espressione,
avrebbe voluto chiedere a Isabelle se era stata in coma per qualche decennio.
«Sì, me lo sono perso, sergente. È obbligatorio vederlo prima di andare in
vacanza e cercare un posto dove dormire?»
«No, ma... Cioè, nella nostra cultura ci sono delle pietre miliari, no?»
«Può darsi, ma dubito che una morte violenta dietro la tenda di una doccia
rientri nella categoria.»
Peace on Earth portò una ciotola di noci e noccioline e una di grissini al
formaggio. Barbara Havers le guardò vogliosa, ma non si servì. Isabelle prese
un grissino e le passò la ciotola. Il sergente ne prese uno e lo tenne tra due
dita come un sigaro, quasi aspettasse il permesso di metterselo in bocca.
Quando Isabelle diede un morso al proprio, Barbara la imitò. La precisione
snervante con cui ripeteva ogni suo movimento spinse il sovrintendente a
chiedersi se nel tempo libero Barbara si dedicasse all’arte del mimo.
«Che cosa ha scoperto?» le chiese indicando i dossier.
Barbara Havers le parlò della telefonata anonima al 999 che, come tutte le
chiamate, era stata registrata. Fra i documenti dell’IPCC c’era una
trascrizione, ed era stata proprio quella ad attirare l’attenzione del sergente.
Un uomo che non si era identificato aveva accusato Ian Druitt di molestie
sessuali su minorenni. «Non sopporto l’ipocrisia. Quello stronzo importuna i
bambini, maschi e femmine. La cosa va avanti da anni, ma tutti si rifiutano di
vedere. Tale e quale la stramaledetta Chiesa cattolica» aveva poi aggiunto.
«Lì per lì mi sono chiesta come mai quella chiamata fosse stata presa tanto
sul serio. In fondo è come una lettera anonima, no? Uno che ce l’ha con
Druitt chiama il 999 e lo accusa di essere un pedofilo senza fornire nessuna
prova. Eppure i poliziotti si precipitano a fermarlo» disse Barbara Havers.
«Dal momento che la pedofilia è un reato gravissimo su cui la polizia tende
a intervenire immediatamente...» Isabelle Ardery lasciò la frase in sospeso:
Barbara poteva arrivarci benissimo da sola. Quella telefonata era
paragonabile a una segnalazione anonima in cui uno diceva di aver visto un
vicino nascondere un cadavere in giardino. Era inevitabile che gli ingranaggi
si mettessero in moto.
«Lo so, capisco. Ma l’ultima parte, quella sulla Chiesa cattolica...»
Isabelle aveva preso un altro grissino, ma lo tenne sospeso senza
metterselo in bocca. «Chiesa cattolica?»
«Pedofilia, Chiesa cattolica. Non le viene in mente niente?»
«Cosa dovrebbe venirmi in mente, a parte il fatto che è risaputo che certi
preti abusavano dei chierichetti e i loro superiori, pur sapendolo, non hanno
mosso un dito?»
«Appunto. Questo Ian Druitt era un diacono, non un prete a tutti gli effetti.
Quindi aveva un superiore qui a Ludlow, il quale magari era al corrente ma
non ha fatto nulla per fermarlo.»
«Sta dicendo che la motivazione della telefonata anonima è questa?
Dimostrare che la Chiesa anglicana ha fatto esattamente come la Chiesa
cattolica? Benissimo, e con questo?»
«Con questo, un diacono anglicano si è tolto la vita alla stazione di polizia
di Ludlow senza nemmeno sapere perché ce l’avevano portato. Stando al
rapporto dell’IPCC, l’agente ausiliario lo ha fermato senza dargli spiegazioni
perché lui non sapeva nemmeno per quale motivo gli era stato ordinato di
eseguire il fermo. E subito dopo il tizio si è ammazzato? Non ha senso.»
«Ha senso se si considera che, essendo un diacono, Ian Druitt si sarà visto
condannato non appena l’agente ausiliario si è presentato in sacrestia con
l’ordine di fermo. Come si chiama l’agente?»
Barbara Havers scartabellò fra i documenti. Arrivò Peace on Earth con i
due cocktail. «Gary Ruddock» rispose Barbara. «E quello che volevo dire
è...»
«Grazie, Peace. Posso darti del tu, vero?» disse Isabelle con enfasi. Non
voleva che qualcuno – e meno che mai il factotum di un albergo – sentisse i
discorsi che stava facendo con Barbara Havers.
«Per me non c’è problema» rispose Peace on Earth posando i bicchieri.
Barbara si affrettò a chiudere la cartelletta. Prese il vodka martini e senza
lasciare a Isabelle il tempo di consigliarle di centellinarlo, ne mandò giù una
sorsata come se fosse acqua minerale. Grazie a Dio non le prese fuoco la
testa. «Forte, eh?» riuscì a mormorare a stento.
Peace, nel frattempo, si era tramutato in cameriere. Tirò fuori carta e penna
e chiese cosa volessero mangiare. Isabelle scelse la vellutata per cominciare e
poi l’agnello – cottura media – mentre Barbara, che non aveva consultato il
menu, e forse non lo aveva proprio visto, con il filo di voce che le restava
dopo la vodka disse che avrebbe preso la stessa cosa, benché sembrasse
stupita che fosse possibile scegliere il grado di cottura dell’agnello. Quando il
ragazzo si fu allontanato – probabilmente per andare a cucinare – Isabelle
fece notare a Barbara che il fatto che Ian Druitt fosse un diacono della Chiesa
anglicana spiegava due elementi del caso. Primo, il motivo per cui la
telefonata era stata anonima. «Un genitore tendenzialmente non vuole che il
figlio venga interrogato dalla polizia riguardo a eventuali molestie. Specie se
a molestarlo è stato un diacono, perché alla fine è la parola del bambino
contro quella di un religioso.» Il secondo elemento era la tempestività con cui
era stato emesso l’ordine di fermo. «Il parlamentare che si è rivolto a Hillier,
Quentin Walker, ha detto che Druitt aveva organizzato un doposcuola qui a
Ludlow. Quindi, se molestava i bambini, vista la posizione di responsabilità
che occupava, avranno ritenuto necessario fermarlo al più presto.»
Barbara Havers però non sembrava convinta. «Oppure può essere andata
così, capo: qualcuno ha cercato di incastrarlo per qualcosa che non aveva
fatto» disse dopo averci riflettuto un po’.
Ludlow
Shropshire
Erano le undici e mezzo di sera, ma Barbara doveva assolutamente uscire a
prendere una boccata d’aria. Sapeva di aver fatto una cazzata. Dopo
l’aperitivo a base di vodka e martini, durante la cena avevano bevuto due
bottiglie di vino rosso. Una tazza di caffè – nero, forte e amaro – non era
bastata a farle ritrovare la sobrietà. Se Isabelle Ardery l’aveva fatta bere
apposta, per metterla alla prova, Barbara era consapevole di non aver
superato il test.
Il sovrintendente, dal canto suo, non aveva battuto ciglio e alla fine della
cena invece del caffè aveva ingollato due bicchieri di Porto. Reggeva l’alcol
in maniera straordinaria. L’unico segno che non fosse del tutto immune agli
effetti dell’alcol era stato quando, durante la cena, aveva ricevuto una
telefonata. Aveva guardato chi era e aveva detto a Barbara: «Devo
rispondere». Si era alzata per uscire dal ristorante e, andando verso la porta,
aveva sbandato leggermente. Ma poteva anche averlo fatto per evitare
un’increspatura nella moquette.
Barbara aveva sentito che diceva: «Ma io mi sono rivolta a lei proprio
perché risolvesse il problema». Quando era tornata, aveva una faccia
impassibile: quale che fosse l’argomento di cui aveva discusso al telefono,
l’aveva chiuso nel momento in cui aveva salutato il suo interlocutore.
Sembrava decisamente abile nel dividere la vita in compartimenti stagni.
Dopo cena, mentre salivano le scale, Isabelle le aveva illustrato i
programmi per l’indomani. Appuntamento per la prima colazione alle sette e
mezzo, dopodiché la giornata prevedeva un colloquio con l’agente ausiliario
che aveva portato Ian Druitt alla stazione di Ludlow, una visita al padre del
defunto e una chiacchierata con il vicario della chiesa di St. Laurence che,
secondo i documenti in loro possesso, era quella in cui Ian Druitt esercitava
le funzioni di diacono.
«Buonanotte, sergente. Dorma bene» aveva detto alla fine Isabelle Ardery.
Barbara, malferma sulle gambe, osservò la propria stanza e capì che, lungi
dal dormire bene, difficilmente sarebbe riuscita a chiudere occhio. Tanto per
cominciare, la stanza le ondeggiava intorno a una tale velocità che temeva di
non riuscire ad arrivare al letto. In secondo luogo, il letto era talmente stretto
e a prima vista talmente scomodo che, se anche fosse riuscita a raggiungerlo,
molto probabilmente avrebbe passato la notte come un prigioniero sulla ruota
della tortura.
Non era nata ieri, e aveva capito benissimo il motivo per cui Isabelle
Ardery l’aveva portata con sé in trasferta nello Herefordshire e poi nello
Shropshire. Non appena le aveva annunciato che non avrebbero fatto una
sosta per pranzare, aveva intuito che il sovrintendente avrebbe approfittato di
quella missione non per spingerla sull’orlo del baratro, ma per farcela cadere
dentro. L’antipatia di Isabelle nei suoi confronti era nata quasi subito ed era
cresciuta a ritmo costante, nonostante Barbara fosse riuscita a non macchiarsi
di alcuna grave colpa fino al giorno in cui era andata in Italia di propria
iniziativa contravvenendo agli ordini che le erano stati impartiti. L’aver
passato informazioni a un giornalista che scriveva per uno dei più infimi
tabloid del Paese non aveva migliorato la situazione; farlo più di una volta
aveva segnato la sua condanna. Per questo ora non aveva grandi difficoltà a
fare pronostici sul proprio destino. Secondo l’ispettore Lynley la trasferta era
un’occasione per riscattarsi, ma Barbara era certa che si trattasse invece di
una mossa per stroncare definitivamente la sua carriera e rendere inevitabile
il trasferimento a Berwick-upon-Tweed.
Quella camera d’albergo rientrava nel piano. Non c’era bisogno di vedere
la stanza di Isabelle Ardery per sapere che era molto diversa da quella
assegnata a Barbara, che un tempo doveva essere stata l’alloggio condiviso
dalla sguattera con la lavandaia e con la casara, sempre che in epoche di
maggior gloria Griffith Hall avesse anche un caseificio. Ma alle orecchie di
Isabelle Ardery non sarebbe mai giunta la minima lamentela da parte del
sergente Havers. A costo di dormire per terra, qualora il pavimento si fosse
rivelato meno duro del materasso.
L’alcol, però, rischiava di vanificare un’intera giornata di sforzi per rigare
dritto. Era completamente ubriaca, e questo non prometteva nulla di buono
per l’indomani. Doveva smaltire la sbornia. E doveva assolutamente fumare
una sigaretta. Siccome all’interno dell’hotel era vietato fumare – come
dappertutto, oramai, rifletté amaramente –, decise che forse con una
passeggiata notturna sarebbe riuscita a soddisfare entrambe le esigenze. Si
lavò la faccia nel bagno grande quanto un confessionale, prese la borsa,
controllò di avere le sigarette e scese barcollando alla reception.
Non c’era nessuno, ma sul bancone trovò una pila di cartine turistiche,
cartoline del castello e decine di dépliant che proponevano gite ed escursioni
nello Shropshire. Prese una cartina e la aprì. Nonostante gli occhi le
ballassero la polka, riuscì a vedere che era in gran parte occupata da
pubblicità di negozi, bar, ristoranti e gallerie d’arte, ma nel mezzo c’era una
mappa abbastanza dettagliata del centro storico. Grazie alla presenza del
castello, le fu facile orientarsi e, malgrado il giramento di testa, riuscì a
stabilire una rotta che la portasse fuori dal dedalo di viuzze del centro storico
fino alla stazione di polizia e ritorno.
Uscì con la cartina in una mano e le sigarette nell’altra. Mentre erano a
cena, aveva piovuto. L’aria era fresca e prometteva sobrietà. Sentì l’odore di
fumo di legna di una stufa o un camino accesi nelle vicinanze, un odore
gradevole che a Londra non si sentiva più da quando era vietato bruciare
legna in città. Alcuni se ne infischiavano e lo facevano lo stesso, ma era
comunque un profumo così raro che dava l’impressione di aver fatto un
viaggio all’indietro nel tempo.
L’architettura di Ludlow contribuiva non poco. Il Griffith Hall faceva parte
di una schiera di edifici che testimoniavano il passare dei secoli. Una targa su
una delle case spiegava che le costruzioni di epoca medievale erano state
restaurate nel periodo della Reggenza, mantenendo però l’impianto originale,
mentre all’angolo di Castle Square un caffè del Novecento fiancheggiava una
casa Tudor con travi a vista.
Barbara ebbe una sorta di spaesamento temporale, ma la musica poco
distante e un brusio di voci allegre le confermarono che si trovava nel terzo
millennio. Riconobbe il chiacchiericcio tipico in prossimità dei pub da
quando non si può più bere e fumare contemporaneamente e chi ha il vizio
della sigaretta è costretto a uscire. Immaginò che i bevitori/fumatori in
questione fossero perlopiù studenti, poiché dall’altra parte della strada vide
un arco fra due edifici sormontato dalla scritta WEST MERCIA COLLEGE in
lettere di acciaio lucido.
L’ultimo posto dove Barbara desiderava mettere piede era un pub. Si
accese la prima sigaretta e proseguì. Aveva la testa ovattata. Il suo massimo,
normalmente, era una pinta di birra alla settimana. Si maledisse per aver
accettato di bere superalcolici. Come diavolo aveva potuto mandare giù un
vodka martini? C’era da chiedersi dove fosse il confine tra cortese
accondiscendenza e stupidità totale.
In High Street incontrò una sola persona: un uomo con un sacco a pelo
sotto il braccio e una borsa di plastica in mano. Aveva uno zaino sulle spalle
ed era accompagnato da un pastore tedesco. Sembrava in procinto di
sistemarsi per la notte nell’androne di un palazzo di pietra che, secondo la
cartina, si chiamava Buttercross. Barbara era sul marciapiede opposto, quindi
non riuscì a vederlo bene, ma prese nota del fatto che a Ludlow c’era chi
dormiva per strada. Le parve strano.
Non c’era traffico a quell’ora. La vita notturna pareva limitata a qualche
pub, mentre la clientela dei ristoranti a quanto pareva cenava presto e se ne
andava subito a dormire.
Seguendo il percorso prestabilito, Barbara si trovò in un vicoletto che
portava ai cancelli del Renaissance Flea Market, il mercato delle pulci che
prometteva un assortimento di merci di cui lei non aveva alcun bisogno. Era
poco illuminato e Barbara lo percorse velocemente, ritrovandosi in una curva
dove secondo la cartina si incontravano Upper Galdeford Street e Lower
Galdeford Street.
Lì era tutto diverso: lasciandosi alle spalle il mercato delle pulci, Barbara
era uscita dal centro storico. La strada era più larga, una sorta di
circonvallazione che permetteva di aggirare la parte medievale della città, ed
era fiancheggiata da case a schiera con anonime facciate grigie o rivestite di
mattoni, con un solo gradino davanti alla porta. Il vento lì era pungente, e lo
era ancora di più quando Barbara giunse a destinazione.
La stazione di polizia si trovava all’angolo tra Lower Galdeford Street e
Townsend Close, non lontano da Weeping Cross Lane che, secondo la
cartina, scendeva fino al Teme. Probabilmente era proprio la vicinanza del
fiume a rendere l’aria più fredda.
Le dimensioni della stazione di polizia la sorpresero: era una palazzina a
due piani, di mattoni rossi, più grande di quanto si aspettasse. Il cartello
bianco e blu con la scritta POLICE STATION era sull’angolo sudorientale.
Una scaletta di pietra conduceva a una robusta porta di legno sormontata da
una pensilina non particolarmente elegante, ma utile per ripararsi dalla
pioggia.
Barbara salì gli scalini. Era abbastanza lucida da notare la telecamera di
sorveglianza puntata proprio sulla scaletta, sul marciapiede antistante e su
parte della strada. Vide anche che, a sinistra del portone, c’era un telefono
affiancato da un cartello in cui si spiegava ai potenziali utenti che, sollevando
il ricevitore, sarebbero stati messi in comunicazione con un operatore cui
avrebbero dovuto specificare da quale stazione chiamavano, oltre a nome,
cognome, numero di telefono e indirizzo. «Eventuali segnalazioni riguardanti
la legge del 2003 sui reati sessuali vanno effettuate da una delle seguenti
stazioni» concludeva il messaggio. Barbara lesse l’elenco e vide che Ludlow
non era compresa.
Questo la fece riflettere. La denuncia contro Ian Druitt riguardava reati
sessuali puniti dalla legge del 2003. Chissà se l’operatore che aveva risposto
alla chiamata aveva sollevato obiezioni, si chiese Barbara. E chissà perché la
polizia aveva deciso di intervenire sulla base della denuncia anonima di uno
che chiaramente non aveva ottemperato alla richiesta di specificare il proprio
nome, cognome, numero di telefono e indirizzo. Tuttavia, se nella precedente
indagine era stata individuata la posizione del telefono da cui era stata sporta
la denuncia, era ragionevole supporre che la registrazione della telecamera
puntata sulla scaletta mostrasse la persona che aveva effettuato la chiamata.
Restava però da spiegare perché mai l’anonimo informatore avesse deciso di
usare il telefono esterno della stazione di polizia anziché un qualsiasi telefono
pubblico della città.
Barbara si allontanò dal portone, scese gli scalini e studiò a lungo la
stazione. Alcune finestre del primo piano erano socchiuse, a conferma di
quanto aveva detto il comandante Wyatt, e cioè che la stazione veniva ancora
occasionalmente utilizzata. In quel momento tutte le luci erano spente, tranne
quella dell’ingresso, al pianterreno.
Sul retro c’era un parcheggio riservato ai veicoli di servizio e Barbara vide
una macchina ferma, con i fari spenti, a una certa distanza dall’edificio. Era
girata con il muso verso l’uscita, pronta a partire a tutta velocità. Barbara
stava per voltarsi e andarsene per la sua strada quando si accorse che
sull’auto c’era qualcuno. Intravide del movimento al posto di guida, un uomo
che reclinava lo schienale. Considerando l’ora, il posto e la situazione della
polizia dello Shropshire, dedusse che si trattava di uno degli agenti di
pattuglia che stava schiacciando un pisolino, mentre il collega manteneva le
apparenze continuando a pattugliare da solo. All’ora convenuta, il collega
l’avrebbe svegliato via radio e si sarebbero dati il cambio. Succedeva, anche
se era poco professionale. Più i tagli al bilancio incidevano sulle condizioni di
lavoro dei poliziotti, pensò Barbara, meno gli agenti erano disposti a
impegnarsi nel proprio lavoro.
Quality Square
Ludlow
Shropshire
«Il nipote, giusto?» chiese Francie Adamucci a Chelsea Lloyd. Poi fece una
delle sue classiche mosse, quella con i capelli: se li scostò dalla spalla destra
facendoli ricadere in modo molto sexy sul lato sinistro della faccia.
«Davvero? Il nipote? È troooppo giovane.»
«Allora mi stai dicendo che a te piace l’altro.» Con la birra che aveva in
mano – la quarta, ma chi le contava più? – Chelsea indicò vagamente nella
direzione del banco, dove Jack Korhonen stava spillando con grande cura una
pinta di Guinness per uno che avrà avuto a dir poco centottantatré anni. «A
me risulta che sia sposato, Fran.»
«A me risulta che non fa nessuna differenza.»
Ding ascoltava le sue due amiche impegnate in una tipica conversazione
Francie-Chelsea. Da qualsiasi argomento partissero, quando bevevano
finivano sempre per parlare di maschi e stilare classifiche dei più carini nelle
immediate vicinanze. Nel caso specifico i papabili erano tre: il vecchietto che
aspettava con ansia la Guinness, il proprietario di mezz’età dello Hard and
Hind e suo nipote ventenne, di cui Ding non riusciva mai a ricordare il nome.
C’erano altri uomini nel pub, ma erano improponibili. Ding stabilì che
l’unico che Francie poteva trovare interessante era Jack Korhonen.
Era uscita con le amiche perché non sopportava di rimanere a casa. Finn
era stato costretto ad andare a cena fuori con la madre ed era tornato di un
umore così pestilenziale che era meglio stargli alla larga. Quanto a Brutus...
Ding aveva deciso di adottare l’interpretazione di «rapporto privilegiato» che
lui le aveva illustrato nel pomeriggio e di uscire con Francie e Chelsea.
«Non ci credo! Hai avuto il coraggio di...?» esclamò Chelsea, che parlava
nascondendosi la bocca dietro la mano e sgranando gli occhi azzurri come
una quindicenne.
«Altroché, se l’ho avuto» replicò Francie. «Voglio dire: se uno ti piace, che
senso ha non provarci?»
«Ma avrà... Oddio, Francie, avrà, cioè, non so... quarant’anni, se non di
più...»
«È stata solo una botta e via» minimizzò Francie con leggerezza. «Mica ho
intenzione di sposarmelo.»
«Ma se sua moglie...»
«Sono separati in casa» dichiarò Francie con un tono annoiato da cui si
capiva che a lei non importava niente. «Sono comproprietari del pub e vivono
insieme, ma ognuno ha la sua camera. Lei va per la sua strada e lui per la
sua.»
«Come fai a saperlo?»
«Me lo ha detto lui.»
Chelsea spalancò ulteriormente gli occhi. «Ma ci sei o ci fai? È la balla che
ti raccontano tutti gli uomini sposati quando gli fa comodo!» Poi li socchiuse
riflettendo con aria smaliziata su quello che le aveva riferito Francie. «Non ci
credo. E dove l’avresti fatta, questa scopata da urlo con Jack Korhonen?»
disse.
«Che domanda stupida! Dove vuoi che l’abbia fatta? Mai sentito parlare
delle due stanze al piano di sopra?» Si rivolse a Ding: «Ding le conosce.
Vero, Ding?»
L’interpellata non ebbe bisogno di rispondere perché dalla scala dietro il
banco stava scendendo la prova vivente dell’esistenza di quelle stanze: una
ragazza formosa con un body aderentissimo e il suo accompagnatore, che
faceva dondolare dal dito una chiave con un portachiavi grosso come una
scarpa. Entrambi avevano gli occhi insolitamente lucidi. Il ragazzo restituì a
Korhonen nipote la chiave insieme con due biglietti da venti sterline. Il nipote
annuì, sorrise e mise i soldi in una specie di minisecchiello del carbone che si
trovava lì accanto, anziché nella cassa. Subito dopo un’altra coppia si fece
consegnare la chiave e salì le scale.
«Oddio» esclamò Chelsea. «Non cambiano nemmeno le lenzuola?»
«Erano abbastanza pulite, quando le abbiamo usate noi» commentò
Francie.
«Abbastanza pulite non basta. C’è da prendersi qualche brutta malattia!»
Francie alzò le spalle: non voleva perdere tempo a discutere di igiene e
malattie, e Chelsea scosse la testa. «Comunque non ci credo. Non ha senso
andare a letto con uno così vecchio.»
«Te l’ho detto, mi eccita da morire. E avevo voglia di divertirmi un po’. È
solo sesso, Chelsea. Se non avessi un esame domani, ci farei un pensierino
anche stasera.»
Detto questo, mandò giù il resto della birra. Chelsea la imitò come sempre
e Francie chiese a Ding se era pronta ad andare. Ding disse che sarebbe
rimasta al pub. «Ci vediamo domani mattina» promise.
Dopo che le altre due furono uscite, Ding ordinò un’altra lager al nipote,
ma intanto occhieggiò lo zio e si chiese come mai Francie Adamucci, che
volendo poteva portarsi a letto qualsiasi maschio, avesse deciso di andare
proprio con lui.
Non era brutto, bisognava ammetterlo. Era brizzolato, ma aveva tanti
capelli, belli e ricci. Anche la barba era mezza grigia, ma ben curata, e gli
donava. Portava occhiali alla moda con la montatura rotonda che gli davano
un’aria da intellettuale. Però usava le bretelle invece della cintura e, benché le
scegliesse colorate o a fantasia, secondo lei lo invecchiavano. Non che
pensasse spesso a Jack Korhonen, ma quando succedeva trovava che fosse un
po’ vecchiotto. Troppo per andarci a letto. A meno che non scopasse da dio,
naturalmente.
Quelle riflessioni su Jack inevitabilmente portarono Ding a riflettere su
Brutus. Scopava da dio? No. Nessun diciottenne scopava da dio, nemmeno
Brutus, che faceva sesso come se temesse che le donne stessero per sparire
dalla faccia della terra. Jack Korhonen, però... un uomo di quell’età, con
decenni di esperienza... Se Francie era così sicura che fosse un amante
straordinario, o glielo aveva raccontato qualcuno, oppure lo aveva
sperimentato di persona. Altrimenti avrebbe dimostrato interesse per il nipote
– come si chiamava? – e invece non l’aveva considerato nemmeno quando
Chelsea aveva detto che secondo lei non era male. Tutto sembrava
confermare che Jack scopava da dio, pensò Ding. Se Francie era stata con
Jack Korhonen, un motivo doveva esserci.
Si accorse che Jack stava guardando nella sua direzione. Naturale, dal
momento che oltre a essere una cliente pagante era anche l’unico esemplare
di sesso femminile in quella parte del locale. Ding inclinò la testa di lato e
incrociò il suo sguardo. Poi prese il bicchiere e bevve. Quando lo posò, si
passò la lingua sul labbro superiore per togliere inesistenti tracce di schiuma.
Il nipote uscì da dietro il banco e andò verso alcuni tavoli lasciati liberi da
studenti che, come Francie, avevano esami da preparare o compiti da finire o
lezione molto presto il giorno dopo. Si mise a raccogliere bicchieri e pulire i
tavoli e non si accorse che dal piano di sopra era scesa un’altra coppia.
Fu Jack Korhonen a occuparsene: ritirò la chiave, prese i soldi, li mise nel
piccolo secchiello da carbone e guardò i due andare via. Poi si voltò per
raccogliere i bicchieri lasciati da Francie e Chelsea. «Le tue amiche ti hanno
abbandonato, eh?» le disse. Ding avrebbe potuto lasciare che il discorso si
concentrasse su Francie e Chelsea, invece optò per: «Non pensavo che fossi
tu a gestire le stanze».
«Quali stanze?» ribatté lui mentre immergeva i bicchieri nel liquido non
meglio identificato con cui li lavava.
«Hai capito benissimo.»
«Veramente no. Di che stanze parli?»
«E dai, Jack!» Si stupì lei stessa di averlo chiamato per nome, consapevole
che si trattava di un segnale e nello stesso tempo non del tutto sicura di
volersi spingere a tanto. «Quel tipo ti ha restituito una chiave. E ti ha dato dei
soldi.»
«Quale tipo? Quale chiave? Hai le traveggole? Le allucinazioni?» chiese
Jack.
Poi la squadrò in maniera inequivocabile: angoli della bocca piegati
leggermente all’insù, narici lievemente dilatate, sguardo che scendeva
fugacemente sul seno per poi cercare i suoi occhi.
Ding capì che ci stava provando e si chinò per mostrargli meglio la
scollatura. Passò il dito indice sull’orlo del bicchiere. «Mi prendi in giro,
vero? Francie dice che le usi anche tu, quelle stanze» sussurrò.
«Francie?» Jack stava asciugando i bicchieri. Il nipote ne portò altri in un
catino di plastica, ma Jack non lo degnò di uno sguardo. «Fa male a dirlo in
giro: pensavo che mantenesse il nostro piccolo segreto.»
«E scommetto che ne hai tanti, di piccoli segreti.» Ding passò di nuovo il
dito sull’orlo del bicchiere, poi se lo portò alle labbra e se lo succhiò
lentamente.
Jack la guardò. «Ehi, bella, ti conviene stare attenta. Gli uomini si fanno
un’idea sbagliata, se ti comporti così.»
«Chi ti dice che sia l’idea sbagliata?» ribatté Ding.
Jack rimase un momento in silenzio, prima di rispondere. «Se è questo che
vuoi, non ho problemi ad accontentarti.» In tre secondi posò sul banco la
chiave riconsegnata dalla coppia scesa poco prima da una delle stanze al
piano di sopra. «O vuoi provocarmi e basta?» disse. «Hai l’aria di una che si
tira indietro sul più bello. Scommetto che all’ultimo momento scappi via.»
«Mai stata una che si tira indietro» dichiarò Ding.
«Se lo dici tu» replicò Jack, e andò a prendere il catino pieno di bicchieri
sporchi. Nel frattempo si avvicinò il nipote. Guardò la chiave, guardò Ding e
poi lo zio. E lasciò la chiave dov’era.
Ding bevve due lunghi sorsi di birra. Era piacevolmente eccitata. Si disse
che non c’era nulla di male, in fondo. Lo facevano tutti, e lei aveva un motivo
di più.
Aveva creduto che fra lei e Brutus ci fosse qualcosa di serio. Quando lui le
aveva detto che erano solo «amici di letto», pensava che sarebbe stato
abbastanza facile trasformare quell’amicizia particolare in qualcosa di più.
Invece adesso si rendeva conto che non era possibile. E così prese la chiave.
Vide che sul portachiavi c’era il numero 2. Doveva soltanto salire le scale e
cercare la porta giusta. Si accorse che Jack Korhonen la guardava con aria
scettica: era una che la faceva annusare e basta, o una vera donna come
Francie Adamucci?
Prese il bicchiere e si avviò verso le scale lanciandogli un’occhiata. Non
aveva dubbi sul fatto che lui l’avrebbe seguita.
Nel corridoio al primo piano due lampadine illuminavano di luce fioca le
porte delle due stanze. Una terza, al centro, era socchiusa: era il bagno in
comune a disposizione dei clienti che desideravano fermarsi per la notte, ma
doveva essere un caso raro, perché evidentemente la soluzione «albergo a
ore» rendeva molto di più.
Dalla camera contrassegnata con il numero 1 provenivano grugniti e gemiti
e il ritmico richiamo delle molle di un materasso. Mentre Ding passava, una
donna urlò «Sì, sì, sì!» e il ritmo del cigolio si intensificò, mentre le urla si
trasformavano in gridolini di piacere.
Ding passò oltre, bevendo un altro sorso di birra. Era pronta a scolarsi tutta
la pinta. Per una volta, si sentiva totalmente libera.
Entrò nel bagno. Il buonsenso le suggeriva di usarlo. Da lì sentì ancora più
chiari i grugniti provenienti dalla stanza numero 1. Si chiese quanto ci
avrebbe messo lui a venire, se ce l’avrebbe fatta o se, sfinito, si sarebbe
dovuto accontentare. Per la ragazza sembrava essere andata alla grande. Non
urlava più, mentre il suo compagno continuava a darci dentro.
Tirare o non tirare lo sciacquone, si chiese Ding. Meglio di no. Non voleva
mettere in imbarazzo la coppia nella stanza numero 1 – benché chi usava
quelle camere non doveva essere particolarmente propenso all’imbarazzo –,
ma soprattutto non voleva che lui si distraesse dal suo sforzo prolungato. Uscì
dal bagno in punta di piedi, andò verso la stanza numero 2 ed entrò facendo
meno rumore che poteva.
Fu investita dall’odore, che la accolse come una padrona di casa troppo
ansiosa di ricevere i suoi ospiti. Era un misto di femmina che si lava poco,
maschio che non usa deodorante, sesso, lenzuola sporche e una dose
massiccia di un profumatore per ambienti che non riusciva a coprire il tanfo.
Nessuno aveva pensato ad aprire la finestra e Ding si accinse a provvedere,
ma scoprì che era bloccata e con i vetri così luridi che a stento si capiva dove
si affacciava, ovvero sull’acciottolato di Church Street, con i lampioni che
proiettavano coni di luce su due gallerie d’arte e un negozio di formaggi.
Voltò le spalle alla finestra per osservare la stanza. Non aveva acceso la
luce e, nella penombra, intravide l’arredamento decisamente minimalista: un
cassettone, una poltrona sfondata, un letto matrimoniale, un comodino con
lampada. Sopra al letto era appesa una stampa che non riuscì a distinguere,
ma a giudicare da come pendeva diritta doveva essere stata inchiodata
direttamente al muro. Non c’erano altri fronzoli e il letto era un nudo
materasso: qualcuno aveva tolto le lenzuola puzzolenti, che erano
ammucchiate in un angolo.
Sul cassettone c’era un cestino di potpourri. Ding lo annusò: sapeva più
che altro di polvere. Accanto c’era la bomboletta di un deodorante per
ambienti, che spruzzò fino a consumarla tutta. Mandò giù il resto della birra,
si sedette sulla poltrona e aspettò.
Jack arrivò prima di quanto si aspettasse, meno di dieci minuti dopo che lei
era salita di sopra. Entrò senza bussare e cominciò subito a tossire. «Che c’è?
Hai la passione della lavanda?»
A parte questo, non fece commenti sulle condizioni della stanza. Chiuse la
porta e, come Ding, non accese la luce. Si abbassò le bretelle, tirò fuori la
camicia dai pantaloni e andò verso di lei. «Non scappi sul più bello, vero?
Non sei una che la fa annusare e basta?»
«Vedi tu. Se non ricordo male, non mi hai trascinato qui di peso.»
Jack ridacchiò. «Sei un bel tipo, sai? Sei al college, o cosa?»
«Cosa te ne frega?»
«Non me ne frega niente, ma non voglio trovarmi nei guai perché mi sono
portato a letto una quindicenne. Quanti anni hai?»
«Diciotto. E tu?»
«Mi piaci.»
«Non è questo che volevo sapere.»
«Immagino. Ma non ho intenzione di dirti altro. Vieni qua.» La fece alzare
in piedi e cominciò a baciarla, cogliendola alla sprovvista. Di sicuro ci sapeva
fare, pensò Ding. Baciava in un modo che ti faceva venir voglia di lasciarlo
fare per un’intera settimana. Mentre la baciava, le prese le mani e se le infilò
sotto la camicia, per poi cingerle i fianchi e avvicinarla a sé. Incominciò ad
accarezzarla, le sganciò il reggiseno e le strizzò i capezzoli fin quasi a farle
male, mollandoli un attimo prima che lei gridasse. Sembrava che lo sapesse, e
forse era così. Fitte di puro piacere le andavano a finire esattamente dove lui
voleva che andassero.
Si staccò da lei e la guardò annuendo come se in qualche modo Ding gli
avesse dato la conferma che cercava. Andò verso il letto e si sfilò la camicia
dalla testa, come Ding aveva visto fare nei film, quando la fretta era tale che
persino sbottonarsi era tempo sprecato. La buttò sul letto, si tolse le scarpe e
si abbassò i pantaloni. Ding vide che non portava le mutande.
Sapeva di dover fare qualcosa: aiutarlo a finire di denudarsi oppure
spogliarsi lei. Ma era rimasta impietrita alla vista della sua schiena
muscolosa, dei glutei scultorei, delle gambe e delle braccia...
Jack si voltò verso di lei e Ding gli vide il vello di peli scuri e grigi sul
petto, che si stringeva all’altezza della vita per riallargarsi più in basso a
formare il folto nido dal quale si ergeva il membro, mentre in alto gli arrivava
appena sotto il collo dove la corda... Era una corda, una cravatta, o la cintura
di una vestaglia?
«Ti piace? Quasi tutte le ragazze ne vanno pazze.»
... E lei non sapeva cosa fare, cosa voleva dire, e così rimase zitta, senza
dire una parola sulla corda, la cravatta, la cintura della vestaglia. Come
poteva?
«Cosa aspetti? Spogliati, bella. Mica voglio stare qui in eterno.» E la mano
si strinse intorno al pene per dargli un aiuto, visto che lei non stava facendo
quello che avrebbe dovuto, ovvero togliersi i vestiti, avvicinarsi e mettersi a
cavalcioni su di lui e sfregarglisi contro perché sentisse quanto era eccitata al
solo vederlo e toccarlo, solo che non lo era affatto, non più, non in quel
modo.
Ding andò verso la porta, ma lui la afferrò. «Ehi! Cosa fai? Ti aspettavi
qualcosa di diverso? Volevi cuori e fiori, musica e baci sul collo, invece di
questo?» Le mise una mano fra le gambe e, mentre la attirava a sé, disse:
«Dammi retta, ragazzina, vedrai che ti piacerà farlo in modo un po’ brutale.
Perché credi che tornino da me le tue amiche, le tue compagne di college?»
La fece voltare verso il letto, le sollevò la gonna e cominciò a tirare l’elastico
dei collant. Ding cacciò un urlo.
«Cosa cazzo...? Ma cosa fai? Piantala di gridare, dai!» La lasciò andare.
Ding si precipitò verso la porta temendo che lui cercasse di fermarla, ma
non lo fece, naturalmente, perché non era un violento; era un uomo che si
portava a letto tutte le donne che voleva, come voleva e quando voleva, e se
lei non ci stava – ed era chiaramente così – non l’avrebbe costretta.
Ding arrivò in fondo alle scale in un baleno e altrettanto velocemente
raggiunse la porta e uscì nella notte.
6 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
Al mattino Barbara telefonò all’ispettore Lynley. Nonostante la camminata,
non era riuscita a smaltire l’alcol ingurgitato la sera precedente. Aveva
dormito poco o niente e non soltanto per il fatto che la stanza ondeggiava
come un traghetto durante una traversata particolarmente burrascosa della
Manica, ma anche perché di ritorno dal suo giro per Ludlow aveva chiamato
Peace on Earth, svegliandolo chissà dove, e si era fatta preparare un intero
bricco di caffè. Dal momento che nella sua stanza non c’era abbastanza
spazio per lavorare, si era sistemata nel bar dell’hotel, dove la sera prima
aveva bevuto il primo – e ultimo – vodka martini della sua vita. Tracannando
caffè, aveva esaminato i dossier della West Mercia Police e aveva messo per
iscritto ciò che aveva notato durante la passeggiata serale.
Aspettò che fossero le sei e un quarto per chiamare Lynley dalla camera
con il pretesto di parlargli del castello che vedeva dalla finestra. Era presto,
ma Lynley era un tipo mattiniero.
A rispondere al cellulare, però, fu una donna. «Salve, Barbara. Siamo in un
momento critico. Non glielo posso passare.» Barbara ne dedusse che non
aveva sbagliato numero e che stava parlando con Daidre Trahair, il cui lavoro
allo zoo di Londra imponeva risvegli antelucani quanto quelli dell’ispettore.
Restò interdetta. Era al corrente della relazione di Lynley con la
veterinaria, ma lui non le aveva mai parlato esplicitamente di nottate passate
con Daidre Trahair. «Forse preferisco non sapere di che momento critico si
tratta. Può dirgli di richiamarmi appena lo avrete superato?» Nell’attimo in
cui quelle parole uscirono dalle sue labbra, Barbara si rese conto che forse
sarebbe stato meglio evitare le frasi ambigue.
Daidre però si mise a ridere. «Sta preparando la colazione. Uno spettacolo
molto interessante: non avevo mai visto nessuno strapazzare le uova in questo
modo.»
«Scusi se mi permetto, ma se fossi in lei, non le mangerei» interloquì
Barbara. «A quanto mi risulta, non gli riesce nemmeno il pane tostato.»
«Grazie dell’avvertimento. Approfitterò della sua telefonata per finire io di
cuocerle. Ora glielo passo.»
«Barbara, è successo qualcosa?» esordì poco dopo Lynley.
«Ho superato brillantemente tutti gli ostacoli fino all’ora di cena, e mi
creda, ispettore, fin dal primo momento me li ha messi davanti uno dopo
l’altro come biada davanti a un cavallo» gli rispose.
«Mi racconti» disse Lynley.
Barbara gli riferì tutto dalla A alla Z: dal viaggio Londra-Ludlow con una
sola sosta per fare benzina e una per andare in bagno fino all’aperitivo e alla
cena. Non gli nascose nulla. Aveva bisogno di un consiglio su come
procedere prima di rivedere il sovrintendente a colazione, e la pancia le
diceva che confessare i propri peccati a Lynley l’avrebbe aiutata a non
commetterne altri.
«Un vodka martini e poi anche il vino?» chiese Lynley al termine della
confessione. «Per lei è tanto, Barbara. Non ha pensato...?»
«Appunto, non ho pensato. Lei mi ha proposto di bere qualcosa perché
eravamo fuori servizio, e il tipo era già lì – Peace on Earth, si chiama.
Incredibile, eh? – a chiederci cosa volevamo ordinare... La lista era piena di
cocktail dai nomi improbabili – a proposito, cosa diavolo è un Sunset in New
Mexico? – e ho pensato... Non so cosa ho pensato, fatto sta che ho detto va
bene, prendo la stessa cosa che prende lei. Un bicchiere di vodka grande
quanto il cappello di paglia che si mette mia madre a Pasqua. Poi il vino. Alla
fine ho preso il caffè, ma il danno ormai era fatto e lei sapeva che ero ubriaca.
Voglio dire, come poteva non saperlo? È già tanto se non ho vomitato per le
scale. Invece lei non ha avuto il minimo... Cioè, ha sbandato leggermente
quando è uscita dal ristorante per rispondere al telefono, ma poi basta. Non
aveva nemmeno la lingua impastata.»
Lynley rifletté un attimo. «Io non mi preoccuperei» disse.
«Ma devo chiederle scusa? Le spiego che di solito bevo solo birra, e non
più di una alla settimana?»
«No, non le dica niente» rispose pronto Lynley. «A parte metterla alla
prova – e questo doveva aspettarselo, Barbara – come si è comportata?»
aggiunse poi.
«Come al solito. Della serie: ’Io sono l’ape regina, la leggenda, la dea’.
L’unica eccezione, come le dicevo, è stata quando ha ricevuto quella
telefonata, ieri sera. Ha risposto e ho sentito che parlava con qualcuno a cui si
era rivolta perché le risolvesse qualche problema, e non sembrava per niente
contenta.»
Lynley tacque. Forse si stava chiedendo se rivelarle qualcosa. Barbara lo
sperava, soprattutto se si trattava di informazioni che potevano facilitarle i
rapporti con Isabelle Ardery, ma decise di non insistere. Thomas Lynley era
innanzitutto un gentiluomo. Se Isabelle Ardery gli aveva confidato qualcosa
in segreto, non avrebbe mai tradito la sua fiducia, né per amore, né per
denaro, né per lealtà nei confronti di Barbara Havers.
«Se pensa che ieri sera Isabelle l’abbia fatta bere per metterla alla prova...»
le disse dopo un po’ Lynley.
«Se?» sottolineò Barbara.
«... sia più prudente. Non bisogna per forza accettare tutto quello che viene
offerto. Si può dire educatamente di no. Come si sente stamattina?»
«In uno stato pietoso.»
«Ah. Faccia il possibile perché non si noti, e vedrà che filerà tutto liscio.»
«È che...» Barbara moriva dalla voglia di rivelargli il vero motivo della
telefonata, ovvero che avrebbe tanto voluto che a Ludlow ci fosse lui: o al
posto suo come braccio destro di Ardery, o al posto di Ardery con lei –
Barbara – come braccio destro. Si rese conto anche che la sua opzione
preferita era la seconda e che quindi era meglio non finire la frase.
«È che...?» la incoraggiò Lynley.
«Niente. Spero di riuscire a mandar giù qualcosa a colazione.»
«Ce la farà. Almeno una volta ci siamo passati tutti. Stringa i denti,
sergente.»
Lynley chiuse la telefonata. Barbara non sapeva se la conversazione
l’avesse fatta stare meglio o peggio, ma non aveva scampo: doveva scendere
a fare colazione.
Trovò il sovrintendente Ardery che concludeva una telefonata al cellulare,
mentre Peace on Earth stava arrivando al tavolo con una caffettiera a
stantuffo. Isabelle lo invitò a versare il caffè e, dopo un’occhiata a Barbara,
aggiunse: «Immagino che ce ne vorrà un’altra».
Barbara si trovò costretta a replicare. «Da oggi in poi berrò solo acqua del
rubinetto. Al massimo, ma proprio al massimo, con un cubetto di ghiaccio e
una fetta di limone.»
Le labbra di Isabelle Ardery accennarono un sorriso così lieve che poteva
anche essere un tic involontario. «Può pure darsi che gliene portino due di
cubetti, com’è successo a me. Beva un caffè.» Prese il proprio e lo bevve
nero. Le tremava leggermente la mano.
«Sono andata a fare un giro, ieri sera.»
«Ammirevole.» Isabelle Ardery si astenne dall’aggiungere: «considerato
lo stato in cui era». «E come le è parsa la ridente città di Ludlow?»
«Meno illuminata di quanto mi aspettassi. Un sacco di stradine sembrano
fatte apposta per gli scippatori. Ma sono riuscita a trovare quello che cercavo:
la stazione di polizia.»
«E?»
In quell’istante arrivò Peace on Earth con la seconda caffettiera e il blocnotes
da cameriere. Isabelle Ardery ordinò – sbalorditivo – una tradizionale
colazione all’inglese. Barbara optò per l’unica cosa che sperava di riuscire a
mandare giù, il porridge. Peace la guardò come se da lei si aspettasse di
meglio. Come avrebbe fatto ad affrontare la giornata a stomaco semivuoto?
«È tutto, grazie» e non accennò al fatto che di solito faceva colazione con una
o due tortine al cioccolato e una tazza di tè.
Appena il cameriere si fu allontanato, Barbara raccontò a Isabelle Ardery
quello che aveva scoperto alla stazione non presidiata, compresa la
videocamera di sorveglianza, la posizione del telefono esterno, il cartello che
informava gli utenti della procedura da seguire per segnalare i reati sessuali,
la finestra socchiusa a riprova che, come aveva spiegato il comandante
Wyatt, di tanto in tanto la stazione veniva usata e, infine, la Panda nel
parcheggio con il poliziotto sul sedile reclinato all’indietro.
«Ci ho pensato un po’ su» disse. «Il tipo in macchina ieri sera, secondo me,
era un agente che schiacciava un pisolino lasciando il suo collega a
pattugliare da solo per un’ora o due. Poi fanno cambio e dorme l’altro.»
«Cosa c’entra questo con il caso per cui siamo qui?» chiese Isabelle
guardandola da sopra la tazza. Aveva finito il primo caffè e stava bevendo il
secondo.
«Magari la sera in cui è morto Druitt la dormita se la stava facendo
l’ausiliario, quel Gary Ruddock. Non era dentro la stazione, era in
macchina...»
«Ma perché sarebbe dovuto uscire? Non c’era nessuno nella stazione a
parte lui e Ian Druitt, no?»
«Magari è andato a dormire in uno degli uffici. In ogni caso, è il fatto del
sonnellino che mi ha dato da pensare. Mi sembra inverosimile che Druitt sia
riuscito a uccidersi con l’agente ausiliario dentro la stazione e nel pieno
possesso delle sue facoltà. Qualcosa di anomalo quella sera doveva esserci,
secondo me, e quel qualcosa potrebbe essere che l’ausiliario dormiva.»
Isabelle Ardery annuì. «La sua posizione peggiorerebbe parecchio, se così
fosse. D’accordo, allora: stamattina vada dall’ausiliario e veda cosa riesce a
cavargli oltre a quello che sappiamo già. Confronti quello che le dirà con
quello che ha detto all’ispettore Pajer e all’IPCC. Che noi siamo qui lo saprà
già, quindi è inutile sperare nell’effetto sorpresa. Ah, si faccia mostrare dove
è avvenuto il suicidio.»
«Giusto. Certo. Però pensavo che dovremmo anche...»
«Sì?» Il tono era interessato, ma Isabelle socchiuse gli occhi in quel suo
classico modo.
«L’agente ausiliario» disse Barbara, affrettandosi a cambiare argomento.
«Certo. Vado.»
Isabelle Ardery fece un altro sorriso simil-tic. «Brava. Nel frattempo, io ho
contattato Clive Druitt. Uno dei suoi birrifici è a Kidderminster. Andrò a
parlargli e cercherò di convincerlo a non ricorrere alle vie legali. Ho già
capito che vuole farmi una testa così sul fatto che il suo ragazzo – così lo
chiama – non può essersi impiccato perché il suicidio è ’un abominio agli
occhi di Dio’, per usare le sue stesse parole. Vedremo.»
Ludlow
Shropshire
Quando telefonò all’agente ausiliario Gary Ruddock per fissare un incontro,
Barbara scoprì che la sua disponibilità dipendeva da un certo «vecchio Rob»,
l’anziano pensionato presso cui abitava. Quella mattina doveva
accompagnarlo dal medico per una visita che aveva a che fare con la vescica
del vecchietto, la prostata, l’incontinenza sempre più grave. In poche parole,
non si poteva rimandare. Ruddock, però, era pronto a incontrare il sergente
investigativo Havers alla stazione di polizia dopo la visita. Intorno alle undici
e mezzo poteva andare?
Al telefono sembrava un tipo per bene. Avendo una madre molto anziana,
Barbara capiva la situazione, benché lei non vivesse più con la madre da
molto tempo. E visto che assistere il padrone di casa sembrava far parte dei
doveri di Gary Ruddock, Barbara accettò la proposta.
Si ritrovò così alcune ore libere a disposizione. Valutò se telefonare al
sovrintendente Ardery per chiederle cosa doveva fare mentre lei cercava di
placare il padre di Ian Druitt, ma abbandonò l’idea in quanto dimostrava uno
scarso spirito di iniziativa. Lynley sarebbe rimasto deluso.
Aveva il tempo di andare alla chiesa di St. Laurence – ammesso che
riuscisse a trovarla nel dedalo di stradine del centro storico –; nelle vicinanze
sicuramente avrebbe trovato anche la casa parrocchiale. Rivolgere qualche
domanda al vicario e farsi dire che cosa sapeva sul diacono e come l’aveva
saputo le parve una valida alternativa rispetto a poltrire in albergo in attesa
che Gary Ruddock si liberasse dai suoi impegni di badante.
Uscendo, vide che la giornata si annunciava splendida. Dall’altra parte
della strada, i prati davanti al castello luccicavano per la pioggia della sera
prima e nelle aiuole occhieggiavano fiori azzurri, bianchi e gialli.
Individuò sulla cartina un percorso che, tagliando Castle Square in
diagonale, l’avrebbe portata nei pressi della chiesa di St. Laurence, circondata
dai palazzi storici che nei secoli le erano stati costruiti tutto intorno. Nella
piazza gli ambulanti stavano allestendo il mercato, che offriva
prevalentemente generi alimentari e, a giudicare dagli aromi che aleggiavano
nell’aria, soprattutto prodotti da forno.
Arrivata sul lato nord della piazza, Barbara imboccò Church Lane, uno dei
due vicoli strettissimi che conducevano verso est. Era pieno di negozietti che
vendevano un po’ di tutto, dal formaggio alle scacchiere. La chiesa si trovava
poco più avanti e il suo lato ovest guardava verso una serie di case disposte a
ferro di cavallo che un tempo dovevano essere state ospizi per mendicanti.
C’erano due ingressi, uno a sud e uno a ovest, e quello a sud sembrava il
principale. Dal momento che dove c’è una chiesa in genere ci sono delle
persone, e fra queste qualcuno che presumibilmente sa dove si trova la
canonica, Barbara decise di dare un’occhiata all’interno.
La chiesa era sorprendente, oltre che per la posizione, completamente
nascosta dalle case a parte la torre campanaria centrale merlata, anche per le
dimensioni. Era enorme, a testimonianza della ricchezza che il commercio
della lana aveva assicurato a Ludlow nei secoli passati. Era di arenaria
rossiccia, con imponenti contrafforti, finestre in stile gotico e guglie che
sormontavano i quattro angoli della torre campanaria. A nord c’era un piccolo
camposanto ombreggiato da alberi di tasso. Nel cielo azzurro volteggiavano
strillando alcune taccole.
La porta era aperta. Dentro la chiesa, invece del silenzio contemplativo che
si aspettava, Barbara trovò un’accesa discussione in corso tra due donne, una
più vecchia e una più giovane, su quanti mazzi di fiori fossero «davvero
necessari, Vanessa» per addobbare la chiesa in vista di un imminente
matrimonio. «I soldi non ci mancano, mamma» ribatté Vanessa, petulante. «E
non voglio che ci vengano a mancare» disse la madre. «Hai due sorelle e
anche loro hanno diritto a un bel matrimonio.» Si spostarono verso il coro, in
fondo al quale c’era una finestra gotica con un’antica vetrata colorata che
doveva essere in qualche modo sfuggita alla furia iconoclasta di Thomas
Cromwell.
Barbara smise di ascoltarle: aveva visto un uomo che si dirigeva verso una
cappella con un’altra finestra enorme – anche questa con i vetri colorati – e
un piccolo altare. A giudicare dall’abbigliamento doveva essere un prete, così
decise di fare un tentativo. Tirò fuori dalla borsa il tesserino, disse «Mi scusi»
e si avvicinò.
L’uomo si voltò. Era più vicino ai settanta che ai sessanta e aveva i capelli
grigio ferro pettinati all’indietro in un’onda che pareva scolpita, il viso liscio,
sopracciglia scure e folte e orecchie grandi da vecchio. Inclinò la testa da una
parte senza dire nulla, lanciando però un’occhiata ansiosa nella direzione da
cui venivano le voci di Vanessa e della madre. Probabilmente temeva che
Barbara stesse per chiedergli di intervenire nella disputa sui fiori.
Barbara si presentò, gli spiegò nei dettagli il motivo della propria visita a
Ludlow e concluse con la richiesta di parlare di Ian Druitt con il vicario. Per
caso era lui? Sì, era lui. Si chiamava Christopher Spencer ed era ben lieto di
accontentarla. Parve ancora più lieto di uscire dalla chiesa, perché la lite sugli
addobbi nuziali stava salendo di tono. Vanessa evidentemente era abituata ad
alzare la voce per ottenere quello che voleva.
La canonica non era distante, disse il reverendo Spencer, bastava
attraversare il camposanto. Le dispiaceva se parlavano là invece che in
chiesa? Sua moglie gli aveva assegnato una lista di cose da fare e «le
signore» lo avevano distolto, spiegò indicando con un cenno della testa
madre e figlia. Barbara rispose che per lei andava benissimo.
Quando furono in casa, le offrì un caffè. Barbara rifiutò. Allora le offrì un
tè, ma di nuovo Barbara declinò. Spencer disse che, se non era un problema,
mentre parlavano avrebbe pulito la gabbia delle cocorite. Le sarebbe stato
molto grato, perché era una delle incombenze che gli aveva affidato sua
moglie, la quale aveva il terrore dei pennuti, benedetta donna.
Barbara gli disse che non aveva nulla né contro i pennuti né contro il fatto
che pulisse la gabbia, purché non le chiedesse di aiutarlo. «Ma no, si figuri!»
esclamò scandalizzato il reverendo. «Prego, le faccio strada.»
Dalla cucina la portò in quella che doveva essere stata la dispensa della
vecchia casa. Lì, su una mensola di marmo, era posata una grossa gabbia
occupata da due cocorite coloratissime che osservarono con un certo interesse
l’avvicinamento del vicario.
«Non le teniamo sempre qui» spiegò il reverendo. «Avrebbero pochi
stimoli. Tranne le mattine in cui pulisco la gabbia, stanno nel salotto vicino
alla finestra.»
«Capisco» disse Barbara.
«Si chiamano Ferdinando e Miranda» continuò Spencer. «’Questa rozza
magia ora rinnego’ eccetera eccetera.»
«Ah.» Barbara non sapeva come interpretare quella dichiarazione, ma
immaginò che per Lynley sarebbe stato come bere un bicchiere d’acqua di
fonte.
«Si chiamavano già così quando li abbiamo presi» aggiunse. «Ci sarebbero
stati nomi migliori, secondo me, ma perlomeno non si chiamano Romeo e
Giulietta. Devo confessare, però, che non li distinguo uno dall’altra. Sarebbe
stato utile vederli impegnati in certe attività, ma non mi è mai capitato.
Comunque sembra che nemmeno loro sappiano chi è Ferdinando e chi è
Miranda. Vuole sedersi? Posso andarle a prendere una sedia in cucina. O uno
sgabello. Preferisce uno sgabello?»
Barbara rispose che preferiva stare in piedi in modo da seguire meglio le
operazioni di pulizia della gabbia, nell’improbabile eventualità che un giorno
le venisse voglia di prendere due cocorite. Il reverendo si mise all’opera. Aprì
la gabbia e vi infilò una mano di taglio in maniera che i due pennuti ci si
posassero sopra. Poi ritirò la mano e le cocorite saltarono disciplinatamente
sul tetto della gabbia. «Pronto caffè?» disse una delle due. «Latte e
zucchero?» replicò l’altra.
Il vicario spiegò che erano le uniche due frasi che sapevano e che nessuno
gliele aveva insegnate. Le avevano imparate così, come fanno gli uccelli.
Quasi in risposta alle sue parole, le cocorite emisero un verso roco e presero
il volo. Barbara chinò la testa, perché puntarono dritto verso di lei prima di
sparire in cucina.
«Non si preoccupi» disse tranquillamente Spencer staccando il fondo della
gabbia. Barbara vide che conteneva una quantità sbalorditiva di guano.
«Torneranno, quando avranno fame.» Spencer accartocciò i fogli di giornale
con cui era foderato il fondo, li mise da parte e prese alcuni fogli puliti da un
cesto posato per terra. «Cosa posso fare per lei? Cosa vuole sapere su Ian?»
chiese poi.
«Tutto quello che le viene in mente» rispose Barbara.
Il reverendo parve riflettere su cosa dirle mentre sistemava i nuovi fogli di
giornale. Poi tolse tutti i posatoi per pulirli e cominciò a parlare.
Barbara apprese che Druitt era laureato in sociologia e aveva intrapreso gli
studi per diventare prete anglicano solo dopo la laurea, pensando che la
Chiesa fosse il modo migliore per mettere a frutto ciò che aveva imparato
all’università. Aveva frequentato tutti i corsi richiesti, ma non era arrivato al
sacerdozio perché purtroppo non aveva passato l’esame necessario per
l’ordinazione.
«L’ha tentato varie volte» raccontò Spencer scuotendo la testa con
rammarico. «Poveraccio. Troppo emotivo. Non ce l’ha fatta e ha deciso di
accontentarsi del diaconato. E si è dimostrato un ottimo diacono, devo dire.»
A quel punto si interruppe per andare a prendere qualcosa in un secchio di
plastica in un angolo. Tornò con una spazzola di metallo con cui cominciò a
pulire i posatoi di legno, facendo cadere altro guano su un altro foglio di
giornale. Barbara prese nota del fatto che le cocorite non sembravano avere
alcun problema intestinale. Sempre che avessero un intestino. Non sapeva
nulla dell’anatomia degli uccelli, a parte il fatto che sono dotati di un becco e
due ali. «Per noi è stata una benedizione che sia restato qui a Ludlow. Anche
se...» Spencer esitò, con un posatoio in una mano e la spazzola nell’altra.
Dalla cucina una delle cocorite chiese di nuovo se il caffè era pronto. L’altra
non rispose. «Benedizione o non benedizione, a volte esagerava un po’.»
«In che senso, scusi?»
Spencer continuò a spazzolare vigorosamente, mettendo da una parte i
posatoi a mano a mano che finiva di pulirli. «Aveva improntato la sua
esistenza sulle Beatitudini» rispose. «La sua regola di vita era compiere opere
di bene, ma a volte la applicava in modo estremo. Anni fa aveva fondato il
circolo per l’infanzia, distribuiva pasti agli infermi e agli anziani, offriva
anche assistenza gratuita alle vittime della criminalità – un buon modo per
mettere in pratica la sua preparazione sociologica, devo dire – registrava
audiolibri per i ciechi, occasionalmente faceva sostegno nelle scuole
elementari, contribuiva alla manutenzione dei sentieri... Stava organizzando
un gruppo di supporto per i giovani a rischio di alcolismo, che qui a Ludlow
purtroppo sono tanti.»
«Come funzionava l’iscrizione al circolo per l’infanzia?» chiese Barbara
quando il vicario ebbe concluso l’elenco delle encomiabili attività di
volontariato di Ian Druitt.
«Santo cielo.» Spencer parve riflettere sulla domanda e sul perché non
sapeva rispondere. Frugò di nuovo nel secchio e tirò fuori una bomboletta che
spruzzò abbondantemente sulle sbarre della gabbia. «Veramente, il circolo fa
parte della vita della città da tanto tempo che non glielo saprei dire, sergente.
Credo che l’idea sia venuta dal consiglio comunale, oltre che dalle scuole. È
stata una loro richiesta e credo che i bambini vengano iscritti tramite loro.
Ma, come le dicevo, non sono sicuro. Posso dirle però che, come spesso
succede in questi casi, il progetto è partito lentamente. All’inizio serviva per
tenere occupati i bambini dopo la scuola, ma con il tempo è cresciuto, tanto
che ogni anno Ian prendeva uno studente del college per farsi aiutare.»
«Studente del college» si appuntò Barbara nel bloc-notes, e sottolineò.
«Può darmi qualche nome?»
«Purtroppo no.» Spencer passò uno straccio sui lati della gabbia. «Però
posso dirle che Ian scriveva tutto, quindi da qualche parte ci sarà l’elenco.
Penso che lo troverete fra le sue cose.»
«Il mio capo è andato a parlare con il padre. Può darsi che ci possa
consegnare un po’ di roba del figlio. Qui non c’è più niente di suo? Mi
piacerebbe dare un’occhiata, se le è rimasto qualcosa.»
Spencer, sorpreso, mise da parte lo straccio. «Oh, Ian non viveva qui,
sergente. Gliel’avevo proposto. Per mia moglie e per me la casa parrocchiale
è troppo grande, abbiamo un sacco di camere che non usiamo. Ma Ian
preferiva stare per conto suo, avere la sua privacy. Vado a prenderle
l’indirizzo, se vuole.»
Senza aspettare che Barbara rispondesse, il vicario se ne andò. A Barbara
formicolavano le dita pensando alle possibili implicazioni di quel dettaglio.
Che bisogno aveva Druitt di vivere per conto suo quando avrebbe potuto
abitare lì, vicinissimo alla chiesa, pagando un modico affitto o addirittura
gratis? Il suo era semplice desiderio di privacy, o aveva qualcosa da
nascondere?
Spencer tornò con una busta sulla quale aveva scritto l’indirizzo di casa di
Ian Druitt. Barbara lo lesse, ma non le disse assolutamente nulla perché non
conosceva la zona. Avere sotto gli occhi l’indirizzo, però, la portò alla
domanda successiva. Era, a suo avviso, la domanda più logica da porre al
reverendo.
«Do per scontato che lei sia al corrente del motivo per cui il signor Druitt è
stato fermato. Giusto?»
Spencer annuì e le guance gli avvamparono di un colore innaturale.
Barbara ebbe l’impressione che fosse in grave imbarazzo perché la piantò in
asso per andare a prendere una scatola di mangime per uccelli e riempire la
mangiatoia appesa su un lato della gabbia. «Non credo che fosse pedofilo,
sergente. Ha lavorato nella nostra parrocchia per oltre quindici anni e non c’è
mai stato il minimo accenno a comportamenti sconvenienti da parte sua»
disse.
Barbara non aprì bocca. Lo aveva imparato molto tempo prima da Thomas
Lynley: a volte il silenzio è più efficace di una domanda. Guardò il vicario
sistemare la mangiatoia e andare in cucina a prendere l’acqua. Fuori, non
lontano dalla canonica, si accese un motore molto rumoroso. Qualcuno,
pensò Barbara, stava tagliando l’erba nel camposanto.
Spencer tornò con l’abbeveratoio pieno. «Certo, nessuno immaginava che
la pedofilia fosse così diffusa nella Chiesa cattolica...» disse fissandolo alla
gabbia. «E anche nella nostra Chiesa anglicana, come purtroppo sappiamo
ora. È sempre esistita, e generazioni di vescovi e arcivescovi hanno coperto i
responsabili... È una cosa vergognosa e imperdonabile.» Alzò lo sguardo.
Dalla sua espressione traspariva il timore di non aver vigilato abbastanza
quando il suo contributo sarebbe stato più che mai necessario. «Le assicuro
che...» Scosse la testa come per scacciare, più che un’idea, una sensazione.
«Cosa?» disse Barbara.
«Che se avessi saputo qualcosa, se avessi avuto il minimo sentore, o il
minimo sospetto sul conto di Ian, sarei intervenuto subito.»
Barbara annuì, ma una cosa era certa: quelle parole erano facili da dire, a
posteriori.
Bewdley
Worcestershire
Isabelle parcheggiò di fronte al birrificio di Druitt, che non era a
Kidderminster bensì sulla Kidderminster Road, a ovest del paesino di
Bewdley. Non aveva avuto difficoltà a trovarlo. Era vicino al fiume Severn e
alla Severn Valley Railway ed era ben visibile sia dall’argine sia dalla
ferrovia: era un edificio storico, un ex magazzino situato nella posizione
ideale per una sosta lungo il tragitto da Ludlow a Birmingham, o viceversa.
Isabelle aspettò qualche minuto prima di presentarsi all’appuntamento. Era
arrivata in anticipo e il caffè che si era fermata a prendere lungo la strada le
aveva messo un po’ di sete. Non avendo con sé una bottiglia d’acqua – un
errore che non intendeva ripetere – frugò nella borsa e trovò una delle sue
mignon. Di solito beveva sempre la stessa vodka ma, quando, oltre a
comprare la bottiglia della sua marca abituale, aveva fatto rifornimento di
bottigliette monodose da tenere in borsa per la trasferta nello Shropshire,
aveva optato per la varietà. Quella che aveva in mano era importata
dall’Ucraina, lesse sull’etichetta. Erano solo due sorsi, non di più, ma
potevano bastare per placare la sete.
La telefonata che aveva ricevuto all’ora di colazione era del suo avvocato
di Londra, evidentemente ansioso di «farla ragionare»: Isabelle se n’era
accorta dalla voce e dal tono conciliante che negli ultimi tempi usava con lei.
Sherlock Wainwright (per ritrovarsi un nome del genere doveva aver avuto
dei genitori davvero folli) sosteneva di volerla distogliere da una battaglia
legale che le sarebbe costata un capitale e che era destinata a perdere, ma
Isabelle cominciava a sospettare che volesse soltanto mantenere immacolato
il proprio curriculum professionale. Lo aveva scelto proprio perché vinceva
un numero impressionante di cause, ma a ogni nuova discussione si
convinceva sempre di più che Wainwright poteva vantare una percentuale
così elevata di successi solo perché accettava esclusivamente cause che era
sicuro di vincere.
«Possiamo ritornare un attimo sui termini del suo divorzio?» le aveva
chiesto. «Fondamentalmente, la difficoltà che abbiamo adesso deriva dal fatto
che lei all’epoca ha accettato di rinunciare all’affidamento dei figli. Dato che
il genitore affidatario è Robert Ardery e lei non si è mai opposta, neppure
quando i bambini erano piccoli e sarebbe stato più facile sostenere che
avevano bisogno della madre...»
Isabelle aveva stretto i denti e si era compiaciuta di riuscire a non ribattere.
«... contestare i termini adesso che sono più grandicelli è molto più arduo.
La controparte sosterrà che finora la figura materna di riferimento è stata la
moglie del suo ex marito, Sandra, e che per tutto questo tempo gli accordi
presi in sede di divorzio hanno funzionato piuttosto bene. Lei ha potuto
esercitare il diritto di visita...»
«In incontri vigilati» gli aveva fatto notare. «Con loro due sempre presenti.
In ’tutto questo tempo’, come dice lei, sono stata sola con i miei figli una
volta soltanto, quando Bob e Sandra avevano una cena a Londra e hanno
lasciato i bambini a dormire da me per trascorrere una notte romantica in
hotel. È successo una volta sola, e i bambini sono stati da me dalle cinque del
pomeriggio alle dieci della mattina dopo. Mi dica una cosa, avvocato
Wainwright, come si sentirebbe, se fosse nei miei panni?»
«Sarei frustrato quanto lei e farei il possibile per impedire l’evoluzione che
si sta prospettando.»
«L’evoluzione che si sta prospettando, come la chiama lei, prevede il
trasferimento dei bambini in Nuova Zelanda.» Isabelle si era resa conto del
proprio tono gelido. «A Auckland, in Nuova Zelanda. All’altro capo del
mondo.»
«Capisco perfettamente. Ma il documento che lei ha sottoscritto non dice
assolutamente nulla sulla residenza dei bambini e non specifica in quale
Paese debbano abitare. Continuo a non capire perché l’avvocato che l’ha
assistita in fase di divorzio non le abbia consigliato di contestare certe
clausole e di imporre che i minori vivano nello stesso Paese della madre.»
Perché ho dovuto accettare tutte le condizioni poste da Bob, aveva pensato
Isabelle, guardandosi bene dal dirlo ad alta voce. Perché altrimenti Bob
avrebbe svelato tutti i retroscena della mia vita ai miei superiori. Per me
sarebbe stata la fine, e lui lo sapeva. Perché bevo. Ma non sono un’alcolista.
Quello stronzo di Bob lo sa benissimo, ma ha fatto di tutto per ottenere
l’affidamento dei bambini e quattro mesi dopo – quattro mesi! – si è messo in
casa la sua stramaledetta Sandra.
«Ho sottovalutato l’importanza di alcune clausole, all’epoca» aveva detto.
Era una bugia. Quello che aveva sottovalutato era la possibilità che un giorno
Bob ricevesse un’offerta che gli consentisse di salire qualche gradino verso il
successo. E nonostante quei gradini si trovassero a Auckland, dentro di sé
Isabelle capiva perché Bob non volesse lasciarsi sfuggire l’occasione. Erano
entrambi professionalmente molto ambiziosi.
Ma il punto non era quello. Il punto era che la Nuova Zelanda era dall’altra
parte del mondo: quanto spesso poteva realisticamente prevedere di andare a
trovare i suoi figli laggiù?
«Non credo sia un motivo valido per contestare l’accordo» aveva detto
Wainwright.
«Voglio impedirgli di partire» aveva ribattuto Isabelle. «Voglio poter
vedere i miei figli. Non mi interessa quanto mi costerà. Troverò i soldi per
pagarle la parcella.»
In quel momento aveva visto arrivare Barbara Havers – pallida come uno
straccio, ma in piedi – e aveva chiuso la chiamata. Le tremavano le mani per
la rabbia e per i postumi di tutta la vodka, il vino e il porto della sera
precedente e si era pentita di non aver bevuto un goccetto prima di scendere a
parlare con il sergente, ma ormai era troppo tardi. Non aveva potuto far altro
che mandare giù quasi tutta la disgustosa colazione dell’albergo fingendo di
stare benissimo. Poi si era congedata da Barbara Havers e aveva bevuto un
dito della vodka che teneva in camera, prima di uscire dall’albergo con le
mignon di riserva nella borsa.
Seduta in macchina di fronte al birrificio, lanciò nel vano portaoggetti la
bottiglietta vuota, si mise in bocca quattro mentine extra strong per evitare
problemi di alito e, dopo essersi ritoccata il rossetto, guardò da una parte e
dall’altra e attraversò la strada per andare all’appuntamento.
Il birrificio era ancora chiuso, ma una Mercedes ultimo modello
parcheggiata davanti all’ingresso faceva pensare che Clive Druitt fosse già
sul posto. Evidentemente l’aveva vista arrivare – Isabelle si augurò che non
l’avesse vista anche tracannare la vodka, ma dando un’occhiata verso la
macchina sull’altro lato della strada decise che era poco probabile –, perché
un uomo che forse era lui le aprì la porta di vetro satinato. Vi era incisa, negli
stessi caratteri elaborati dell’insegna al neon sulla facciata dell’ex magazzino,
la scritta DRUITT CRAFT BREWERY e sotto, in tondo, Fine Lagers, Ales, and
Ciders.
«È di Scotland Yard?» Il tono era rigido, come se si stesse imponendo di
non giudicarla troppo presto, di ascoltare il suo punto di vista e cercare di
capire che intenzioni avesse. Dopo che Isabelle Ardery ebbe annuito, l’uomo
si presentò. «Clive Druitt. Grazie di essere venuta.»
«Non occorre che mi ringrazi. Apprezzo che mi abbia ricevuto qui anziché
a Birmingham.»
«Dovevo venire qui comunque» replicò. «Si accomodi. Siamo
praticamente soli. Il personale di cucina non arriva prima delle dieci e
mezzo.»
Chiuse a chiave la porta e le fece cenno di seguirlo. Il pavimento del locale
era di legno di recupero, scurito dal tempo e rovinato quanto bastava per
risultare alla moda. Anche il resto dell’arredo era scuro: un lungo bancone
graffiato, tavoli e sedie di stili ed epoche diverse, che contrastavano con i
cinque enormi serbatoi in acciaio dietro un pannello di vetro pulitissimo alle
spalle del banco, dai quali spuntavano pompe, tubi e tubicini. Gli aromi di
lievito, luppolo e cereali tostati che permeavano l’aria erano la migliore
pubblicità possibile alla birra della casa.
Druitt fece strada verso un tavolo lungo e stretto, stile refettorio, con due
panche al posto delle sedie. Vi erano posati sopra, in fila, diversi scatoloni,
alcuni chiusi e altri aperti. «Il mio ragazzo non si è ammazzato» dichiarò, e,
come se stesse per mostrare la prova inequivocabile di quell’affermazione,
estrasse da una delle scatole una foto di famiglia piuttosto grande, in cornice,
e gliela porse.
Vi era ritratto quello che Isabelle immaginò fosse il clan Druitt al gran
completo: madre, padre, figli adulti con rispettivi consorti, uno stuolo di
nipoti e uno springer spaniel che sembrava appena reduce dalla toelettatura.
Erano stati messi in posa da un fotografo professionista che aveva
giustamente suggerito loro di vestirsi tutti allo stesso modo. Avevano scelto
blue jeans e camicia bianca anche se – va detto – due uomini e una signora
avrebbero fatto meglio a indossare qualcosa che nascondesse un po’ di più i
cospicui rotoli di ciccia.
Non le fu difficile riconoscere Ian: era al centro del gruppo dei figli grandi
ed era l’unico a non indossare jeans e camicia bianca, ma l’abito talare.
Isabelle immaginò che la foto fosse stata scattata in occasione della sua
ordinazione, o come altro si chiamava la cerimonia in cui uno veniva
ufficialmente proclamato diacono.
A parte le foto del cadavere contenute nel dossier dell’ispettore Pajer, era
la prima volta che Isabelle vedeva Ian Druitt. Come i fratelli e le sorelle, i
genitori e i vari nipoti, aveva i capelli rossi. Era anche occhialuto e parecchio
in carne, con le spalle un po’ curve, quasi volesse sembrare meno alto di
quello che era o, più probabilmente, passare inosservato. Perché quelle tre
caratteristiche – capelli rossi, occhiali e chili di troppo – da sempre attiravano
irresistibilmente i bulli. Isabelle si chiese se, da bambino, avesse subito i
soprusi dei compagni e se questo avesse avuto delle conseguenze su di lui.
«Non può essersi ucciso. Non l’avrebbe mai fatto» disse Clive Druitt come
se le avesse letto nel pensiero.
Isabelle lo guardò. La morte del figlio lo aveva visibilmente provato: era
smunto, pieno di rughe e, se nella foto di famiglia era già piuttosto magro,
adesso era addirittura emaciato, con gli zigomi sporgenti e le guance scavate,
gli occhi infossati e i polsi sottili. I capelli erano sbiaditi, non più rossi, ma
color paglia.
Isabelle non era stata inviata nello Shropshire per dimostrare o confutare le
accuse contro il defunto, ma evitò di puntualizzarlo. Era lì per verificare la
correttezza delle due inchieste e quindi l’operato della polizia, non le ragioni
che potevano aver portato Ian Druitt al suicidio. La sua inchiesta
supplementare, opportunamente approfondita e accompagnata da
un’esauriente spiegazione delle presunte irregolarità, avrebbe di certo portato
alle stesse identiche conclusioni delle due inchieste precedenti.
Tuttavia le conveniva essere prudente: poteva darsi che Clive Druitt fosse
irritato per il mancato coinvolgimento della magistratura. «A Londra ho
parlato con l’onorevole Walker e con il vicecommissario Hillier. L’onorevole
mi ha esposto le sue perplessità, signor Druitt. Ho ben chiara la situazione»
disse Isabelle. Era una mezza verità, ma lei si trovava lì per rassicurare Druitt
sul fatto che i suoi timori venivano presi sul serio. «Il mio sergente e io
verificheremo le precedenti indagini, sulla base delle quali il medico legale ha
stabilito che si è trattato di suicidio.»
Druitt non era un ingenuo e capì che la presenza di New Scotland Yard
non significava la riapertura del caso. «Ian non aveva nessun motivo per
farlo. Chieda a chi vuole: glielo confermeranno tutti» disse. Si avvicinò a uno
degli scatoloni chiusi e lo aprì. Isabelle vide che conteneva soprattutto
indumenti. Druitt ci frugò dentro e, non trovando ciò che cercava, ne aprì un
altro. Questa volta ebbe più fortuna e, dopo una pila di maglioni di lana ben
piegati, tirò fuori una tavoletta di legno e invitò Isabelle a «dare un’occhiata».
Isabelle vide che era di ciliegio e che vi era incollata una targa di ottone
con le parole Ludlow e Uomo dell’anno e, sotto, il nome Ian Druitt seguito da
una data di inizio marzo. Sopra la dedica c’era un’incisione del castello di
Ludlow con una bandiera che sventolava sul torrione centrale. Doveva essere
un riconoscimento importante, pensò Isabelle, non un attestato qualsiasi.
«Glielo avevano dato il sindaco e il consiglio comunale» spiegò Druitt.
«Glielo hanno consegnato durante una cerimonia con tanto di discorsi
ufficiali, rinfresco e concerto dei musicisti del college. Le ripeto, mio figlio
non aveva alcun motivo per togliersi la vita. Aveva un sacco di amici che gli
volevano bene, aveva tutto ciò che poteva desiderare...»
Aveva anche un’accusa di pedofilia che gli pendeva sulla testa, pensò
Isabelle, ma non lo disse. Sapeva che quel premio in realtà non significava
nulla; era un bel gesto e basta. Anzi, onorificenze e fanfare potevano aver
indotto qualcuno già incattivito nei confronti del diacono a mettere in moto
anonimamente la macchina del fango.
«Ian non è mai stato depresso in vita sua. Era sempre allegro, contento di
quello che aveva. Uno così si suicida, secondo lei?» continuò Clive Druitt.
Isabelle si chiese se Druitt fosse a conoscenza della denuncia anonima.
Immaginava di sì. Com’era possibile che non lo sapesse? Probabilmente però
non voleva affrontare l’idea che il figlio fosse pedofilo. Nessun genitore
vorrebbe sentir dire una cosa simile di suo figlio.
«E questo, guardi anche questo» aggiunse Druitt. Aveva tirato fuori dallo
scatolone un giornale piegato. Isabelle vide che era una testata locale: The
Ludlow Echo.
In prima pagina c’era un articolo sulla cerimonia di consegna del premio
«Uomo dell’anno», in cui erano elencate tutte le encomiabili attività di Ian
Druitt a Ludlow, nonché i suoi meriti passati, presenti e futuri. Era un
curriculum di tutto rispetto, ma non serviva a dimostrare che Druitt non si era
suicidato. E poi, se Ian Druitt non si era tolto la vita, i casi erano due: o lo
aveva ammazzato qualcuno, oppure era morto accidentalmente. La prima
ipotesi era improbabile, tenuto conto del luogo in cui era morto, e la seconda
addirittura impossibile, sempre per lo stesso motivo.
«Signor Druitt, le assicuro che la mia collega e io non tralasceremo alcun
aspetto di ciò che è avvenuto quella sera alla stazione di polizia di Ludlow.
Esamineremo i rapporti che sono stati stilati e l’operato di polizia e IPCC. Se
c’è stato qualcosa di anomalo, lo scopriremo» disse Isabelle.
Clive Druitt si voltò a guardarla e Isabelle si accorse che stava cercando di
capire che cosa avesse voluto dire esattamente. Si accorse anche che non
erano soli come pensava, perché c’era una ragazza con una tuta da lavoro che
controllava i serbatoi dietro la parete di vetro prendendo appunti su una
lavagnetta.
«Non avete intenzione di riaprire il caso, vero? Siete venuti a nascondere la
polvere sotto il tappeto. Mi stia bene a sentire, sovrintendente come si
chiama, questa cosa con me non funziona. Voglio che il caso venga riaperto e
Walker mi ha assicurato che sarebbe successo dopo che ne avesse parlato con
voi» disse Druitt con aria sagace.
«Questo è solo l’inizio.» Isabelle si sforzò di usare un tono ragionevole.
«La mia collega e io verificheremo che non ci siano state irregolarità e
redigeremo un rapporto sulla base del quale i nostri superiori prenderanno
una decisione. Non sta a noi ordinare la riapertura del caso, ma a qualcuno
ben più in alto di noi.» Non era la verità, ma ci andava abbastanza vicino.
Avrebbero potuto condurre indagini più accurate, riparlare con tutte le
persone che erano già state interrogate e spaccare il capello in quattro, ma in
quella fase Isabelle era convinta che sarebbe stato un inutile spreco di tempo
e denaro.
«Voglio che parliate con tutti quelli che conoscevano il mio ragazzo. E
quando dico tutti, intendo veramente tutti. E soprattutto voglio che facciate il
terzo grado a quella specie di poliziotto che ha lasciato Ian da solo per non si
sa quanto tempo e non si sa quale ragione. Altrimenti, sentirete i miei
avvocati. Tutti i miei avvocati» disse Druitt.
Ops, pensò Isabelle. La faccenda si stava facendo più spinosa del previsto.
Druitt avrebbe sicuramente ricontattato il suo politico di riferimento, se le sue
richieste non fossero state soddisfatte, e lei doveva cercare di placarlo prima
che intentasse un’azione legale. Hillier non voleva trovarsi ad affrontare né
gli avvocati di Druitt né il parlamentare. Lo stesso valeva per il comandante
Wyatt e per tutti gli altri. «Ho capito perfettamente, signor Druitt. Posso
prendere questi, per cortesia?» disse indicando l’ultimo scatolone.
«Gli effetti personali di Ian? A cosa le servono? Vuole distruggerli?»
«Assolutamente no! Glieli chiedo perché potrebbe esserci qualcosa di utile
per le indagini.»
«Ma me li restituirete, vero?»
«Certo. Ora le do una ricevuta.»
«Glielo chiedo perché non mi fido di voi, visto che dite che Ian si è
ammazzato. Gli uomini di fede non si tolgono la vita, e Ian era un uomo di
fede.»
Ludlow
Shropshire
Alla luce del giorno la stazione di polizia non le parve molto diversa rispetto
a quando l’aveva vista di notte con la luce accesa nell’ingresso, le finestre
socchiuse e la Panda nel parcheggio. In quel momento il piazzale era vuoto, e
Barbara dedusse che l’agente ausiliario non era ancora arrivato. Questo le
dava l’opportunità di procedere a una breve ricognizione diurna, che
cominciò immediatamente.
Davanti alla palazzina a forma di L c’era una fila di cespugli ben potati che
la separavano da un prato in discesa. Barbara vide che fra il muro e le piante
c’era abbastanza spazio per passare e raggiungere il parcheggio girando
intorno all’edificio. Così fece e scorse una telecamera a circuito chiuso
puntata sopra la porta sul retro. A parte quella e l’altra che si trovava sopra
l’ingresso principale, non sembravano esserci ulteriori apparecchi di
videosorveglianza.
Tornò sul davanti e guardò la telecamera che, come aveva notato la sera
precedente, era puntata verso la strada e inquadrava parte della carreggiata, il
marciapiede e i gradini che portavano all’ingresso. Si chiese quanto fosse
ampio l’angolo dell’obiettivo. Oltre a riprendere chi si avvicinava alla
stazione e saliva la scaletta, inquadrava anche l’ingresso e il telefono montato
accanto al portone? La telecamera era fissa o la si poteva girare in modo da
cambiare inquadratura?
Stava riflettendo su queste domande quando passò un’autopattuglia.
Barbara tornò nel parcheggio. Dall’auto stava scendendo un tizio. «Il
sergente Havers? Scusi il ritardo. Il vecchio Rob ci ha messo un po’ a
sistemarsi, quando l’ho riportato a casa» disse. Era l’agente ausiliario Gary
Ruddock.
Barbara vide che era un uomo robusto, alto più di un metro e ottanta,
muscoloso. Aveva i capelli scuri tagliati molto corti, ma non a zero tipo
hooligan, il viso ovale e perfettamente rasato, l’aria pulita.
Si presentò con una stretta di mano decisa. «Gary Ruddock. Gaz,
veramente. È tanto che aspetta?»
«Barbara» replicò lei. «Pochi minuti. Rob è suo nonno?»
«È il mio padrone di casa, diciamo. Non vuole andare in un ricovero. È
ancora troppo arzillo. Ma non vuole nemmeno andare a stare da sua figlia
Abby. Io rappresento il compromesso. Gli do una mano alla sera e alla
mattina e, quando lavoro, c’è un vicino che gli dà un’occhiata. Venga,
entriamo.»
«Si può girare, quella?» chiese Barbara.
Ruddock, che aveva infilato la chiave nella serratura, si voltò e seguì la
direzione del suo sguardo. «La telecamera? Non ne ho idea. Non so
nemmeno se funziona, ora che la stazione non è presidiata. Possiamo provare
a ruotarla, dopo. Ci dev’essere una scopa, da qualche parte.» Fece strada.
«Caffè? Acqua? Tè? La filtriamo. L’acqua, intendo. Ce ne dovrebbe essere
una caraffa nel frigo» disse.
Barbara rispose che l’acqua andava benissimo. Lui annunciò che, se non le
dispiaceva, si sarebbe fatto un caffè. La portò in quella che, quando la
stazione funzionava a pieno ritmo, doveva essere stata la cucina a
disposizione degli agenti e che adesso era usata come deposito. Accatastati in
un angolo c’erano scatoloni con varie date scritte sopra, risme di carta e
cartucce di ricambio per stampanti.
«Che peccato» osservò Barbara.
Ruddock si voltò e vide che si stava guardando intorno. «I tagli sono stati
pesanti» disse. «È uno dei motivi per cui non potrò mai diventare un
poliziotto vero e proprio. Dopo quello che è successo, poi... Sono fortunato
ad avere ancora il posto da ausiliario. Be’, veramente ero fortunato anche
prima, perché ho problemi di lettura.»
«Problemi di lettura?» ripeté Barbara, perplessa.
Ruddock proseguì con la preparazione del caffè: tirò fuori da un armadio
un barattolo di Nescafé, un bollitore elettrico e un tazzone con il logo della
RSPCA, la lega protezione animali. «Inverto le parole e le lettere» le spiegò.
«Per tanto tempo ho pensato che fosse colpa del metodo di studio che
usavamo, ma poi sono scappato a Belfast e ho frequentato dei corsi speciali, e
non è cambiato nulla.»
Fece scorrere l’acqua e sciacquò un bicchiere per Barbara, glielo porse e
lasciò che si servisse da sola dalla caraffa.
«In che senso è ’scappato’ a Belfast?» gli domandò lei.
Ruddock riempì il bollitore e lo accese. «Oh, scusi. Fino a quindici anni ho
vissuto in una setta. Nel Donegal.»
«Davvero?»
«Eh, sì. Si davano molto da fare per moltiplicarsi, un po’ meno per tirare
su i figli e dargli un’educazione. Quando me ne sono andato, pensavo di
riuscire a recuperare, invece, come le dicevo, non ce l’ho fatta. Temo di
essere sia dislessico sia disgrafico. Per questo sono riuscito a diventare
soltanto agente ausiliario: c’è meno da scrivere, rispetto alla polizia regolare.
Ma lei lo sa, non c’è bisogno che glielo dica io.»
Il bollitore si spense con un clic, Ruddock si fece il caffè e indicò a
Barbara il lungo tavolo davanti all’unica finestra della stanza, con due sedie
di plastica infilate sotto. Si sedettero e quando Ruddock prese con entrambe
le mani la tazza della RSPCA Barbara vide che aveva un tatuaggio sul polso
sinistro. Tre lettere spesse, scure, tutte maiuscole: CAT. «Le piacciono i gatti,
eh?» gli disse indicandolo con un cenno della testa.
Ruddock rise. «Cat è il nome di mia madre. Tutti noi bambini ne avevamo
uno. Così sapevamo chi era nostra madre.»
«Un tatuaggio?» chiese Barbara e, quando lui annuì, aggiunse: «Che
strano. Di solito quando c’è un dubbio è sul padre».
«Altro che dubbio! Per sapere chi era nostro padre avremmo dovuto fare il
test del DNA. Il principio era diffondere il seme. Come le dicevo, i membri
della setta si davano molto da fare a moltiplicarsi senza badare troppo al
come, quando e con chi.»
«Ma chi era vostra madre lo sapevate, no?»
«Solo dai tatuaggi, perché una volta svezzati i bambini non stavano più con
la madre, ma tutti insieme in una specie di nursery e la mamma la vedevamo
molto poco per via... be’, per via dell’andate e moltiplicatevi, che era il lavoro
delle donne, non so se mi spiego. I tatuaggi servivano perché uno non
inseminasse la madre o la sorella, una volta raggiunta l’età per fare sesso.»
Barbara ci pensò su un momento. «Scusi se glielo dico, ma mi sembra un
po’... un po’ sopra le righe» replicò.
«Assolutamente!» rincarò Ruddock, per nulla offeso. «Immagino possa
capire perché me ne sono andato appena ho potuto. Sono scappato e non sono
mai più tornato.» Bevve un sorso di caffè senza fare il minimo rumore.
Lynley avrebbe apprezzato, pensò Barbara. Nel suo ambiente, si imparava a
bere senza far rumore sulle ginocchia della tata, probabilmente usando una
tazza d’argento con le iniziali incise. Ruddock posò il caffè. «A cosa è dovuto
l’intervento della Metropolitan Police in questa storia?» disse.
«Non gliel’hanno detto?»
Ruddock scosse la testa. «Ho parlato solo con l’IPCC e con l’ispettore che
è venuto subito dopo il fatto. Poi basta.»
«C’è un interessamento della Camera dei Comuni. Mi dispiace, ma
dobbiamo ricominciare daccapo.» Tirò fuori carta e matita. Ruddock sospirò.
«Mi dispiace» ripeté Barbara.
«È solo che sembra non finire mai. Capisco che lei deve fare il suo lavoro,
ma...»
E Barbara partì proprio dal lavoro, chiedendogli come fosse riuscito a
conservare il posto dopo che un individuo in stato di fermo si era ucciso
mentre si trovava alla stazione di polizia di Ludlow sotto la sua
responsabilità.
«È stata la sede centrale del West Mercia» rispose Ruddock sinceramente.
«Il mio capo mi ha detto che qualcuno in sede ha preso le mie parti, qualcuno
molto in alto.»
Barbara ne prese nota. Strano che un funzionario di grado elevato si fosse
esposto per Ruddock, visto il baccano sollevato dal suicidio di Ian Druitt.
Sarebbe stato più prudente nascondere l’ausiliario incriminato sotto il tappeto
o, meglio ancora, metterlo alla porta. «Ha idea del perché?» chiese.
«Perché qualcuno ha preso le mie parti?» replicò Ruddock e Barbara
confermò con un cenno. «Ho conosciuto un paio di pezzi grossi ai corsi di
addestramento che ho fatto a Hindlip. Ci ho solo scambiato quattro
chiacchiere, niente di che. Ma mi era sembrata una buona idea, nel caso me li
fossi trovati in commissione all’esame per passare ad agente di pattuglia.» Si
strinse nelle spalle con aria vagamente imbarazzata. «È stata... be’... diciamo
che è stata una mossa politica.»
«Politica e intelligente» commentò Barbara. Ruddock avrà avuto delle
difficoltà a leggere e scrivere, ma non era uno stupido se aveva avuto
quell’idea. «E dov’è la scuola di addestramento? Vicino alla sede?»
«Sì, nello stesso complesso, quindi è abbastanza facile per i funzionari di
stanza alla sede tenere qualche corso ogni tanto.» Bevve un altro sorso e con
il pollice tracciò la lettera R sulla tazza. «Vuol sapere la verità? Dopo quello
che è successo, mi aspettavo di essere licenziato in tronco. Ringrazio che non
sia andata così.»
Barbara non disse nulla. Durante l’addestramento Ruddock doveva essersi
ingraziato personaggi importanti.
«Sono stato così stupido!» continuò. «Quando sono andato a prelevarlo, si
stava togliendo i paramenti dopo la funzione. Ho aspettato che fosse pronto,
ma non sono stato attento a tutto quello che faceva. Perché avrei dovuto? Era
un prete... Quando ha finito, ha preso la giacca a vento appesa dietro la porta
e siamo usciti.»
«Le ha chiesto il motivo del fermo?»
«Un sacco di volte. Ma io non ne avevo la minima idea. Il mio sergente mi
aveva detto di portarlo in stazione e io non ho pensato a chiedere perché. Poi,
dopo un’oretta che eravamo lì ad aspettare quelli di Shrewsbury, ci sono stati
dei problemi con dei ragazzi ubriachi e mi sono dovuto occupare di loro.»
«È uscito dalla stazione?»
«No, no. Mai» ribatté Ruddock. «Non potevo uscire finché c’era il signor
Druitt. Ma ho dovuto fare un giro di telefonate a tutti i pub. Cristo.
Dovrebbero smetterla di servire da bere ai ragazzi quando sono ubriachi, ma
se ne fregano, pur di incassare.»
Quindi si era distratto, aveva altro per la testa, pensò Barbara. La versione
data da Ruddock fin lì non era cambiata rispetto a quella riportata nei dossier
che aveva letto durante la notte. Le parve ammirevole che non cercasse di
edulcorare i fatti. «Mi farebbe vedere dove è successo?» gli domandò.
Evidentemente Ruddock si aspettava quella richiesta, perché si alzò senza
esitazione, lasciando il caffè sul tavolo. «Da questa parte» disse.
Imboccarono un corridoio. Alle pareti – di quel giallo che sembrava
d’obbligo nei corridoi degli uffici pubblici, una brutta via di mezzo fra il
senape e il color alga – c’erano ancora bacheche con manifesti e avvisi
polverosi, e in più di una stanza Barbara intravide dei computer, a
dimostrazione che la stazione veniva ancora usata occasionalmente dagli
agenti in servizio da quelle parti. Forse era per questo che se uno voleva farsi
un pisolino durante il turno di notte andava a dormire in macchina, anziché
rimanere dentro la stazione.
«Quanti sono gli agenti che usano questa struttura?» chiese.
Ruddock stava aprendo una porta con una targhetta senza nome, una di
quelle che di solito servono a identificare l’ufficio dei pezzi grossi. «A parte
quelli delle pattuglie di zona?» Fece una pausa come per calcolare chi altri
poteva aver bisogno di utilizzare quegli spazi per attività di polizia. «Gli
ispettori dell’Investigativa, direi, se vogliono accedere ai database. I membri
delle squadre Anticrimine, per lo stesso motivo. Quelli della Buoncostume.
Gli agenti di pattuglia, come le dicevo. Io, dal momento che la mia zona di
competenza è Ludlow.»
Barbara entrò dopo di lui nella stanza in cui si era tolto la vita Ian Druitt.
Sia secondo il rapporto dell’IPCC sia secondo quello dell’ispettore Pajer,
Druitt aveva usato una stola e la maniglia del guardaroba, ma nel rapporto
della Pajer c’era un particolare in più, che Barbara aveva sottolineato e sul
quale voleva chiedere chiarimenti. Era un’irregolarità che le era parsa
bizzarra.
Quando una persona veniva fermata e portata in una stazione di polizia per
essere interrogata, era normale che venissero usate le manette. Era successo
anche nel caso di Ian Druitt, tant’è vero che nel referto dell’autopsia venivano
citate abrasioni ai polsi prodotte da manette di plastica, del tipo a fascetta. Se
ne poteva dedurre o che fossero state strette troppo, oppure che Druitt avesse
cercato di liberarsi. Ma anche entrambe le cose, pensò Barbara: se erano
molto strette, a maggior ragione doveva aver cercato di togliersele o
allentarle.
«Secondo il rapporto dell’ispettore Pajer» disse, «lei ha tolto le manette di
plastica al signor Druitt perché si era lamentato di avere le mani intorpidite.
Si dibatteva? Cercava di liberarsi? E perché ha usato delle fascette di plastica
anziché normali manette?»
«Perché avevo quelle» rispose Ruddock. «E non erano troppo strette. Non
le stringo mai troppo. Sto solo attento che non si possano aprire.»
«Comunque a Druitt le ha tagliate?»
Ruddock si massaggiò la fronte. «Continuava a ripetere che gli facevano
male le mani, che non si sentiva più le dita. Insisteva a voce sempre più alta.
A un certo punto sono andato e gliele ho tagliate.»
«Perché non è rimasto con lui?»
«Nessuno mi aveva detto che dovevo stare con lui. Le ripeto, non sapevo
nemmeno perché l’avevamo fermato. A me avevano semplicemente detto di
portarlo qui e tenercelo finché non arrivavano gli agenti di pattuglia per
trasferirlo a Shrewsbury. Magari mi avessero spiegato il perché! Sapevo
soltanto che doveva essere interrogato, punto e basta. Con questo non voglio
giustificarmi. È colpa mia se è successo questo casino.»
«Cosa ha fatto, dopo averlo lasciato solo?»
Era scritto nel rapporto di Pajer, ma Barbara voleva sentirglielo dire a viva
voce. «Come le dicevo, mi hanno telefonato per segnalare un’abbuffata
alcolica in centro. Da qui non potevo fare niente, a parte telefonare al pub in
questione – lo Hart and Hind – e dire che smettessero di servire da bere ai
ragazzi. Poi ho dovuto chiamare anche gli altri pub del circondario in modo
che se si fossero spostati altrove, non fossero riusciti comunque a procurarsi
alcolici.»
«Da dove le ha fatte, queste telefonate?»
«Da uno degli uffici. E il fatto è successo mentre ero di là a telefonare.
Non sono uscito dalla stazione. Non me lo sarei mai sognato. Solo che ero in
un’altra stanza. Se mi avessero avvertito che era un soggetto a rischio, non
l’avrei mai lasciato solo. Ma nessuno mi aveva detto niente. E così io ho
pensato di poter tranquillamente telefonare ai pub.»
Lasciare solo Ian Druitt era stato un errore madornale, ma non era l’unico
commesso quella sera.
Non era la prima volta che un soggetto sotto custodia si suicidava. Alcuni
si erano impiccati con la cintura di contenzione, altri avevano dato testate nel
muro fino a procurarsi un ematoma letale o si erano tagliati le vene in un
bagno con uno spuntone di metallo di cui nessuno si era mai accorto. Volere
è potere. C’era stato persino uno che era riuscito a garrotarsi con i suoi stessi
calzini. Era impossibile prevenire tutte le forme di autolesionismo. La polizia
faceva del suo meglio, ma ogni tanto veniva messa in scacco.
Quello che dava da pensare a Barbara, però, era che la stazione di Ludlow
era il posto ideale per far fuori qualcuno e inscenare un suicidio. Druitt
poteva essere stato ucciso da Ruddock o da un altro agente che Ruddock
cercava di coprire. Essendo accusato di pedofilia, Druitt era sicuramente a
rischio a prescindere. L’unica falla del ragionamento era che Gary Ruddock
sosteneva di non sapere per quale motivo fosse stato fermato Druitt. A meno
che, naturalmente, non stesse mentendo.
«Ho visto la trascrizione della chiamata al 999 che ha provocato il fermo di
Druitt.»
Ruddock la guardò con circospezione, come se temesse di essere accusato
anche per quella denuncia, oltre che per la morte di Ian Druitt. «Sì?» disse.
«La persona che ha chiamato fra le altre cose ha detto che non sopportava
l’ipocrisia. Secondo il mio capo alludeva alla pedofilia e al fatto che Druitt
era un diacono. Lei cosa ne pensa?»
Ruddock rifletté. Con un cenno, Barbara gli fece capire che potevano
uscire dalla stanza. Non aveva visto nulla che potesse fornire una muta
testimonianza sulla morte di Druitt, solo i normali segni di usura di tutti gli
uffici abbandonati: vetri sporchi, graffi sul linoleum, chiodi cui un tempo
erano appesi diplomi e certificati, ciuffi di polvere accumulata negli angoli.
«L’unica cosa che mi viene in mente è quell’onorificenza che gli avevano
dato. Persino il vecchio Rob l’aveva letto sul giornale. Forse all’autore della
denuncia aveva fatto rabbia che lo premiassero» disse Ruddock quando
furono di nuovo nel corridoio.
«Quale onorificenza?» Nei dossier non si parlava di nessuna onorificenza.
«Uomo dell’anno di Ludlow. Rob legge sempre il giornale e a cena mi
racconta le novità. Era uscito un articolo.»
«Su Ian Druitt Uomo dell’anno? Quando?»
Ruddock cercò di ricordare. «Non sono sicuro. Due o tre mesi fa? C’era
stata una cerimonia in municipio e nella foto sul giornale Druitt era con il
sindaco. Forse... Uomo dell’anno un pedofilo... L’ipocrisia potrebbe essere
quella, no?»
Potrebbe, pensò Barbara. Ma prima di tutto bisognava chiedersi se il
timore di un’indagine potesse essere bastato a spingere Ian Druitt a togliersi
la vita. E, in secondo luogo, se la nomina a Uomo dell’anno potesse essere
bastata a spingere qualcuno a ucciderlo prima di un’eventuale indagine.
Ludlow
Shropshire
«Sembra un tipo per bene» disse il sergente Havers a Isabelle per concludere.
«E molto grato di essere ancora in servizio. Sa di essere in difetto per aver
lasciato solo Druitt, ma dice anche che non aveva la minima idea del motivo
per cui l’avevano fermato.»
«Ha detto qualcosa che non era riportato nei rapporti di Pajer e
dell’IPCC?»
«Con loro non ha parlato della sua infanzia, quindi queste sono
informazioni nuove, per quel che possono valere.»
Erano vicino al Ludford Bridge, davanti al Charlton Arms, un’antica
locanda sull’altra sponda del fiume rispetto al centro di Ludlow, non lontano
dal paesino da cui prendeva nome il ponte. Dai faggi frondosi che lo
circondavano veniva un gran cicaleccio e si vedevano sfrecciare e volteggiare
nell’aria numerosi uccelli. Isabelle le aveva dato appuntamento lì, quando
Barbara le aveva telefonato per informarla di aver concluso il colloquio con
l’agente ausiliario Ruddock. Pareva che avesse «qualche problemino di
apprendimento», le aveva riferito. «È dislessico e disgrafico.»
«Come mai non è stato licenziato? Lo sappiamo?»
«Dice di essere stato protetto da un funzionario della sede centrale che
l’aveva conosciuto durante l’addestramento.»
«Doveva essere il primo della classe» commentò Isabelle. «Ma mi sembra
impossibile tenuto conto della dislessia e della disgrafia, giusto?»
«Dice che si arruffianava gli insegnanti sperando che gli servisse per fare
carriera.»
«Be’, direi che se l’è giocata male» commentò Isabelle.
Barbara Havers annuì. Si era accesa una sigaretta, approfittando
dell’occasione per incamerare nicotina prima che Isabelle le desse qualche
altro incarico. Ma Isabelle non voleva darle altri incarichi: voleva entrare al
Charlton Arms, sedersi a uno dei tavoli con vista sul fiume e porre rimedio al
nervosismo che la faceva fremere dalla testa ai piedi. Ma un drink a quell’ora
non sarebbe stato giustificabile agli occhi di nessuno, tranne che ai propri, e
perciò disse: «Il padre del suicida vuole un’altra inchiesta con fiocchi e
controfiocchi».
Barbara buttò fuori una nuvola di fumo e lanciò il mozzicone nel fiume.
Isabelle ne seguì la traiettoria fino all’acqua e la guardò come a dire Le pare
il caso? «Scusi, ero soprappensiero» disse Barbara.
«Speriamo che un cigno non lo prenda per un pezzo di pane.»
«Vero. Non lo faccio più. E lei che cosa gli ha detto?»
«Al signor Druitt? Mi sono fatta dare nove scatoloni di effetti personali del
figlio e gli ho promesso che li esamineremo con cura in cerca di prove. Che
scopriremo indizi, escluderemo false piste, leggeremo le viscere come gli
aruspici... Che faremo di tutto, insomma. L’importante è tenerlo lontano dal
telefono, perché mi ha assicurato che la sua prossima mossa sarà chiamare gli
avvocati. Al plurale. Dobbiamo evitare che succeda.»
«Da dove cominciamo? Dagli scatoloni?»
«Santo cielo, no. Ha altro da raccontarmi?»
«Il vicario, direi.»
Isabelle le lanciò un’altra occhiata. Distolse lo sguardo dal Charlton Arms
perché la vista del locale era una tentazione troppo forte. «Allora, il vicario?»
domandò.
E vedendo che Barbara esitava, aggiunse spazientita: «Su, sergente,
sentiamo».
Barbara le spiegò che, quando aveva scoperto che Gary Ruddock non era
disponibile a incontrarla subito, aveva deciso di andare a parlare con il
vicario di St. Laurence. Sperava di aver fatto bene.
«Sergente, era nell’elenco delle cose da fare. Perché mi chiede se ha fatto
bene? Vada avanti» ribatté Isabelle.
E Barbara lo fece. Aveva preso appunti – sia durante la conversazione con
il reverendo sia durante il colloquio con Ruddock – e consultò il taccuino.
Elencò a Isabelle quelli che probabilmente erano stati gli svariati motivi
per cui Ian Druitt era stato nominato Uomo dell’anno. Era una lista molto
simile a quella che Isabelle aveva letto sul giornale mostratole da Clive
Druitt. Il diacono partecipava a tutte le iniziative di responsabilità sociale di
Ludlow. Barbara concluse menzionando il doposcuola. «C’è uno studente del
college che gli dava una mano. Penso che dovremmo parlargli» disse.
«Perché?»
«Se la faccenda della pedofilia è vera, mi sembra che dobbiamo...»
«Sergente, non siamo qui per stabilire se Ian Druitt fosse veramente un
pedofilo oppure no. Il nostro mandato non è questo. Pensavo che lo sapesse.
Se non lo sa, le ricordo che siamo qui per accertare che l’ispettore Pajer e
l’IPCC abbiano fatto quel che dovevano fare, per riesaminare i loro rapporti e
verificare che non abbiano trascurato nulla riguardo alla morte del fermato.
Se proprio dobbiamo parlare con qualcun altro, a questo punto, è il medico
legale.»
Barbara non rispose, ma Isabelle vide che qualcosa la turbava.
«Ha scoperto qualche lacuna nell’operato di Bernadette Pajer e della
commissione IPCC?» chiese perentoria. «Se sì, voglio sapere di cosa si
tratta.»
«Per ora no» ammise Barbara. «Ma...»
«Niente ma. La lacuna o c’è, o non c’è, sergente.»
«Be’, sia il vicario che il padre del morto affermano che...»
«Quello che affermano il vicario e il padre del morto non ha niente a che
vedere con quello che è davvero successo. Quando uno si suicida senza un
motivo evidente, la gente fa fatica a crederci. È umano. Un’overdose? Non
l’ha fatto apposta. Un colpo di pistola? L’hanno ammazzato. Si è dato fuoco?
Una delle due a scelta.»
«La morte accidentale in una stazione di polizia è esclusa, capo» protestò
Barbara. «E quindi...»
«E quindi si è suicidato. Forse lei non ha idea di quanto sia difficile
simulare il suicidio per impiccagione e, nel caso specifico, il suicidio per
impiccagione alla maniglia di un guardaroba. Scoprire se quest’uomo avesse
o meno un motivo per togliersi la vita esula dal nostro incarico. Per quel che
ne sappiamo, era Rebecca de Winter e le avevano appena diagnosticato un
tumore incurabile.»
«Solo che...» Barbara esitò.
«Cosa?»
«Be’, solo che lei era stata ammazzata, capo.»
«Chi?»
«Rebecca de Winter. L’ha ammazzata Max, si ricorda? E il tumore è il
motivo per cui viene scagionato. In realtà lei voleva che lui la uccidesse,
perché sapeva che sarebbe morta comunque, ma se l’avesse ammazzata lui e
poi l’avessero preso, lei sarebbe riuscita finalmente a rovinargli la vita, come
sognava di fare fin dall’inizio.»
«Santo cielo, sergente» esclamò Isabelle. «Non siamo in un melodramma
degli anni Quaranta.»
«Sì, ha ragione. C’è un’altra cosa, però: Druitt non viveva con il reverendo
e la moglie, nonostante la casa parrocchiale sia enorme. Preferiva stare per
conto suo, ha detto il vicario. Voleva avere la sua privacy. La mia domanda è:
a cosa gli serviva la privacy? Se trovassimo qualcuno che sa come mai Druitt
teneva tanto alla privacy, potremmo chiedergli anche...»
«Ora basta.» Isabelle alzò le mani. «Andiamo a parlare con il medico
legale. A quanto pare è l’unica cosa che potrà convincerla che le due indagini
precedenti sono valide.»
Long Mynd
Shropshire
Anziché all’ospedale dove era stata eseguita l’autopsia di Ian Druitt, la
dottoressa Nancy Scannell diede loro appuntamento in una zona dello
Shropshire che si chiamava Long Mynd, dove si trovava il club di volo a vela
di cui faceva parte. Nancy Scannell era comproprietaria di un aliante e quel
giorno toccava a lei assistere uno dei soci del West Midlands Gliding Club
nel lancio del velivolo.
L’altopiano di Long Mynd era parecchi chilometri a nord di Ludlow e vi si
arrivava percorrendo strade a mano a mano più strette e più ripide, dove
talora passava a stento una macchina. Non era raro vedere fagiani che
sbucavano dalle siepi o trovare pecore ferme in mezzo alla strada come se
fosse di loro esclusiva proprietà. Isabelle e Barbara ebbero la conferma che il
passaggio di un’auto da quelle parti era un evento raro quando videro un
nutrito gruppo di germani reali – maschi, femmine e piccoli – attraversare
tranquillamente la strada, ignari o forse incuranti del pericolo. Isabelle
inchiodò imprecando, e Barbara si rallegrò che non li avesse spiaccicati
sull’asfalto.
Il sovrintendente aveva i nervi a fior di pelle. Barbara se n’era accorta
mentre parlavano al Ludford Bridge e ancora di più se ne rendeva conto
adesso dal modo in cui guidava. Quando erano arrivate a un bivio nel
villaggio praticamente disabitato di Plowden, dove un cartello sbiadito dalle
intemperie indicava la direzione del West Midlands Gliding Club, aveva
addirittura pensato di offrirsi di darle il cambio perché da quel punto in poi la
strada diventava una carrareccia che saliva a una pendenza impressionante e
Isabelle aveva le nocche bianche da quanto stringeva il volante.
Erano salite verso il villaggio di Asterton, che più che un villaggio
sembrava una fattoria. Lì un’altra freccia indicò loro l’ennesima salita, con
una cabina telefonica sul ciglio della strada e il fondo più dissestato che mai.
Alla fine arrivarono all’aeroclub, annunciato da un grande cartello con foto di
piloti e passeggeri sorridenti che si sforzavano di sembrare tranquillissimi
mentre volavano senza motore nel cielo azzurro.
Alla struttura si accedeva attraverso un cancello che trovarono aperto
nonostante un cartello con la scritta SI PREGA DI TENERE CHIUSO. Era
un’accozzaglia di baracche in lamiera ondulata disposte su un pianoro quasi
completamente privo di vegetazione, a parte l’erba tra cui brucavano
numerose pecore ben pasciute. Oltre alle baracche c’erano degli hangar
costruiti con i materiali più svariati, davanti ai quali erano allineati alcuni
alianti mentre altri erano in fase di sbarco dai rimorchi su cui erano posati.
Dietro agli alianti c’erano alcuni veicoli fermi e, dietro ancora, una
costruzione più solida che doveva essere la sede del club, dotata di reception,
uffici, sale riunioni e caffetteria. Era lì che avevano appuntamento con la
dottoressa Scannell.
Erano in ritardo. A un certo punto avevano preso il bivio sbagliato, finendo
in uno dei molteplici villaggi sparsi in quella parte dello Shropshire e
allungando il viaggio di parecchi chilometri. Trovarono la dottoressa Scannell
che le aspettava, ma non di buon umore. La conclusione di Barbara fu che al
momento l’anatomopatologa e Isabelle Ardery erano ottimamente assortite.
«Mi rimangono solo dieci minuti» comunicò la dottoressa. Quando erano
entrate, si era alzata da un lungo tavolo. Era vestita casual, con jeans e
camicia di flanella a quadri. Da sotto il berretto da baseball le spuntavano
folti ciuffi di capelli sale e pepe. «Mi aspettano sulla pista» aggiunse. «Mi
dispiace, ma non è possibile rimandare.»
Nella sala c’erano altri piloti che mangiavano e, vicino alla grande vetrata
con vista sull’altipiano, un gruppetto che parlava ad alta voce e sghignazzava
sulla conferenza della mattina, che era stata «una palla mortale». A quanto
pareva, la dottoressa Scannell voleva parlare con loro in privato, perché le
portò in un’altra stanza con una lavagna bianca e vari grafici appesi al muro,
che doveva essere la sala riunioni. Ma invece di fermarsi lì, proseguì fino al
bar del club, che in quel momento era deserto.
Barbara, a disagio, lanciò un’occhiata a Isabelle Ardery che teneva lo
sguardo fisso in avanti, verso un tavolo in fondo alla stanza. Quasi fosse un
invito, la dottoressa Scannell fece strada in quella direzione.
Guardò l’orologio che aveva al polso, molto tecnologico, pensò Barbara,
con un sacco di quadranti e accessori che le fornivano ogni sorta di
informazioni. «Nove minuti. Cosa volete sapere?» disse.
Barbara aveva il referto dell’autopsia. Isabelle Ardery lo prese e lo porse
alla dottoressa. «Il mio sergente ha qualche perplessità sul fatto che si sia
trattato di suicidio» disse.
«Ah sì?» Nancy Scannell guardò Barbara con indifferenza. Si tolse il
berretto e i capelli schizzarono fuori come cuccioli quando si apre il recinto.
«Solo per via della maniglia» precisò Barbara un po’ intimidita dal piglio
sicuro dell’anatomopatologa. «E perché a detta di tutti non aveva tendenze
suicide.»
«Che uno avesse o meno tendenze suicide è irrilevante.» La dottoressa
Scannell tirò fuori dal taschino della camicia un paio di mezzi occhiali e se li
mise sul naso. «Si tratta solo di stabilire se si è suicidato o no, e Druitt si è
suicidato. Non è stata una morte accidentale né un omicidio.»
Aprì la cartella e ne posò sul tavolo il contenuto: alcune fotografie del
cadavere, la trascrizione delle osservazioni che aveva dettato al registratore
durante l’autopsia, i risultati delle analisi tossicologiche e il referto finale.
Cominciò a illustrare il referto e le foto, dopo averle avvicinate a Barbara
perché le guardasse. Dato il poco tempo a disposizione, parlava in fretta,
senza mai fermarsi a chiedere se avessero domande o se qualcosa fosse poco
chiaro.
Partì dalla congestione venosa che, sommata all’asfissia, aveva causato il
decesso. A provocare la congestione venosa era stato un paramento liturgico,
per la precisione una stola, usata come cappio. Essendo più larga e più
morbida di una corda o simili, la stola non era penetrata in profondità. Il
sergente sapeva che cosa significava? Senza aspettare la risposta,
l’anatomopatologa spiegò che per quel motivo anziché un’ipossia cerebrale
dovuta a compressione delle arterie si era verificato un blocco da
compressione delle vene giugulari. Ne era conseguito un arresto della
circolazione cerebrale – «Il sangue ha smesso di andare e venire dal cervello,
in parole povere» chiarì la dottoressa – che aveva provocato un aumento della
pressione venosa nella scatola cranica. La morte doveva essere sopraggiunta
dopo tre-cinque minuti, perché per occludere le giugulari bastava una
pressione di due chili.
La dottoressa Scannell cominciò a indicare le foto una per una, fermandosi
solo una frazione di secondo per dare un’occhiata all’orologio. Come il
sergente poteva vedere dalle foto scattate in situ, le caratteristiche del suicidio
c’erano tutte: le tipiche distorsioni del viso, la protrusione degli occhi, le
piccole emorragie puntiformi – «Si chiamano petecchie» – all’interno delle
labbra. Ma, soprattutto, le ecchimosi sul collo.
«Vedo, vedo tutto. Solo che non capisco come faccia uno, da solo, a
impiccarsi alla maniglia di un guardaroba» disse Barbara.
«Basta volerlo» sentenziò la dottoressa Scannell. «Il soggetto si abbandona
in avanti e lascia che il peso del corpo provochi la congestione venosa di cui
vi dicevo, la quale a sua volta provoca la perdita di coscienza e l’arresto
circolatorio a livello cerebrale. È una dinamica che si osserva anche in casi di
morte accidentale – un buon esempio è l’autoerotismo – ma ammazzare una
persona in questo modo è davvero difficile. I segni sul collo sarebbero
diversi.»
Lividi e solchi sul collo cambiavano a seconda di una serie di fattori: peso
corporeo, tipo di cappio, tipo di nodo, tempo totale di sospensione eccetera.
«Non c’è nulla che smentisca l’ipotesi del suicidio» concluse la dottoressa
Scannell.
«Nemmeno i polsi?»
«I polsi?» L’anatomopatologa guardò prima le foto e poi le proprie
osservazioni. «Si riferisce alle abrasioni? Sono compatibili con quanto
dichiarato dall’agente che ha eseguito il fermo. Le manette erano del tipo a
fascetta, di plastica, ed erano state strette eccessivamente. Comunque è stato
sciocco togliergliele...»
«Forse invece è stato furbo» intervenne Barbara. «Se l’avesse ammazzato
lui, intendo. Per farlo passare per un suicidio. O anche se qualcun altro fosse
entrato nella stazione e avesse ammazzato Druitt, e poi l’ausiliario avesse
scoperto il corpo, si fosse fatto prendere dal panico e avesse cercato di farlo
passare per suicidio. Non potrebbe essere andata così?»
Dall’espressione della dottoressa Scannell si intuiva che stava prendendo
in considerazione quell’ipotesi, o che l’aveva già fatto. «Potrebbe essere
andata così, certo.» Barbara stava già per lanciare a Isabelle Ardery
un’occhiata significativa quando Nancy Scannell aggiunse: «Potrebbe anche
essere apparso l’angelo Gabriele e averlo fatto fuori lui. Adesso, scusate, ma
devo andare». Si alzò. «Mi aspettano sulla pista. Avete mai visto un aliante
decollare con il verricello? No? Allora venite con me. Penso vi possa
piacere».
A Barbara non poteva importare di meno di assistere al lancio di un
aliante, ma pur di avere ancora qualche minuto per parlare con la dottoressa
Scannell era disposta a fingersi interessata. Così, prima che il sovrintendente
sollevasse obiezioni, balzò in piedi con l’aria entusiasta di chi va pazzo per i
verricelli. Isabelle non la seguì e rimase seduta nel bar, per la gioia di
Barbara.
Fuori si era alzato il vento. C’era odore di fumo proveniente da un
campeggio per roulotte nelle vicinanze, cui si mescolavano altri odori di
prodotti chimici, benzina e anche un vago olezzo di letame.
Nancy Scannell si avviò verso un grande spiazzo erboso e Barbara dovette
allungare il passo per starle dietro. Di fronte alla sede del club vide un trattore
che, nel tentativo di allontanare le pecore al pascolo, compiva strane
evoluzioni su quella che sembrava essere l’unica pista del campo di volo. A
quanto pareva, l’aliante in attesa in fondo alla pista doveva essere lanciato
piuttosto in fretta, una volta disperso il gregge, prima che gli ovini tornassero
a piazzarsi sulla sua traiettoria.
Ai due estremi della pista, lunga circa un chilometro e mezzo, c’erano due
strani automezzi a quattro ruote con un enorme rullo e un operatore a bordo.
Barbara immaginò che si trattasse dei verricelli. Tra un mezzo e l’altro
correva un robusto cavo d’acciaio, dal quale partiva un altro cavo
perpendicolare cui era agganciato l’aliante.
La dottoressa Scannell non pareva incline a continuare la conversazione,
ma Barbara non si lasciò scoraggiare perché aveva ancora una domanda da
farle. «E lo strangolamento?»
«Lo strangolamento?» ribatté l’anatomopatologa mentre cercava di ficcare
sotto il berretto i capelli che le volavano dappertutto. Fece un cenno al pilota,
che era in piedi vicino al posto di pilotaggio aperto e guardava le nuvole in
lontananza sforzandosi di capire chissà che cosa. «Arrivo!» gridò. «Uhuh!
Sto arrivando!»
Quando Barbara vide che anche il pilota era una donna, si chiese se il
gruppo di comproprietari dell’aliante fosse tutto al femminile.
«Lo esclude?» chiese. «Per quale motivo non è possibile che qualcuno lo
abbia strangolato con la stola e poi lo abbia legato alla maniglia per farlo
sembrare un suicidio?»
«I segni sul collo sarebbero diversi.» La dottoressa si spazientì e non fece
nulla per nasconderlo. La si poteva anche capire, pensò Barbara. In fondo
stavano mettendo in discussione la sua competenza professionale.
«Cioè?»
«Si volti.» L’anatomopatologa tirò fuori dalla tasca dei jeans un foulard.
«Perché?»
«Si volti, le dico. Mi ha fatto una domanda e io le do la risposta.»
Barbara ubbidì e, quando si fu voltata, la dottoressa le passò il foulard
intorno al collo. Poi lo serrò leggermente. «Se io adesso la strangolassi,
sergente, le lascerei sul collo un segno orizzontale. Dopo potrei anche
impiccarla, ma il segno principale rimarrebbe comunque. Se lei invece si
impiccasse, il segno sarebbe diagonale, così. Ecco perché. Ora, se vuole
scusarmi...»
Detto questo, si allontanò rimettendosi in tasca il foulard. Raggiunse la
pilota e insieme cominciarono a ispezionare l’aliante. Poco dopo un tizio si
allontanò dal verricello per controllare le ali e vari aggeggi qua e là. L’uomo
tornò al verricello e, mentre la dottoressa Scannell teneva l’ala ferma e
parallela al terreno, la pilota salì a bordo e si chiuse dentro.
Il lancio durò meno di un minuto: Nancy Scannell mostrò il pollice alzato
al verricellista, il quale lampeggiò con i fari all’operatore dell’altro verricello
a un chilometro e mezzo di distanza. Tutto era pronto. Il cavo di acciaio
cominciò a scorrere dal verricello più vicino verso quello più lontano,
trainando l’aliante che, dopo una cinquantina di metri, si sollevò da terra, salì
fino a due o trecento metri, poi si sganciò dal cavo secondario e prese il volo.
Porca Eva, pensò Barbara incredula guardando l’aliante che si librava
silenzioso nel cielo. Solo un pazzo poteva appassionarsi a uno sport del
genere.
Long Mynd
Shropshire
Rimasta sola nel bar, Isabelle si impose di non cedere, nonostante dall’altra
parte della sala le due file di bottiglie sugli scaffali ammiccassero nella
penombra. In fondo, sarebbe bastato un attimo per andare dietro il banco di
formica a guardare, solo per curiosità, i tipi e le marche di liquori che i
volovelisti bevevano dopo aver passato la giornata a planare in cielo.
Probabilmente si tenevano d’occhio a vicenda per essere sicuri che nessuno si
facesse un goccetto prima di decollare.
Isabelle si disse che il suo interesse per le bevande che il bar del club
serviva ai soci era puramente accademico. A cosa davano la precedenza, fra
prezzo e qualità? E fra quantità e qualità? La vodka era aromatizzata? E il
gin? Quella era una bottiglia di Macallan e, se sì, di quanti anni? Un semplice
interesse, una curiosità passeggera, il desiderio momentaneo di aprire una
bottiglia, annusare il profumo e lasciare che facesse quello che sanno fare i
profumi, ovvero far riemergere alla mente ricordi che si sostituissero a ciò
che aveva in mente in quel momento. Peccato che ora Isabelle Ardery avesse
in mente esattamente ciò che aveva quel giorno. Uno solo, uno solo e poi
basta, nessuno se ne sarebbe accorto, e i gemelli, grazie a Dio, si erano
finalmente addormentati dopo una mattinata, un’intera mattinata, e poi un
pomeriggio in cui prima uno e poi l’altro si erano rifiutati di stare buoni e non
avevano fatto altro che capricci finché...
Isabelle si alzò. Prese la borsa e uscì dal bar. Riattraversò la sala riunioni e
tornò nella caffetteria, dove prima c’erano i piloti che sghignazzavano
davanti alla vetrata. Ne erano rimasti solo due, immersi in una conversazione
su qualcosa di molto serio, a giudicare dalle voci sommesse. Non fecero caso
a lei, e fu meglio così, visto quanto era nervosa.
Cercò di distrarsi guardando le Marche gallesi, che tutti consideravano un
panorama straordinario nella sua vastità. In lontananza vide dei cumulonembi
e un aliante che volteggiava verso l’alto, poi un altro. Chissà se c’erano
rumori lassù, o se si sentiva solo il vento.
Si accorse di avere le unghie conficcate nel palmo delle mani e si chiese a
che punto delle sue divagazioni mentali aveva serrato i pugni. Se avesse
chinato lo sguardo, avrebbe visto quattro profondi segni a mezzaluna in
ciascuna mano, ma non aveva alcuna intenzione di guardare per non vedere
ciò che quei segni le avrebbero detto su lei stessa. Doveva e voleva uscire da
quel posto al più presto perché si rendeva conto che il baratro era lì, davanti a
lei, e sarebbe bastato pochissimo per precipitarvi, e sarebbe stato molto simile
a lanciarsi con uno di quegli alianti che volavano in lontananza, no?
«Capo?»
Isabelle si voltò e vide Barbara Havers. Chissà da quanto tempo era lì. Ma
il tono del sergente era tranquillo, l’aveva chiamata solo per avvertirla che
aveva finito di parlare con la dottoressa ed era tornata. «Ha visto quello che
voleva vedere?» chiese Isabelle. «Ha sentito quello che voleva sentire?»
Barbara Havers annuì, anche se la risposta che le diede – «Più o meno,
direi» – non fu del tutto rassicurante.
«Allora andiamo» replicò Isabelle. E si incamminò verso l’uscita.
Passarono davanti alla toilette. Una puntatina nel bagno prima di rimettersi in
viaggio era ragionevole: Isabelle disse a Barbara che l’avrebbe raggiunta alla
macchina e le indicò con il pollice che aveva un impellente bisogno di fare
una piccola deviazione. Come previsto, il sergente disse che ne avrebbe
approfittato per fumarsi una sigaretta, se non le dispiaceva. E naturalmente
Isabelle ribatté che non le dispiaceva affatto.
Una mignon non bastava, ma era sempre meglio che niente e Isabelle la
bevve tutta in un sorso non appena ebbe chiuso la porta. Poi nascose il vuoto
in fondo al cestino della spazzatura e si guardò allo specchio. Si passò il
rossetto sulle labbra e un po’ anche sulle guance, spalmandolo bene con le
dita. Poi si mise in bocca una mentina per l’alito, uscì e raggiunse Barbara,
che come al solito stava incamerando la maggior quantità di nicotina
possibile e intanto guardava la pista e si mordicchiava il labbro inferiore.
Il suo atteggiamento poteva essere interpretato in diversi modi, oppure
ignorato. Isabelle propendeva per quest’ultima opzione, ma essendo un
funzionario di polizia da cui ci si aspettava una certa competenza sapeva di
dover mostrare un minimo di interesse. «C’è qualcosa che la preoccupa,
sergente» disse, quindi.
Barbara smise di fissare la pista, si strinse nelle spalle e replicò con un
mezzo sorriso. «Dal mio punto di vista, direi che i puntini sulle i ci sono
tutti.» Buttò il mozzicone sulla terra battuta e si accertò che fosse spento. «Se
lei è pronta, per me possiamo andare. Vuole che guidi io, capo? Finora ha
sempre guidato lei e...»
«No» rispose Isabelle in tono più brusco di quanto volesse, perché c’era
qualcosa che non le piaceva in quell’offerta. Poi, per rimediare, aggiunse con
un sorriso che sperava sembrasse sincero: «Le prometto di non mettere a
repentaglio la vita dei germani reali. Venga».
Barbara sfruttò il viaggio di ritorno a Ludlow per studiare i dossier che si
era portata e confrontare meticolosamente le informazioni che riportavano
con quelle che si era appuntata nel bloc-notes. Lavorava con una
concentrazione che a Isabelle parve innaturale e un po’ sospetta, come
l’attenzione con cui poco prima guardava la pista. «La vedo perplessa,
sergente. Cos’è che non la convince?» disse Isabelle dopo un quarto d’ora di
silenzio sempre più carico di tensione, perlomeno ai suoi occhi.
Barbara Havers alzò la testa con un’espressione da cerbiatto sorpreso dai
fari di un’auto. Si affrettò a cercare di mascherarla. «È che... Ha notato
quante cose tutte insieme? A Shrewsbury c’è una serie di furti, così tocca
all’agente ausiliario di Ludlow andare a prelevare il diacono. Poi vengono
segnalati dei ragazzi che si stanno ubriacando in centro, così l’ausiliario deve
occuparsene e il diacono rimane solo. I furti, il fermo, l’abbuffata alcolica, il
suicidio. Tutto nella stessa sera?»
Isabelle frenò. C’erano due pecore comodamente sdraiate in mezzo alla
strada. Suonò il clacson. Le pecore guardarono la macchina con suprema
indifferenza. «Maledizione» esclamò Isabelle. Spalancò la portiera, si sporse
e gridò: «Via di lì! Toglietevi di mezzo! Via!» Con tutta calma, le pecore si
alzarono. Isabelle richiuse la portiera sbattendola con violenza e si rivolse a
Barbara. «Sta insinuando che sia stato tutto orchestrato di proposito? I furti, il
fermo, un’ubriacatura di gruppo che ha richiesto l’intervento delle forze
dell’ordine? Ha idea del grado di collusione che ci vorrebbe per organizzare
una cosa simile?»
«Sono d’accordo con lei. Ma tutte queste coincidenze... Mi fanno pensare
che la faccenda avrebbe dovuto essere sottoposta al Crown Prosecution
Service. E dal momento che non lo è stata... Voglio dire, non le sembra
che...?»
L’esitazione del sergente era veramente esasperante. «Sputi il rospo,
Barbara» disse Isabelle.
«È che... Collusione su vasta scala e insabbiamento sono due cose diverse.
E a volte nel cercare l’una si perde di vista l’altro.»
Erano arrivati alla cabina telefonica dove bisognava girare a sinistra per
riprendere la strada per Ludlow. Isabelle pigiò sul freno con più forza di
quanto intendesse. «Cosa sta cercando di dire?» domandò senza cercare di
nascondere l’irritazione. «Niente. Ma dal momento che vogliamo mettere i
puntini sulle i...»
«Gliel’ho già spiegato: non siamo qui per indagare su un presunto
omicidio. Siamo qui per verificare la correttezza di due inchieste già svolte su
un suicidio. Non possiamo continuare ad andare avanti e indietro in questo
modo perché finiremmo impantanate in troppi dettagli e non possiamo
permettercelo. Hillier non ci ha concesso abbastanza tempo.»
«Capito» rispose Barbara. «Lo sapevo. Ma visto che un po’ di tempo lo
abbiamo – in questo preciso momento, intendo – ho qui l’indirizzo del
diacono, perché me lo ha dato il vicario. Non sembra strano anche a lei che
non volesse stare nella casa parrocchiale con il vicario e la moglie?»
«No, non mi sembra strano. E me lo ha già chiesto. Quindi adesso le faccio
una domanda io: lei vorrebbe abitare assieme a un reverendo e signora?»
«Io no. Neanche per sogno. Ma se fossi diacono e avessi bisogno di una
stanza e me ne offrissero una a... a venti metri dalla mia chiesa, perché non
dovrei accettare? Se non altro, per risparmiare sull’affitto. Invece lui non ci è
voluto stare. Ci sarà bene un motivo... Ma su questo fatto non c’è nemmeno
un cenno in nessuno dei due rapporti.»
Isabelle sospirò. Barbara Havers era veramente esasperante. «D’accordo»
disse. «Ho capito dove vuole andare a parare. Lei ha la sensazione che
dobbiamo andare a vedere dove abitava e cercare... cosa? Uno scheletro in
cantina? Un teschio nel barbecue? Non mi dica altro. Mi dia l’indirizzo e
basta.»
Burway
Shropshire
Ian Druitt abitava in un piccolo complesso residenziale che comprendeva due
vie senza uscita e un vialetto che non aveva neppure un nome. Le case erano
bifamiliari, ognuna con il suo garage accanto. Davanti a quella di Ian Druitt
c’era un furgone giallo con la portiera aperta. Sulla fiancata erano disegnati
alcuni vasi e fioriere in ceramica straripanti di fiori e foglie, accompagnati
dalla scritta BEVANS’ BEAUTIES, da un numero di telefono, un sito web e un
indirizzo email. Una donna in salopette mimetica e maglietta a maniche corte
vi stava caricando grossi sacchi di terra. Aveva un fazzoletto annodato
intorno al collo e in testa un cappello con una tesa così larga da fare ombra a
lei e a eventuali passanti.
«È questo l’indirizzo?» chiese Isabelle a Barbara, che controllò di nuovo i
propri appunti e annuì. La conclusione possibile era una sola ed era davanti ai
loro occhi: Ian Druitt non viveva solo. Poi la donna si voltò verso di loro e
Isabelle vide che aveva più o meno la stessa età di Druitt. La cosa le parve
sorprendente.
Secondo lo standard per cui i sessantacinquenni erano definiti «di mezza
età» come se dovessero vivere fino a centotrent’anni, quella era una giovane
donna sui quaranta. Vedendo che Isabelle e Barbara si avvicinavano, si
interruppe e si aggiustò sul naso un paio di occhiali da sole alla John Lennon.
Sul furgone c’erano già alcuni vasi simili a quelli reclamizzati sulla fiancata,
oltre a decine di piante di vario tipo.
Isabelle fece le presentazioni e sia lei che Barbara mostrarono il tesserino.
La donna, come prevedibile, parve sconcertata da quell’intrusione di New
Scotland Yard nella sua vita, ma disse in tono molto cordiale che si chiamava
Flora Bevans e aggiunse: «Lo so, sembra uno scherzo. Flora. Come se i miei
sapessero già che lavoro avrei fatto».
Isabelle disse che avevano avuto l’indirizzo dal vicario della chiesa di St.
Laurence e Flora Bevans spiegò che Ian Druitt aveva in affitto una stanza da
lei. Flora Bevans cantava nel coro di St. Laurence e aveva saputo da una delle
anziane signore che ne facevano parte – «Avete presente come cercano
sempre di trovare una sistemazione a tutti?» – che Ian Druitt viveva nella
casa parrocchiale con il reverendo Spencer e la moglie, ma gli dispiaceva
disturbarli con la musica e quindi stava cercando un posto dove trasferirsi.
«Io avevo una camera in più e i soldi mi facevano comodo, come a tutti»
disse francamente. «Ho pensato che, se la musica mi avesse dato fastidio,
bastava che mi togliessi l’apparecchio acustico. Così gliene ho parlato, lui è
venuto a vedere e ci siamo messi d’accordo. Tra di noi non c’era nulla»
puntualizzò. «Attrazione fisica? Zero. Ma era una persona deliziosa. E
lasciava il bagno così pulito che sembrava una pubblicità, una cosa non da
poco per un uomo. Ne ho uno solo. Di bagno, intendo. Dividevamo sia il
bagno sia la cucina, ma siamo andati d’accordo fin dall’inizio. Ho solo
dovuto chiedergli di non sbattere la porta quando rientrava tardi la sera, ma
ha imparato subito.»
«Rientrava tardi la sera?» chiesero in coro Isabelle e Barbara.
«Ian era coinvolto in mille attività. Ventiquattr’ore non gli bastavano»
rispose Flora.
«Abbiamo saputo che ha ricevuto un premio per il suo impegno sociale»
osservò Barbara.
«Oh, sì, e ne andava molto fiero. Ve lo mostrerei, ma i suoi sono venuti a
prendere tutta la sua roba, una volta passato il polverone su come era morto.
Poveraccio.» Si tolse il fazzoletto dal collo e lo usò per asciugarsi il viso,
anche se non faceva particolarmente caldo e non sembrava sudata. «Uno si
sente sempre un po’ responsabile, davanti a un suicidio. Non me lo sarei mai
aspettato. Era un uomo di fede, e gli uomini di fede dovrebbero avere... –
come dire? – più risorse spirituali, presumo. È stato uno shock. Quando
quella sera non l’ho sentito rientrare, non avrei mai immaginato che
l’avessero arrestato, e quando ho saputo perché ci sono rimasta malissimo.
Non solo per me, che forse mi ero presa in casa un pedofilo, ma anche per la
sua famiglia. Dire che erano sconvolti, quando sono passati a ritirare le sue
cose, è poco. Non c’è da meravigliarsi, del resto. Venire a sapere qualcosa di
brutto su un familiare non fa mai piacere, ma sentire che ha molestato dei
bambini... Un uomo di chiesa, per di più... Dev’essere un’esperienza
devastante.»
«Lei pensa che le accuse fossero fondate?» domandò Barbara.
«Cosa ne so?» rispose Flora Bevans. «Se si pensa a quante mogli non
sanno di essere sposate con un serial killer tipo Peter Sutcliffe, che va in giro
con un martello sporco di sangue o con chissà cos’altro nel bagagliaio, cosa
volete che sappia una padrona di casa dell’inquilino cui affitta una stanza?
Qui a casa mia non ha mai fatto niente di strano, grazie a Dio. E devo dire
che, se mai, non capisco dove trovasse il tempo. Ora che ci penso...»
Aggrottò la fronte.
«Sì?» disse Isabelle.
«Ho ancora la sua agenda. Me l’ero dimenticata. Avrei dovuto consegnarla
a qualcuno – aveva appuntamenti a tutte le ore del giorno – ma non ci ho
pensato. Immagino che vi interessi, no? O forse dovrei spedirla a suo padre.
La teneva in cucina sotto il telefono e quando ho radunato le sue cose mi è
sfuggita.»
L’agenda avrebbe spalancato le porte a nuovi campi di indagine che
Isabelle non desiderava particolarmente esplorare, ma Barbara Havers fu più
pronta di lei e figuriamoci se non diceva che l’agenda era proprio quello che
ci voleva, grazie mille.
«Venite con me.» Flora Bevans andò verso la porta e le invitò a entrare.
Si ritrovarono in un piccolo ingresso quadrato con foto di composizioni
floreali alle pareti che Isabelle immaginò fossero opera di Flora Bevans. Era
un’artista, a giudicare da quelle immagini. In fatto di piante, il massimo che
Isabelle poteva pensare di tenere in un vaso era l’edera, sperando che non
morisse se dimenticava di innaffiarla per qualche settimana.
Flora le fece entrare nella cucina, arredata di tutto punto e molto ordinata;
aprì un cassetto, tirò fuori l’agenda e la porse a Barbara Havers. Era
un’agenda normale, con giorni della settimana e ore del giorno, e un pensiero
cui ispirarsi in cima a ogni pagina. Barbara cominciò a sfogliarla. Isabelle, un
po’ discosta, vide che, come aveva preannunciato Flora Bevans, l’agenda era
piena di appuntamenti. Mentre Barbara li studiava, Isabelle notò il chiasso
che proveniva da dietro la casa. Era il suono inconfondibile di bambini che
giocano: urla, tonfi, risate e ogni tanto la voce di un adulto che li richiamava
all’ordine.
«Abbiamo una scuola qui vicino» spiegò Flora. «Durante gli intervalli c’è
un po’ di confusione, ma nel fine settimana e durante le vacanze è un
paradiso. Il quartiere più tranquillo della città, secondo me. Penso che anche
Ian lo apprezzasse.»
Havers alzò la testa. «Dal davanti non si sente niente.»
«È vero» convenne Flora. «La mia camera è affacciata sulla strada, quindi
la scuola non mi dà nessun fastidio. Ian invece aveva la stanza sul retro e si
beccava tutto il rumore, se era in casa quando i bambini erano in cortile.»
«Possiamo dare un’occhiata?» chiese Barbara, aggiungendo subito dopo:
«Va bene, capo?»
Isabelle annuì. Flora le accompagnò al piano di sopra e disse che potevano
fermarsi a guardare – anche se non c’era molto da vedere – ma che lei doveva
tornare a lavorare, se per loro non era un problema. Potevano chiudere la
porta d’ingresso, una volta finito: non usava mai la chiave, tanto in casa non
c’era niente che valesse la pena di rubare.
Nella camera del morto, Isabelle e Barbara scoprirono due cose: primo, che
dal cortile della scuola veniva un fracasso parecchio fastidioso, se uno aveva
bisogno di tranquillità durante il giorno; secondo, che dalla finestra si vedeva
benissimo il cortile asfaltato dove un centinaio di alunni, maschi e femmine,
giocavano al sole. Come sempre a quell’età, riuscivano a fare un gran
baccano saltando la corda, giocando a pallone, alla campana. Alcuni erano
impegnati in quella che poteva sembrare una mischia di rugby e che era
invece una gara a chi riusciva a far scoppiare un palloncino saltandoci sopra.
Il tutto sotto la sorveglianza di una donna che li guardava imbronciata con le
braccia conserte e un fischietto da vigile intorno al collo.
«Chissà se era venuto a stare qui per questo» mormorò Barbara Havers
raggiungendo il sovrintendente alla finestra. «È l’ideale, se ti piacciono i
ragazzini, no?»
I bambini nel cortile avevano più o meno l’età dei suoi figli, pensò
Isabelle. Giocavano con la stessa grinta dei gemelli, con la stessa passione.
Aveva capito subito che due gemelli sarebbero stati impegnativi per una
madre come lei, ma non avrebbe mai immaginato di poterli perdere.
Purtroppo il pensiero dei danni che poteva fare loro quando si riduceva in
quello stato non era bastato a fermarla. Il più grave dei suoi peccati era stato
questo. Degli altri meglio non parlare.
«... poteva sfogarsi anche solo stando qui alla finestra, immagino» stava
dicendo, pensosa, Barbara Havers. «Bisogna tenerlo presente. Senza che
nessuno se ne accorgesse.»
Isabelle si riscosse. «Di cosa sta parlando, sergente?»
«Magari si metteva qui a... a lucidarsi l’arnese.»
«Come ha detto, scusi?»
Barbara si affrettò a cercare di rimediare. «A farsi una...»
Isabelle questa volta capì. «A masturbarsi? Guardando i ragazzini?»
«Be’, sì. Hai la scuola proprio sotto la finestra, nessuno ti vede... Flora è
sempre in giro con i suoi vasi e le sue piante, lui ha la casa tutta per sé, sente
gli scolari nel cortile ed ecco che il vecchio amico si sveglia e vuole una bella
stretta di mano.»
«Sergente Havers, usa un linguaggio così colorito quando parla con
l’ispettore Lynley?»
Barbara fece una smorfia. «Mi scusi.»
«Perché, sinceramente» continuò Isabelle «non riesco a immaginare che
l’ispettore Lynley si esprima in termini altrettanto coloriti con lei.»
«Ha perfettamente ragione, capo. Lui non userebbe mai certe espressioni.
Signore com’è, piuttosto si taglia la lingua. Non gli verrebbe nemmeno in
mente. Di usare un linguaggio colorito, intendo. Con l’educazione che ha
ricevuto... non so se mi spiego. Voglio dire, sappiamo tutti che è un
gentiluomo e quindi... Chissà come si comporta con... chiamiamolo il... il lato
scabroso de... insomma.»
«Capisco.» Isabelle conosceva piuttosto bene Lynley. Avevano avuto una
relazione per un certo periodo e, se era vero che Lynley era la
personificazione della signorilità e della discrezione, c’erano aspetti
dell’educazione ricevuta da un uomo che andavano a farsi benedire, se una
donna ci si metteva d’impegno. E dal momento che con Thomas Lynley
Isabelle si era impegnata eccome, gli aveva sentito dire cose che, pur essendo
ben lontane dalla volgarità del linguaggio di Barbara, quest’ultima non gli
avrebbe mai sentito pronunciare. Isabelle tornò a guardare dalla finestra.
«Non lo escludo. Che Ian Druitt da qui guardasse i ragazzini. Sappiamo
entrambe che il genere umano è capace di tutto» disse.
Nella stanza c’erano solo i mobili: un letto, un comò, un piccolo scrittoio
con un unico cassetto e una sedia. I cassetti del comò erano vuoti, come pure
quello dello scrittoio, e le pareti erano spoglie. Un buco sopra il letto faceva
pensare che ci fosse stato appeso qualcosa e, considerato lo stile monastico
della stanza, Isabelle immaginò un crocifisso.
Non c’era altro che fosse degno di nota, per quanto potesse vedere.
L’agenda sembrava confermare che Ian Druitt era un fanatico del
volontariato, come aveva affermato più di una persona. Una vita che a lei
pareva faticosa, ma non sospetta. La missione nello Shropshire, pertanto,
poteva dirsi conclusa.
Naturalmente il sergente Havers non era dello stesso parere, tant’è che
mentre scendevano le scale disse: «Immagino che dovremo controllare tutte
le carabattole che le ha dato Druitt senior. Magari c’è qualcosa che
corrisponde a quel che è scritto nell’agenda, no? Soprattutto se si tratta di
documenti e cose del genere... Voglio dire, solo per verificare che tutto torni.
Per essere sicure di non aver trascurato niente». Poi aggiunse, quasi a
prevenire eventuali proteste da parte di Isabelle: «Immagino che il padre se lo
aspetti. Non le pare?»
No, non mi pare, pensò Isabelle. Forse invece il sergente Havers non aveva
tutti i torti. Ci mancava solo quella maledetta agenda. Fece un sospiro. «E
secondo lei qual è il modo migliore di procedere?»
«Be’, negli scatoloni che ci ha dato il padre potrebbe esserci qualcosa che è
sfuggito finora.» Vedendo che Isabelle non rispondeva, continuò: «Posso
guardarci io, se lei ha altre cose cui pensare».
L’unica altra cosa cui aveva da pensare Isabelle era un vodka tonic con più
vodka che tonic, ma non poteva ordinare al sergente Havers di esaminare il
contenuto di tutti quegli scatoloni da sola mentre lei si faceva i fatti suoi, e
quindi convenne che era un lavoro da affrontare insieme. Ora che avevano
anche l’agenda di quel povero disgraziato, bisognava occuparsene, perché era
un reperto di proprietà del morto che chiaramente era sfuggito alle due
inchieste precedenti.
«Controlliamo insieme. Possiamo farlo in albergo, e magari chiediamo a
Peace se ci può preparare un panino» disse perciò.
Alla luce dei fatti, gran parte degli oggetti personali di Ian Druitt si rivelò
di scarso interesse. Portarono gli scatoloni all’hotel, li allinearono sul
pavimento della sala e cominciarono ad aprirli mentre Peace on Earth
procurava due panini con prosciutto e uova sode, a malapena commestibili.
Isabelle ordinò l’agognato vodka tonic e chiese al sergente se desiderasse
ordinare qualcosa di forte anche lei. Barbara, però, pareva decisa a rimanere
sobria e si limitò a chiedere un’acqua minerale. L’unica sua concessione fu
un sacchetto di patatine per accompagnare il panino.
Si divisero il lavoro. Isabelle iniziò dalla scatola che conteneva un lettore
cd portatile e una collezione musicale piuttosto eclettica, dalla classica al
country americano. C’era anche un iPod che il diacono avrà usato per
ascoltare musica, con la relativa docking station.
Barbara intanto tirava fuori da un’altra scatola gli indumenti che Druitt
portava quando non si vestiva da prete. Non erano molti e come prevedibile
erano tutti ben piegati, di colori neutri e piuttosto anonimi. In mezzo ai
vestiti, forse per proteggerla, c’era una semplice croce lucida, di legno
pregiato. Dietro c’era una targhetta con la dedica: «A Ian con affetto, mamma
e papà» e una data, probabilmente quella dell’ordinazione a diacono. In fondo
alla scatola c’era una cartellina con un elenco di nomi maschili e femminili,
indirizzi e numeri di telefono. Dovevano essere gli iscritti al circolo
doposcuola e i nomi fra parentesi accanto a ciascuno dovevano essere quelli
dei genitori. Sotto ancora c’erano un giornale piegato e una pila di volantini
di spettacoli di un gruppo musicale, gli Hangdog Hillbillies. Ognuno si
riferiva a un concerto diverso, in una sede e una data diversa, con una diversa
foto della band. Ian Druitt, a quanto pareva, suonava il bidofono – uno
strumento artigianale ricavato da un secchio di metallo e da un manico di
scopa – mentre gli altri membri suonavano il banjo, le percussioni su un’asse
da bucato o con dei cucchiai e la chitarra. Si esibivano vestiti secondo lo stile
country del gruppo e in un’altra scatola Isabelle trovò vari indumenti che Ian
Druitt probabilmente portava ai concerti: pantaloni sbiaditi, salopette,
scarponi, T-shirt consunte, camicie da lavoro lise e cappelli di vari tipi.
Il giornale era una copia del Ludlow Echo con l’articolo su Druitt Uomo
dell’anno. Barbara lo lesse dall’inizio alla fine e, dato che Isabelle l’aveva
soltanto visto di sfuggita, recitò ad alta voce l’elenco delle attività di
volontariato del diacono: membro del gruppo incaricato della catturasterilizzazione-liberazione
dei gatti randagi, direttore del circolo per
l’infanzia di Ludlow, membro della Victim Volunteers Society, catalizzatore
del nascente gruppo degli Street pastors, direttore del coro della parrocchia di
St. Laurence. Inoltre visitava malati, anziani e convalescenti ricoverati nelle
case di cura.
«Porca Eva» concluse Barbara quando arrivò in fondo. «Dove lo trovava il
tempo per fare il diacono?»
Isabelle che, come Barbara, non sapeva in cosa consistessero esattamente
le mansioni di un diacono, ipotizzò: «Forse era quello il suo compito».
«Può darsi» replicò Barbara, ma con scarsa convinzione.
Isabelle la guardò: il sergente rimuginava strizzando gli occhi, ma appena
si sentì osservata assunse un’espressione del tutto neutrale. Isabelle lo trovò
un atteggiamento poco collaborativo, oltre che irritante. «La smetta,
sergente» disse, rendendosi immediatamente conto di sembrare una madre
che si rivolge alla figlia adolescente che ha appena imparato a rispondere per
le rime.
Barbara trasalì. «Di fare cosa?»
«Se sta pensando qualcosa, mi piacerebbe saperlo.»
«Scusi, capo. Io...»
«E la smetta di scusarsi!»
«Scusi.» Barbara si nascose la bocca dietro una mano.
Isabelle la guardò esasperata. «Cerchiamo di sintonizzarci sulla stessa
lunghezza d’onda. Siamo qui per risolvere questa faccenda. Prima ci
riusciamo, prima possiamo tornarcene a Londra. Che cosa voleva dirmi?»
«Solo che mi sembra un po’ troppo.» Barbara indicò il giornale, dove
c’erano anche interviste a una serie di persone che avevano beneficiato in un
modo o nell’altro delle varie attività di Druitt e ai suoi collaboratori. Come
c’era da aspettarsi, parlavano tutti in termini entusiastici del suo impegno per
i giovani di Ludlow, della sua generosità, della sua cordialità e cortesia. «È
come se... Ha presente ’la signora protesta troppo’?»
«Ma cosa dice? Quale signora?»
«Oh. Scus... Ops. È una frase di Shakespeare, dall’Amleto.»
Isabelle, che era in ginocchio vicino a uno scatolone, si sedette sui talloni e
osservò con grande attenzione Barbara. «Sbaglio o dall’ispettore Lynley ha
appreso competenze interdisciplinari? Applicate sistematicamente
Shakespeare quando indagate insieme?»
Barbara Havers ridacchiò. «L’ispettore Lynley sta solo cercando di
insegnarmi ad apprezzare i capolavori della letteratura. Immagino che,
quando padroneggerò Shakespeare, vorrà passare a Dickens. Si concentra
soprattutto sulle opere più sanguinose, quelle dove viene ammazzato
qualcuno. Per ora ho ben chiaro l’Amleto. Con Macbeth faccio ancora un po’
di confusione.»
Isabelle esitò. C’era qualcosa nello sguardo di Barbara che... «Sta
scherzando, vero?» disse.
«Be’, sì. Un pochino.»
«Sul fatto che non padroneggia il Macbeth, giusto? Scommetto che è in
grado di citarlo a memoria anche nel sonno.»
«No, no!» si affrettò a rispondere Barbara. «Voglio dire, a parte il brano
sul pugnale insanguinato. Be’, no, forse so a memoria anche quello di
Macbeth che ha ucciso il sonno e il monologo della macchia.»
«Ah.» Isabelle tornò all’argomento da dove erano partite. «E cosa c’entra
la signora che protesta troppo con quello che stiamo facendo?»
Barbara Havers indicò l’articolo di giornale. «Be’, mi sembra che se uno fa
tutto questo volontariato, un motivo ci deve essere e non vorrei che Druitt lo
facesse per salvare le apparenze. Nella telefonata al 999, quella frase
sull’ipocrisia... E poi tutto questo gran parlare di quanto Druitt era... non so
nemmeno io come definirlo.»
«Encomiabile? Ammirevole? Di una bontà irreprensibile?»
«È come se cercasse di fare tutto quello che deve fare un buon cristiano per
accontentare il Signore. Come se avesse un elenco di opere buone che
spuntava una per una. A me sembra un filo esagerato e mi viene da pensare
che avesse qualcosa da nascondere. Magari uno ha letto questo articolo e si è
detto ’Aspetta un attimo, che adesso lo sistemo io’. E ha fatto quella
telefonata anonima perché non sopportava di vedere che tutti lo incensavano
quando in realtà si meritava di...»
«Finire in galera» concluse per lei Isabelle.
«Si sparge la voce e a qualcuno viene il dubbio che tanto Uomo dell’anno
non era.»
«D’accordo» disse Isabelle. «Ma non possiamo escludere che la denuncia
sia stata sporta non per indignazione, ma per vendetta.»
«Anche la vendetta quadra con l’ipotesi della pedofilia, no? ’Hai fatto
questo a mio figlio – o, meglio ancora, a me quando avevo dieci anni – e
adesso me la paghi.’ Una cosa così.»
«Sì, ci sta. Sono abbastanza d’accordo con lei, sergente. L’onorificenza,
l’articolo in prima pagina, la telefonata anonima... Potrebbe esserci un
collegamento, no?»
Barbara pareva molto soddisfatta, e Isabelle non voleva che si
ringalluzzisse troppo e pensasse di poter fare di testa sua. Perciò disse: «Ma
spero che lei sia d’accordo con me sul fatto che per vendicarsi non occorreva
necessariamente ammazzarlo. Bastava rovinargli la reputazione, e per questo
era sufficiente che venisse fermato, indagato, processato. A prescindere
dall’esito, sarebbe stato un uomo finito».
«Sì, certo» convenne Barbara, ma non parve per niente scoraggiata. «C’è
ancora questa da controllare, però» aggiunse mostrando l’agenda che
avevano avuto da Flora Bevans. «La colonna A» disse agitando la mano in
cui la teneva «va confrontata con la colonna B» concluse indicando l’articolo.
«E cioè?»
«E cioè potrebbe esserci qualcosa nell’agenda che nessuno ha mai preso in
considerazione perché nessuno l’ha mai vista. E se vogliamo che Druitt
senior non chiami i suoi avvocati, penso ci convenga controllare.»
Ludlow
Shropshire
Barbara Havers si congedò da Isabelle Ardery con la sensazione di essere
riuscita a vincere un round. Prima dell’appuntamento con il sovrintendente
per l’aperitivo, si dedicò a sfogliare l’agenda e scoprì che qualcosa che valeva
la pena di approfondire c’era.
Quando scese al bar, però, si accorse che quel giorno al Griffith Hall erano
arrivati nuovi clienti, grandi bevitori di champagne, e la loro presenza le
impedì di affrontare qualsiasi discorso di lavoro sia nella fase degli
stuzzichini e dei drink – vodka martini per Isabelle e, per Barbara, una mezza
pinta di birra che si fece durare per tutta la cena – sia in quella del pasto vero
e proprio.
A Isabelle squillò il cellulare tre volte durante stuzzichini, drink e cena, ma
lei si limitò a dare un’occhiata per controllare chi chiamava – due volte con
un’espressione di assoluto disgusto – e lasciò che scattasse la segreteria.
Quando tornarono nel bar per il caffè, il telefono suonò per la quarta volta e il
sovrintendente rispose, si alzò dal divano e uscì. «Hillier» disse a Barbara.
Meglio te che me, pensò Barbara. Per come lo conosceva, il
vicecommissario voleva senza dubbio che portassero a termine la missione e
tornassero dallo Shropshire al più presto.
Barbara aveva con sé il rapporto della commissione per i reclami contro la
polizia e, mentre Isabelle era al telefono, lo aprì per individuare quello che
secondo lei era l’elemento chiave nelle indagini, ovvero che cosa stava
facendo l’agente ausiliario Gary Ruddock quando aveva lasciato il diacono
libero di impiccarsi e che cosa aveva fatto subito dopo averlo trovato esanime
appeso a una maniglia.
Vide che la versione dei fatti fornita da Ruddock era stata confermata da
tutti: il titolare dello Hart and Hind in Quality Square aveva dichiarato che
quella sera era in corso un’abbuffata alcolica nel suo locale; i proprietari degli
altri pub della città ricordavano che l’agente ausiliario aveva telefonato
invitandoli a non servire alcolici a ragazzi ubriachi perché, se ci fossero stati
problemi, lui non sarebbe potuto intervenire; il suo diretto superiore aveva
comprovato il dettaglio dei furti a Shrewsbury, a causa dei quali a gestire
Druitt era stato mandato Gary Ruddock. Inoltre, i paramedici intervenuti sul
posto dopo la chiamata al 999 fatta da Gary Ruddock in preda al panico
avevano descritto così la situazione che avevano trovato: Druitt steso per
terra, supino – senza più il cappio al collo – e Ruddock che tentava di
rianimarlo e gridava «Su, forza! Respira, disgraziato!» come se il defunto
potesse sentirlo. I soccorritori avevano fatto il possibile per rianimarlo pur
avendo capito subito che Druitt era morto. Alla fine, tutti gli sforzi si erano
rivelati vani e l’agente ausiliario si era trovato a dover rispondere del decesso
del diacono.
Decesso che si sarebbe potuto evitare se, invece che a Ludlow, Ian Druitt
fosse stato portato a Shrewsbury, dove il sergente cui era assegnata la camera
di sicurezza avrebbe garantito il rispetto della procedura prevista: confiscare
al fermato tutto ciò che poteva essere usato per togliersi la vita, chiamare due
garanti dei diritti delle persone private della libertà personale a verificare che
le condizioni di detenzione fossero ineccepibili e, qualora il diacono non ne
avesse già uno, nominare un avvocato d’ufficio. Poiché non era stato fatto
nulla di tutto questo Barbara Havers, per conto della Metropolitan Police,
aveva ancora una curiosità da togliersi. E, quando Isabelle Ardery tornò dalla
sua telefonata e chiese a Peace on Earth di portarle un doppio bicchiere di
Porto, Barbara espresse il desiderio di ritirarsi presto per studiare ancora un
po’ l’agenda di Druitt. Con suo grande sollievo, il sovrintendente non fece
obiezioni.
Salita in camera, Barbara posò il dossier sul suo letto da monaca e,
ignorando completamente l’agenda, chiamò la reception per una richiesta
bizzarra. Sì, le fu risposto dopo una pausa, era possibile farle trovare una
scopa nella hall. Ma non prima di mezz’ora, perché nel ristorante c’erano
ospiti ancora impegnati con caffè e ammazzacaffè. Se la signorina Havers
poteva aspettare... Certo che posso aspettare, rispose la signorina Havers.
Posò il telefono e approfittò dell’attesa per ricontrollare l’itinerario sulla
pianta della città.
Doveva uscire dall’hotel senza farsi vedere dal sovrintendente. Pur
ritenendo ciò che si accingeva a fare del tutto ragionevole, preferiva agire
all’insaputa di Isabelle Ardery per evitare che la interpretasse come
un’iniziativa personale, come un’insubordinazione. Era già successo in
passato, no? Per non destare sospetti, prima di scendere le scale e avviarsi
verso l’uscita prese un pacchetto di Player’s, i fiammiferi e la chiave della
camera, come una qualsiasi cliente di un hotel non fumatori che esce un
attimo a fumarsi una sigaretta. Se Isabelle Ardery l’avesse vista con la borsa,
si sarebbe certamente insospettita. Già sarebbe stato difficile spiegare il
perché della scopa.
Fu fortunata e arrivò nella hall senza intoppi. Non c’era nessuno e la scopa
era dove promesso, vicino alla porta, dietro un attaccapanni. Barbara la prese,
si affrettò a uscire e si avviò verso Castle Square con la scopa in spalla.
Benché fosse tardi, era una bella serata e non era la sola in giro per la città: un
gruppetto di studenti con libri e zainetti tornava a casa e alcune persone
passeggiavano sul sentiero intorno alle mura del castello. Davanti
all’auditorium di Mill Street c’era un pullman fermo per far salire una
comitiva di pensionati reduci da uno spettacolo. Come prima di cena, non
c’era praticamente traffico, solo un taxi parcheggiato in cima a Church Street.
Alla fine del colloquio con l’agente ausiliario, le era passato di mente di
provare a girare la videocamera con una scopa, come suggerito dallo stesso
Ruddock. Adesso che se l’era procurata, però, aveva intenzione di controllare
sia quella puntata sul marciapiede e sulla scala di accesso alla stazione, sia
quella sul retro rivolta verso il parcheggio.
Arrivata al posto di polizia, procedette a una rapida ricognizione. Come
nell’altra occasione in cui c’era andata di sera, vide una luce accesa e una
Panda nel parcheggio. Questa volta però a bordo non c’era nessuno. Barbara
si avvicinò e controllò le portiere: erano chiuse a chiave.
Già che si trovava sul retro, con il manico della scopa provò a spostare la
telecamera a lato della porta. Era fissa, non c’era modo di ruotarla. Ne
dedusse che doveva avere un obiettivo con un’apertura sufficiente a
inquadrare sia i due gradini davanti alla porta sia il parcheggio.
Andiamo a vedere davanti, pensò. Mentre si avviava rasente il muro,
tenendosi nascosta dietro i cespugli come un ladro nella notte, davanti alla
stazione passò una macchina della polizia che girò l’angolo ed entrò nel
parcheggio sparendo alla sua vista. Poco dopo Barbara sentì che il motore si
spegneva.
Tornò sui propri passi e con circospezione sbirciò da dietro l’angolo.
L’auto era andata a fermarsi in retromarcia nel punto più lontano, contro il
muro di mattoni, in modo da rimanere nell’ombra proiettata da un albero del
giardino accanto. Barbara aspettò un minuto, ma nessuno scese e non accadde
niente.
Stava per andarsene quando la portiera lato passeggero si aprì e per un
attimo la luce di cortesia illuminò l’abitacolo e i suoi occupanti. L’agente
ausiliario Gary Ruddock era al volante e con lui c’era una ragazza sui
vent’anni, capelli lunghi, non molto alta. Stava per scendere e Barbara sentì
chiaramente che diceva: «... me ne frego». La risposta di Ruddock fu
inintelligibile, ma evidentemente tale da indurre la ragazza a esitare. Intanto
Ruddock scese dal proprio lato e la guardò da sopra il tetto dell’auto.
Rimasero a fissarsi, lui con espressione paziente e lei non si sa, perché
Barbara non riusciva a vederla in faccia. Non dissero altro, ma dopo circa
quindici secondi la ragazza risalì in macchina, e subito dopo anche Ruddock.
Barbara non vide niente, assolutamente niente. Ma qualcosa successe e
Barbara, che non era priva di immaginazione e sapeva contare, decise che
uno più uno più due fa quattro: dove il primo uno era la macchina, il secondo
il buio, e due erano Ruddock e la sua accompagnatrice. O a bordo di
quell’auto di servizio era in corso una dissertazione notturna sullo stato
dell’economia, o la confessione di qualche malefatta che richiedeva di restare
il più possibile nell’ombra, oppure Ruddock e la sua giovane amica stavano
facendo ciò che spesso fanno un uomo e una donna quando si appartano in
macchina al buio.
E forse Gary Ruddock era impegnato in questo stesso genere di attività
anche quando il diacono si era legato la stola al collo dentro la stazione. Se
così era, di certo Ruddock non voleva che si venisse a sapere. Le aveva detto
che viveva in casa di un vecchietto, la ragazza probabilmente abitava ancora
con i suoi oppure divideva un appartamento con altri studenti e, supposto che
volessero giocare al dottore – e non fare una dotta chiacchierata notturna –
avevano bisogno di privacy. Pur essendo arredata in modo spartano, la
stazione sarebbe potuta essere il luogo ideale, ma con il diacono in attesa di
trasferimento a Shrewsbury era meglio evitare. Perché, allora, non farlo in
macchina, come si usava fin da quando era stata inventata l’automobile? A
mali estremi, estremi rimedi, e in quel caso il rimedio non era nemmeno così
disperato. Bastava spostarsi sul sedile posteriore, liberarsi degli indumenti
indispensabili, darci dentro per cinque minuti o anche meno, e la cosa era
fatta. Aggiungici tre minuti di preliminari e due per un po’ di coccole post
coitum, trenta secondi per rivestirsi, il tempo di riaccompagnare la
pollastrella nel pollaio, e Ruddock poteva essere di nuovo sul pezzo.
Al ritorno, però, Ruddock aveva scoperto cos’era successo mentre lui e la
ragazza se la spassavano nel parcheggio, aveva capito che per il diacono non
c’era più niente da fare e si era affrettato a telefonare a tutti i pub per coprirsi;
poi aveva chiamato il 999 e recitato la parte di quello che tenta
disperatamente di rianimare un suicida. Non doveva essergli riuscito molto
difficile, visto che disperato lo era davvero: aveva combinato un gran casino
e, se qualcuno avesse scoperto la verità, la sua carriera sarebbe finita.
In effetti le cose potevano essere andate così. Ruddock contava sul fatto
che i titolari dei pub confermassero che lui aveva telefonato ma non fossero
in grado di dire esattamente a che ora. E, se le loro dichiarazioni non avessero
completamente cozzato con l’ora del decesso stabilita dall’anatomopatologa,
Ruddock sarebbe stato al di sopra di ogni sospetto. A patto che nessuno
venisse a sapere che si era appartato in macchina con una ragazza.
Barbara si nascose chiedendosi per quanto tempo ci sarebbe dovuta
rimanere. La prospettiva di restare a lungo rannicchiata dietro un cespuglio
non le sorrideva particolarmente, ma era inevitabile, dal momento che non
voleva farsi beccare da Ruddock e dalla sua amichetta mentre armeggiava
con una scopa intorno alla telecamera.
Passò circa un quarto d’ora prima che l’auto ripartisse. Barbara rimase
acquattata come un ladro finché non l’ebbe sentita allontanarsi, poi si alzò e
si spostò sul davanti della stazione. Quando si avvicinò all’ingresso, si accese
una luce azionata da un sensore di movimento.
Barbara si piazzò sotto la videocamera e vi accostò delicatamente il
manico della scopa. Fu sufficiente una lieve pressione per spostarla in modo
che inquadrasse la porta e il telefono esterno alla sua sinistra. Barbara rimase
soddisfatta. Significava che, se una persona voleva usare quel telefono
mantenendo l’anonimato, bastava che facesse quel che aveva appena fatto lei:
passare dal parcheggio, compiere il giro stando attenta a non essere ripresa
dalla videocamera puntata sulla porta e ruotarla in modo che fosse rivolta
verso la scala. Poi era libera di telefonare senza comparire nel filmato.
Restava da chiedersi per quale motivo la persona che aveva chiamato non
avesse poi rimesso la videocamera nella posizione originale, ma era un
interrogativo che si prestava a più di una risposta. Forse era stato sorpreso
dall’arrivo dell’ausiliario o di un altro poliziotto ed era stato costretto a
darsela a gambe, oppure aveva spostato la telecamera qualche giorno prima e
intendeva rimetterla in posizione qualche giorno dopo, ma nel trambusto
seguito al suicidio di Druitt aveva lasciato perdere. O, ancora, la videocamera
era sempre stata puntata sul marciapiede e sulla scala anziché sul portone.
Sicuramente le spiegazioni potevano essere più d’una e per scoprire qual era
quella giusta bisognava visionare le riprese.
Barbara decise di rileggere i rapporti per vedere se citavano la posizione
della videocamera. Se non ne parlavano – e Barbara era quasi certa che fosse
così – avrebbe dovuto convincere il sovrintendente che era necessario
visionare le registrazioni non solo del giorno in cui era stata fatta la denuncia
anonima, ma anche di quelli subito prima e subito dopo. Era un passo
indispensabile.
7 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
Isabelle aveva visto Barbara Havers uscire dall’hotel la sera prima. L’aveva
vista passare dalla porta del bar, dove aveva appena finito il secondo
bicchiere di Porto, e si era insospettita vedendola incamminarsi con una
scopa in spalla. Era chiaro che, nonostante l’ora tarda, il sergente stava
andando a indagare per conto proprio.
Subito dopo che la porta dell’albergo si era richiusa, a Isabelle era squillato
il cellulare. Non appena aveva visto il nome sul display, aveva preso la sua
decisione. Sherlock Wainwright voleva senza dubbio spingerla ad adottare un
atteggiamento più morbido nei confronti dell’ex marito, e Isabelle non aveva
nessuna voglia di parlargli. Così aveva lasciato scattare la segreteria e aveva
seguito Barbara.
Trovandosi per la prima volta fuori di sera, aveva notato gli odori di
Ludlow: il leggero profumo proveniente dai davanzali fioriti lungo la strada e
l’improvvisa zaffata di marijuana che usciva da una finestra spalancata
insieme alla musica rap e a due voci maschili che parlavano forte.
Davanti a lei, Barbara aveva svoltato in Castle Square. Arrivata all’angolo,
aveva visto il sergente camminare sul marciapiede lungo il lato sud della
piazza. I negozi erano chiusi, ma alla luce dei lampioni si vedevano, dentro le
vetrine, libri, souvenir e, in un negozio di roba usata, vestiti. Era piuttosto
tardi e c’era poca gente in giro, anche se dal chiacchiericcio e dalle risate che
si sentivano nelle vicinanze doveva esserci un pub ancora aperto. Anziché
andare in quella direzione, Barbara aveva proseguito verso King Street e il
Bull Ring, da dove si era addentrata in una zona pedonale poco illuminata.
Isabelle aveva preso in considerazione l’ipotesi che fosse semplicemente
uscita a fare una passeggiata e si fosse portata appresso la scopa per eventuale
autodifesa, e stava quasi per tornare indietro, ma poi aveva notato che ai
margini della zona pedonale c’era una strada su cui in quel momento, sotto la
luce di un lampione, era passata un’autopattuglia. Il posto di polizia doveva
essere poco lontano, ed era là – aveva stabilito Isabelle – che doveva essere
diretta Barbara Havers.
Dunque il sergente aveva preso un’iniziativa personale. Isabelle non le
aveva dato ordini specifici su come passare il resto della serata, ma lei stava
andando alla stazione di polizia con una scopa in spalla, probabilmente per
controllare le telecamere a circuito chiuso. Se da una parte questo – a seconda
dell’esito – rischiava di allungare il loro soggiorno a Ludlow, era vero anche
che fino a quel momento non avevano trovato nulla che indicasse che Ian
Druitt non si era suicidato ed era verosimile che le videocamere lo
confermassero. Isabelle aveva seguito Barbara Havers finché non era stata
sicura che la sua meta fosse proprio la stazione di polizia, poi aveva fatto
dietrofront e se n’era tornata in albergo.
Al risveglio, l’indomani mattina, si preparò ad ascoltare il messaggio che
Sherlock Wainwright le aveva lasciato la sera prima. La preparazione
consisteva in un dito di vodka, che versò nel bicchiere del bagno usando
come misurino il tappo della bottiglia. Tre tappi, non una goccia di più. Per
prepararsi mentalmente potevano bastare.
Nel messaggio Wainwright le chiedeva di richiamarlo perché, diceva,
aveva buone notizie per lei: Robert Ardery aveva proposto un compromesso
che, secondo Wainwright, le sarebbe piaciuto molto.
Isabelle lo richiamò e gli chiese subito di che cosa si trattava. «Sono
contento che mi abbia richiamato, grazie. Ora le leggo la proposta. L’ho
ricevuta dall’avvocato di suo marito ieri...» rispose Wainwright.
«Ex marito.»
«Sì. Certo. Scusi. L’ho ricevuta dall’avvocato del suo ex marito ieri sera e
le ho subito telefonato.»
«Mi dispiace, dormivo già.»
«Nessun problema. Non c’è una data entro la quale bisogna rispondere.
Allora, gliela leggo?»
Isabelle rispose di sì, ma precisò che voleva solo la sostanza, non la lettura
integrale di un documento in legalese. Wainwright la accontentò e le spiegò
che Robert Ardery aveva magnanimamente proposto che Isabelle potesse
avere incontri non vigilati con i figli ogni volta che fosse andata a trovarli a
Auckland. Si impegnava a lasciarglieli per interi weekend nella casa, cottage
o appartamento che lei avrebbe affittato, o eventualmente anche in albergo. In
questo modo, annunciò Wainwright, Robert Ardery le offriva un ampio
ventaglio di opportunità per incontrare i figli in Nuova Zelanda. Era disposto
addirittura a permetterle di portare i bambini fuori Auckland per soggiorni
fino a un massimo di tre notti in località scelte da Isabelle. Previa
approvazione della meta da parte di Robert, ovviamente, ma dal momento
che c’erano decine di località turistiche, non sarebbe stato un problema.
Queste gite dovevano svolgersi durante le vacanze scolastiche, naturalmente.
E Robert voleva che i figli stessero con lui per Natale, ma qualora Isabelle
avesse deciso di andarli a trovare in quel periodo sarebbe stata invitata al
tradizionale pranzo di Natale in famiglia.
«Pare che i gemelli siano entusiasti all’idea. Ho guardato cosa offre la
Nuova Zelanda per le vacanze. La penisola di Coromandel non è lontana da
Auckland, e la Bay of Islands...» concluse Wainwright.
«No» rispose Isabelle.
Seguì un silenzio nel quale Isabelle sentì un televisore accendersi di colpo
in una delle stanze vicine, con il telegiornale di SkyNews a un volume
altissimo, subito abbassato. «Spero si renda conto che aver proposto un
compromesso mette il signor Ardery in buona luce. Il giudice vedrà la cosa
con favore» replicò l’avvocato.
«Non ne dubito, anche perché non ha mai conosciuto il mio ex marito. Ma
dal momento che io invece lo conosco, e molto bene, la mia risposta rimane
la stessa. No» ribatté Isabelle.
«La prego di rifletterci, Isabelle. Se le visite in Nuova Zelanda andranno
bene, non è escluso che fra due o tre anni l’accordo possa essere rivisto.»
Isabelle si morse la lingua per non dire quello che pensava veramente. Due
o tre anni? Dopo un silenzio durante il quale cercò di raccogliere la poca
pazienza che le restava, dichiarò: «Il discorso finisce qui, avvocato. Proceda
secondo le istruzioni che già le ho dato».
«Ma l’avvocato della controparte...» Isabelle chiuse la chiamata perché
l’unica cosa che le interessava in tutta quella faccenda era che i suoi figli
rimanessero nel Paese in cui viveva lei. Questo voleva e questo avrebbe
ottenuto, a costo di trascinare l’ex marito davanti a tutti i giudici del regno. E
se Sherlock Wainwright non era d’accordo, Sherlock Wainwright sarebbe
stato sollevato dall’incarico a calci nel sedere.
Furibonda, Isabelle fece il numero di Bob. Le rispose la moglie. Non perse
tempo tempo in convenevoli. «Fammi parlare con James e Laurence.»
«Isabelle, che piacere sentirti! Non posso accontentarti, purtroppo, perché
sono già usciti per andare a scuola» replicò Sandra.
«Risparmiami le bugie, Sandra. Sono le sette del mattino. Passameli
immediatamente perché altrimenti giuro su Dio che...»
«Perché dovrei mentirti?» Il tono di Sandra era di una ragionevolezza
insopportabile. «Hai tutto il diritto di parlare con loro, lo so benissimo. Già
che ci sentiamo, però, ti rendi conto dell’effetto che gli fa questo dramma
giudiziario?»
«Questo dramma giudiziario, se lo vuoi chiamare così, esiste soltanto
perché tu e Bob state cercando di allontanarli da me.»
«Già, tu la vedi così. Perché tutto ruota sempre intorno a te, vero?»
«Brutta stronza...»
«Il punto è questo, Isabelle.» Era la voce di Bob. Dopo aver provocato
Isabelle, la stronza gli aveva passato il telefono perché la sentisse inveire. «Il
punto è proprio questo» ribadì. «Non voglio che i bambini assistano a scene
come questa.»
«E così hai deciso che la cosa migliore sia portarli a vivere il più lontano
possibile dalla loro madre? E fargliela vedere dove? In un albergo di
Auckland? È questo il compromesso che mi offri?»
«Sii ragionevole» le disse nel tono più ipocrita possibile. «Non ho nessuna
intenzione di mandarli da Auckland a Londra per venire a trovare te, se è
questo che avevi in mente.»
«Quello che ho in mente è farti un’ingiunzione per impedirti di portarli
all’altro capo del mondo.»
«Scordatelo. Sono sicuro che l’avvocato ti ha già spiegato che la tua è una
pretesa assurda. A questo punto, possiamo continuare a buttare soldi in
avvocati, oppure tu puoi guardare in faccia la realtà. Dipende da te.»
«Sono la loro madre. Li ho messi al mondo io. Li ho cresciuti fino a...»
«Non parliamo di come pensavi di ’crescere’ James e Laurence» la
interruppe, secco. «Se riuscissi per un attimo a vedere al di là della tua rabbia,
capiresti che ti sto offrendo molto più di quello che hai avuto finora. Devi
soltanto comprarti un biglietto per Auckland tutte le volte che vuoi vederli e
trovare un posto adatto dove passare con loro il weekend. Ti sono venuto
incontro anche sulle vacanze, che potrete trascorrere insieme quando verrai a
trovarli. Non nel periodo scolastico, ma mi sembra una richiesta del tutto
accettabile. Inoltre, Sandra e io siamo pronti a darteli per metà delle vacanze
estive, sempre a Auckland. Il giorno di Natale no, ma se ci sarai anche tu il
25 dicembre ti inviteremo volentieri a pranzo, e se li vorrai venire a trovare a
Pasqua o per il compleanno, nessun problema. Dovremo decidere la durata
delle visite, ma mi sembra un problema meno grosso di come lo fai tu.»
«Per fortuna che ci sei tu che sei così assennato, eh?» ribatté Isabelle,
sarcastica.
«Sto cercando di fare la cosa migliore per tutti.»
«Perché mi odi così tanto?»
Bob rimase zitto un momento, poi riprese con voce alterata. «Io non ti
odio. Sei tu che lo pensi. Ma quello che pensi tu ormai è talmente distorto
dall’alcol... Isabelle, vuoi che contiamo quante volte in tutti questi anni ti ho
supplicato di farti aiutare, di curarti?»
«È giusto che io abbia un rapporto con i miei figli. Ed è giusto che loro
abbiano un rapporto con la loro madre. Il legame che esiste tra una madre e i
suoi figli non si può spezzare» riuscì a dire a stento, raggelata.
«James e Laurence hanno una madre. Non voglio offenderti, Isabelle,
ma...»
«Non vuoi offendermi? E allora perché mi dici queste cose?»
«... sai anche tu che è la verità. Sandra ha fatto loro da madre da quando
avevano meno di due anni. Tu hai un legame di sangue con loro, e basta.
Lasciar perdere tutto tranne il legame di sangue è stata una tua scelta. Se
adesso te la rimangi, mi dispiace, ma avresti dovuto pensarci quando abbiamo
divorziato. Non è colpa mia.»
«Sei un bastardo.» Faceva così fatica a parlare che le sembrava di doversi
strappare le parole dalla gola a una a una. «Non la smetterai mai di punirmi,
vero?»
«Sei tu che ti punisci. Il perché lo sai solo tu. Io non ne ho la minima
idea.»
«È la mamma? È la mamma?»
Isabelle sentì uno dei figli in sottofondo. «Bugiarda! Mi ha mentito!
Fammi parlare con i bambini!» esclamò.
«Non sei in condizione di parlare con loro. Ritelefona quando sarai sobria
e, se saranno in casa, te li passerò. Adesso ti saluto, Isabelle. Dobbiamo
andare a scuola.»
Isabelle si ritrovò con il telefono in mano e un gran silenzio intorno. I nervi
le dicevano che doveva assolutamente fare qualcosa, la mente anche, il cuore
le batteva fortissimo e le prudevano talmente i palmi delle mani che se li
sarebbe grattati a sangue.
Prese la bottiglia della vodka e vide quanto le tremava la mano. La rabbia
la spingeva ad agire e si rendeva conto che, se in quel momento le sue
possibilità erano limitate, un goccetto l’avrebbe aiutata se non altro a smettere
di tremare e avrebbe placato quel terribile prurito. Tuttavia, posò la bottiglia
sul comodino e, guardandola, contò i motivi: beveva per voglia, per bisogno,
per desiderio, per sete, e poi per sentirsi sicura, per raggiungere la tranquillità,
la pace, l’oblio. Tremava dalla voglia di bere. Lo desiderava come se fosse un
amante fra le cui braccia riusciva a dimenticare qualsiasi cosa. Dopo le due
telefonate da cui era reduce, se lo meritava, oltre ad averne bisogno. Questa
volta non usò il tappo come misurino. Bevve direttamente dalla bottiglia.
Ludlow
Shropshire
Andando a fare colazione Isabelle si imbatté in Peace on Earth. Stava per
chiedergli di portarle un bricco di caffè e una sola fetta di pane tostato quando
dal bar sbucò Barbara Havers, che evidentemente la aspettava al varco.
Aveva un’espressione di cui Isabelle avrebbe fatto volentieri a meno: era
chiaro che non stava nella pelle.
«Capo, ha un minuto?» chiese e, senza aspettare la risposta, andò verso la
porta dell’albergo, uscì e si voltò a guardarla in un modo da cui si capiva che
aveva qualcosa di importante da svelarle.
A Isabelle non restò che seguirla. Quando l’ebbe raggiunta, Barbara la
condusse verso il marciapiede. Dall’altra parte della strada un giardiniere
tagliava l’erba intorno alle mura del castello con un macchinario a benzina
che faceva un rumore paragonabile a quello di un reattore in fase di decollo.
Isabelle pensò con rammarico al caffè che non aveva ancora bevuto.
Barbara Havers stringeva al petto il rapporto della commissione IPCC e
quello dell’ispettore Pajer e si mise a parlare con smodato entusiasmo,
annunciando di doverle riferire una novità per la quale, a suo dire, risultava
che a Ludlow ci fossero ancora molte cose da approfondire.
«Ah, sì?» replicò Isabelle in tono vago, sperando che Barbara non si
dilungasse troppo.
Certo che sì. Barbara passò a illustrare quelli che definì «aspetti di
importanza cruciale» da lei acclarati durante la notte. Solo una delle due
videocamere installate fuori della stazione di polizia era mobile, le disse,
mentre l’altra era fissa. Rileggendo ancora una volta il rapporto dell’IPCC,
aveva visto che la commissione aveva notato questa particolarità, precisando
inoltre che la videocamera fissa – quella sul retro – non funzionava. A suo
avviso si trattava di un elemento di capitale importanza perché, mentre lei
conduceva il suo sopralluogo non autorizzato, un’auto di servizio con Gary
Ruddock al volante era entrata nel parcheggio sul retro.
«E perché lo trova così rilevante?» chiese Isabelle. Il tosaerba con il
motore a reazione le stava trapanando il cervello. Aveva assolutamente
bisogno di un caffè.
Era un elemento rilevante per via della scena cui aveva assistito poco dopo,
spiegò Barbara: l’agente ausiliario e una ragazza erano scesi, si erano
guardati in cagnesco per un po’ e poi erano risaliti sulla macchina che – è
bene precisarlo – Ruddock aveva parcheggiato nel punto più buio di tutto lo
spiazzo. «Mi risulta un solo motivo per cui un tipo e una tipa si appartano al
buio su una macchina» aggiunse.
«Non ha detto che erano scesi?»
«Per dieci secondi. Poi sono risaliti e sono restati in macchina per un po’.
Se vuole il mio parere, è successo anche la notte del fattaccio ed è per questo
che Gary Ruddock ha lasciato solo Ian Druitt. Non è stato filmato soltanto
perché la videocamera sul retro non funziona.»
«Sta dicendo che Ruddock ha portato Druitt alla stazione, è ripartito per
andare a prendere una ragazza, l’ha portata lì, ha avuto con lei un convegno
di natura imprecisata a bordo della macchina, l’ha riaccompagnata chissà
dove e poi è tornato alla stazione? Come può una persona essere così
stupida?»
«No, non penso che le cose siano andate proprio in questo modo» replicò il
sergente con estrema prontezza. Con una certa enfasi tirò fuori una piantina
della città e fece segno a Isabelle di seguirla verso il muretto che separava il
parcheggio dell’hotel dal giardino. Poi, porgendole i dossier, aprì la mappa e
disse: «Guardi qua». Un imperativo tutto sommato superfluo, perché
cos’altro si aspettava da Isabelle? Le indicò un punto e le fece la poco
sorprendente rivelazione che il posto di polizia si trovava lì. «Ora le mostro
una cosa. Dal fiume si arriva alla stazione di polizia anche passando di qui.»
Indicò a Isabelle una strada curva che si chiamava Weeping Cross Lane e
che dal Temeside portava in direzione nord verso Lower Galdeford Street
dove, all’angolo con Townsend Close, si trovava la stazione di polizia. Ora,
se lungo quel percorso c’erano delle telecamere...
Isabelle la interruppe. «Mi sembra che questa storia stia completamente
sfuggendo di mano, sergente.» Barbara la guardò senza capire, e allora
Isabelle chiarì. «Ho la sensazione che lei stia per suggerire di andare a
controllare queste presunte telecamere e visionare le registrazioni relative alla
sera in questione, sempre che nel frattempo non siano state cancellate.
Perché?»
«Perché potrebbe apparire la ragazza che...»
«Sergente, ammesso che ci siano riprese di una ragazza in Weeping Cross
Lane la sera in questione, non possiamo dimostrare che la stava percorrendo
per andare dal lungofiume alla stazione di polizia per incontrarsi con
Ruddock. Ma lei questo lo sa perfettamente.»
«C’è dell’altro, però.» Barbara porse a Isabelle la piantina della città per
farsi restituire i rapporti e tirare fuori un documento che avevano trovato fra
gli effetti personali del diacono: l’elenco di nomi, indirizzi e numeri di
telefono di tutti coloro che avevano a che fare con il circolo per l’infanzia.
Fra questi c’era un indirizzo sul Temeside, che corrispondeva a un certo
Finnegan Freeman.
«Vede» disse, «l’idea di una donna che si presenta a un appuntamento
clandestino con Ruddock mi ha fatto venire in mente di controllare sulla
mappa come potrebbe esserci arrivata senza che nessuno la notasse. E il fatto
che uno dei possibili itinerari partisse dal Temeside mi ha spinto a rileggere
l’elenco dei bambini del doposcuola, perché il nome mi suonava familiare. Il
nome della strada, Temeside, intendo. E infatti, l’indirizzo compare
nell’elenco.»
«Siamo tornati all’ipotesi della pedofilia, quindi?» Isabelle non nascose
quanto era stanca e stufa. «Secondo lei, quindi, sul Temeside abiterebbe un
bambino vittima di abusi, il cui genitore...»
«Oh, no, non è un bambino.» Barbara Havers le mostrò di nuovo l’elenco e
le fece notare che Finnegan Freeman era l’unico nome che non era seguito da
una parentesi con quello dei genitori. «Quando ho parlato con il reverendo
Spencer – si ricorda? – mi ha detto che Druitt si faceva aiutare da uno
studente del college. Potrebbe essere questo Finnegan Freeman, che è l’unico
per cui non sono indicati i genitori. Se così fosse, e considerando che l’IPCC
ha visionato soltanto le riprese della sera in cui Druitt è morto...»
«Che cos’altro avrebbero dovuto visionare?» chiese Isabelle. Si accorse
che le tremava la mano in cui teneva la cartina e si affrettò ad abbassarla.
«Quelle del giorno in cui è stata effettuata la telefonata anonima» replicò
Barbara. «Non possiamo non tenere conto di quella telefonata, perché è
evidente che chi l’ha fatta voleva che Druitt venisse fermato e interrogato. Su
questo siamo d’accordo, no?»
Isabelle fece un gesto quasi regale che Barbara interpretò correttamente
come un continui pure. «Supponiamo che l’autore della telefonata volesse
che Druitt venisse fermato e portato alla stazione di polizia per poterlo far
fuori» ipotizzò. «E supponiamo che questa persona si fosse informata bene e
sapesse che certe sere Ruddock non teneva compagnia al vecchio e quindi...»
«Quale vecchio? Dove diavolo vuole andare a parare con tutti questi
discorsi?»
«Il vecchio non c’entra: è il tipo cui Ruddock fa da badante in cambio di
vitto, alloggio e un piccolo stipendio. Supponiamo che qualcuno sapesse che
quando ha la serata libera – è probabile che sia sempre la stessa – Ruddock
porta la sua amichetta nel parcheggio del posto di polizia. E che questo
qualcuno sapesse anche chi era la ragazza. Questo qualcuno e l’amichetta di
Ruddock potrebbero essersi messi d’accordo: il qualcuno, dopo aver fatto la
telefonata anonima, ha aspettato che Druitt venisse fermato e che lei attirasse
Ruddock fuori dalla stazione, poi ha fatto fuori Druitt...»
Isabelle, frastornata dalla complessità dello scenario descritto da Barbara,
non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. «Sergente» disse dopo un po’.
Fece alcuni respiri prima di aggiungere: «Possiamo continuare a produrre
ipotesi per un’intera settimana. O anche per un anno».
«Certo. Lo so. Capisco. Ma il punto è che la commissione non ha indagato
su questo aspetto perché non sapeva di Ruddock e della sua amichetta nel
parcheggio.»
Isabelle fece appello a una pazienza di cui aveva ormai esaurito
completamente le riserve. «L’IPCC non ha indagato su questo perché il suo
compito era indagare sul suicidio avvenuto all’interno della stazione di
polizia di Ludlow e nel corso dell’indagine non ha riscontrato nulla che
indicasse la possibilità che si fosse trattato di un omicidio. Mi sembra che
questo qualcosa voglia dire, no?»
Barbara tacque, ma l’angolo sinistro della bocca le si contrasse come se si
fosse morsa l’interno della guancia per non ribattere. Era ammirevole, visto
che mai prima di allora aveva dato segno di ritenere che l’autocontrollo fosse
una delle doti essenziali nel loro settore. Il sergente guardò verso l’albergo
come se cercasse conferma delle proprie idee, forse da Peace on Earth. Poi
guardò il castello e il tosaerba, fortunatamente spento, e il giardiniere che,
sfortunatamente, stava versando benzina nel serbatoio per riaccenderlo. «Con
il dovuto rispetto, capo, a volte quando le prove non si trovano è perché non
si cerca abbastanza o perché qualcuno non vuole che vengano trovate» disse
cauta.
«Dove vuole arrivare? Venga al punto, sergente.»
«Il punto è quello che ho già detto: nessuno ha visionato le riprese del
giorno della denuncia. E nessuno ha parlato con questo Finnegan, che guarda
caso abita nelle vicinanze. Non sto dicendo che significhi necessariamente
qualcosa, ma che potrebbe significare qualcosa eppure è stato trascurato. Non
siamo venute qui per questo, più o meno?»
Oddio, pensò Isabelle. Non sarebbero mai più riuscite ad andarsene da
Ludlow. Sarebbero rimaste lì in eterno, proprio ora che lei doveva tornare a
Londra per combattere come si doveva contro Bob e Sandra. Purtroppo però
quella rompiscatole del sergente Havers aveva ragione. A volte forzava i fatti
come una contorsionista cinese forza le sue articolazioni, ma la realtà era
quella: nessuno aveva parlato con Finnegan Freeman e nessuno aveva preso
visione dei filmati relativi al giorno della telefonata anonima.
A quel punto non poté fare a meno di pensare a Clive Druitt e alle sue
minacce di ricorrere alle vie legali. Lui e i suoi avvocati aspettavano con
ansia l’esito della missione nello Shropshire. Per evitare un’azione legale e la
pubblicità negativa che ne sarebbe inevitabilmente derivata, Isabelle doveva
accertarsi che fosse stata individuata, esaminata e spazzata via ogni ragnatela
in ogni angolo. E la ragnatela più grossa, fin dal primo momento, era la
presunta pedofilia di Ian Druitt.
Non c’erano alternative: bisognava visionare le riprese relative al giorno
della denuncia anonima e bisognava anche parlare con Finnegan Freeman.
Ma il peggio doveva ancora venire, perché Barbara prese in mano un oggetto
che fino a quel momento Isabelle non aveva notato: l’agenda di Druitt.
«C’è anche questa» annunciò in tono allegro.
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Rabiah Lomax era appena uscita dalla doccia quando sentì suonare il
telefono. Decise di lasciar scattare la segreteria e si avvolse in un telo da
bagno grande, morbido, intiepidito sullo scaldasalviette e di un bianco
virginale, proprio come piacevano a lei. Si stava godendo l’abbraccio del
tessuto caldo quando sentì una voce di donna che diceva «...Metropolitan
Police» ed ebbe un ripensamento sulla scelta di non rispondere. Andò in
camera, dove si trovava il telefono più vicino, lo sollevò e disse: «Pronto. Mi
scusi, ha detto Metropolitan Police?» pensando che fosse una delle amiche
con cui andava a correre la mattina che voleva farle uno scherzo. Proprio quel
giorno Rabiah aveva parlato di quanto le piaceva quell’attore nero strafigo
dal nome impronunciabile, quello che recitava in una serie poliziesca in onda
in quel periodo. Sì, doveva essere una delle sue amiche che voleva prenderla
in giro. «È la collega di quel bel nero con il nome strano? Potrebbe
mandarmelo un attimo? Sono stata vittima di un reato e ho bisogno di essere
consolata».
«Come, scusi? Sono il sovrintendente Isabelle Ardery della Metropolitan
Police. Con chi parlo?» replicò la voce.
Rabiah ebbe un nuovo ripensamento. La telefonata non era uno scherzo.
«Se si chiama Lomax, abbiamo bisogno di parlarle» proseguì la voce.
Inutile negare, pensò Rabiah. «A che proposito?»
«Ne deduco che lei si chiami Lomax.»
«Sì. E lei?»
La donna ripeté: Ardery. Sovrintendente. Metropolitan Police. Se la
signora Lomax fosse gentilmente rimasta in casa, la polizia sarebbe passata
subito da lei. Andava bene di lì a dieci minuti?
Vedersi piombare in casa la polizia non era mai piacevole, ma Rabiah non
poteva dire di no e suggerì che venissero dopo mezz’ora, perché era appena
tornata da una corsa e voleva fare la doccia. Dopo la doccia doveva vestirsi
eccetera eccetera, quindi mezz’ora – anzi no, facciamo un’ora – poteva
andare bene. La tipa della Metropolitan Police non sollevò obiezioni e, dopo
essersi fatta dare l’indirizzo, la salutò.
Chiaramente Rabiah non aveva bisogno di tutto quel tempo, perché la
doccia l’aveva già fatta e per truccarsi le bastavano due minuti, più altri trenta
secondi per pettinarsi, la maggior parte dei quali dedicati alla ricerca del
pettine. Le serviva un’ora per chiamare il suo avvocato. Aveva visto
abbastanza polizieschi per sapere che parlare di qualsiasi argomento con la
polizia senza la presenza di un legale era una stupidaggine da evitare a tutti i
costi.
Cercò il numero nella rubrica e chiamò Aeschylus Kong. Lo aveva scelto
anni prima, quando aveva deciso di fare testamento, esclusivamente
consultando l’elenco telefonico. Come resistere a un nome e cognome così
pittoreschi?
Le bastò dire «Sta per arrivare da me la polizia» perché glielo passassero
immediatamente. «Rabiah, ha fatto bene a telefonarmi in questa circostanza
quanto mai singolare. Sono lieto di constatare che lei si rende conto di quanto
sia saggio consultare un legale prima di un colloquio con la polizia» disse
Aeschylus con la sua rassicurante voce tenorile. Suonava sempre come una
via di mezzo tra un gentiluomo settecentesco, Confucio e un oroscopo cinese.
«Sarò da lei appena possibile. Eviti di parlare, se dovessero arrivare prima di
me.»
«Devo tenerli sulla porta o posso lasciarli entrare?»
«Sulla porta è preferibile, ma la cortesia consiglia l’ingresso in casa.»
Confucio, pensò Rabiah.
«Li lasci pure entrare in casa, ma metta bene in chiaro che non profferirà
parola prima del mio arrivo» continuò l’avvocato.
«Non è un atteggiamento sospetto?»
«Assolutamente sì. Ma lei ha qualcosa da nascondere alla polizia?»
«A parte il cadavere in giardino?»
«Ah, già. Be’, se si presentano armati di vanghe, non li lasci entrare.»
Le era simpatico anche perché sapeva stare allo scherzo.
Disse che sarebbe arrivato al più presto e Rabiah tornò in bagno a finire di
asciugarsi. Si pettinò, si applicò come sempre sul viso uno strato di crema
solare, poi un po’ di colore e infine andò a cercare qualcosa da mettersi.
Indossava sempre tute sportive, quando non si metteva in ghingheri, e non
intendeva certo mettersi in ghingheri per la polizia. Scelse la tuta verde lime,
poi prese i sandali, ma mentre se li infilava si accorse di avere lo smalto alle
unghie dei piedi rovinato. Imprecò fra sé e andò a cercare il solvente.
Detestava non avere le unghie in ordine. Aveva bisogno di una pedicure.
Decise di telefonare all’estetista, che stava a Craven Arms, e prendere un
appuntamento. Becky era contraria a dare lo smalto alle unghie dei piedi
prima di giugno – sosteneva che da novembre in poi le unghie dovevano
respirare, anche se Rabiah pensava che non ne avessero alcun bisogno –, e
siccome non aveva tempo per stare a discutere, mentì dicendo che le serviva
una manicure. Avrebbe affrontato la discussione sulle unghie dei piedi al
momento.
Si stava togliendo energicamente lo smalto quando suonarono alla porta.
Ci vollero altre due scampanellate prima che andasse ad aprire, perché mai e
poi mai si sarebbe presentata alla polizia con metà unghie già pulite e metà
ancora con lo smalto, e per di più rovinato. Quando finalmente spalancò la
porta, si trovò davanti due donne, una stangona bionda che stava per
riprovare a suonare e una che, a voler essere generosi, sarà arrivata a uno e
sessanta.
Erano in borghese, potevano essere chiunque, pensò Rabiah. Ma in fondo
anche alla televisione gli ispettori di polizia giravano in borghese. Perché si
sarebbero dovute presentare in divisa?
«Signora Lomax? Sono il sovrintendente Isabelle Ardery della
Metropolitan Police» disse la stangona e le mostrò il tesserino. Indicò con un
cenno del capo la collega e la presentò come Barbara Havers. A Rabiah
sfuggì il grado, perché stava cercando di capire come mai nella foto sul
tesserino Isabelle Ardery dimostrasse dieci anni di più.
Le restituì il documento e rifletté sulla conclusione precipitosa e
chiaramente maschilista che aveva tratto dalla telefonata di poco prima.
Nonostante fosse in possesso di tutte le stagioni di Prime Suspect in dvd,
sentendo la voce di una donna aveva immaginato che si presentasse
accompagnata da un uomo di grado superiore.
«Grazie di averci ricevute» disse Isabelle Ardery e aspettò quel che era
normale aspettarsi, ovvero che Rabiah le invitasse a entrare. Rabiah avrebbe
voluto lasciarle fuori fino all’arrivo di Aeschylus, ma oltre sessant’anni di
condizionamenti sociali la costrinsero a tenere la porta aperta e farle passare.
Le condusse nel salotto e le informò che stava per arrivare il suo avvocato.
Le due donne la guardarono sorprese. «È la tv. Non capisco perché non
chiedono mai di telefonare all’avvocato, quando devono parlare con la
polizia» spiegò Rabiah.
«Rallenta il ritmo» replicò la più bassa delle due, Barbara Havers.
«Come?» chiese, suo malgrado, Rabiah.
«Se non ci sono avvocati di mezzo, la storia va avanti più spedita. Si arriva
prima alla confessione, o a scoprire qualche indizio importante.»
«Lei ha qualche indizio da darci?» chiese Isabelle a Rabiah.
«Non credo proprio. Non so neppure cosa siete venute a fare. Stavo
andando in cucina. Gradite qualcosa? Caffè, tè, acqua minerale, succo di
frutta? Ho solo pompelmo. Sono una patita del pompelmo, in qualunque
forma. Ma adesso prendo un caffè. Non ho fatto colazione. Della colazione
posso fare a meno, ma del caffè no.»
«Ah, già: si fa il caffè per prendere tempo. Per me acqua minerale, grazie»
replicò il sovrintendente . L’altra disse che anche per lei andava benissimo un
bicchiere d’acqua.
Rabiah stava preparando il vassoio da portare in salotto quando si sentì
un’altra scampanellata. Era Aeschylus Kong che le fece il suo solito saluto a
metà tra un inchino e una stretta di mano, mettendosi la sinistra sulla parte
destra del petto, come se il cuore si fosse spostato durante la notte. «Magari
fossero tutti prudenti come lei!» disse a Rabiah, che gli spiegò dove trovare le
due poliziotte e gli chiese se gradiva un caffè.
Le rispose che sì, un caffè era l’ideale, senza latte e con un cucchiaino di
zucchero. Mentre Aeschylus andava nel salotto, Rabiah tornò in cucina, da
dove lo sentì che si presentava alle due funzionarie della Metropolitan Police.
A rispondere fu quella di grado più alto, Ardery. Rabiah sentì che l’altra
era un sergente investigativo.
Quando li raggiunse con il vassoio, vide che erano ancora tutti in piedi
come se la stessero aspettando. Aeschylus guardava il giardino dietro la casa,
quella che si chiamava Havers sfogliava un album di ricordi delle Rockettes e
il sovrintendente aveva preso una delle foto sulla mensola del caminetto e la
stava studiando con grande attenzione. Rabiah non vedeva quale fosse, ma
non le sfuggì che il sovrintendente la passava alla collega la quale, dopo
averla guardata, le lanciò un’occhiata significativa e la rimise al suo posto. A
quel punto Rabiah notò che era la foto di Volare, Cantare, il gruppo di piloti
di cui faceva parte, in posa davanti all’aliante che avevano comprato in
società. Visto l’interesse dimostrato dalle due, Rabiah si chiese se l’aliante
non fosse di provenienza illecita.
Quando tutti ebbero finito di bere, chi il caffè chi l’acqua, Aeschylus
propose di sedersi. Poi, lisciandosi con una mano i capelli che non avevano
alcun bisogno di essere lisciati, si rivolse alle due poliziotte. «Se ho ben
capito, desiderate parlare con la mia cliente.»
«Ci ha stupito che la signora abbia ritenuto necessaria la sua presenza,
avvocato» replicò Ardery.
«Ha seguito il mio consiglio, lo stesso che darei a qualsiasi cliente che mi
contattasse dicendo che la polizia vuole parlargli. Non dovete dedurne che la
signora sia colpevole di alcunché.»
«Certo» lo rassicurò Ardery. «Trovo semplicemente un po’ strano che, pur
non sapendo quale fosse il motivo della nostra visita, la signora abbia
chiamato subito il suo avvocato.»
Aeschylus aprì per un attimo le mani in un gesto conciliante. «Cosa
possiamo fare per voi?» disse.
«La sua cliente è l’unica Lomax nell’elenco telefonico di Ludlow, dove
compare come R. Lomax.»
«R. come Rabiah, sì» confermò Aeschylus. «Le donne dovrebbero sempre
far mettere solo le iniziali sia sull’elenco del telefono sia sulla
corrispondenza. Per precauzione. Prego, continui pure, sovrintendente.»
Rabiah vide che l’altra, quella che si chiamava Havers, tirava fuori dalla
borsa a tracolla un bloc-notes e un portamine. Le sarebbe piaciuto sapere che
bisogno c’era di prendere nota di quello che dicevano lei e Aeschylus Kong,
ma non fece domande. Se era il caso di chiederlo, senza dubbio l’avrebbe
fatto l’avvocato.
«Conosce Ian Druitt?» le domandò Ardery.
Rabiah guardò Aeschylus, che la autorizzò a rispondere con un cenno del
capo. «È l’uomo che è morto alla stazione di polizia qualche mese fa» disse.
«Se lo ricorda, eh?» chiese Havers alzando la testa dal taccuino.
«Il giornale e la televisione ne hanno parlato per giorni» rispose Rabiah.
«Lo conosceva?» chiese di nuovo Ardery.
«Non vado in chiesa.»
«Quindi sa che era un diacono.»
Rabiah stava per rispondere, ma Aeschylus le toccò una mano e
intervenne. «Anche il fatto che era diacono è stato reso noto dal giornale e dai
notiziari locali. Lo sapevo persino io, che non vado in chiesa e non frequento
alcuna congregazione religiosa. È un’informazione di pubblico dominio,
ampiamente divulgata.»
«Certo.» Il sovrintendente non batté ciglio. «Quel che non è stato reso
noto, però, è che nell’agenda del defunto compare il nome Lomax.
Sergente?»
Il sergente Havers sfogliò all’indietro il taccuino per consultare un
appunto. «Sette volte. Tra il 28 gennaio e il 15 marzo» disse.
Prima di aprir bocca, Rabiah cercò di prevedere tutte le possibili
implicazioni della sua risposta. «Si trattava di un problema di famiglia. Ma
non l’ho incontrato in quanto uomo di chiesa» decise di dire.
«Posso chiederle per quale motivo vi siete incontrati?»
«Le dispiace spiegarci che importanza ha?» intervenne garbatamente
Aeschylus.
«Il sergente e io siamo qui per un approfondimento delle due inchieste
svolte finora sulla morte del signor Druitt.»
A Rabiah questa spiegazione piacque ancora meno della notizia che il
nome Lomax appariva per ben sette volte nell’agenda del morto. «Il mio
problema è che ho due figli tossicodipendenti. Uno si sta disintossicando e
l’altro no. Quello che si sta disintossicando ha attraversato un gran brutto
periodo. Un anno e mezzo fa gli è morta la figlia di mezzo dopo una lunga
malattia e non riesce a farsene una ragione. Volevo o, meglio, sentivo il
bisogno di parlarne con qualcuno e mi è stato consigliato il signor Druitt.»
«Chi glielo ha consigliato?» chiese il sovrintendente.
Rabiah tacque. Ecco cosa succedeva quando parlando con la polizia uno si
lasciava sfuggire qualcosa più di un sì o di un no. Doveva sforzarsi di
rispondere a monosillabi.
Fuori un gatto fece uno di quei miagolii spaventosi che preludono a una
zuffa. Un altro gli rispose a tono e si udirono urla selvagge: la lite era
scoppiata. Rabiah fece una smorfia e si chiese se fosse il caso di uscire un
attimo per mandarli via, ma gli altri non sembravano nemmeno sentirli.
«Signora Lomax?» disse il sovrintendente.
«Sto cercando di ricordare. Potrebbe avermelo consigliato qualcuno del
gruppo dei balli popolari. O forse una delle persone con cui mi alleno.»
«In cosa si allena, signora Lomax?»
«Corsa.»
«Ma non ricorda di preciso chi sia stato?»
«Come mai non si ricorda?»
Le due poliziotte avevano parlato contemporaneamente. Intervenne
Aeschylus. «Non vedo che importanza abbia questo particolare. Non siete
certamente qui per verificare le capacità mnemoniche della mia cliente. Vi ha
spiegato perché il suo nome compariva nell’agenda del signor Druitt e io
sono pronto a testimoniare che quanto vi ha detto sulla morte di sua nipote
corrisponde a verità, benché neanche questo abbia la minima attinenza con la
questione di chi le abbia consigliato di rivolgersi al signor Druitt.»
«D’accordo» rispose Ardery. «Dove vi siete incontrati per questi
colloqui?» chiese a Rabiah.
La donna vide che Aeschylus stava per intervenire di nuovo, ma vide
anche che in quel modo rischiavano di continuare a girare in tondo per chissà
quanto tempo. «Non ho difficoltà a rispondere, Aeschylus» disse. Poi si
rivolse al sovrintendente. «Dipendeva dagli impegni che avevamo. Qualche
volta qui, ma perlopiù al bar» dichiarò.
«Non capisco. Il giorno e l’ora segnati sull’agenda sono sempre gli stessi.»
«Quello che intende dire la mia cliente» intervenne Aeschylus «è che
mentre il giorno e l’ora erano sempre gli stessi, il posto poteva variare a
seconda degli altri impegni che lei o il signor Druitt avevano prima o dopo
l’appuntamento.»
«È una donna molto occupata, eh?» commentò il sergente Havers.
«Sì» replicò Rabiah.
«Che cosa fa?»
Aeschylus si alzò. «Stiamo andando veramente fuori tema. La mia cliente
vi ha spiegato perché si è incontrata con il signor Druitt. Se non avete altre
domande in proposito, intendo concludere qui il colloquio. Le dispiace,
Rabiah?»
A Rabiah non dispiaceva affatto.
Isabelle Ardery guardò negli occhi Aeschylus Kong per fargli capire chi
comandava veramente, poi si rivolse a Rabiah. «Mi sembra che le sue
spiegazioni siano state esaustive.» E alla collega: «Sergente Havers, ha un
biglietto da visita?»
Seguirono alcuni momenti di silenzio piuttosto teso. Il sergente frugò nella
borsa, trovò i biglietti e ne porse uno al sovrintendente, che a sua volta lo
porse con fare cerimonioso a Aeschylus Kong. «Se la sua cliente dovesse
ricordare qualcosa di pertinente riguardo ai colloqui che ha avuto con il
signor Druitt, la prego di telefonare al sergente.»
«Cosa mai potrà venirmi in mente?» chiese Rabiah, e se ne pentì subito.
Prese lo stesso il biglietto che Aeschylus le porgeva.
«Questo lo lascio decidere a lei» replicò il sovrintendente.
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Quella foto richiedeva una spiegazione. Barbara immaginava che il
sovrintendente sollevasse la questione un nanosecondo dopo che Rabiah
Lomax ebbe chiuso la porta alle loro spalle. C’era sotto qualcosa, e Isabelle
Ardery non poteva non averlo capito. Barbara la guardò di sottecchi mentre
andavano alla macchina. Siccome quando vi arrivarono Isabelle ancora non
aveva detto niente, decise di buttarsi.
«Come la vogliamo chiamare la coincidenza dell’aliante?»
Isabelle Ardery sbloccò le portiere. «Si riferisce alla foto? Non ci vedo
nessuna coincidenza.»
Durante il ritorno verso il centro di Ludlow Barbara rimuginò in silenzio
per un po’. «A me sembra strano da morire» disse poi.
«Non siamo a Londra, sergente. Siamo in una piccola città. Il fatto che
Nancy Scannell e Rabiah Lomax compaiano insieme in una fotografia
davanti a un aliante non significa nulla. O vuole attribuirgli un significato
lei?»
«Mi sembra rilevante, visto che tutte e due conoscevano quel poveraccio.
Rabiah Lomax e Nancy Scannell, voglio dire.»
«Nancy Scannell non conosceva ’quel poveraccio’. Gli ha fatto l’autopsia.
Se c’è qualcosa di importante che mi sfugge, mi dica cos’è, perché mi sembra
che lei stia insinuando che ci sia stata una collusione tra Nancy Scannell –
che avrebbe alterato i fatti osservati sul cadavere – e Rabiah Lomax, per via
degli appuntamenti con Druitt.»
«Nel rapporto dell’IPCC la Lomax non è citata» disse Barbara. «Non si
sono accorti del suo legame con il morto. E non compare nemmeno nel
rapporto dell’ispettore Pajer.»
«Perché avrebbero dovuto citarla? Non esiste alcun legame. E comunque
non avevano l’agenda.» Il tono tagliente di Isabelle Ardery lasciava intendere
che era meglio non insistere. «Stavano indagando sul suicidio di un soggetto
in stato di fermo, sergente. Punto e basta. Davvero lei pensa che Rabiah
Lomax, con la complicità di Nancy Scannell, si sia introdotta per motivi
sconosciuti nella stazione di polizia di Ludlow e, sempre per motivi
sconosciuti, abbia immobilizzato Ian Druitt, lo abbia legato a una maniglia e
lo abbia lasciato morire? Qual è il movente? Dove sono le prove? Come
avrebbero fatto? O lei ipotizza che abbiano anche organizzato i furti che
tenevano occupati i colleghi di Shrewsbury? E magari una delle due ha pure
camuffato la voce per fare la denuncia anonima sulla pedofilia e ha servito
all’agente ausiliario una pozione preparata dalla strega del paese per farlo
cadere in un sonno profondo e poter agire indisturbata?»
«Ruddock ha tutto l’interesse a non rivelare nulla» disse Barbara.
«Potrebbe aver fatto entrare l’assassino, che potrebbe aver compiuto il delitto
mentre lui opportunamente si allontanava per telefonare ai pub.»
«Quindi adesso i colpevoli potrebbero essere Rabiah Lomax, Nancy
Scannell e pure l’agente ausiliario della città? E tutto questo in base a una
foto di un gruppo di persone che sorridono intorno a un aliante?»
Barbara percepì la frustrazione del sovrintendente e cercò di spiegarsi
meglio. Voleva farle capire che lei e Lynley partivano sempre dal
presupposto che tutto è possibile, niente è mai troppo assurdo e anche le cose
più assurde possono rivelarsi verosimili, quando si tratta di omicidio. Lo
stesso dicasi per ciò che è improbabile, inconcepibile, o inspiegabile. Se
Lynley era un investigatore tanto in gamba era proprio perché non escludeva
mai nessuna eventualità. Non era di quelli che cercano di arrivare a un arresto
il prima possibile per riuscire a tornare a casa in tempo per la cena. Isabelle
Ardery, invece, sembrava sempre più propensa a quel tipo di approccio. Solo
che il suo obiettivo non era tornare a casa per la cena, ma per qualcos’altro.
Barbara se n’era accorta da un po’. Lo sentiva nell’aria anche in quel
momento.
«A proposito» continuò il sovrintendente, «che ne è stato dell’altra sua
teoria, quella dell’ausiliario e della sua amichetta chiusi in macchina a
pomiciare mentre l’assassino si introduceva nella stazione di polizia?»
«È che...» cominciò Barbara.
«Sul serio, sergente. Non possiamo andare avanti così. Sono disposta a
parlare con questo Finnegan Freeman, chiunque sia, ma poi basta. Finora l’ho
assecondata ogni volta che ha sollevato un dubbio, ma non intendo spingermi
oltre.»
«È che, quando mi ha mostrato quella foto, ho pensato...»
«Posso ricordarle che è grazie alle sue pensate che lei si trova nella sua
attuale situazione?» sbottò Isabelle.
Barbara sapeva dove voleva andare a parare Ardery ed era convinta di
sapere anche quando era il momento di cambiare direzione o addirittura di
fare marcia indietro. «Forse sto guardando le cose dal punto di vista
sbagliato» disse, anche se non lo credeva affatto.
«Mi fa piacere sentirglielo dire» replicò Isabelle Ardery.
«Resta la telefonata anonima, però.»
Isabelle la fulminò con un’occhiata. «E cioè?»
«Se vogliamo essere sicure che questo Clive Druitt si persuada che
abbiamo riesaminato tutto il riesaminabile, forse sarebbe ora di visionare le
riprese effettuate il giorno della telefonata anonima.» E, senza darle il tempo
di obiettare, aggiunse: «Potrei farlo io mentre lei parla con Finnegan
Freeman, capo. Quanto tempo ci vorrà? Meno di un’ora, secondo me. Così
potremo dire di aver sviscerato rigorosamente tutti gli aspetti che potrebbero
spingere Clive Druitt a rivolgersi ai suoi avvocati».
Isabelle Ardery si prese la testa fra la mani. Aveva l’aria di una donna
sull’orlo di una crisi di nervi. «D’accordo. Le riprese della videosorveglianza
il giorno della telefonata, punto e basta. Spero di essere stata chiara,
sergente» disse.
Barbara le assicurò di sì.
Ludlow
Shropshire
Quando fece il numero di cellulare dell’agente ausiliario per parlargli delle
riprese della videosorveglianza, Barbara scoprì che non era ancora in
servizio. Il vecchio Rob era caduto, le spiegò Gary Ruddock, e lui lo aveva
accompagnato al pronto soccorso. Ora stava rientrando a Ludlow e sarebbe
arrivato alla stazione di polizia nel giro di quarantacinque minuti. Per Barbara
era perfetto. Voleva prima verificare un piccolo particolare, cui non aveva
fatto cenno con Isabelle Ardery.
A suo modo di vedere – che in effetti era diverso da quello del
sovrintendente – se qualcuno aveva dato a Ian Druitt una bella spinta verso
l’aldilà, questo qualcuno era o l’agente ausiliario, per motivi al momento
sconosciuti, oppure una persona, anch’essa per il momento sconosciuta, che
si era introdotta nella stazione di polizia mentre l’ausiliario era in altre
faccende affaccendato. Secondo Barbara, queste altre faccende vedevano la
partecipazione di un’auto di servizio e di una donna, e potevano essere in
qualche modo dimostrate. E per questo si avviò verso la stazione.
Partì con l’idea che qualcuno – l’amica di Ruddock che si presentava per
un rapido spogliarello sul sedile posteriore dell’auto, oppure un assassino
intenzionato a strangolare Druitt – fosse arrivato alla stazione di polizia
seguendo l’itinerario che aveva mostrato a Isabelle Ardery quella mattina.
Giunta alla stazione, proseguì per un breve tratto e imboccò Weeping Cross
Lane. Lì rallentò il passo e si guardò intorno in cerca di telecamere di
sorveglianza come se ne vedevano ovunque a Londra. Era nella zona
commerciale di Ludlow, dove avevano sede aziende e negozi che
soddisfacevano le più svariate esigenze, dal noleggio di un furgone
all’acquisto di attrezzature per l’equitazione. Barbara vide almeno otto
videocamere, ma avvicinandosi si accorse che nessuna era puntata verso la
strada. Mai una gioia, pensò. D’altro canto, però, questo significava che
chiunque sarebbe potuto arrivare alla stazione di polizia dal lungofiume senza
essere fotografato o filmato.
Proseguì fino in fondo a Weeping Cross Lane e si trovò sul Temeside. Dal
momento che l’interrogando Finnegan Freeman viveva lì, pensò le potesse
essere utile scoprire in quale casa abitasse esattamente. Controllò l’indirizzo
sul taccuino e si diresse verso il Ludford Bridge. Un attimo dopo vide l’auto
di Isabelle Ardery fermarsi sul marciapiede davanti all’ultima casa di un
complesso a schiera che si chiamava Clifton Villas.
Barbara esitò. Sapendo che il sovrintendente non si aspettava di trovarla
sul Temeside, prese in considerazione la possibilità di fare dietrofront e
tornare rapidamente in Weeping Cross Lane dove, se necessario, si sarebbe
potuta nascondere dietro un cassonetto. Non era il caso di preoccuparsi, però:
Isabelle Ardery non scese subito dalla macchina. Aveva parcheggiato con il
muso rivolto verso Barbara, ma aveva la testa posata sul volante e rimase così
per circa un minuto prima di aprire la portiera. Poi si aggiustò i capelli,
guardò l’orologio e si avviò verso la casa. A quel punto Barbara la perse di
vista, perché era scomparsa dietro il piccolo portico che sormontava
l’ingresso. Tornò alla stazione di polizia e si sedette su un gradino a riflettere
su tutte le stranezze che aveva visto fare al sovrintendente e che avrebbe
preferito non vedere.
Quella mattina, per esempio, Isabelle aveva decisamente qualcosa che non
andava. E il problema non era che Barbara l’aveva intercettata prima che
potesse fare colazione. Era così pallida che probabilmente non sarebbe
comunque riuscita a mandare giù niente. E non era neppure il fatto che non
avesse ancora bevuto il caffè. Il problema era il tremore della mano destra
quando aveva preso la cartina, la rapidità con cui aveva abbassato la mano
quando si era accorta che non riusciva a tenerla ferma. Barbara era giunta alla
conclusione che il sovrintendente era in uno stato in cui rischiava di non
notare particolari che invece avrebbe dovuto notare. Ma lei purtroppo non
poteva parlare di queste cose con nessuno.
Circa dieci minuti più tardi, arrivò l’agente ausiliario. Parcheggiò, la salutò
agitando cordialmente una mano e andò ad aprire la porta sul retro. Barbara,
intanto, cominciò a parlargli della telecamera sul davanti e del fatto che si
poteva spostare con facilità. «Quindi la mia speranza è che il giorno in cui è
stata fatta la denuncia al 999 fosse in una posizione diversa» concluse. Era
vero solo in parte. In realtà Barbara aveva in mente anche altro. «Come sta il
vecchio Rob?» chiese per portare il discorso dove le serviva.
«Quando l’ho lasciato stava parlando di uova, pancetta e salsicce. Le
mangia solo una volta alla settimana e stamattina, con il fatto che è caduto, ha
dovuto saltare. Sperava che gliele preparassi io, ma si sbagliava, poveraccio.»
Ruddock fece strada nel corridoio verso l’ingresso principale della
stazione, accendendo i neon che si riflettevano spietati sul pavimento di
linoleum e, pensò Barbara, sui suoi capelli sporchi. «Mi sembra che gli sia
parecchio affezionato» disse.
«È impossibile non affezionarsi a uno che a quell’età è ancora così pieno di
vita» rispose Ruddock.
«D’altro canto, però, vivere con un pensionato a volte le sarà d’impiccio»
osservò lei.
«In che senso?» Ruddock aprì la porta della guardiola dove un tempo
sedeva l’usciere che accoglieva i visitatori. Era un locale molto piccolo, dove
c’era spazio a stento per due persone. Da una parte c’era una scrivania su cui
era posato un vecchio terminale. Ruddock lo accese e aspettò che entrasse
lentamente in funzione.
«Per la vita sentimentale e cose così» disse Barbara.
«Eh?» Ruddock le voltò le spalle.
«Pensavo che dev’essere difficile avere un po’ di privacy, vivendo con un
vecchietto.»
Ruddock rise. «Se avessi una vita sentimentale. Con quello che guadagno,
meglio lasciar perdere. A una donna potrei offrire una pizza e una birra il
giorno che prendo lo stipendio, e poi basta. Quindi me ne sto alla larga. Dalle
donne, voglio dire.»
Barbara archiviò mentalmente l’informazione alla voce «fattoidi
interessanti». Non sapeva come interpretarla.
Lo schermo alle spalle di Ruddock si accese e, dopo pochi comandi sulla
tastiera, si divise in due. Una metà era completamente nera – «Sembra
proprio che la telecamera sul retro non funzioni, come pensavo» commentò
Ruddock – e nell’altra si vedevano uno spicchio di strada e di marciapiede, il
vialetto e la scala che conducevano al portone. Ruddock digitò altri comandi
e sullo schermo cominciarono a scorrere le immagini. L’inquadratura era
sempre la stessa, ma videro passare auto, mamme che spingevano carrozzine
e passeggini, gente che faceva jogging e due persone che salivano la scala
dirette verso l’ingresso e, presumibilmente, scoprivano che la stazione era
chiusa. Poi Ruddock fermò le immagini alla notte in questione, perché la
telefonata era stata fatta di notte, come in fondo c’era da aspettarsi, Non
videro niente, se non per l’appunto la notte buia e l’indicazione dell’ora,
pochi minuti dopo la mezzanotte. L’inquadratura era identica a quella
dell’inizio: uno spicchio della via davanti alla stazione, il marciapiede, la
scala e una parte del sentiero che conduceva al portone.
Barbara non si aspettava di scorgere un individuo con una maschera alla
Hannibal Lecter che alzava gli occhi verso la telecamera per poi ruotarla in
modo che non inquadrasse l’ingresso. Era in cerca di qualcos’altro. Chiese a
Ruddock di tornare ancora indietro. Lui eseguì e, dopo un po’, l’immagine
cambiò e sullo schermo apparve un’inquadratura dell’area immediatamente
intorno al portone. Quando Barbara gli chiese di mandare avanti lentamente
le immagini verso la sera della morte di Druitt, riuscì a individuare un
momento in cui lo schermo diventava tutto nero. Subito dopo ricompariva la
stessa inquadratura di tutte le riprese effettuate dalla telefonata anonima in
poi, dove non si vedeva la porta bensì il percorso di avvicinamento alla porta
stessa. Prima di quello stacco nero, invece, per quanto indietro si tornasse, la
telecamera era sempre puntata sull’ingresso, e quindi anche sul telefono
esterno.
Barbara chiese quanto tempo fosse trascorso tra lo spostamento della
telecamera e la telefonata anonima. Ruddock esaminò le immagini e disse che
erano passati sei giorni. «Quindi il nostro uomo – o la nostra donna – sapeva
che la videocamera era mobile e l’ha spostata con parecchi giorni di anticipo
in modo che se qualcuno, come me, avesse voluto visionare le immagini della
notte della telefonata fosse indotto a credere che la telecamera fosse sempre
stata puntata verso la strada e non sul telefono esterno» commentò Barbara.
Indicò l’immagine fissa sullo schermo. «Una volta puntata la telecamera
verso la scala, bastava avvicinarsi rasentando il muro per non essere ripresi.»
«La videocamera però avrebbe dovuto filmare quello che l’ha spostata» le
fece notare Ruddock. «A meno che...»
Non era uno stupido. Aveva capito che la telecamera era stata girata da
spenta. Ma per spegnerla bisognava entrare dentro la stazione. E bisognava
agire con grande rapidità, in modo che il nero durasse poco e passasse
inosservato, nel caso qualcuno avesse fatto scorrere le immagini all’indietro
per vedere se l’autore della chiamata anonima era stato ripreso. Chiunque
avesse controllato il nastro avrebbe scoperto che la notte della telefonata la
telecamera inquadrava la strada e non la porta e solo tornando indietro di altri
sei giorni avrebbe notato la posizione originaria della telecamera e l’assenza
di immagini nel momento in cui era stata spostata.
Ruddock era costernato e glielo si leggeva chiaramente in faccia. «Chi ha
chiamato il 999 per denunciare Druitt avrebbe potuto usare qualsiasi altro
telefono. Ovviamente per rimanere anonimo doveva evitare telefono di casa e
cellulare, ma una qualsiasi cabina telefonica sarebbe andata bene, purché nei
paraggi non ci fosse una telecamera di sorveglianza» disse Barbara.
«Perché è venuto a telefonare qui, allora?» chiese Ruddock. «E si è preso
la briga di spostare la telecamera?»
Barbara lo fissava. Ruddock fissava lei. Dopo un attimo, capì. «L’ha fatto
per incastrare me. Ecco perché ha usato il nostro telefono esterno» mormorò.
«Già. Mi faccia l’elenco dei suoi nemici, Gary.»
«Oddio. Credevo di non averne.»
Barbara pensò all’uso che gli aveva visto fare del parcheggio con il favore
del buio e fu tentata di chiedergli chi era la donna con cui si era appartato in
macchina, ma decise di tenersi la domanda per un’altra occasione. «Per
esperienza, direi che almeno un nemico lo abbiamo tutti» disse invece.
Ruddock si voltò a guardare di nuovo lo schermo, poi le lanciò
un’occhiata. «Ma perché non ha telefonato subito dopo aver spostato la
videocamera? E perché dopo non l’ha rimessa nella posizione iniziale?»
chiese.
«Forse è stato interrotto e non ne ha avuto il tempo. Oppure voleva lasciar
passare qualche giorno per farci credere che la telecamera fosse sempre stata
in quella posizione, o magari per il solito motivo.»
«E cioè?»
Barbara si strinse nelle spalle. «Nessuno riesce a pensare a tutto, quando
commette un reato.»
Ludlow
Shropshire
La prima volta che vide Finnegan Freeman, Isabelle si augurò che i suoi figli
non diventassero così, indipendentemente da chi ne avesse la custodia. Aveva
i dread, ma la metà sinistra della testa era rasata e coperta da un inquietante
tatuaggio, il ritratto di una donna che urlava selvaggiamente mostrando
l’ugola e lunghi canini, uno dei quali grondava sangue.
Anche per il resto Finnegan non era certo un figurino. L’abbigliamento
non era dei peggiori, sebbene i jeans fossero eccessivamente logori e la
camicia di flanella praticamente trasparente da quanto era lisa. Ai piedi
calzava dei sandali, approfittando forse del mite clima primaverile, e aveva le
unghie laccate di nero. Portava una treccina di cuoio intorno alla caviglia
destra e un orecchino, anch’esso di cuoio, al lobo sinistro; più che un
orecchino, però, sembrava un’escrescenza. Non era un brutto ragazzo, ma
nell’insieme sembrava uscito da un quadro di Munch.
Lo aveva incontrato in quello che passava per il salotto di una casa sul
Temeside, l’ultima di una schiera di villette che sembravano di epoca
edoardiana, a giudicare dalle mattonelle sulla facciata, con girasoli gialli su
sfondo verde scuro come la porta. Le mattonelle erano in buone condizioni,
la porta non altrettanto: recava i segni delle botte prese probabilmente nel
corso di numerosi traslochi ed era stata coperta di adesivi e decalcomanie da
qualche appassionato del Mago di Oz in generale e delle scimmie volanti in
particolare.
Isabelle era stata invitata a ruotare la maniglia e spingere la porta da un
urlo proveniente dall’interno – «Non è chiusa a chiave, chiunque tu sia!» – e
aveva trovato il proprietario nel salotto che mangiava un burrito leggendo una
graphic novel. Era seduto su un divano coperto di chintz che probabilmente
proveniva dalla soffitta di qualche anziana parente, davanti a un tavolino
basso di età imprecisabile. Il resto dell’arredamento era costituito da tre
poltrone a sacco, una sedia di legno, una lampada a piantana, un televisore e
una stufetta elettrica le cui condizioni facevano temere un cortocircuito, se
qualcuno avesse incautamente provato ad accenderla. Con ogni probabilità
non veniva utilizzata spesso, però, perché l’attizzatoio, il caminetto e la
parete tutt’intorno erano neri di fuliggine. Alla faccia del cartello affisso sulla
mensola, che proibiva di accendere il fuoco.
Finnegan Freeman dichiarò di essere Finnegan Freeman, quando Isabelle
chiese di lui. «Chi è che lo vuole e perché?» aveva ribattuto all’inizio, ma poi
Isabelle aveva risposto che a cercarlo era New Scotland Yard e il motivo era
Ian Druitt. A quel punto Freeman fu più che felice di dichiarare: «Sono io,
allora. Vi ha telefonato mia madre, vero?»
«Per quale ragione sua madre dovrebbe aver telefonato a New Scotland
Yard?» chiese Isabelle.
«Aspetta solo che combini qualche casino abbastanza grave per farmi
tornare a casa.»
«Ne combina spesso, quindi.»
Freeman sorrise e addentò il burrito. «A mia madre dà fastidio che mi
diverta. È fatta così» spiegò mentre masticava.
Isabelle gli assicurò che sua madre non aveva telefonato alla polizia e che,
anche se l’avesse fatto, la Metropolitan Police non si occupava di giovani a
rischio su richiesta dei genitori, ma aveva competenze diverse.
«Non sono a rischio» replicò Freeman. «Mi diverto e basta. Mia madre
dice che sono strafottente, ma non se lo immagina neanche come sarei, se
facessi davvero lo strafottente. Le verrebbe un colpo.»
«Capisco.» Isabelle lo informò che, a seguito della morte di Ian Druitt
nella stazione di polizia, era venuta a Ludlow insieme con una collega per
verificare le conclusioni cui era giunta la commissione indipendente per i
reclami contro la polizia.
A quel punto il ragazzo posò il burrito sullo strofinaccio che usava a mo’
di piatto e la scrutò cercando di capire quanto c’era di vero nelle sue parole.
Isabelle provò la strana sensazione di essere valutata da una persona più acuta
e sensibile di quanto il suo aspetto e il suo modo di esprimersi lasciassero
intendere.
«E io che cosa c’entro?» disse Freeman.
«Abbiamo trovato il suo nome fra gli effetti personali del morto, in cima
all’elenco degli iscritti a un circolo per l’infanzia. Il suo era l’unico nome
senza l’indicazione dei genitori, perciò abbiamo dedotto che lei fosse
l’assistente del signor Druitt.»
«Che intuito!» replicò il ragazzo.
«Quindi è vero che lei gli faceva da assistente. Che compiti aveva?»
Finnegan Freeman per un attimo sembrò ricordarsi qualcosa che
vagamente somigliava alle buone maniere perché si spostò e batté una mano
su una delle tante gobbe del divano. «Se vuole posare le chiappe...» Isabelle
accettò l’invito a sedersi accanto a lui, anche se avvicinandosi percepì un
intenso odore di calzini sporchi. Bizzarro, visto che il ragazzo era scalzo.
Isabelle aspettò che Finnegan le spiegasse quali mansioni svolgeva nel
circolo di Druitt.
«Gli davo una mano con i compiti, li aiutavo a prepararsi la roba da
ginnastica, gli insegnavo a usare Internet per le ricerche che dovevano fare
per la scuola. A volte andavamo a fare delle passeggiate. E gli davo le
dimostrazioni.»
«Cioè?» Isabelle si augurò che le dimostrazioni cui accennava Finnegan
non riguardassero abbigliamento e igiene personale.
Il ragazzo le mostrò le mani. Erano piccole, rispetto al resto. «Di karate. Ai
bambini piace un casino.»
«Irrobustisce parecchio, mi risulta» osservò Isabelle.
Finnegan le lanciò un’occhiata come a dire che aveva capito dove voleva
andare a parare. «Non è mica un reato essere forti, per quel che ne so.»
«Certo» concordò Isabelle, poi spostò il discorso su Druitt. «Che tipo era?»
chiese.
«È semplice» replicò Finnegan. «Non era il tipo che si suicida. L’ho detto
a tutti quelli con cui ne ho parlato, ma sembra che non gliene freghi niente a
nessuno di quello che penso io.»
«Sono qui per ascoltarla, Finnegan.»
«Finn» la corresse lui.
«Scusi. Sono qui per sentire che cosa ne pensa, Finn.»
«Perché?»
«Perché lavorava con lui al circolo per l’infanzia.»
«Lei vuole sapere se li molestava, vero? Se si è fatto fuori perché aveva
paura che lo metteste con le spalle al muro, eh?»
«Qualsiasi cosa mi vuole dire, Finn, io la sto a sentire. Vorrei ascoltare la
sua opinione su qualsiasi argomento legato al signor Druitt.»
«Parla come mia madre.»
«Sono madre anch’io. Ti entra nel sangue. Ha un’opinione riguardo al
signor Druitt, Finn?»
«Sì» rispose. «Era una brava persona, ecco qual è la mia opinione. Gli
stavano a cuore tutti i bambini del circolo, li seguiva uno per uno. Li
mandavano da lui apposta, perché li seguiva molto di più dei loro genitori.
Non gli ho mai visto mettere le mani addosso a nessuno di quei bambini, a
parte forse – e dico forse perché davanti a me non è mai capitato o comunque
non me lo ricordo – una pacca sulla spalla o sulla testa o roba così. A parte
questo, non ha mai fatto niente di niente. Era bravissimo, li trattava bene.»
«Capisco» replicò Isabelle.
Finnegan Freeman sbuffò. «Meno male.»
«Le molestie sui minori fanno parte di un processo di seduzione che di
solito si svolge nell’arco di parecchio tempo, in cui il bambino viene
sottoposto a un lento lavaggio del cervello che lo porta ad accettare le
molestie come parte del rapporto» disse Isabelle.
Finnegan, che mentre lei parlava aveva ripreso in mano il burrito, a quel
punto lo lanciò con tanta foga che lo strofinaccio scivolò sul tavolo e il
burrito si spiaccicò sulla moquette. In ogni caso sembrava che il pavimento
non venisse pulito da una o due generazioni, quindi l’impiastro di fagioli,
formaggio e salse varie non cambiò di molto l’aspetto generale. «Mi è stata a
sentire?» le chiese stizzito.
«Sì, certo. Ma vede, Finnegan, se un uomo...»
«Finn!» la interruppe urlando. «Mi chiamo Finn, okay? Finn!»
«Mi scusi, sì. Finn. Se un uomo riesce a compiere molestie su minori senza
essere denunciato è proprio perché in apparenza è come lei mi ha descritto il
signor Druitt: attento, affettuoso, impegnato. Se le vittime e i relativi parenti,
ma anche i suoi amici, avessero di lui un’impressione diversa, non
riuscirebbe a fare quello che fa. Ma immagino che lei queste cose le sappia.»
«Io so solo che non ha molestato nessuno di quei bambini. Me lo sarebbero
venuti a dire, altrimenti.»
«E lei?» chiese Isabelle.
Finnegan Freeman arrossì. «Non ho mai fatto niente di inopportuno con
quei bambini! Non mi starà accusando di...?»
«No, no. Mi scusi» si affrettò a dire Isabelle, chiedendosi che conclusioni
avrebbe tratto il sergente Havers, magari ispirandosi alle conoscenze
shakespeariane che le aveva trasmesso Lynley, nel sentirlo reagire così e nel
notare le incongruenze linguistiche del ragazzo, che sembrava non aver
ancora deciso a quale classe sociale apparteneva. «Le stavo chiedendo se il
signor Druitt l’avesse mai molestata.»
Finnegan divenne ancora più rosso, se possibile. «Mi stia bene a sentire:
era gentile con tutti, specialmente con le vittime di bullismo. Sapeva che cosa
voleva dire e insegnava ai bambini che i bulli hanno bisogno di sentirsi
importanti e che l’unica maniera per farli smettere è reagire, a parole o a
pugni, quello che serve.»
«È per questo che si è dato al karate?»
«Mi ci ha portato mio padre. Sì, i bulli se la sono presa anche con me. Ma
la prima volta che gli ho fatto vedere cosa sapevo fare, hanno smesso. E fare
a un bambino le cose che dite che faceva Ian... È una forma di bullismo pure
quella, no? E Ian non era un bullo. Lo sapeva, che cosa voleva dire.»
«Era stato vittima di bullismo pure lui, quindi» dedusse Isabelle. «O si
riferisce ad abusi sessuali subiti da piccolo? Le ha confidato di essere stato
molestato?»
«Ma no!» A Finnegan venne la voce stridula.
«No cosa? Non era stato vittima di bullismo o non era stato molestato da
piccolo?» chiese Isabelle.
«Tutt’e due! Ma se lei la pensa diversamente e crede che una volta
cresciuto abbia fatto lo stesso anche lui, perché non lo va a chiedere
direttamente ai bambini? Li interroghi uno per uno. Vedrà che non è
assolutamente vero che era un pedofilo.»
Si fermò per prendere fiato e nel silenzio si sentì un rumore di passi sulle
scale. Un attimo dopo comparve sulla porta una ragazza. «Ehi, Finn. Io
vado...» disse. Quando vide Isabelle, si bloccò. «Scusate. Non sapevo che
avessi compagnia.»
Isabelle ne dubitava, visto che Finn aveva alzato la voce. Era impossibile
che non l’avesse sentito. Non avevano certo le pareti insonorizzate, in quella
casa.
La ragazza entrò nel salotto come aspettandosi di essere presentata. Aveva
l’aria di una studentessa, capelli lunghi con colpi di sole che sembravano
opera di un bravo parrucchiere, fisico minuto ma procace. «Piacere, Dena
Donaldson, Ding per gli amici» disse.
«Fa’ attenzione, questa è della polizia. È venuta apposta da Scotland Yard
per estorcermi la verità» disse Finnegan.
Ding squadrò Isabelle con la stessa attenzione con cui Isabelle aveva
osservato lei. «Non porta la divisa?» chiese, come se fosse cruciale
«È un’ispettrice di polizia» precisò Finnegan. «La guardi la televisione,
no? Gli ispettori mica portano la divisa. Vuole sapere di Ian.»
«Druitt?»
«Di quale altro Ian vuoi che si tratti? Mi sembri un po’ rintronata. Hai
bevuto troppo ieri sera?»
La ragazza non replicò. Si tolse lo zaino che aveva in spalla, lo posò per
terra e si sistemò la gonna fucsia con un gesto che forse era nervoso, oppure
voleva passare come tale. Poi si sistemò anche il foulard che aveva intorno al
collo, con un disegno di fiori e nuvole che riprendevano il colore della gonna
e il grigio della maglia.
«Conosceva il signor Druitt?» le chiese Isabelle.
La ragazza fece una faccia stupita e guardò prima Finnegan, poi il
caminetto e da ultimo Isabelle. «Cosa le interessa?» domandò.
«Voglio sapere se lo conosceva e come l’aveva conosciuto» chiarì Isabelle.
«Non... Cioè, in realtà... Nel senso...»
«Cristo santo, Ding, di’ quello che devi dire e falla finita» intervenne
Finnegan spazientito.
«Ne ho solo sentito parlare» disse Ding a Isabelle. «Da Finn, soprattutto.»
«E poi?»
«E poi cosa? Chi altro conoscevo?»
«No.» A Isabelle aveva ricominciato a pulsare la testa. Doveva prendere
provvedimenti, e al più presto. «Ha detto che ha sentito parlare del signor
Druitt soprattutto da Finn. Chi altro gliene ha parlato?»
«Ah!» Ding incrociò le braccia sotto i seni, mettendoli in evidenza.
Isabelle rimaneva sconcertata ogni volta che vedeva una donna compiere quel
gesto: era come se tanti anni di lotte non avessero cambiato niente. Mostra le
tette e avrai il mondo ai tuoi piedi. «Forse solo da lui. Mi sa che Brutus non
lo conosceva.»
«Brutus?» chiese Isabelle. «È un vostro amico? Abita qui con voi?»
«Bruce Castle» precisò Ding. «Abita qui con noi, ma lo chiamiamo tutti
Brutus. È... una presa in giro.»
«Perché è un tappo» spiegò concisamente Finnegan.
«Nel senso che non si è completamente sviluppato?» chiese Isabelle. «Che
è rimasto un po’ bambino?»
Finnegan capì perfettamente dove voleva arrivare Isabelle. «Ian non ha mai
fatto niente a nessuno, né qui né altrove» dichiarò con foga. «Brutus non
avrebbe mai... Nel senso: Brutus non si lascia mettere i piedi in testa da
nessuno» disse Ding contemporaneamente.
«Lei è al corrente delle accuse di pedofilia, vero?»
«Sì. Be’, sì.» Ding lanciò un’occhiata impaurita a Finnegan. «Lo sanno
tutti. Me l’ha detto Finn, mi pare. O forse l’ho sentito mentre lo raccontava a
sua mamma. Sì, credo che sia andata così. Non è vero, Finn? È così che sono
venuta a saperlo, mi sa. Oppure l’ho letto da qualche parte.»
«Cosa ne so io?» Finn sembrava di colpo annoiato, o forse era una posa.
«Qui dentro si sente tutto, vero?» chiese Isabelle alla ragazza.
«È una casa piccola» rispose Ding. «È inevitabile. Non c’è bisogno di
origliare. È per questo, capisce? Voglio dire, non è che il signor Druitt
venisse qui. In realtà non lo conoscevamo. Brutus e io, intendo. No, non lo
conoscevamo. Finn sì, ovviamente.»
«Non capisco bene cosa devo inferire da ciò che sta dicendo, signorina»
rimarcò Isabelle.
«Non deve inferire proprio niente! Solo che io e Brutus non sappiamo
niente. Finn non so.»
Finn guardava la ragazza con espressione perplessa ma anche lievemente
ostile, notò Isabelle. «Non stavi uscendo, Ding?» le chiese. «Non farai tardi?»
Ding raccolse da terra lo zainetto e se lo mise in spalla. Non sembrava
offesa. «Spero che riesca a ottenere le informazioni che cerca» disse
rivolgendosi a Isabelle.
«Da Finn?»
«Be’, sì. Visto che, come le dicevo...»
«Lei e Brutus non conoscevate Ian Druitt.»
Ludlow
Shropshire
Ding inforcò la bicicletta come se stesse per andare alla lezione di geografia.
E forse l’avrebbe fatto, se non si fosse spaventata trovando una poliziotta di
Scotland Yard nel salotto di casa. Quello spavento e la breve conversazione
con la donna le avevano fatto passare ogni velleità scolastica. Doveva però
dare l’impressione di essere diretta al college, e quindi partì verso Lower
Broad Street. Se l’avesse imboccata, sarebbe arrivata alla palazzina dove si
teneva la lezione, in fondo a Silk Mill Lane. Ma non la imboccò. A distanza
di sicurezza dalla casa, entrò nel parcheggio del negozio di tappeti persiani
dove era in corso una svendita totale per prossima chiusura, come in ogni
altro negozio di tappeti persiani d’Inghilterra. Ad annunciarla era un grande
cartello che campeggiava in vetrina. Dopo tanti anni in bella vista era ormai
sbiadito, ma i proprietari parevano non preoccuparsi del fatto che ciò potesse
smentire la veridicità della loro affermazione.
Come sempre, fuori dal negozio c’era una pila di tappeti. Ding si fermò lì
accanto, scese dalla bici e cominciò a sollevarne gli angoli come se stesse
cercando quello che meglio si adattava alla sua camera da letto. Dopo pochi
istanti fu raggiunta dal proprietario. Non era mediorientale, come ci si
sarebbe potuti aspettare, ma scozzese. Parlava con un accento di Glasgow
talmente forte che non si capiva una parola di quello che diceva. Avesse
parlato in farsi, probabilmente Ding avrebbe avuto meno problemi.
Gli spiegò che stava solo dando un’occhiata. «Per adesso no, la ringrazio»
disse, dopo che lui le ebbe risposto con una frase incomprensibile. In realtà il
suo scopo era aspettare in un luogo appartato di poter rientrare in casa.
Si rendeva conto di aver dato risposte poco credibili alla poliziotta. Appena
Finn le aveva spiegato chi era, la paura le aveva offuscato la mente. Trovare
una di Scotland Yard che parlava con Finn in salotto era l’ultima cosa che si
aspettava.
Rimase a guardare tappeti per una decina di minuti, se non di più, e dovette
sostenere una conversazione con lo scozzese che pareva incentrata sul
rovescio dei tappeti. Di nuovo, Ding non aveva idea di cosa le stesse dicendo,
ma poiché era riuscita a isolare le parole «a mano» e «nodi» e l’uomo toccava
la parte inferiore dei tappeti, annuì. «Giusto, giusto.» Per fortuna si rivelò una
risposta adeguata. Alla fine ringraziò il negoziante e riportò la bicicletta sulla
strada.
La macchina della poliziotta non c’era più. Via libera. Ding impiegò meno
di un minuto per tornare a casa e mollare la bici sul piccolo spiazzo di
cemento davanti alla porta. Facendo meno rumore che poteva, corse verso le
scale. Inutile. «Ehi, tu!» Finn la chiamò dal salotto. Ding si fermò e vide che
era disteso sull’orribile divano che avevano preso in uno dei tanti negozi di
beneficenza di Ludlow. Stava togliendo qualcosa da un burrito e si puliva le
dita sulla fodera stinta del divano.
Vedendo che lasciava strisciate di salsa sul tessuto gli disse: «E se
qualcuno ci si volesse sedere?»
Finnegan la ignorò. «Cosa volevi dire esattamente?» disse.
«Quando?»
«Quando parlavi di te e Brutus. Si capiva lontano un miglio che volevi
dirottare i suoi sospetti su di me.»
«Non so di cosa stai parlando.»
«Sì, certo» fece lui, ispezionando il fondo del burrito. Una volta stabilito
che era ancora commestibile, lo addentò. «Secondo me lo sai benissimo,
invece.»
Si alzò e sul divano rimase impressa la forma del suo sedere, così come vi
era rimasta impressa quella del sedere della poliziotta. Si avvicinò a Ding
masticando più rumorosamente del necessario. «Te lo devo dire, Ding: non
capisco cos’hai in testa da un po’ di tempo a questa parte.»
«Niente, Finn.» Si avviò verso le scale, ma lui le si parò di fronte.
«Lasciami passare.»
«Non te lo sto mica impedendo.»
«Sì, invece.»
«Non ti piace, eh? Allora dimmi cosa cazzo sta succedendo.»
«Niente. È solo che non mi va che la gente pensi male di me quando non
ho fatto nulla.»
«Specie se si tratta di un poliziotto, vero? E come mai, Ding? Mi nascondi
qualcosa?»
«No!»
«Be’, non dai questa impressione, mi spiace tanto.»
«Non so che impressione do» rispose lei. «Però adesso levati dai piedi.»
Lo spinse da una parte e corse di sopra. «Non sono deficiente, Ding» le
gridò dietro Finn. Fu l’ultima cosa che sentì perché entrò in camera sua e
chiuse la porta a chiave.
Andò subito ad aprire l’armadio e cominciò a tirare fuori i vestiti. Aveva
fretta di mettere le mani su quello che cercava, ma non strappò gli abiti dalle
grucce per buttarli per terra come fanno nei film per indicare che il
protagonista è in preda al panico. Li staccò ordinatamente e li stese sul letto.
A causa delle sue vicissitudini familiari, era costretta a comprarsi i vestiti
con i suoi soldi da anni, mettendo da parte gli incassi del suo lavoro come
babysitter, dogsitter, commessa, strappatrice di erbacce, innaffiatrice di piante
in vaso e varie altre mansioni che le era capitato di svolgere nel poco tempo
libero, da quando aveva dodici anni. Perciò teneva con grande cura ogni
scarpa, gonna, jeans, maglietta, pullover e stivale che possedeva e non si
separava da nulla finché non diventava importabile. Non se lo poteva
permettere.
Adesso, però... Doveva liberarsi di due cose cui teneva tantissimo, che
conservava in fondo all’armadio, e fu costretta a frugare fra la roba invernale
per recuperarle, appese insieme su un’unica gruccia. Le aveva nascoste sotto
il cappotto di lana rosso e fu proprio quello che alla fine tolse dall’armadio e
portò verso il letto. Lo sbottonò e guardò la gonna e il top che aveva
imboscato sotto. Senza darsi il tempo di rimuginare su quanto li aveva pagati
e su quanto avrebbe sentito la loro mancanza, li prese e cercò una borsa di
plastica sul fondo dell’armadio.
Non se la sentì di infilarli dentro così com’erano, dovette prima piegarli
con cura e poi riporli nella borsa di plastica che mise nello zainetto. Provò a
dirsi che non era il caso, ma non ci credeva neanche lei.
Ludlow
Shropshire
Barbara Havers sapeva di dover andare alla centrale operativa di Shrewsbury
per ascoltare il messaggio all’origine del fermo di Ian Druitt e del suo
trasferimento nella stazione di polizia di Ludlow la sera della sua morte.
Aveva letto e riletto la trascrizione nel rapporto redatto dall’IPCC – ormai la
sapeva a memoria – ma era ancora convinta che ai colleghi che avevano
condotto le indagini potesse essere sfuggito qualcosa. Poteva trattarsi di un
particolare da nulla, magari un’espressione tipica di qualcuno che Druitt
frequentava, oppure un rumore di fondo che poteva essere collegato a una
persona fino a quel momento neppure sfiorata dai sospetti.
Era perfettamente conscia del fatto che ascoltare la chiamata al 999 andava
oltre l’incarico che le aveva affidato Isabelle Ardery, ma si sentiva in dovere
di non lasciare nulla di intentato.
Shrewsbury distava una cinquantina di chilometri da Ludlow e percorrendo
la A49 era abbastanza certa di riuscire a fare un salto là e tornare indietro nel
giro di un paio d’ore senza che il sovrintendente se ne accorgesse. Chiese a
Gary Ruddock di prestarle l’auto di servizio o accompagnarla a Shrewsbury,
e lui optò per la seconda soluzione.
Avevano percorso una quindicina di chilometri quando le squillò il
cellulare. Barbara lo tirò fuori dalla borsa e controllò il display pur sapendo
già chi era. Ne ebbe conferma e non rispose. Avrebbe detto a Isabelle Ardery
che non l’aveva sentito suonare. La toilette era sempre un’ottima scusa.
Avrebbe dovuto escogitarne un’altra per giustificare il fatto che non l’aveva
richiamata, ma le sarebbe venuto in mente qualcosa prima di rivederla.
Cinque minuti dopo la suoneria partì di nuovo. Stavolta Ruddock la
guardò, vedendo che non rispondeva. «Ah, gli uomini...» bofonchiò Barbara.
Sospirò e alzò gli occhi al cielo.
Ruddock le avrebbe creduto, se trenta secondi dopo non fosse squillato
anche a lui il cellulare. «Agente ausiliario Ruddock» rispose senza guardare il
display. Seguì un momento di silenzio. Ruddock ascoltò ciò che gli stava
dicendo il suo interlocutore, poi rispose: «Sì, è qui con me. La sto portando a
Shrewsbury per...»
Barbara gemette. Ruddock rimase in ascolto ancora un po’, poi le passò il
cellulare. «Il sovrintendente» mormorò in tono di scuse.
Prima di rispondere, Barbara si chiese come avesse fatto Isabelle Ardery a
procurarsi il numero di cellulare di Ruddock. Non doveva essere stato
difficile, concluse: bastava una telefonata alla sede di West Mercia, in fondo.
Barbara parlò a raffica per non dare a Isabelle il tempo di domandarsi come
mai non avesse risposto alle chiamate sul suo cellulare. «Buongiorno. Dopo
aver visionato le riprese delle telecamere di sorveglianza, ho ritenuto che il
passo successivo per logica dovesse...»
«L’ho forse autorizzata a compiere passi di sua iniziativa?» la interruppe
Isabelle. «Mi sembra di ricordare di aver usato l’espressione ’punto e basta’ e
di non aver parlato di passi successivi. Sa come viene organizzata
un’indagine, sergente Havers? Dall’alto in basso, non viceversa.»
«Io non...»
«Chieda a Ruddock di fare inversione e tornate a Ludlow.»
«Il fatto è che...»
«Non c’è fatto che tenga» sbottò Isabelle Ardery. «Lei deve limitarsi agli
incarichi che le vengono affidati, sergente Havers. Se vuole che io la autorizzi
a compiere un passo che ritiene indispensabile – e non è affatto detto che io
lo faccia – deve parlarmene e chiedermi il permesso. È chiaro? O ha bisogno
di un ripasso su come funziona la gerarchia?»
«È chiaro» rispose Barbara sconfortata. Come aveva fatto a illudersi che i
rapporti con Isabelle Ardery stessero migliorando? Era stato un abbaglio
completo. «Mi atterrò agli ordini» disse.
«Mi fa piacere sentirglielo dire. Quando ci vediamo?»
«Siamo a una ventina di minuti da Ludlow.»
«La aspetto qui fra venticinque minuti, allora. Se ritarda anche solo di
cinque minuti, dovrà darmi spiegazioni esaurienti, capito?»
«Capito.» Barbara non poteva lasciare che finisse così, con una lavata di
capo da parte del suo superiore di fronte all’ausiliario. L’imbarazzo, la
frustrazione, l’impossibilità di averla vinta con Isabelle anche solo su un
punto la spinsero a fingere che quella telefonata riguardasse anche
qualcos’altro, oltre alla sua incapacità di attenersi agli ordini. Perciò chiese:
«Com’è andata con Finnegan Freeman? Ha scoperto qualcosa di utile?»
«Sempre le stesse cose. Ai suoi occhi, Druitt era Gesù Cristo reincarnato.
Brutto soggetto, comunque.»
«Chi? Druitt o Freeman?»
«Freeman. Provo pena per i suoi genitori.»
«Capisco» replicò Barbara. «A fra poco.»
«Ci conto, sergente» ribadì Isabelle, e chiuse la chiamata.
Ruddock lanciò un’occhiata a Barbara. «Ci sono novità?»
«E chi lo sa?» rispose Barbara. «Dobbiamo tornare indietro. Fra
venticinque minuti devo farmi trovare al suo cospetto o uno di noi due si
trasformerà in una zucca.»
Ludlow
Shorpshire
Riuscirono ad arrivare a Ludlow in ventidue minuti esatti perché Ruddock fu
così gentile da andare a velocità sostenuta, ma Castle Square era talmente
affollata, fra bancarelle, gente che faceva la spesa e turisti, che l’unico modo
per portare Barbara davanti al Griffith Hall sarebbe stato salire sul
marciapiede e attraversare la piazza fino a Dinham Street.
Ruddock riuscì a malapena ad accostare. Oltre al mercatino vero e proprio,
c’erano individui che esponevano la mercanzia direttamente su un plaid, a
volte bloccando la strada a chi voleva raggiungere le bancarelle.
«Porca miseria» imprecò l’ausiliario. Poi si rivolse a Barbara. «Ogni
quindici giorni devo farli sgomberare. Non hanno il permesso di vendere al
mercato, ma ci vengono lo stesso.»
Aprì la portiera e scese. Barbara lo imitò e riconobbe uno degli ambulanti
abusivi: era il vagabondo che aveva incontrato durante il suo primo giro a
piedi per la città insieme al suo cane. «Chi è il tipo con il pastore tedesco?»
chiese a Ruddock.
Ruddock seguì il suo sguardo. «Si chiama Harry» rispose.
«L’ho visto l’altra sera. Dorme dove capita?»
«Già» rispose Ruddock. «Spero sempre che vada a stare in un’altra città,
ma evidentemente qui si trova bene. Non le ha dato noia, vero?»
«Non ci siamo neanche parlati. Ormai fa parte dell’arredo urbano, quindi?»
«Esatto.» Ruddock annuì e si incamminò verso i venditori abusivi. Barbara
si dispiacque di aver nominato Harry perché Ruddock andò per primo da lui a
ordinargli di sgomberare. Gli si accucciò accanto e lo trattò con gentilezza,
ma Harry si dimostrò poco collaborativo e a un certo punto Ruddock fu
costretto a prendere la merce in esposizione e metterla da una parte.
Barbara si allontanò a grandi passi verso il Griffith Hall preparandosi
mentalmente all’incontro con Isabelle Ardery. Al momento di entrare, era
ormai certa di aver trovato il modo di rientrare nelle grazie del
sovrintendente.
Isabelle la stava aspettando nel dehors dell’hotel, sulla terrazza disseminata
di fioriere ricolme e affacciata su un prato che digradava verso il fiume in
lontananza. Era seduta e scriveva sul cellulare. Temendo che il messaggio
che Ardery stava digitando a tutta velocità potesse avere come oggetto il suo
tentativo di andare a Shrewsbury, Barbara decise di interromperla prima che
lo inviasse. C’era una sola persona cui Isabelle Ardery poteva sentire il
bisogno di comunicare le insubordinazioni di Barbara.
«Ah, è qui, capo?» disse, avvicinandosi, poi prese una sedia e si sedette al
tavolo con lei. «Mi scusi, ha perfettamente ragione. A volte mi lascio
trascinare. Non succederà più.»
«No, non succederà più perché per noi è finita qui» replicò Isabelle.
Barbara notò l’uso del plurale e cercò di consolarsi con quello. «C’è un
tale, però, con cui varrebbe la pena di parlare, sempre che lei mi autorizzi»
disse. «L’ho visto in giro, so come si chiama e non compare nei rapporti della
commissione IPCC.»
Isabelle posò il cellulare sul tavolo e Barbara si concesse un nanosecondo
di sollievo nel constatare che il messaggio non era ancora decollato alla volta
di Londra e, con quasi assoluta certezza, dell’ufficio del vicecommissario
Hillier. Il suo obiettivo era distrarre il sovrintendente in maniera che non
partisse proprio.
«E chi sarebbe questo ’tale’?» chiese Isabelle.
«Si chiama Harry, ma non so il cognome. Dorme in giro per la città e io ho
il sospetto che abbia informazioni sulla presunta pedofilia di Ian Druitt.
Potrebbe aver visto qualcosa.»
«Mi sta dicendo che questo Harry potrebbe aver assistito a molestie
perpetrate da Ian Druitt su minori? E dove? Non può pretendere che io ci
creda, sergente. Da quanto emerso finora, Ian Druitt era tutt’altro che fesso.»
«Questo Harry, però, potrebbe aver visto Druitt caricare un ragazzino in
macchina, o accompagnarlo a piedi da qualche parte...»
«Potrebbe aver visto anche Babbo Natale caricare un elfo sulla slitta.
Abbiamo congetture che puntano in entrambe le direzioni, riguardo a Ian
Druitt, sia verso la colpevolezza sia verso l’innocenza. E comunque non
siamo venute qui per questo.»
«Con tutto il rispetto, sovrintendente, nella direzione della colpevolezza
abbiamo un unico elemento, e cioè la denuncia anonima» ribatté Barbara in
tono pacato. «Tutti gli altri dichiarano che no, impossibile, non c’è manco da
parlarne.»
In quel momento Peace on Earth varcò la portafinestra e si avvicinò per
chiedere a Barbara se desiderasse qualcosa. L’unica cosa che Barbara
desiderava in quel momento, però, era un grimaldello per aprire la testa di
Isabelle Ardery e farle capire il proprio punto di vista. Siccome Isabelle non
ordinò nulla, a Barbara non parve il caso di farsi portare qualcuno di quei
croissant, pasticcini, torte e paste che certamente languivano in cucina e che
lei avrebbe volentieri spazzolato. Optò per la soluzione più saggia e rispose
che no, grazie, stava bene così.
Isabelle aspettò che il giovane se ne fosse andato prima di parlare. «Glielo
ripeto per l’ultima volta: non siamo qui per accertare se Ian Druitt fosse o
meno pedofilo. Lei però si ostina a indirizzare le indagini in quella direzione,
invece di concentrarsi sul suicidio e la relativa inchiesta. Eppure è proprio
questo che dobbiamo accertare: come è morto Ian Druitt e come ha lavorato
l’IPCC. Possiamo chiederci per quale ragione il capo della centrale operativa,
sulla base di una telefonata anonima, abbia preso la folle decisione di far
arrestare subito il sospetto, anziché aspettare che si liberassero gli agenti
preposti a quel tipo di incarico. Ma il punto è che quella decisione è stata
presa e si è trasformata in tragedia, perché l’accusato si è tolto la vita
piuttosto che vedere infangati il proprio nome, la propria reputazione, la
propria esistenza.»
«Sempre che si sia suicidato veramente» puntualizzò Barbara. «Perché la
sua morte può sembrare un suicidio, ma anche un omicidio: deve ammetterlo,
sovrintendente Ardery. La denuncia di pedofilia sporta telefonicamente
potrebbe essere un espediente per condurlo all’interno della stazione di
polizia.»
Isabelle infilò lo smartphone nella borsa. Sembrava voler prendere tempo
per ritrovare la calma. Dopo un po’ riprese. «Non stiamo indagando su
questo, sergente. Quante volte glielo devo ripetere? Comunque, per
tranquillizzarla riguardo ai suoi sospetti, la informo che ho interrogato
Finnegan Freeman ottenendo poco o nulla, a parte accorate proteste di
innocenza sul conto di Ian Druitt. Lo avevamo previsto, ammetterà. Ho avuto
anche la fortuna – se così vogliamo chiamarla – di scambiare due chiacchiere
con la ragazza che abita con lui, la quale ha citato un terzo coinquilino, un
certo Brutus, cercando di convincermi che è all’oscuro di tutto.»
«Brutus?»
«Il vero nome è Bruce Castle. Ma il punto non è questo. Il punto è che le
indagini potrebbero andare avanti all’infinito e noi non abbiamo né il tempo
né le risorse per approfondire più di tanto. È un lusso che non ci possiamo
permettere.»
«Lo capisco. Sul serio. Tuttavia penso...»
«Per l’amor di Dio, sergente! Lei non deve ’pensare’. Lei deve analizzare i
fatti: cos’è successo quella sera, che cos’ha fatto l’ispettore Pajer e come ha
agito la commissione una volta che è stata investita della questione.»
Barbara si accorse che Isabelle stava per alzarsi e che la doveva bloccare a
tutti i costi, perché non era finita lì, c’era ancora un dettaglio da chiarire e,
benché fosse un dettaglio minimo, si sa che in un’indagine i dettagli sono
importanti quando non risolutivi. «Sono pienamente d’accordo con lei, capo»
disse. «Ho letto e riletto i rapporti ed è proprio per questo che, visionando i
filmati della telecamera di sorveglianza con Ruddock, mi sono accorta che
l’IPCC ha guardato le riprese della sera della telefonata e quelle della sera
dell’omicidio, ma non quelle di sei giorni prima della telefonata. Infatti il
rapporto non ne parla. Le riprese effettuate sei giorni prima della telefonata,
però, mostrano che la telecamera è stata spostata in maniera tale da
permettere di telefonare senza essere ripresi. La mia tesi è che, se si sono
lasciati sfuggire questo, possono essersi lasciati sfuggire chissà cos’altro. Per
esempio qualche indizio nel corso della telefonata, motivo per cui stavo
andando a Shrewsbury per riascoltarla.»
«Ma loro l’hanno ascoltata? Ci hanno trovato qualcosa di strano? La
risposta è sì alla prima domanda e no alla seconda. Che cosa spera di trovare
che non sia già nella trascrizione? Un coro greco in sottofondo grazie al quale
identificare l’autore della telefonata? E identificarlo a cosa ci servirebbe,
ammesso che ci riuscissimo?»
«Non lo so, lo ammetto. Ma l’altra sera ho visto Ruddock nel parcheggio
che ci dava dentro con...»
«La smetta! Usi un linguaggio adatto a un esponente della polizia, per
favore.»
Barbara cambiò subito registro. «Ho visto Ruddock con una ragazza – che
fra parentesi nega di avere – a bordo dell’automobile di servizio. Come la
sera del nostro arrivo, peraltro, perché quella sera ho avuto l’impressione che
un agente stesse schiacciando un pisolino in macchina, ma nel frattempo ho
capito che invece doveva essere Ruddock con la ragazza, perché il tipo
disteso con lo schienale reclinato all’indietro aveva l’aria troppo beata e
quindi probabilmente lei gli stava facendo un bel lavoretto...» Non appena
vide l’espressione scandalizzata di Ardery, Barbara si corresse: «Gli stava
praticando una fellatio».
«Che cosa significa? Che mentre l’agente Ruddock godeva delle
prestazioni sessuali di una giovane donna nel parcheggio quella sera,
qualcuno è entrato nella stazione di polizia, ha ucciso Druitt ed è uscito senza
che nessuno lo notasse e – l’abbiamo già detto ma giova ripeterlo – senza
lasciare traccia alcuna del proprio passaggio? Non ha nulla che lo indichi,
lungi dal provarlo, sergente. Druitt si è ucciso per motivi che non conosciamo
e l’autopsia lo conferma: non c’è altro da dire. Potremmo andare avanti a
dibattere se era o meno innocente per i prossimi dieci anni, ma la verità è che
le persone si suicidano per ragioni cui non sempre riusciamo a risalire: una
grave depressione che mascheravano bene, una crisi spirituale, un crollo
psicologico, un’improvvisa diagnosi infausta, un cambiamento di vita
insopportabile, instabilità mentale... In questi casi amici e parenti si rifiutano
di credere al suicidio perché se lo accettassero dovrebbero farsi un esame di
coscienza e, mi creda, è difficile per chiunque. Certi preferiscono morire,
piuttosto che guardarsi dentro e fare i conti con...»
Dopo un istante di silenzio, Barbara la incoraggiò a concludere. «Con
cosa?»
Isabelle Ardery si alzò in piedi e prese la borsa. «Niente» rispose.
«Abbiamo portato a termine il nostro incarico. Prepari la valigia: domattina
partiamo.»
Ludlow
Shropshire
«Barbara.» Il tono di Lynley al telefono era estremamente posato. Era stato a
sentire tutto il suo racconto senza interromperla e Barbara capì che adesso
aveva qualcosa di cauto e ponderato da dire. Si irritò, come al solito. Avrebbe
voluto che le dicesse: «Oddio! Sarà meglio che me ne occupi
immediatamente». Pia illusione. Lynley non si esprimeva così. Tant’è che le
chiese: «Non le devo ricordare il motivo per cui è lì, vero, Barbara?»
«No, lo so benissimo. E comunque ci pensa Sua Altezza a ricordarmelo
tutte le volte che può. Il problema è che...»
«Se per risolvere questo problema, qualunque esso sia, deve prendere
iniziative personali, Barbara, ci pensi bene» la interruppe Lynley mantenendo
il suo tono paziente. «Perché a me sembra che facendosi accompagnare a
Shrewsbury da...»
«Alla centrale operativa di Shrewsbury c’è...»
«Facendosi accompagnare a Shrewsbury per poter ascoltare la
registrazione di una telefonata di cui aveva già la trascrizione, lo ha già
fatto.»
«Cosa?»
«Ha preso un’iniziativa personale. Ne abbiamo già parlato, Barbara. Se
continua così, sa come andrà a finire.»
Barbara sentì voci distanti in sottofondo, lo squillo di un telefono, la voce
di Dorothea Harriman che parlava dalla porta dell’ufficio di Isabelle Ardery,
che in quel periodo era occupato da Lynley, facente funzioni del
sovrintendente. Cominciò: «Ispettore investigativo Lynl...» Ma Lynley la
bloccò subito: «Mi dia cinque minuti, per cortesia».
Poi si rivolse a Barbara. «Non dobbiamo tornarci su un’altra volta, no?»
In realtà sì, pensò Barbara. «Il sovrintendente si fissa sul mandato che
abbiamo ricevuto e non vede ciò che ha sotto il naso» disse invece.
«E cioè? Glielo chiedo perché, stando a ciò che mi ha riferito, sotto il naso
del sovrintendente Ardery c’è l’incarico affidatole da Hillier. A meno che non
sia intervenuta qualche novità nel frattempo, deve attenersi agli ordini. È
cambiato qualcosa, Barbara? Cos’è successo per indurla a farmi questa
telefonata?»
«Non le so rispondere» ammise Barbara. «Qualcosa potrebbe esserci stato,
però. Vede, è stata spostata una telecamera di sorveglianza e nel rapporto
dell’IPCC non c’è una sola parola al riguardo. Allora io mi domando: non è
che il rapporto omette anche altro?»
«Anche se fosse, Barbara, ritengo improbabile che l’omissione riguardi
quella telefonata. Credo proprio che la commissione abbia studiato
attentamente la registrazione e abbia interrogato tutte le persone coinvolte.
Ne sono quasi certo e penso che lei abbia ricevuto tutta la documentazione
relativa al caso.»
«Ho avuto modo di vedere cose che loro non hanno visto, ispettore, perché
sono successe quando loro avevano già scritto il rapporto.»
«Barbara.» Lynley stava perdendo la pazienza: aveva del lavoro in
sospeso, impegni, appuntamenti, ed era ora che Barbara imparasse a
sbrigarsela da sola senza doverlo chiamare per confidargli i suoi dubbi.
«Ispettore» rispose.
«Non è stata mandata nello Shropshire per condurre nuove indagini o per
procedere a una nuova valutazione e interpretazione dei fatti. Lei questo lo sa,
e se Isabelle le dice di...»
«Isabelle, Isabelle» gli fece il verso Barbara, pentendosene
immediatamente. «Scusi.» Lynley non replicò e quindi Barbara passò a
esternargli il vero motivo per cui l’aveva chiamato. «Beve, ispettore.»
Silenzio. Barbara non fiatò, sapendo che Lynley aveva bisogno di un
momento per assorbire la mazzata. «In che senso ’beve’?» le chiese dopo un
po’.
«Come ’in che senso’? Nell’unico senso possibile. Ha un problema e beve.
Mi dispiace dirglielo, ispettore, ma è la pura e semplice verità.»
«La verità è raramente pura, e mai semplice.»
«Come dice?»
«Non importa. Il sovrintendente può concedersi un drink, quando non è in
servizio.»
«Mi creda, ispettore: non stiamo parlando di un drink, singolare. Quella ci
dà dentro, penso abbia anche delle riserve in camera, e questo le impedisce di
vedere le cose con lucidità.»
«Le sue sono insinuazioni gravi, sergente.»
«Le mie non sono insinuazioni: sono dati di fatto.»
«Le ha fatto richieste irragionevoli? Ha trascurato di leggere la
documentazione che vi è stata fornita? Ha assegnato a lei il grosso del lavoro
per ciondolare in giro?»
«No» rispose Barbara. «Allo stesso tempo, però...»
«Cos’è che la preoccupa, allora? Perché la mia impressione è che le roda
non riuscire a piegare Isabelle alle sue pretese.»
«A me preme semplicemente...»
«Quel che preme a lei è irrilevante, Barbara. Non capisce che sta facendo
esattamente le stesse cose che l’hanno messa nella posizione di estrema
precarietà in cui si trova?»
«Lo so. È per questo che le ho telefonato.»
«Per sentirsi dire cosa, Barbara? Sa che ho le mani legate.»
«Però...»
«Però cosa?»
Però lei c’è andato a letto, avrebbe voluto dire. E quindi un certo
ascendente su Isabelle ce l’ha. Interceda per me, la supplico! Ma non poteva
dirlo, perché c’era un limite ai limiti che uno poteva superare e, oltrepassati
certi, non si torna indietro. Perciò rimase zitta.
Lynley continuò, la ragionevolezza fatta persona. «Non ci sono né ma né
però: ci sono soltanto compiti da portare a termine e, a quanto lei mi ha detto
finora, Barbara, mi sembra che Isabelle – il sovrintendente Ardery – stia
svolgendo correttamente il lavoro che vi è stato affidato, ossia verificare che
il rapporto della commissione IPCC sia completo e obiettivo, in maniera tale
da poter riferire a Hillier, il quale a sua volta riferirà all’onorevole che ha
voluto il supplemento di inchiesta, che spiegherà al padre del morto che è
stato fatto tutto come andava fatto e gli porgerà le condoglianze da parte di
tutti noi.»
Barbara stette zitta perché non sapeva che altro dire per perorare la propria
causa.
«Mi sente, Barbara?» chiese Lynley.
«Purtroppo sì.»
«Mi ascolti: deve solo cercare di non sgarrare. Non mi sembra così
difficile.»
«È che...» Si rese conto da sola del proprio tono sconfitto ma, pur
riconoscendo che era sbagliato, non riuscì a rimediare. «È che beve davvero
troppo, ispettore.»
«Lo sa per certo o è una sua illazione?»
«Ho questa impressione» rispose Barbara.
«Che potrebbe essere influenzata dal fatto che lei vorrebbe muoversi in un
certo modo e Isabelle glielo impedisce. O sbaglio?» Siccome Barbara non
rispose, Lynley la chiamò: «Barbara?» Lei non poté non notare la gentilezza
nella sua voce, quel tratto distintivo che tradiva il suo sangue blu.
«Forse» rispose Barbara.
«Infatti.»
«Forse» ammise Barbara. «Solo che... Cosa si fa?»
«Lo sa, Barbara. Si ubbidisce agli ordini. Sono certo che ci riuscirà. Non vi
resta molto tempo da passare insieme.»
«Forse» ripeté Barbara per la terza volta. E Lynley le riversò addosso tutta
la sua irritante compassione. «Non deve per forza essere d’accordo, Barbara.
Non le chiedo tanto. Si rassegni e basta» disse.
«Va bene, ispettore.»
Ma non appena ebbe chiuso la comunicazione, si lasciò cadere sul lettino
monastico di quella cella monastica in cui l’aveva relegata Isabelle. Aveva
sperato che Lynley intercedesse per lei, prendesse le sue parti, facesse da
tramite fra lei e Isabelle, facesse qualcosa, per la miseria. Era delusa. Come
minimo, Lynley avrebbe dovuto telefonare al sovrintendente e suggerirle di
lasciarle un po’ di spazio di manovra. E poi voleva disperatamente che lui
capisse che stavolta non era lei a combinare guai, ma il sovrintendente
Ardery. Purtroppo Lynley era stato irremovibile e adesso restava un’unica
cosa da fare.
Tirò su il telefono e si fece passare la camera di Isabelle. Le disse che
avrebbe saltato la cena perché era stanca morta.
«Va bene» fu la risposta di Isabelle. «Ci vediamo domani mattina con i
bagagli pronti.»
Ludlow
Shropshire
Isabelle aveva posato la valigia sul letto, ma non aveva ancora cominciato a
riempirla. Stava aspettando il ghiaccio che aveva chiesto alla reception e non
intendeva muovere un dito prima di aver bevuto il bicchiere della staffa.
Aveva specificato che gliene portassero un secchiello e non tre o quattro
miseri cubetti in una ciotola. Senza dubbio, aveva fatto notare
all’onnipresente Peace on Earth, l’hotel disponeva di un secchiello per servire
lo champagne, vero? Bene, che portasse quello.
Aveva già bevuto un bicchiere della staffa nel bar dell’albergo, ma siccome
non doveva andare da nessuna parte, poteva berne un altro. Aveva il controllo
della situazione, non sentiva gli effetti del vino bevuto a cena e del brandy
con cui aveva ammazzato il caffè. Un vodka tonic non le avrebbe fatto alcun
male.
Quando Peace si presentò con il secchiello in mano, Isabelle lo ringraziò
sbrigativamente e si mise all’opera. Sì, un vodka tonic era proprio quello che
ci voleva, pensò. Si sarebbe andato a depositare sull’altra vodka, sul vino e
sul brandy, che erano già ben avviati verso lo smaltimento, assorbiti dal cibo
che aveva mangiato a cena.
Si preparò il cocktail e se lo portò sul divano. Si accomodò e cominciò a
berlo riflettendo sull’indagine come la vedeva lei e come si incaponiva a
vederla Barbara Havers.
Le perplessità del sergente Havers le parevano prive di fondamento o
irrilevanti. Perché non era stato interpellato il Crown Prosecution Service?
Perché la commissione aveva stabilito che non c’era alcun reato e, in assenza
di reato, la magistratura non si muove. Perché Ruddock non era rimasto nella
stessa stanza del diacono? Perché nessuno gli aveva detto di farlo e non
sapeva che fosse stato accusato di qualcosa. Gli era stato semplicemente
comunicato che gli agenti di pattuglia sarebbero andati a prenderlo per
trasferirlo a Shrewsbury e l’IPCC l’aveva confermato. Quanto allo
spostamento della videocamera di sorveglianza prima della telefonata... se
uno voleva restare anonimo non poteva farsi riprendere da una videocamera,
no?
Si erano spinte molto oltre rispetto a quello che Hillier aveva chiesto loro
di fare nello Shropshire. Avevano rintracciato la Lomax, che compariva
sull’agenda del diacono, e avevano parlato con Finnegan Freeman, il primo
della lista di nomi del circolo dell’infanzia. Avevano incontrato il reverendo
Spencer e avuto un colloquio con Flora Bevans. Erano persino andate a
parlare con l’anatomopatologa, nonostante avessero il referto dell’autopsia.
Barbara continuava a non essere soddisfatta, ma non era per riaprire le
indagini che erano state mandate nello Shropshire.
Finì il bicchiere e si alzò. Per un istante le girò la testa. Si era tirata su
troppo in fretta, pensò. E si ripromise di starci più attenta.
Stava per mettersi a fare la valigia quando le squillò il telefono. Lo andò a
prendere, guardò il display e le venne il nervoso. Era stufa marcia di avere a
che fare con Bob, con la splendida vita che lo aspettava in Nuova Zelanda e
con la sua volontà di portare i gemelli all’altro capo del pianeta. Accettò la
chiamata. «Cos’altro vuoi? Un chilo di carne?» Biascicava leggermente.
Drizzò la schiena, andò ad aprire la finestra e sentì la voce di Sandra che
diceva: «Ah. Ancora vodka o sei passata al whisky?»
Isabelle si affacciò per prendere una boccata d’aria fresca. «Cosa vuoi?»
chiese.
«Domanda significativa.»
«Cosa vuoi, Sandra?» ripeté spazientita.
«Mi aspettavo che, vedendo una chiamata da questo numero, tu guardassi
l’ora e ti preoccupassi che uno dei bambini si fosse fatto male. O che fosse
successo qualcosa a Bob, quando hai sentito che ero io.»
«Ah, ti aspettavi questo? Be’, evidentemente io non ho l’aureola come te.»
Sulla parola aureola si impappinò.
«Non si tratta di avere l’aureola, Isabelle, ma un minimo di istinto
materno.»
Quanto era stronza quella donna! «Non capisco come tu faccia a dire una
cosa del genere sapendo benissimo che tuo marito...» Isabelle lo disse con
supremo disprezzo, non riuscì a farne a meno. «... mi ha impedito
scientemente di esercitare il mio istinto materno.»
«Pensi che ruoti tutto intorno a te, vero?» ribatté Sandra. «Sai benissimo
che è stato il tribunale a decidere fin dall’inizio.»
«Sì, certo. Ovvio.» Isabelle andò verso il letto. Sul comodino c’erano la
vodka, l’acqua tonica e il ghiaccio. Aveva la lingua asciutta. Non si sarebbe
fatta mettere i piedi in testa. «Che cosa vuoi, Sandra? Dimmelo e finiscila»
disse.
«Ti rendi conto di come parli? Hai bevuto?» ribatté Sandra. «Già, perché te
lo chiedo? Sei sempre attaccata alla bottiglia.»
«Visto che a quanto pare non senti quello che dico, butto giù.»
«Non vincerai mai, lo sai benissimo» disse Sandra cambiando tattica. «Ti
chiedo di lasciar perdere. Bob si sta rovinando la salute per questa storia. E
anche i bambini soffrono. Fallo per loro, se non altro.»
«Non ti preoccupa nemmeno un po’ che Bob li voglia allontanare in
maniera definitiva dalla loro stessa madre? Certo, mi concede di passare
moltissimo tempo con loro, a patto che sia in Nuova Zelanda!»
«Mi fa piacere che tu abbia usato il verbo concedere. Ti concede di tenerli
con te quando verrai a trovarli in Nuova Zelanda, di trascorrere le vacanze
con loro in Nuova Zelanda. Cosa vuoi di più? Quando finirà questo tira-emolla?»
«Voglio che i miei figli restino a portata di madre. Finirà quando l’avrò
ottenuto.»
«Non puoi illuderti che un giudice ti dia ragione...»
«Lo hai già detto.»
«... consentendoti di bloccare la carriera di Bob.»
«Io non blocco proprio niente. Può fare tutta la carriera che vuole in
qualsiasi parte del mondo e pure su Marte, se vuole. Basta che non si porti
appresso i miei figli.»
«Che sono anche suoi» puntualizzò Sandra. «Anzi, soprattutto suoi, visto
che li ha sempre tenuti lui da quando vi siete separati, per il motivo che tutti
sappiamo. Ma in tribunale verrà fuori tutto: l’alcol, gli abusi...»
«Io non ho mai abus...»
«Non mettevi la vodka nel biberon per farli dormire?»
«Non mi minacciare, Sandra.»
Sandra fece uno dei suoi sospiri da povera saggia che cerca di far ragionare
una pazza furiosa. «Non ti sto minacciando. Ti sto solo dicendo che queste
cose in tribunale verranno fuori.»
«Pazienza. Sarà la sua parola contro la mia.»
«Contro la parola di un’alcolista. Isabelle, riflettici. Pensa bene se ti
conviene o no. Perché le cose che verranno fuori in tribunale non ti
metteranno in buona luce, per quanto in gamba sia il tuo avvocato. A me
sembra che stiamo sprecando tutti un sacco di soldi in carte bollate.»
«Per me non è un problema. Passami Bob.»
«È con i bambini. A quest’ora vanno a letto, immagino che tu lo sappia.
Sta tenendo loro compagnia.»
«Hanno nove anni. Possono anche addormentarsi da soli.»
«Be’, si vede che non li conosci. Rifletti su quello che ti ho detto, per
favore. Pensa alle parcelle che pagherai al tuo avvocato per i prossimi dieci
anni, o alle conseguenze per la tua carriera delle cose che emergeranno in
tribunale. Secondo me, conviene che ti concentri sul tuo lavoro e lasci
perdere il resto. In fondo per te è sempre stato più importante di James e
Laurence, no?»
Quando la sentì nominare i suoi figli, chiuse la comunicazione in preda
all’ira funesta.
Subito dopo provò a richiamare, ma le rispose la segreteria. Non lasciò
messaggi e riprovò. Di nuovo la segreteria. Tentò una terza volta con lo
stesso risultato. Prese la vodka e se ne versò un bicchiere.
Il cellulare squillò. Isabelle lo afferrò e rispose urlando: «Stammi bene a
sentire, lurido verme bastardo. Se pensi di poter...»
«Sovrintendente Ardery?»
La stanza cominciò a ondeggiare. Aveva riconosciuto la voce: era il
vicecommissario Hillier.
Si lasciò cadere sul letto e balbettò. «Sh-cusi. Credevo... P-pensavo...»
Riprenditi!, si disse. «Stavo litigando con il mio ex marito e sua moglie. Mi
sh-cusi. P-pensavo che fossero loro.»
Silenzio. Troppo lungo. Isabelle pensò che Hillier avesse riattaccato, poi
però sentì che diceva: «Mi ha telefonato Quentin Walker».
Isabelle cercò di visualizzare una faccia che corrispondesse a quel nome,
ma non le venne in mente nessuno. «Mi scusi?»
«Il deputato di Birmingham. Clive Druitt lo ha di nuovo contattato. Vuole
che la magistratura apra un’inchiesta.»
Isabelle stava per dire che anche il sergente Havers era di quell’idea, ma
preferì evitare di gettare benzina sul fuoco di quella delicata conversazione.
«N-non ci sono gli estremi. N-non abbiamo trovato illeciti. Inadempienza,
forse, ma all’agente ausiliario non erano stati comunicati i motivi per cui il
vicario... o il diacono... mi scusi. L’agente ausiliario non conosceva il motivo
del fermo, di cosa era accusato» disse.
«Dobbiamo dargli qualcosa di più. A Walker, intendo. E a Druitt. Basta
una piccola cosa. Una cosa qualsiasi.»
Isabelle cercò di concentrarsi, ma sentiva un dolore sempre più intenso
dietro gli occhi e aveva una gran voglia di dormire, lasciarsi scivolare
nell’oblio, abbandonarsi ai sogni indotti dall’alcol. Si premette le dita sugli
occhi.
«Mi sente, sovrintendente?»
Si era assopita. Aveva sentito tutti i muscoli rilassarsi piacevolmente e la
mente le si era svuotata di colpo. La pace era a portata di mano. Con un
piccolo sforzo, l’avrebbe trovata.
Si riscosse. «Sh-ì. Sì, sono qui. Stavo pensando. Abbiamo l’agenda del
morto, che la commissione non ha potuto consultare. Contiene una serie di
appuntamenti che potremmo controllare uno per uno, ma ci vorrà tempo e
non so a cosa potrebbe portare. Finora tutto conferma il suicidio. Il sergente
Havers ha scoperto che una delle videocamere di sorveglianza è stata spostata
prima della denuncia anonima, nient’altro. L’IPCC non se n’è accorta, ma è
l’unico particolare che si è lasciata sfuggire.»
«Mmm. Sì, capisco» disse Hillier. «Può andare. Rediga un rapporto
circostanziato al suo ritorno a Londra. Lo presenteremo a Walker perché lo
dia a Druitt.»
«Senz’altro.» Isabelle fece il saluto militare e si vide riflessa nello specchio
della camera d’albergo. Doveva essersi messa le mani nei capelli durante la
telefonata con Sandra perché erano scompigliati e sporchi. Si chiese quando
aveva fatto la doccia l’ultima volta. Non se lo ricordava più.
«A proposito del sergente Havers» disse Hillier. «Novità?»
Isabelle si alzò e si avvicinò allo specchio per guardarsi meglio. Si osservò
le zampe di gallina intorno agli occhi. «No. A un certo punto si è messa in
testa di andare a Shrewsbury a sentire la registrazione della telefonata
anonima, ma l’ho rimessa in riga, visto che le avevo semplicemente detto di
visionare i filmati delle videocamere.»
«Era un ordine?» le chiese severo.
«Purtroppo no. No, non era un ordine.»
Silenzio. Isabelle immaginò che Hillier stesse scuotendo la testa deluso.
Era vero, però, che Barbara si stava comportando in maniera ineccepibile, a
parte il cedimento su Shrewsbury.
«Non riusciamo proprio a cavare un ragno dal buco, eh?» disse Hillier.
«È furba. Scommetto che parla ogni giorno con Lynley per farsi
consigliare.»
«Eh, già. Lynley» disse Hillier con il tono di chi avrebbe spedito volentieri
a Berwick-upon-Tweed pure lui. «Proceda, sovrintendente. Ci vediamo
domani pomeriggio.»
Ludlow
Shropshire
Barbara aspettò a lungo prima di uscire dall’hotel. Aveva la borsa e le
sigarette e nessuno avrebbe potuto dirle niente, vedendola allontanarsi per
fumare o per andare a mangiare un boccone, dato che non era scesa a cena.
Aveva pensato di raggiungere a piedi Lower Galdeford Street, per
controllare se l’agente ausiliario Ruddock si fosse appartato di nuovo nel
parcheggio della stazione di polizia di Townsend Close con la sua non meglio
identificata accompagnatrice. Fino a quel momento Barbara non aveva fatto
alcun progresso nelle sue discussioni con Isabelle Ardery a proposito di
Ruddock, dell’auto di servizio e della sua accompagnatrice, non era riuscita a
convincerla che l’abbandono del posto di servizio da parte di Ruddock poteva
aver avuto un ruolo nella morte di Ian Druitt. Era noto che l’agente aveva
lasciato solo Ian Druitt: lo aveva ammesso lui stesso, spiegando che cosa era
andato a fare. In realtà, però, si era infrattato sul sedile posteriore dell’auto di
servizio: era molto diverso, rispetto a spostarsi nell’ufficio accanto per
telefonare a una serie di pub. Mentre Ruddock era impegnato con la sua
amichetta, qualcuno si sarebbe potuto introdurre nella stazione di polizia
passando dal parcheggio per poi uccidere il diacono, inscenare il suicidio e
dileguarsi nel nulla.
Certo, secondo la dottoressa Nancy Scannell l’esame autoptico escludeva
la messinscena, ma Barbara non riusciva a togliersi dalla testa la foto
dell’anatomopatologa in mezzo a un gruppo di appassionati di alianti che
aveva visto in casa di Rabiah Lomax. Non poteva essere irrilevante. Barbara
se lo sentiva.
Per questo continuava a cercare la verità nascosta sotto la versione
universalmente riconosciuta di ciò che era accaduto la sera della morte di Ian
Druitt. E la sua ricerca la stava portando ad attraversare Castle Square e a
percorrere il vicoletto che conduceva a Quality Square, dove aveva
intenzione di entrare allo Hart and Hind e ordinare mezza pinta di birra e un
sacchetto di patatine o uno spuntino caldo, se possibile. Nel pub, avrebbe
attaccato discorso con qualcuno che non fosse il proprietario, per vedere se
trovava conferma a ciò che Ruddock aveva dichiarato, ovvero che la sera in
cui era morto Ian Druitt in città era in corso un’abbuffata alcolica che aveva
richiesto il suo intervento. Se avesse ottenuto le conferme che desiderava,
non era sicura di cosa ne avrebbe fatto, ma riteneva giusto provarci
comunque.
Ruddock era un bravo ragazzo. Barbara non voleva che perdesse il lavoro a
causa della storia di Druitt, ma anche i bravi ragazzi ogni tanto sbagliano – si
considerava lei stessa una brava persona e di errori ne aveva commessi un
sacco – e Ruddock non era stato del tutto trasparente sull’esatta natura del
proprio sbaglio.
Entrò nel pub e andò diritta al bancone. Il locale era praticamente vuoto.
A servire erano due uomini, uno più vecchio e uno più giovane. Barbara
fece la sua ordinazione al più vecchio. «Una mezza di Joule’s Pale Ale» gli
disse e, guardando la lavagna con il menu, chiese se c’erano ancora patate al
forno ripiene. Il barista le spiegò che le stavano tenendo in caldo da
mezzogiorno, quindi a quell’ora non sarebbero state il massimo, ma Barbara
rispose che non importava e chiese ragguagli sui possibili ripieni. Il barista
disse che in cucina avevano scatolette di vario tipo, ma che lui le consigliava
burro e mais. «Va bene tutto. Non sono una gourmet.» Lui le rivolse
un’occhiata come a dire che l’aveva capito.
Le servì la mezza pinta e scomparve nel retro dove con ogni probabilità si
trovava la cucina. Un istante dopo dalla scala di servizio scesero due
adolescenti, un ragazzo e una ragazza. Il ragazzo consegnò una chiave con un
enorme portachiavi e due banconote da venti sterline al barista più giovane,
che mise i soldi in un contenitore dietro la cassa e ripose la chiave sotto il
bancone. Interessante, pensò Barbara.
Il barista più vecchio tornò con la patata ripiena e le posate. «Evadete
sistematicamente il fisco o l’affitto delle stanze in nero è un piccolo extra una
volta ogni tanto?» gli disse Barbara.
«Come dice, scusi?»
«Ho appena visto due fanciulli troppo giovani per disporre di un luogo in
cui appartarsi consegnare al suo collega una chiave e due biglietti da venti.»
«Ah.» Le fece un sorriso lupesco. «Offro un po’ di privacy a chi ne ha
bisogno.»
«Su base oraria, presumo.»
«Cosa non si fa per guadagnarsi il pane.» La squadrò con più attenzione.
«Lei ha la vista lunga, eh?»
«Per vedere quei due non occorreva avere un occhio di lince.»
L’uomo rise brevemente. «Tipico» osservò. Spillò una pinta per una donna
di una certa età con una cofana di capelli corvini che la faceva sembrare una
superstite degli anni Sessanta. Il barista la salutò. «Georgie continua a darti il
tormento, Doreen?» le chiese, poi le passò il bicchiere facendolo scivolare sul
bancone.
«Sono qui, no?» replicò lei.
«Caccialo di casa e fa’ di me quello che vuoi.»
La donna scoppiò in una risata cavallina mostrando denti così storti da far
venire le palpitazioni a un ortodontista. «Se lo dici tu, Jack» rispose. Prese il
bicchiere e tornò al tavolo.
Jack pescò da sotto il bancone uno straccio umido e pulì gli aloni lasciati
dagli avventori che non avevano ancora scoperto l’utilità dei sottobicchieri
sparpagliati qua e là. «Non ci conosciamo, vero?» disse a Barbara.
«Conosce tutti quelli che vengono a bere qui?»
«Più o meno» rispose. «Fa bene agli affari.» Tese la mano e si presentò
«Jack Korhonen.»
«Barbara Havers» si presentò lei. E cominciò a mangiare. La patata farcita
era calda, perlomeno, e la cucina era stata generosa con il burro. Il mais era in
scatola, ma una volta che ebbe aggiunto sale, pepe, brown sauce e un pizzico
di mostarda, andò giù che era un piacere. «Ho chiesto in giro e mi hanno
detto tutti che questo era il posto ideale» disse.
«Per la location, principalmente. Siamo a due passi dal college. Questo
attira più clienti della lap dance.»
«Non ce ne sono molti stasera, però.»
«Siamo a metà settimana. Ed è quasi orario di chiusura.»
Il barista più giovane stava pulendo i tavoli e raccogliendo i bicchieri. Ne
portò una pila a Jack. «Di sopra non c’è più nessuno» disse alzando gli occhi
verso le stanze al primo piano. «Centoventi sterline. Serata fiacca.»
«Sarà ora di cambiare le lenzuola» replicò Jack. Risero di gusto. Poi Jack
si voltò verso Barbara. «Non mi ha detto come mai è in città. Non penso sia
qui in vacanza, a meno che non passi le ferie da sola.»
Che Barbara passasse le ferie da sola era vero, quando trovava il tempo di
farle. «Sono appassionata di storia» rispose, visto che Ludlow sembrava
brulicare di storia.
«Ah, be’. Allora è venuta nel posto giusto» fece Jack Korhonen. «Quale, in
particolare?»
«Come dice?» chiese Barbara.
«Che tipo di storia: universale, inglese, dei celti, degli angli, dei sassoni?»
«Ah» replicò Barbara. «Dei re. I Plantageneti, soprattutto.»
«Grandissimi attaccabrighe» sentenziò lui con un cenno del capo.
«Sì, per le guerre erano portati, non c’è che dire.»
«Su quali si concentra, in particolare?»
«Guerre?»
«No, Plantageneti.»
La domanda la mise in grave difficoltà. Era convinta di riuscire a farsene
venire in mente uno, invece... Poteva azzardare un Edoardo, visto che la
storia inglese era costellata di Edoardi, ma se poi Korhonen le avesse chiesto
quale, non sarebbe stata in grado di rispondere. Non tutti gli Edoardi erano
Plantageneti, no? Edoardo VIII, per esempio, quello che aveva abdicato per
amore, mica era un Plantageneto, no? Cos’era, un Windsor? Si chiamavano
già Windsor a quei tempi? A parte il fatto che non era manco sicura che fosse
esistito un Edoardo VIII: forse si confondeva con Enrico VIII, che non era
sicuramente un Plantageneto. Gliel’aveva detto Lynley, laureato in storia a
Oxford con il massimo dei voti. Ma forse invece Lynley si riferiva a Enrico
VII. Perché i reali non si sforzavano di trovare nomi un po’ diversi per
facilitare le cose ai poveri studenti? Gavino V, per esempio, non suonava
male.
«Il problema è proprio questo, capisce? Non ho ancora deciso su quali
concentrarmi. Voglio visitare il castello, comunque. Ci andrò domattina a
cercare ispirazione. Chissà mai» rispose alla fine.
«Ah. Edoardo V, allora. Benché anche Edoardo IV ci abbia vissuto
qualche anno da bambino, quando non era ancora re. E Mary Tudor.»
Santo Iddio! pensò Barbara. Doveva assolutamente cambiare discorso al
più presto. «Potrei rivolgermi a qualche luminare che insegna al college,
magari. Chi mi consiglia?» disse.
«Non saprei proprio. Non conosco luminari. A meno che non vengano a
bere qui, ma a quel punto sono clienti come tutti gli altri. L’alcol è la grande
livella, creda a me. Piace a tutti, dagli hooligan ai membri della famiglia
reale. Ad alcuni fin troppo.»
«C’è tanta gente che si ubriaca fino a star male? Ci sono anche qui le
abbuffate alcoliche?»
Korhonen si fece subito più guardingo. Si mise a pulire il bancone e le
spine della birra. «Sì, a volte capita. In genere teniamo la situazione sotto
controllo, però.»
«Non come nelle grandi città, eh?»
«Gliel’ho detto, ci stiamo attenti. E in ogni caso, se gli animi cominciano a
scaldarsi, io sono più fortunato di tanti miei colleghi perché qualcuno da
Quality Square immancabilmente chiama la polizia che viene a calmarli. Agli
altri tocca arrangiarsi da soli» disse indicando con il pollice dietro la schiena
immaginari titolari di pub nel resto di Ludlow. «Per un periodo ci sono state
delle ronde di bravi cristiani che raccattavano i ragazzini che vomitavano agli
angoli di strada e li riaccompagnavano a casa. Poi però hanno smesso e
adesso ognuno deve cavarsela da sé.»
Cominciò a prendere i bicchieri sporchi portati dal barista più giovane.
Barbara non sapeva come farsi dire ciò che le premeva sapere, ovvero se la
sera in cui era morto Ian Druitt Gary Ruddock fosse stato chiamato a fermare
un’abbuffata alcolica in corso in vari pub e avesse gestito la situazione dalla
stazione di polizia. Parlare di ubriachezza molesta in termini generali era un
conto, ma entrare nello specifico di una determinata sera significava rischiare
che Ruddock venisse a sapere che Barbara stava verificando la sua versione
dei fatti, già considerata attendibile dall’IPCC.
Barbara stava per fare un tentativo in quella direzione quando Jack
Korhonen disse: «Eccolo lì». Barbara si voltò e vide che Gary Ruddock era
entrato nel pub. Doveva essere un cliente abituale perché Korhonen gli disse:
«Com’è che stasera ti presenti così tardi?»
Ruddock si avvicinò al bancone. «Non siamo riusciti ad arrivare in tempo
al bagno e Rob se l’è fatta addosso, purtroppo. Gli ho dovuto fare la doccia.»
«Povero te» commentò Korhonen.
Ruddock si rivolse a Barbara. «La sua capa si è poi data una calmata?»
«Vi conoscete?» domandò Korhonen prima che lei potesse rispondere.
«Barbara Havers, Scotland Yard» replicò Ruddock.
«Guarda guarda» borbottò Korhonen accennando un sorrisetto. «Mi ha
taciuto questo piccolo dettaglio. Abbiamo parlato solo di Plantageneti.»
«Discorsi impegnati» commentò Gary Ruddock.
Barbara decise che era ora di congedarsi. Disse che doveva andare e chiese
il conto. «A Scotland Yard offro io, signora. Torni quando ha deciso su quale
Plantageneto concentrare i suoi studi, okay? Chissà mai che non la possa
aiutare. In una maniera o nell’altra» rispose Korhonen.
Barbara disse che sì, certamente, grazie. Poi si rivolse a Ruddock.
«Domani mattina torniamo a Londra. La ringrazio della collaborazione.»
«Se posso fare ancora qualcosa...»
«Be’, non mi dispiacerebbe ascoltare la registrazione di quella telefonata,
in qualche modo. Mi può aiutare lei?»
«Ah, la telefonata...» Ruddock annuì e parve meditarci su. «Posso provare
a fargliela avere per posta elettronica, se vuole» propose.
«Di che telefonata parlate?» si intromise Korhonen.
«Quella che è arrivata al 999 riguardo al tipo che è morto, Ian Druitt. Hai
presente? Il diacono. Quello che...»
«Ossignore. Certo, certo. Druitt.»
«Il sergente e io stavamo andando a sentire la registrazione, ma il suo capo
l’ha richiamata a Ludlow.» Poi si rivolse a Barbara. «Farò un tentativo.»
«Grazie» disse Barbara. «Molto gentili.» Salutò con un cenno i due uomini
e uscì dal pub. Aveva ottenuto ben poco, solo la conferma che quando a
Ludlow c’era un’abbuffata alcolica era Gary Ruddock a occuparsene. Era
meno di zero. Le restava la speranza che Ruddock riuscisse a mettere le mani
sulla registrazione, certo, ma a parte questo niente.
Fuori, le luci forti illuminavano i tavoli, le sedie e gli ombrelloni chiusi che
costituivano il dehors del pub. In quel momento, non c’era nessuno. Quality
Square era proprio lì accanto e Barbara si rese conto che il vociare degli
avventori seduti all’esterno doveva essere fastidiosissimo per chi ci abitava.
La piazza era piccola, faceva da cassa armonica, e benché al piano terra, a
parte due palazzi antichi, fossero quasi tutti negozi, al primo piano c’erano
degli appartamenti. Chi ci abitava di certo non voleva essere disturbato da
universitari ubriachi che schiamazzavano sotto le finestre.
Barbara ripercorse i propri passi lungo il vicoletto e Castle Square. Nella
piazza c’era qualcuno. Vide prima di tutto il cane lupo disteso sul
marciapiede davanti al negozio di formaggi di Church Street, il muso
appoggiato sulle zampe anteriori. Sulla porta del negozio, nell’ombra, c’era
un ammasso di coperte che dopo un po’ si mosse. Spuntò un braccio.
Evidentemente Harry aveva scelto di dormire lì, quella notte. Barbara decise
di scambiare quattro chiacchiere.
Si avvicinò e il pastore tedesco alzò la testa ed emise un ringhio. «Buona,
Pea» disse Harry. E cambiò leggermente posizione. Stava appoggiato alla
parete perché non aveva abbastanza spazio per distendersi. Batté la mano
vicino al proprio giaciglio – Barbara riconobbe un sacco a pelo di età e di
grado di pulizia indeterminabili – e, trovata la torcia elettrica, la accese e la
puntò in faccia alla nuova arrivata. Quasi a comando, Pea si alzò. «Indietro»
ordinò l’uomo. Barbara si bloccò all’istante, non volendo assolutamente
entrare in conflitto con un cane che sembrava il migliore amico di una SS.
«Oh, mi scusi. Non dicevo a lei. Intendevo Sweet Pea, che si preoccupa per
me e mi difende anche quando non ce n’è bisogno. Tranquilla, Pea» disse
Harry.
Il suo modo di parlare la colse di sorpresa. Harry sembrava un presentatore
televisivo, aveva una dizione perfetta che ormai, nell’era dei regionalismi,
nessuno coltivava più. Barbara non avrebbe saputo dire che cosa si
aspettasse, ma di sicuro non quello.
«Lei è Harry.»
«La signora con cui ho il piacere di parlare invece si chiama...?»
«Barbara Havers» si presentò lei. «New Scotland Yard.»
«Perbacco! Questa proprio non me l’aspettavo.» Posò la torcia elettrica e si
apprestò a uscire dal giaciglio, ma Barbara lo pregò di non scomodarsi. Le
sarebbe piaciuto scambiare due parole con lui, se non aveva nulla in
contrario.
«Volentieri» rispose Harry. «Basta che non si tratti di un programma
statale per liberare le città da chi dorme per strada.»
«Esistono programmi del genere?»
«Non ne ho la più pallida idea, ma non mi sorprenderebbe se ci fossero,
con i partiti politici che ci ritroviamo. Per alcuni vedere uno che dorme per
strada è intollerabile, tant’è vero che cercavo sempre di rimanere in aperta
campagna, a ridosso di un paese o di una cittadina per potermi avvalere di
servizi come negozi, uffici postali, banche e così via.»
«E adesso non più?»
«Come dice, scusi?»
«Non dorme più in aperta campagna?»
«Purtroppo no. Come potrei? Ho una certa età, ormai. Ho bisogno di
maggior riparo.»
Indicò la rientranza dentro cui si era accomodato. «E poi mia sorella
preferisce sapere dove trovarmi in caso di emergenza, sebbene io non capisca
a quali emergenze si riferisca. La prego, mi consenta di alzarmi.
Chiacchierare con lei da questa posizione mi mette in imbarazzo, oltre che
farmi venire il torcicollo.»
Non aspettò che Barbara replicasse e uscì dal sacco a pelo. Poi prese la
torcia e si alzò. Era alto e slanciato. Da quella distanza, Barbara ebbe modo di
vedere che era sbarbato e aveva i capelli grigi puliti, anche se troppo lunghi.
Spense la torcia. «Così risparmio le pile» spiegò. «E lei non mi sembra
pericolosa» aggiunse un istante dopo.
«Non lo sono. Possiamo andare a parlare da qualche parte?» propose
Barbara.
Alla luce di un lampione distante una ventina di metri, vide che l’uomo
sorrideva. «Soffro di claustrofobia, purtroppo» rispose lui dispiaciuto.
«Quindi, non in un luogo chiuso.»
«Per questo dorme all’addiaccio? Non le basterebbe dormire con la finestra
aperta?»
«No, purtroppo. Fino a un po’ di tempo fa ci riuscivo, ma ora non più.
Complimenti, signora Havers: lei è una poliziotta in gamba. Mi ha estorto un
sacco di informazioni nel giro di pochissimo. Che grado ha? Non voglio
chiamarla ’signora’.»
«Sergente investigativo. Barbara va benissimo, comunque.»
«Mi hanno educato a dare del lei alle persone che non conosco bene,
sergente. Mi chiamo Henry Rochester e, come lei ha scoperto, mi chiamano
tutti Harry. Come posso aiutarla, sergente investigativo Havers?»
«L’ho vista in giro per Ludlow, signor Rochester. Anche al mercato, dove
vendeva della merce.»
«Harry. Per favore.»
«Va bene. Ma allora io sono Barbara.»
«D’accordo. Ha ragione, Barbara. E sì, giro molto per la città, soprattutto
in centro. Mi piace l’atmosfera, la storia. A volte sembra quasi di sentire il
rumore degli zoccoli dei cavalli degli York che escono al galoppo dal
castello.»
Barbara preferiva evitare altre brutte figure. «È uno storico?» domandò.
«Lo ero, ai tempi in cui mi bastava aprire le finestre per riuscire a resistere
dentro un’aula. Insegnavo storia.»
«Non dev’essere stato facile mollare tutto.»
«La serenità sta nella capacità di adattarsi alle vicissitudini della vita. Ho
poche necessità e quando mi serve qualcosa accedo ai miei risparmi
attraverso gli sportelli automatici. Grazie all’ingegnosità di mio padre
nell’inventare modi sempre nuovi per asciugarsi le mani nei luoghi pubblici,
io e mia sorella abbiamo ereditato una piccola fortuna, se mi perdona la
volgarità: non sta bene parlare di denaro. Catherine nutre parecchie
perplessità circa il mio stile di vita, ma evita di esternarmele. Insomma, vivo
senza il peso delle responsabilità.»
«E all’aria aperta.»
«E all’aria aperta.»
«L’inclemenza del clima non è un problema? Come fa d’inverno?»
«Sono di robusta costituzione, per fortuna. E ho un conoscente che nelle
giornate peggiori mi ospita in uno spazio, totalmente aperto, sotto la sua
abitazione, dove lascio anche i miei effetti personali come vestiti pesanti,
sacco a pelo invernale eccetera eccetera. Mi considero un uomo fortunato, in
fin dei conti.»
Si erano incamminati verso Castle Square, dove alcune panchine
consentivano di ammirare comodamente le mura merlate del castello,
illuminate come al solito. Sweet Pea li accompagnò, rimanendo a fianco di
Harry Rochester per tutto il tragitto e, quando si sedettero, si piazzò ai piedi
del padrone.
«Posso chiederle come mai è qui a Ludlow, Barbara?»
«Per una morte avvenuta all’interno del posto di polizia il marzo scorso.
Ne ha sentito parlare?» Barbara dubitava che Harry fosse al corrente della
morte di Ian Druitt; dava per scontato che la lettura dei giornali e la visione
dei notiziari in tv gli fosse in qualche modo preclusa, vivendo per strada.
Ma ancora una volta Harry Rochester la sorprese. «Oh, sì. Pover’uomo.»
«Lo conosceva?» Barbara tirò fuori le sigarette e ne offrì una a Harry, il
quale rispose che no, grazie, aveva smesso. Poi però cambiò idea e borbottò
che una ogni tanto se la poteva concedere. Barbara gli assicurò che, con tutta
l’aria buona che respirava, sicuramente un po’ di nicotina ogni tanto non gli
avrebbe nuociuto. Gli ripeté la domanda porgendogli l’accendino di plastica.
«Gli ho parlato solo una volta. Mi voleva dare una giacca a vento e io l’ho
rifiutata. Lo vedevo spesso, però. In effetti vedo tanta gente in giro per la
città. Alcuni li conosco solo di vista, altri meglio.»
«Nessuno le dice nulla, vedendola dormire per strada? Le autorità non le
hanno mai chiesto di spostarsi altrove?»
«La polizia, intende? No, mai successo. Lei sa che non abbiamo una forza
di polizia fissa sul territorio, vero? L’unico esponente delle forze dell’ordine
in città è l’agente Ruddock.»
«L’ausiliario» precisò Barbara. «Lo conosce, quindi.»
«So chi è perché ha il compito di mantenere l’ordine per le strade della
città. Ma non lo conosco bene.»
«La fa spostare da dove si sistema?»
«Qualche volta è successo. Se mi piazzo in punti in cui do noia a qualcuno.
Ci sto attento, di solito, ma capita che mi sistemi nel posto sbagliato. I
ristoranti, per esempio, non gradiscono avere qualcuno che dorme davanti
all’ingresso, anche se sono chiusi.»
«Da dove altro l’ha fatta spostare?»
«Le scuole elementari sono un altro posto che non va bene. Ma ho
l’impressione che l’agente Ruddock mi consideri innocuo, devo dire, perché
mi tratta con gentilezza. ’Salve, Harry. Mi raccomando, eh?’ mi dice. Le
uniche volte che usa toni più bruschi è quando mi becca a vendere sulla
piazza del mercato. Non ho la licenza, di conseguenza...»
Barbara aspirò una boccata di fumo e annuì. «L’ho visto, oggi, quando è
venuto a farla sgomberare. Perché vende al mercato, se non ha bisogno di
soldi?»
Harry fece cadere la cenere sul lastricato, aspirò un’altra boccata di fumo e
spense la sigaretta sotto la scarpa per poi infilarsi in tasca il mozzicone.
«Odio gli sprechi» dichiarò.
Per un attimo Barbara pensò si riferisse alla sigaretta, ma poi capì che stava
parlando del mercato. «Vende oggetti usati che trova in giro?»
«È inconcepibile quanta roba butta via la gente. Io la recupero e la rivendo.
Ogni tanto l’agente Ruddock si innervosisce. Ma è sempre molto equo:
quando caccia via me, caccia via tutti quelli senza licenza.»
«È tollerante, quindi.»
«Con me sì, abbastanza. È un brav’uomo e fa un lavoro faticoso. Non
voglio rendergli la vita difficile.»
«Perché faticoso?» domandò Barbara.
«Be’, a me sembra faticoso fare la ronda per il centro, controllare le
saracinesche e riaccompagnare a casa studenti ubriachi che non sono in grado
neanche di tornare a casa a piedi, figuriamoci di guidare.»
«Lo ha incontrato la sera della morte di Ian Druitt, per caso? Gli è stato
chiesto di portare Druitt alla stazione di polizia e immagino che fosse andato
a prenderlo alla chiesa di St. Laurence. Era marzo.»
Harry si grattò la testa. «Non me lo ricordo. Le sere sono tutte uguali per
me, le confondo. È successo qualcosa di particolare, oltre alla morte di Druitt,
che mi aiuti a ricordare?»
Barbara ci pensò su un momento. Harry Rochester aveva ragione: la gente
non ricorda che cosa è successo una determinata sera, a parte gli abitudinari
che si vedono sconvolgere la routine da un evento eccezionale. C’era una
cosa, però, che forse avrebbe aiutato Harry Rochester a fare mente locale.
«C’è stata un’abbuffata alcolica che l’agente Ruddock non è riuscito a
fermare come fa di solito e che quindi potrebbe essere andata per le lunghe.»
«Ce ne sono fin troppe, qui a Ludlow» osservò Harry. «In genere l’agente
Ruddock interviene e ristabilisce l’ordine, ma non mi viene in mente una sera
in cui non è successo.»
«La sera di cui parliamo è intervenuto per telefono e quindi forse non è
stato altrettanto efficace.»
Harry rifletté un momento. «Per la verità, non so quanto possa servire un
intervento telefonico. Di solito le gestisce di persona» commentò.
«In che modo?»
«Non glielo so dire. Penso che prima di tutto faccia uscire gli ubriachi dal
pub e li faccia allontanare. Qualche volta l’ho visto caricarne due o tre in
macchina e portarli a casa. Cioè, do per scontato che li riaccompagnasse a
casa. In realtà forse li portava alla stazione di polizia a smaltire la sbornia.
Non lo posso sapere. Eccolo che arriva, però. Lo chieda a lui.»
Durante il colloquio con Harry, Barbara non guardava verso il vicolo che
portava in Quality Square. In quel momento si voltò da quella parte e vide
che stava arrivando Gary Ruddock. Ruddock li vide e li salutò con la mano,
ma non si avvicinò.
«Mi raccomando voi due, eh?» si limitò a dire bonariamente. Andò alla
macchina, che aveva parcheggiato vicino all’ingresso del West Mercia
College, salì a bordo e partì lungo Dinham Street. Barbara dedusse che stava
tornando a casa e si chiese come mai, dopo aver fatto la doccia al vecchio
Rob, avesse deciso di uscire.
8 MAGGIO
Victoria
Londra
Isabelle Ardery cercava di non perdere la pazienza, in attesa che il
vicecommissario rientrasse in ufficio dopo la pausa pranzo. Secondo Judicon-la-i,
Sir David era andato a Marylebone a un appuntamento con un
politico piuttosto influente di cui non aveva fatto il nome. La segretaria non
aveva informazioni aggiuntive, salvo il fatto che il vicecommissario era in
ritardo. Senza dubbio era colpa del traffico. Glielo aveva consigliato, di
prendere la metropolitana, ma... be’, sapevano com’era Sir David.
In effetti Isabelle non riusciva a immaginare che David Hillier si
abbassasse a prendere un treno sotterraneo da St. James’s Park a Baker Street
e ritorno: non essendoci una linea diretta per Marylebone, avrebbe dovuto
cambiare, quindi aveva preferito senz’altro farsi portare in auto, anche se
significava impiegare molto più tempo.
Isabelle aveva i nervi a fior di pelle. Sapeva cosa le sarebbe servito per
calmare l’ansia che le procurava l’incontro con il suo superiore, ma non
poteva permettersi di sgarrare. Doveva sforzarsi di resistere. Già c’era il
rischio che l’imprevista chiamata del vicecommissario la sera prima avesse
pesantemente compromesso la sua reputazione professionale. Doveva
rimediare. Quella mattina, prima di partire dallo Shropshire, aveva messo a
punto un piano.
Anzitutto aveva buttato via la vodka. Ne erano rimaste quattro dita, forse
un filino di più. Ne aveva ingollato metà e il resto l’aveva rovesciato nel
lavabo. Poi aveva gettato la bottiglia nella spazzatura e si era detta: «Basta
così». La telefonata della sera prima con Sir David Hillier era esattamente ciò
di cui aveva bisogno per dare un taglio definitivo all’abuso di alcol.
Poco dopo, Peace on Earth aveva bussato alla porta della camera con il
caffè che aveva ordinato. Lo aveva bevuto mentre si vestiva e, quando aveva
incontrato Barbara alla reception per consegnare la chiave, era perfettamente
lucida.
«Ho buone notizie» furono le prime parole che il sergente Havers le aveva
rivolto. Non propriamente musica per le sue orecchie. «Ne parliamo in
autostrada, sergente» aveva risposto Isabelle.
Barbara aveva aperto la bocca per ribattere, ma poi ci aveva ripensato e
aveva mantenuto il silenzio fino all’imbocco della M5. Appena Isabelle si era
immessa nel traffico, il sergente aveva iniziato il suo discorsetto. Non
avevano fatto colazione e Isabelle sperava che aspettasse almeno che si
fermassero a un Welcome Break, ma non c’era stato verso. Quella donna
impossibile aveva attaccato a parlare come se si fosse scolata pure lei
un’intera caffettiera.
Le aveva elencato una serie di punti, entrando nei dettagli e fornendole
conferme che nessuno le aveva chiesto, e Isabelle aveva capito che anche la
sera prima era andata in giro per Ludlow a condurre indagini non autorizzate.
Sosteneva di essere uscita «a cercare qualcosa da mettere sotto i denti visto
che la cucina dell’albergo era già chiusa», ma era una scusa talmente ridicola
che a Isabelle era venuta voglia di interromperla e chiederle se la prendeva
per scema.
Barbara Havers non avrebbe certamente gradito l’interruzione, visto che
enumerava fatti a una velocità di poco inferiore a quella della luce. Sì, a
Ludlow l’alcolismo giovanile era una piaga; sì, l’ausiliario veniva spesso
chiamato per allontanare dai pub gli ubriachi e «la cosa interessante» era che
un testimone aveva dichiarato di averlo visto caricarsene in macchina un
certo numero per accompagnarli... chissà dove. A casa dei genitori, alla
stazione di polizia, nei dormitori del college o... il teste non glielo aveva
saputo dire. Si chiamava Harry Rochester e dormiva per strada, le aveva
spiegato.
A quel punto Isabelle era intervenuta. «È lodevole che lei abbia cercato
conferma alla versione fornita dall’agente ausiliario, ma non capisco dove
voglia arrivare.»
«Voglio arrivare qui: Harry Rochester non mi ha saputo dire se la sera del
fermo di Druitt fosse in corso un’abbuffata alcolica.»
Isabelle avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe tappata le orecchie, se non
fosse stata al volante. Quando aveva visto un cartello che segnalava la
presenza di un Welcome Break a tre chilometri di distanza, aveva ringraziato
il Cielo di averglielo messo sulla strada. «Fermiamoci a fare colazione,
sergente» aveva proposto. Poi, vedendo che Barbara continuava imperterrita
a parlare, aveva aggiunto: «Riprenderemo il discorso».
L’entusiasmo per le nuove scoperte non aveva tolto l’appetito al sergente,
che aveva snobbato le opzioni più salutistiche e modaiole tipo frutta fresca e
secca e yogurt e aveva ordinato una tradizionale colazione all’inglese.
Isabelle aveva preso una banana e un latte macchiato da Caffè Nero e aveva
raggiunto Barbara al tavolo della caffetteria, dove si stava rimpinzando di
uova strapazzate, salsicce, funghi e pomodori grigliati, fagioli in salsa e pane
tostato, più un misterioso triangolo che sembrava cartone impanato e fritto. Il
tutto accompagnato da tè cui aveva aggiunto latte e numerose bustine di
zucchero.
«Allora» aveva detto fra un boccone e l’altro. «La cosa interessante è che
la commissione IPCC non ha parlato con Harry Rochester. Non sapeva
neppure che fosse coinvolto.»
«Coinvolto?» Isabelle aveva preso l’abitudine di bere il latte macchiato con
la cannuccia. Era molto più facile che litigare con il bicchiere termico e il
coperchio di plastica. Lo aveva assaggiato, aveva constatato che era appena
tiepido, aveva sospirato e preso in considerazione l’ipotesi di portarlo indietro
e farsene preparare un altro. Troppa fatica, aveva stabilito subito dopo. Era
già così faticosa Barbara... «A quanto mi ha appena raccontato, l’unico
contributo offerto da questo Rochester alla nostra indagine è che a Ludlow
esiste il fenomeno delle abbuffate alcoliche.»
«E che la sera in questione non ricorda che ce ne siano state.»
«Posso farle notare che ciò che ricorda o non ricorda un vagabondo ha
un’importanza relativa, dato che di un vagabondo si tratta?»
«Rochester non è un vagabondo» aveva ribattuto Barbara, sottolineando il
punto con la forchetta da cui pendeva pericolosamente un pezzo di salsiccia.
«Dorme per strada perché soffre di claustrofobia.»
«Ah, be’, il fatto che un claustrofobico senza fissa dimora non ricordi se
una determinata sera di oltre due mesi fa fosse o meno in corso un’abbuffata
alcolica...»
«Nel rapporto della commissione è scritto che il titolare dello Hart and
Hind conferma l’abbuffata e che altri pub del centro hanno dichiarato di aver
ricevuto una telefonata da parte di Gary Ruddock. Una delle chiamate che lui
sostiene di aver fatto quando ha lasciato solo Druitt per un periodo di tempo
sufficiente perché si appendesse a una maniglia. Ma la cosa interessante è che
il titolare dello Hart and Hind ha un piccolo giro d’affari in nero su cui ha
bisogno che Ruddock chiuda un occhio, e cioè le camere che affitta a ore,
quindi ha tutto l’interesse a confermare la versione di Ruddock, no? Quanto
agli altri pub che Ruddock avrebbe chiamato... A pensarci bene, cosa ne
sapevano loro se in Quality Square era in corso un’abbuffata alcolica?
Sapevano solo quello che Ruddock aveva detto per telefono. E questo
significa che...»
«Basta così, sergente.» Isabelle aveva sottolineato ciò che aveva già
sottolineato mille volte da quando erano arrivate a Ludlow, ovvero che il loro
mandato era un altro. «Adesso noi torniamo a Londra e redigiamo il rapporto
richiesto da Hillier, che lo consegnerà a Quentin Walker, e poi torneremo al
nostro lavoro. Spero che sia d’accordo, sergente» aveva aggiunto poi.
«Sì. Solo che...»
«Si metterà a scrivere il rapporto appena arriveremo in Victoria Street. Era
questo che stava per dire, sergente Havers?»
Barbara aveva abbassato gli occhi e, dopo un momento, aveva risposto:
«Sissignore».
«Perfetto.»
Isabelle aveva controllato che Barbara Havers stesse lavorando al rapporto,
prima di recarsi al Tower Block. Adesso era lì, in attesa di parlare con il
vicecommissario, e tirò un sospiro di sollievo quando lo vide arrivare, venti
minuti dopo l’orario prefissato e con un altro appuntamento dieci minuti
dopo.
Uscì dall’ascensore parlando al cellulare. «Il ricevimento è per i genitori,
Laura, non per i nonni. Per favore, di’ a Catherine che suo padre non ci sarà.
Ha faccende più importanti da sbrigare, rispetto alla gara di torte delle
mamme... Certo che sto scherzando. ... No, cara, non ci posso venire. Ci
vediamo stasera... Certo, certo.» Si infilò in tasca il cellulare e si rivolse a
Isabelle. «Sette nipoti a scuola sono sei di troppo. Ha il rapporto?»
Aprì la porta dell’ufficio, le fece segno di accomodarsi e disse a Judi-conla-i:
«Devo annullare l’appuntamento con Stanwood. Gliene fissi un altro la
settimana prossima. Al mattino». Poi seguì Isabelle nell’ufficio e chiuse la
porta. Non le offrì tè, caffè o acqua minerale, a indicare che le avrebbe
concesso soltanto pochi minuti.
«Se ne sta occupando il sergente Havers. Glielo faccio avere in giornata o
al massimo domani mattina» disse Isabelle.
«Perché è qui, allora?»
Isabelle si fece coraggio. Doveva chiedere scusa senza essere troppo
sottomessa. «Volevo scusarmi per ieri sera.»
Hillier non le disse di sedersi e restò in piedi vicino alla scrivania. La
osservò e si lasciò guardare da lei: era grande e grosso, folti capelli grigio
ferro, lineamenti delicati e gote rosse, nient’affatto bello. Avrebbe cercato di
metterla in soggezione e lei doveva evitare di farsi intimidire.
«Per cosa, sovrintendente?» le domandò.
«Avevo preso una pastiglia per dormire. Sto litigando con il mio ex per
questioni che mi tormentano togliendomi spesso il sonno. La sua chiamata di
ieri sera mi ha svegliato. Mi perdoni.»
Hillier rimase zitto. Isabelle immaginò che stesse mettendo in relazione le
sue giustificazioni con gli insulti con cui aveva aperto la telefonata la sera
prima convinta di parlare con Bob. Non aveva dato l’impressione di essere né
assonnata né confusa, lo sapeva. L’unica possibilità era che Hillier pensasse
di averla destata da un incubo. Piuttosto improbabile, ma era comunque
necessario che Isabelle si scusasse: lo aveva stabilito non appena aveva
riconosciuto la sua voce al telefono.
«Sono farmaci che prendo raramente, ma è sconsigliato utilizzare
macchinari e roba varia dopo l’assunzione. Non avevo mai parlato per
telefono dopo averli presi e... Confido nella sua comprensione» aggiunse.
Hillier continuava a stare zitto, maledetto lui. Di solito non era mai così
impenetrabile. Isabelle stava sudando freddo. Si disse che in quel momento
aveva il pieno controllo della situazione, era se stessa al cento per cento, e
così intendeva restare. Aveva già fin troppe grane.
Finalmente Hillier aprì bocca. «Che cosa diamo a Walker? Ha bisogno di
qualcosa da consegnare al signor Druitt di Birmingham. Siamo in grado di
accontentarlo?» chiese perentorio.
«Il sergente Havers sta completando il rapporto che intendo revisionare»
rispose Isabelle. «Dovesse esserci la necessità di... sistemarlo, dirò al sergente
di provvedere. Ho conosciuto il signor Druitt e non l’ho trovato
irragionevole. È affranto per la storia del figlio e lo si può capire. Ma poiché
non si può conoscere nessuno fino in fondo, meno che mai un figlio adulto,
penso che prima o poi scenderà a più miti consigli.»
«Ovvero?»
«Ovvero accetterà il fatto che il figlio si è suicidato, che se anche non fosse
stato pedofilo come si diceva poteva avere altri motivi per togliersi la vita,
motivi che magari non scopriremo mai. Perché nulla indica che Ian Druitt
non si sia suicidato. E nessuno di noi è tenuto a scoprire le ragioni per cui si è
tolto la vita. Né il primo ispettore che si è occupato del caso, Pajer, né la
commissione IPCC avevano questo compito: le loro indagini erano limitate
ad accertare la dinamica dei fatti. Possiamo aggiungere che saremo lieti di
passare l’incartamento alla magistratura e, anzi, lo raccomando caldamente
perché è giusto che ci rivolgiamo al Crown Prosecution Service, se Druitt
ancora non sarà convinto, ma la commissione non ha rilevato gli estremi di
alcun reato e pertanto difficilmente si arriverà a un processo.»
Hillier continuava a guardarla in un modo che Isabelle trovava inutilmente
intimidatorio. In fondo sarebbero dovuti essere dalla stessa parte, no? Decise
che aveva parlato abbastanza e rimase in silenzio in attesa che parlasse lui.
Dalle finestre dell’ufficio vide uno stormo di piccioni che volavano
magicamente all’unisono sullo sfondo del cielo azzurro. Si impose di
guardare fuori finché Hillier non si fosse deciso ad aprire bocca.
«Sì, mi piace. Va bene» le disse alla fine.
«Grazie, Sir David» replicò Isabelle. «E mi scusi di nuovo per...»
«Ne usa spesso, sovrintendente?»
Fu il tono brusco con cui glielo chiese a metterla in allarme. «Mi scusi?»
«I sonniferi. Prende spesso le pastiglie di cui parlava?»
«No, no, signore. Molto raramente, anzi, quasi mai.»
«Bene. Continui così. Non vorrei che una sera ne prendesse troppe per
errore.»
«Si figuri, signore.»
Hillier andò dietro la scrivania e Isabelle capì che il colloquio era concluso.
Lo ringraziò un’ultima volta e si voltò verso la porta. Quando già aveva
impugnato la maniglia, Hillier disse ancora una cosa.
«Marchi stretto il sergente Havers, mi raccomando. Prima o poi qualcosa
combinerà. Diamole tempo.»
«Sì, signor commissario.»
«E diamole anche corda» aggiunse. «Si impiccherà da sola.»
Victoria
Londra
Perlomeno il viaggio di ritorno non era stato sfiancante come quello da
Londra a Ludlow. Sì, erano partite molto presto, ma Barbara per la sveglia
del cellulare aveva scelto ormai da tempo l’Ouverture 1812. Gliel’aveva
consigliata quasi per caso l’ispettore Lynley, e in effetti in certe occasioni
funzionava, catapultandola giù dal letto non appena cominciavano le
cannonate. Era nel minuscolo bagno, quando Peace on Earth aveva bussato
alla porta della camera con il vassoio del caffè. Ne aveva appena portato uno
«alla sua compagna», le disse, e aveva pensato di servirlo anche a lei. «Offre
la casa» aveva specificato con aria comprensiva, per quanto possa risultare
comprensivo alle cinque del mattino un ragazzo con i lobi delle orecchie
spropositatamente dilatati.
Lì per lì Barbara si era scoraggiata vedendo che a quell’ora l’hotel non
serviva ancora la colazione, ma lungo la strada, su proposta del
sovrintendente Ardery, si erano fermate a un Welcome Break. E meno male,
perché appena erano arrivate a Victoria Street, Isabelle le aveva affibbiato il
compito di scrivere un rapporto che il vicecommissario Hillier potesse trovare
accettabile. Entro le sedici, aveva specificato, in modo da poterlo rivedere in
tempo per consegnarlo a Hillier prima che uscisse dall’ufficio.
Barbara aveva capito cosa ci si attendeva da lei. Il rapporto doveva
soddisfare certe aspettative e lei avrebbe dovuto correggerlo e ricorreggerlo
finché tutti gli interessati non avessero dato la loro approvazione.
Aveva provato a farle capire che ascoltare la telefonata al 999 era
prioritario, rispetto a scrivere un rapporto che sarebbe andato a finire nelle
mani di un membro del Parlamento e forse anche di un padre disperato, ma
Isabelle era stata irremovibile: secondo lei, ascoltare quella registrazione era
inutile. E aveva concluso dicendo chiaro e tondo che era «stufa di sentirla
battere sempre sullo stesso tasto, sergente, anche perché lei insiste per fare
questa cosa ma non sa fornire valide motivazioni, a meno che non mi sia
sfuggito qualcosa tutte le volte che abbiamo affrontato l’argomento».
«Ho la sensazione che sia importante» aveva risposto Barbara, rassegnata.
E si era messa a scrivere. Le sedici erano le sedici e sicuramente Isabelle
Ardery le sarebbe piombata davanti alla scrivania alle sedici e zero tre, se lei
non si fosse presentata nel suo ufficio entro l’ora prefissata con il rapporto
pronto.
Ci stava diligentemente lavorando quando le suonò il telefono. Era Gary
Ruddock e chiamava per avvisarla di essere riuscito a procurarsi la
registrazione che Barbara gli aveva chiesto. Gliel’aveva mandata per email.
Aveva già avuto modo di ascoltarla?
«Non ancora» gli rispose. «Sono impegnata a scrivere uno stramaledetto
rapporto per i miei superiori. Grazie mille, comunque. Spero non abbia
dovuto faticare troppo, Gary.»
«Troppo no» replicò lui. «Me lo faccia sapere, mi raccomando, se trova
qualcosa di interessante nella telefonata.»
Barbara glielo promise. Mise un attimo da parte il rapporto per controllare
la casella di posta, certa che Isabelle Ardery non sarebbe spuntata dal nulla
dietro di lei come il bersaglio di un tiro a segno al luna park. Trovò il
messaggio di Ruddock: Lega la registrzone e mi dica se trova qualsoca e se a
bisogno di altro.
Caspita, imprecò fra sé. Ecco perché quel povero cristo non era riuscito a
salire oltre al grado di ausiliario. Anzi, era sorprendente che fosse arrivato fin
lì.
Aprì l’allegato e frugò nei cassetti della scrivania in cerca di un paio di
auricolari. Come previsto, non ne trovò. Winston Nkata per fortuna era
l’esatto opposto di Barbara e, sempre pronto a ogni evenienza, le prestò i
suoi.
Barbara ascoltò il file audio. Avendo memorizzato la trascrizione, constatò
che riportava fedelmente ogni parola. Ardery l’aveva avvertita che sarebbe
andata così. Barbara lo riascoltò un’altra volta. Due. Avrebbe voluto
riconoscere la voce ma, come prevedibile, l’autore della telefonata aveva
parlato pianissimo, quasi bisbigliando. Barbara sperava in una folgorazione
improvvisa, ma si sarebbe accontentata anche di un’illuminazione parziale o
di un banale particolare di infinitesimo interesse. Speranza vana, purtroppo.
Le esse sibilanti dell’autore della chiamata potevano essere un tentativo di
camuffare la voce. Alla fine fu costretta ad ammettere che a effettuare quella
denuncia dal telefono esterno della stazione di polizia poteva essere stato
chiunque, dal netturbino della zona a Dracula.
Poi se ne accorse.
Quando fece per scollegarsi, vide la data del file: diciannove giorni prima
del fermo del diacono. Era un particolare che non era stato riportato da
nessuna parte, pur essendo piuttosto significativo. Nei diciannove giorni
trascorsi tra la telefonata e il fermo di Ian Druitt, doveva essere successo
qualcosa e quel qualcosa doveva essere un’indagine da cui erano emersi
elementi tali da condurre al fermo dell’uomo. Ma se era così – ed era logico
supporre che lo fosse – come mai non se ne parlava da nessuna parte? Come
mai non era specificato che su Ian Druitt era stata condotta un’indagine
preliminare?
Questo sì che era significativo. Questo sì che andava riferito al
sovrintendente Ardery. Era il particolare che gettava nuova luce sui fatti di
Ludlow, anche se quella luce faceva apparire più verosimile l’ipotesi che il
diacono fosse proprio quello che l’anonimo autore della denuncia sosteneva
fosse, ovvero un pedofilo.
Barbara era immersa in quelle riflessioni quando si vide davanti Dorothea
Harriman in uno dei suoi abitini estivi, probabilmente indossato a scopo
scaramantico, per far smettere di piovere. «Sergente investigativo Havers?»
la chiamò. «Com’è andata?»
«Ho fatto la brava bambina» rispose Barbara. «Con alcune piccole
eccezioni sulle quali non intendo soffermarmi.»
Dorothea batté un piede per terra. Aveva dei tacchi vertiginosi. «Stavo
parlando dell’allenamento. Si è esercitata tutte le sere, vero?»
«Mai saltata una sera» mentì Barbara.
«Ottimo.»
«Mi fa piacere che approvi.»
«Perché mancano solo due settimane all’audizione per solisti e piccole
coreografie di gruppo.» Barbara la guardò perplessa, e così Dorothea spiegò:
«Il saggio di danza di luglio! Pensavo che io e lei potremmo fare un duetto,
oppure chiedere a una delle musulmane di unirsi a noi e proporre un trio.
Umaymah, pensavo. È la più seria del gruppo e con un pezzo di Cole
Porter...»
Ci manca solo questa, pensò Barbara. È il momento di defilarsi. Meglio
morire, piuttosto che esibirsi in un saggio di tip tap. «Senta, Dee, io non sono
al vostro livello. Voi due siete brave, io sono uno zero. Anzi, un meno dieci.
Fatelo lei e Umaymah» disse Barbara mentre Dee continuava a blaterare.
«Non se ne parla nemmeno. Lei è perfettamente in grado di eseguire la
coreografia che avevo in mente. Se usiamo quel pezzo di Cole Porter,
Anything Goes, ha presente?»
«Le mie conoscenze musicali non vanno oltre Buddy Holly.»
«Non importa. Le piacerà, ne sono sicura. E se ha delle perplessità circa
Umaymah, possiamo lasciare che decida Kaz. La vengo a prendere stasera
alla solita ora così andiamo insieme, okay?»
Barbara si era scordata della lezione di tip tap. Ringraziò il cielo di non
avere niente di adatto a parte le scarpe, che erano nella valigia perché era
stata diligente e se le era portate a Ludlow, dove si era ben guardata
dall’indossarle. «Non ho i vestiti adatti, Dee» rispose.
Dorothea agitò le mani. «Non è un problema: ho un body in più. E non mi
dica che non ci entra, perché sul serio, sergente Havers, è dimagrita
tantissimo! Avrà perso... un bel po’ di chili, no? Quale preferisce: quello
rosso o quello nero?»
«Rosso» rispose Barbara. «Così fa pendant con le scarpe.»
Dorothea disse che avrebbe pensato a tutto lei e se ne andò sui tacchi a
spillo. Guardandola mentre si allontanava, Barbara sperò che prima di
riguadagnare la sua postazione di lavoro inciampasse e si rompesse una
rotula.
Purtroppo non fu così.
Victoria
Londra
Thomas Lynley stava per andare via, quando Barbara Havers lo raggiunse
accanto alla sua Healey Elliott nel parcheggio sotterraneo. Aveva una
cartellina in mano e un’espressione mesta da cui Lynley dedusse che il
rapporto sulla trasferta a Ludlow era da rifare.
Abbassò il finestrino. «A chi non andava bene?»
«Al sovrintendente. L’unico vantaggio è che stasera salto la lezione di tip
tap perché devo riscrivere tutto.»
«Non è un vantaggio da poco. Salga, Barbara.»
«Non posso allontanarmi. Ordini del sovrintendente Ardery.»
«Toccherà stare qui anche a me, allora. Parliamo in macchina.» Spense il
motore e Barbara Havers fece il giro, aprì la portiera e si accomodò sul sedile
del passeggero.
«Perché il rapporto è da rifare?» chiese Lynley.
Sapeva che Isabelle aveva lasciato a lei l’incombenza e che Barbara si era
messa al lavoro non appena tornata a Londra con il sovrintendente. Le aveva
portato un tramezzino e un tè alle tre e mezzo. Barbara non si era alzata dalla
scrivania se non per andare al gabinetto. Non era neanche uscita a fumare.
«La commissione per i reclami contro la polizia ha omesso una cosa
importante, ispettore, e io l’ho scritto nel rapporto. Quando il sovrintendente
l’ha letto, mi ha chiesto di tagliare l’intero paragrafo.»
«Che cosa ha omesso la commissione?»
«Il fatto che fossero passati diciannove giorni dalla denuncia al fermo.
L’IPCC non vi fa cenno nel suo rapporto. Forse non se n’è accorta.»
«Lei cosa pensa?»
«Che non l’abbiano notato. Stava per sfuggire anche a me. Però ho il
sospetto che in quei diciannove giorni qualcuno nello Shropshire abbia
indagato su Ian Druitt. Se lo scrivo nel rapporto – che probabilmente c’è stata
un’inchiesta a seguito della denuncia che ha portato al fermo del presunto
pedofilo – il padre del diacono non sarà molto contento. E neanche Hillier.»
«Capisco.»
«Quindi io posso fare come mi dice il sovrintendente, e cioè espungere dal
mio rapporto la storia dei diciannove giorni, oppure mandare tutto così com’è
al padre del morto.» Sollevò la cartellina con il rapporto non ancora
censurato. «Oppure all’onorevole. Se espungo... be’, sa cosa vuol dire. A casa
mia, si chiama insabbiare.»
«Ossignore.»
«Il Signore al momento non è disponibile, ma lei sì, ispettore. Che cosa mi
consiglia di fare?»
Lynley non sapeva che cosa risponderle. Non aveva la sfera di cristallo
neanche lui. Se Barbara avesse espunto un elemento che riteneva importante
come le aveva ordinato Isabelle Ardery, oltre a venir meno ai propri principi,
si sarebbe resa complice di omissione in atti d’ufficio. Se invece avesse
mantenuto il rapporto così com’era e avesse bypassato Isabelle mandandolo
direttamente al padre del morto o al suo deputato di riferimento, avrebbe
perso il posto.
«Non sono in grado di dirle che cosa deve fare, Barbara. Lo sa benissimo»
rispose.
«Sì, lo so» replicò lei.
«L’unico consiglio che posso darle è tenere conto dell’effetto che avrebbe
sul padre del morto ricevere quest’informazione aggiuntiva.»
«Perché avvalora l’ipotesi che il figlio fosse davvero pedofilo?»
«Non so» rispose Lynley. «Ma mi permetta di chiederle una cosa: come ha
ottenuto questa informazione?»
«Che qualcuno deve aver indagato su Ian Druitt? Ho chiesto a Ruddock se
riusciva a procurarmi la registrazione della denuncia anonima e lui me l’ha
spedita con la posta elettronica. Era specificata la data e ho visto che era
antecedente al fermo di Druitt di parecchi giorni.»
«Isabelle non ha sentito la registrazione?»
Barbara scosse la testa. «Mi aveva detto... In parole povere mi aveva
ordinato di non richiedere la registrazione in quanto avevamo già la
trascrizione della denuncia. Poi però Ruddock mi ha telefonato e mi ha detto
che me l’avrebbe mandata e io ho pensato che se smettevo di scrivere per
cinque minuti non succedeva niente.»
«Quindi ha contravvenuto a un preciso ordine del sovrintendente.»
Barbara rimase zitta. Qualcuno passò dietro la Healey Elliott e Lynley vide
che era il suo collega Philip Hale che si dirigeva verso la propria auto insieme
a Winston Nkata. Parlavano fitto e non si accorsero di lui e Barbara. Meglio
così.
«Capisco che si possa vederla in questo modo» ammise alla fine Barbara.
«Però...»
«Nessun però, sergente. Lei aveva ricevuto un ordine preciso.»
Barbara annuì, ma lo guardò come se sperasse di ottenere da lui qualcosa
che Lynley non poteva, e non voleva, darle. «Qualsiasi cosa proponessi di
fare, continua a ripetermi, anzi, continuava a ripetermi, che esulava dal nostro
mandato» disse.
«Ed era vero?»
«Per certi versi, sì» rispose Barbara.
«Quindi...» fu la conclusione di Lynley.
Tuttavia, quando Barbara se ne andò a capo chino, non partì alla volta di
Belsize Park, dove lo aspettava Daidre Trahair, e rimase in macchina a
riflettere. Dopo un po’ chiamò Daidre, le disse che avrebbe fatto tardi a causa
di un imprevisto e si avviò verso gli ascensori.
Entrò nell’ufficio di Isabelle e vide che si stava preparando a tornare a
casa. Sgombrava la scrivania infilando pratiche nei cassetti e incartamenti
nella ventiquattrore, ma quando lo sentì arrivare alzò la testa. «Ah, è venuta a
raccontarti tutto. Avrei dovuto immaginarlo. Voglio chiarire un paio di cose,
prima che tu cerchi di convincermi in un senso o nell’altro. Le ho detto che
voglio trovare il rapporto riveduto e corretto sulla scrivania domani mattina e,
se dovrà star qui tutta la notte, peggio per lei. Se pensavi di intrometterti,
cercherò di farla breve: lei ha i suoi ordini, io ho i miei e tu hai i tuoi. È così
che funziona, Tommy.»
«E quali sarebbero i miei ordini?»
«Tenerti fuori da faccende che non ti riguardano.» Finì di riporre i
documenti e chiuse la ventiquattrore. Siccome era in piedi, era di statura
superiore alla media e aveva un tacco cinque, si ritrovò con gli occhi alla
stessa altezza di quelli di Lynley. «Mi rendo conto che non ti piace essere
tenuto ai margini, ma nel caso tu avessi bisogno di qualche delucidazione,
sono pronta.»
«Se riguarda Barbara Havers, riguarda anche me» replicò Lynley.
«Lavoriamo insieme da molti anni e vorrei che la nostra collaborazione
continuasse anche in futuro. Non voglio che le venga imposto un
trasferimento perché si rifiuta di ubbidire a un ordine che comporta un
insabbiamento della verità.»
«Per favore, Tommy» replicò Isabelle, seccata. «Puoi evitare di parlare
come un professore di Oxford? Sei irritante, quando parli in questo modo, e
pure antipatico. Lo so perché parli così con me. La mia domanda è: cosa
pensi di ottenere sfoggiando i tuoi nobili natali?»
Lynley conosceva abbastanza Isabelle, sul piano sia professionale che
personale, da capire che stava cercando di cambiare discorso. «Barbara teme
che, se inserirà nel suo rapporto quello che ritiene essere un elemento
importante che la commissione per i reclami contro la polizia ha trascurato,
ignorato o cancellato da...»
«Stai insinuando che qualcuno della commissione abbia deliberatamente
omesso un particolare rilevante ai fini delle indagini... così, senza motivo?
Come ho cercato di spiegare al sergente Havers, la commissione aveva il
compito di chiarire le circostanze della morte di Ian Druitt, punto e basta. Il
loro mandato era appurare i motivi del fermo e di conseguenza anche il
nostro si limitava a questo. Il sergente Havers fa fatica ad accettarlo, forse
perché è abituata a indagare su casi di omicidio e non sulla correttezza
formale di una procedura giudiziaria. Può darsi che mi sbagli, naturalmente.
Dimmi, Tommy, tu cosa ne pensi?»
Lynley ammirò la manovra per spostare il discorso su di lui. «Non è
meglio per tutti se si scopre la verità?» rispose.
«Quale verità, Tommy? Il sergente Havers e io abbiamo già fatto più del
necessario. Abbiamo parlato con la padrona di casa di Druitt, abbiamo
verificato informazioni trovate sulla sua agenda, abbiamo rintracciato una
signora con cui si era incontrato un certo numero di volte prima di morire. Io
ho anche interrogato lo studente del college che gli dava una mano al circolo
per l’infanzia e il sergente ha parlato con il titolare di un pub e con un
vagabondo che ha assistito ad abbuffate alcoliche come quella che l’agente
ausiliario è stato chiamato a fermare la sera in questione. Barbara ha letto
dieci volte tutti i rapporti che ci sono stati messi a disposizione ed è venuta
con me a parlare con la dottoressa che ha effettuato l’autopsia. Mi posso
fermare qui o preferisci che continui? Perché ho l’impressione che la tua
teoria sia che...»
«Io non ho nessuna teoria, Isabelle.»
«... la tua teoria sia che, se l’indagine non riesce a dimostrare la veridicità o
la falsità di un’accusa che è indimostrabile senza testimoni o prove concrete –
cioè la pedofilia –, allora non è stata condotta in modo adeguato. Non sono
d’accordo. E non voglio che mi chiami Isabelle. Adesso, per favore, vorrei
andarmene a casa. È stata una giornata pesante.»
Lynley stette zitto un momento per fare il punto della situazione e per
valutare se fosse il caso di parlare o aspettare ancora. Poi andò a chiudere la
porta.
«L’argomento è chiuso, ispettore» disse Isabelle.
«Barbara a Ludlow si è accorta che esageri con l’alcol. Me ne ha parlato
mentre eravate in trasferta» disse Lynley.
Isabelle non ribatté, ma Lynley vide che si premeva la mano contro la
coscia con una tale forza che non le arrivava il sangue alla punta delle dita.
«Non far finta di non vedere dove ti sta portando questa cosa» le disse.
«Dove ti ha già portato.»
«Prima di tutto, non ti permettere di fare simili affermazioni» rispose
Isabelle a voce minacciosamente bassa. «Il mio consumo di alcol è moderato
e non dovrebbe essere motivo di preoccupazione per nessuno. Secondo,
preferirei che il sergente Havers evitasse di venirti a raccontare ogni cosa che
faccio. Nella sua posizione, oltre che inopportuno, è anche pericoloso.»
«Motivo per cui è venuta a raccontarlo solo a me. Possiamo sederci e
parlare un momento, per favore?» Le indicò le due sedie davanti alla
scrivania.
«No, non possiamo. Mi sembra di aver detto chiaro e tondo che non ce n’è
motivo. Se Barbara trae delle conclusioni su di me e le comunica a te e a
chissà chi altri...»
«Non lo ha fatto.»
«Quale delle due cose non ha fatto? No, non rispondere: la prima la
sappiamo già. Ha parlato con te senza aver manifestato il minimo disagio con
me. Anzi: ne ha approfittato per bere pure lei.»
«Cos’altro poteva fare, Isabelle? L’hai messa in condizione di non poter
dire nulla, pena il trasferimento al Nord. Avrà avuto paura di rifiutare un
drink. Non puoi non saperlo.»
«E tu non puoi non sapere che merita di trovarsi in questa situazione.»
«È vero, l’anno scorso ha sgarrato in maniera inqualificabile, ma tu sei
bravissima a spostare il discorso dal tema che non vuoi affrontare
introducendo argomenti che mettono il tuo interlocutore sulla difensiva.»
«Se Barbara Havers si mette sulla difensiva è perché...»
«Non sto parlando di Barbara Havers, per la miseria!»
Lynley era esasperato, principalmente con se stesso: aveva imparato da
molto tempo che alzare la voce con un tossico era del tutto inutile. Glielo
aveva insegnato suo fratello. Aspettò di aver ritrovato la calma. «Isabelle»
disse.
«Quante volte te lo devo dire, che non voglio...»
«Isabelle. Se vai avanti così, perderai ogni cosa. Hai già perso tuo marito e
i tuoi...»
«Taci!»
«... figli e fra un po’ perderai anche il lavoro. Non vuoi che succeda, vero?
Stai combattendo su più fronti e non ce la fai più.» Lynley avrebbe voluto che
Isabelle si sedesse. Avrebbe voluto sedersi con lei. Se fosse stato su una sedia
di fronte a lei, avrebbe potuto prenderle la mano e farle capire che
comprendeva la sua situazione, si immedesimava. Si illudeva che quel
contatto fisico l’avrebbe commossa. «Secondo me, tu questo non riesci a
vederlo perché è superiore alle tue forze, perché se lo vedessi dovresti
ammetterlo e, se lo ammettessi, dovresti prendere provvedimenti.
Provvedimenti seri e sensati, intendo, non pagare avvocati perché combattano
contro i mulini a vento» disse.
Isabelle stette un momento zitta, ma Lynley notò che le pulsava una vena
sulla tempia. «Sei il mio più amaro rimpianto, Tommy. Non so come abbia
fatto a mettermi con te. Sei molto bravo a letto, certo, e non sarò la prima che
te lo dice. Ma che tu adesso approfitti di un mio momento di debolezza per
rivolgermi queste accuse pesantissime... Quale sarà il tuo prossimo passo?
Andare a parlare con Hillier?»
«Non ti lascerò cambiare discorso e spostare la conversazione sul nostro
rapporto, di cui sostieni di essere amaramente pentita. Va bene, ne prendo
atto. Da parte mia, posso dire che forse mettermi con te non è stata una
grande idea, ma stavamo vivendo entrambi un momento di estrema fragilità.»
«Non ho mai vissuto momenti di ’estrema fragilità’. E sono impermeabile
ai tuoi modi formali.»
«Va bene. Come vuoi. Ma non è questo il punto. Non stiamo parlando di
noi e della nostra relazione, ma del fatto che bevi troppo e non per sfuggire ai
problemi e allo stress come all’inizio, ma perché non puoi più farne a meno.
Pensi di riuscire a controllarti, ma non è vero, e dopo Ludlow dovresti
esserne consapevole. Hai bisogno di aiuto.»
«Non certo da te.»
«Non mi sto offrendo volontario. Ma non voglio neppure farmi da parte e
assistere alla rovina tua e di quelli che ti stanno intorno. Gestisci il tuo
alcolismo come meglio credi, ma non prendertela con Barbara Havers. Perché
sappi che, se la farai trasferire altrove per ripicca, io non resterò a guardare.
Farò qualcosa che a te non piacerà.»
Si voltò per andarsene, ma le parole di Isabelle lo costrinsero a fermarsi.
«Non ti azzardare a minacciarmi.» Lynley si girò nuovamente per
guardarla in faccia. Isabelle proseguì gelida: «Sai a che cosa potrebbe
portarmi l’ultima frase che hai detto? Ti rendi conto che Hillier non vede
l’ora di sbarazzarsi di te, oltre che di Barbara? O ti illudi che un titolo
nobiliare ammuffito possa metterti in qualche modo al riparo? Hillier non
vede l’ora che tu commetta un errore per poterti scatenare contro l’inferno,
perché è invidioso della tua bella casa londinese e della tua fatiscente tenuta
in Cornovaglia, perché vorrebbe avere anche lui un titolo nobiliare oltre al
suo stupido ’cavaliere’ ed è convinto che tu, essendo un gradino sopra di lui
nella gerarchia delle insulsaggini, possa rallentare la sua ascesa a... cos’è che
vuole diventare? Baronetto?»
«Isabelle, devi...»
«Non dirmi cosa devo o non devo fare. Non sta a te.» Fece un gesto a
indicare l’ufficio in cui si trovavano, la conversazione in cui erano impegnati.
«Ti conviene credermi se ti dico che questo è esattamente ciò che Hillier sta
aspettando da te» proseguì. «Un imperdonabile atto di insubordinazione che
renda impossibile la tua permanenza nella Metropolitan Police. Basta che io
pronunci una parola... che riferisca ciò che ci siamo detti in questo ufficio...
una parola soltanto e...»
Lynley vide che Isabelle era scossa da un tremito convulso e aveva
bisogno di bere qualcosa. Aveva un aspetto così sofferente che quasi gli
venne voglia di aprire il cassetto della scrivania e prenderle una mignon di
vodka: era sicuro che ne avesse qualcuna nascosta lì dentro.
La guardò negli occhi. «Isabelle, ti parlo sia da collega che da amico: tu
stai male, hai paura, ma non sei l’unica, perché abbiamo tutti le nostre paure e
le nostre sofferenze, e cerchiamo di barcamenarci meglio che possiamo. Me
compreso, come tu ben sai. La modalità che hai scelto per far fronte ai tuoi
problemi, però, rischia di distruggere tutto ciò che hai di più caro e io voglio
essere sicuro che tu ne sia cosciente. Spero che tu faccia in modo che ciò non
succeda.»
Non aveva altro da dirle. Aspettò che lei replicasse, ma Isabelle rimase
zitta e dopo un po’ lui la salutò con un cenno del capo e se ne andò. Si fermò
un istante dietro la porta chiusa e sentì il rumore del cassetto che si apriva, ne
riconobbe il cigolio perché era stato seduto anche lui a quella scrivania
quando era sovrintendente facente funzioni in attesa che le alte sfere
decidessero chi mettere al posto di Malcolm Webberly, appena andato in
pensione.
Era il cassetto in basso a destra. Ci voleva un po’ di forza, per aprirlo, e si
rese conto che Isabelle faceva fatica. Poi sentì ciò che sperava di non sentire,
ovvero il rumore di un oggetto che veniva posato sul piano della scrivania,
seguito da un altro oggetto dieci, quindici secondi dopo. Isabelle avrebbe
fatto sparire entrambe le mignon nella borsetta, dopo averle svuotate.
Si guardò le scarpe e rifletté sulla situazione. Poi andò a cercare Barbara
Havers.
PARTE SECONDA
«Nulla ci inganna meglio delle bugie che
raccontiamo a noi stessi.»
RAYMOND TELLER,
illusionista della coppia Penn & Teller
15 MAGGIO
Wandsworth
Londra
Isabelle aveva passato la notte sul divano, anziché a letto, e quando si svegliò
aveva mal di schiena e il torcicollo, oltre che un terribile mal di testa. A
interrompere il suo sonno non furono né la sveglia né il televisore, che era
rimasto acceso tutta la notte, ma una sete insopportabile e il bisogno
impellente di andare al gabinetto.
Quando si fu tirata in piedi, si accorse di avere ancora addosso i vestiti che
si era messa per andare a cena con i figli a Maidstone. Erano stati da Pizza
Hut perché Isabelle era stata così incauta da lasciare a James e Laurence la
scelta del ristorante. Lei immaginava un posticino grazioso, i bambini
eleganti e lei con una mise raffinata, non code interminabili, tavolacci in
plastica, seggiole appiccicose, luci al neon e discussioni su aggiunta di olive,
funghi e altre porcherie. E, soprattutto, non immaginava che Bob e Sandra
volessero a tutti i costi accompagnarli e si sedessero abbastanza distanti da
non sentire che cosa si dicevano Isabelle e i bambini, ma abbastanza vicini da
osservare le loro interazioni e intervenire nel caso fosse successo qualcosa
che non gradivano.
Portare i figli a mangiare fuori una sera era il minimo che Bob e Sandra
dovevano concederle, aveva insistito Isabelle. Avevano vinto su tutti i fronti:
i bambini sarebbero partiti e lei li avrebbe persi per sempre. Aveva voglia di
spiegare personalmente a James e Laurence che i loro rapporti con la mamma
da lì in avanti sarebbero stati diversi e lo aveva fatto presente a Bob.
Alla fine aveva deciso di non portarlo in tribunale. Una lunga e
approfondita telefonata da parte dell’avvocato di Bob a Sherlock Wainwright
l’aveva indotta a desistere. Bob aveva astutamente aspettato fino a poterle
dire «non mi lasci altra scelta, Isabelle» e a quel punto aveva svelato al
proprio legale una serie di assi nella manica che questi aveva prontamente
riferito a Sherlock Wainwright, il quale non era stato affatto contento di
scoprire ciò che Isabelle gli aveva tenuto nascosto.
Con il tono severo di un preside, le aveva detto per telefono: «Pertanto lei
può riconoscere che la proposta di suo marito è il massimo che può sperare di
ottenere, date le circostanze, oppure mandarmi a quel paese e trovarsi un altro
avvocato. La realtà però è questa e qualunque legale la rappresenti prima o
poi ci si scontrerà. Il mio consiglio spassionato è di accettare i termini della
proposta del suo ex marito e risparmiare i soldi che spenderebbe in avvocati
per poter andare più spesso in Nuova Zelanda a trovare i suoi figli».
Isabelle avrebbe voluto continuare a battersi, ma sapeva che Bob aveva il
coltello dalla parte del manico. Glielo aveva messo in mano lei, peraltro. Che
cosa le restava, a parte la carriera che Bob minacciava di distruggerle se non
lo avesse assecondato? E così si era arresa, ma aveva preteso di portare fuori
a cena i gemelli. Erano finiti al Pizza Hut di Maidstone.
Le pareva quasi di sentire le parole con cui Bob aveva cercato di
influenzare i bambini sulla scelta del ristorante. «La mamma vi vuole portare
nel posto che vi piace di più. Il migliore dei migliori, secondo voi» aveva
quasi sicuramente detto, sapendo che cosa avrebbero scelto. Voleva farli
andare al Pizza Hut perché al Pizza Hut non servivano vino, birra e meno che
mai vodka.
I bambini erano a disagio, nonostante sembrassero conoscere benissimo il
locale. Laurence si contorceva come se avesse le mutande troppo strette e
James continuava a lanciare occhiate verso Bob e Sandra, come per
implorarli di correre in suo soccorso. Isabelle aveva fatto il possibile per
tenere viva la conversazione, parlando di tutte le cose che avrebbero fatto
insieme quando fosse andata a trovarli in Nuova Zelanda, chiedendo loro
della scuola che avrebbero frequentato e cosa sapessero del Paese nel quale
stavano per trasferirsi. Non c’erano animali velenosi, lo sapevano? C’erano
un sacco di opossum pelosi, però: ne avevano mai visto uno? E poi in Nuova
Zelanda si poteva fare surf e nuotare con i delfini, e c’era una spiaggia con
sorgenti termali sotterranee, in cui se scavavi un buco nella sabbia si riempiva
di acqua calda. Erano contenti di andare ad abitare lì?
Alle sue domande rispondeva soltanto Laurence, perché James stava a testa
bassa oppure guardava verso Bob e Sandra. Dopo un po’, esasperata, Isabelle
aveva battuto una mano sul tavolo e gli aveva chiesto bruscamente di prestare
un po’ di attenzione a lei, santo cielo! James allora era scoppiato a piangere e
Sandra era accorsa in suo aiuto. «Tranquillo, tesoro, c’è qui la tua mamma.»
Isabelle si era infuriata al punto che aveva temuto le partisse un embolo.
Sandra aveva preso in braccio James e gli aveva detto che la mamma lo
portava a casa, di non preoccuparsi. Isabelle aveva capito che protestare
avrebbe solo creato ulteriore scompiglio e le si sarebbe ritorto contro.
Sandra era andata via tenendo per mano il bambino scosso da un pianto
disperato e Bob era rimasto lì temendo che lei piantasse una grana di fronte a
Laurence, il quale, come suo solito, aveva fatto da paciere. Le aveva spiegato
che James era solo «un po’ preoccupato della scuola neozelandese, perché era
il più lento della classe e i suoi compagni lo prendevano in giro». Quando
Isabelle aveva ribattuto che James non era lento, Laurence aveva replicato:
«Purtroppo sì, mamma».
Avevano finito di mangiare in fretta e Laurence aveva declinato l’offerta di
un dessert. Isabelle aveva capito che non vedeva l’ora di tornare a casa da
James e, se la serata non fosse stata un disastro completo, si sarebbe
rallegrata di quel livello di solidarietà e premura fraterna. Appena Laurence
aveva scostato il piatto, Bob era comparso al suo fianco. «Siamo pronti,
allora?» aveva detto allegro. Isabelle si era offerta di accompagnarli a casa
ma Bob aveva rifiutato. «Prendiamo un taxi, grazie.»
Mentre Laurence si incamminava verso l’uscita, Bob aveva avuto la grazia
di dirle: «Scusa per Sandra. È iperprotettiva nei confronti dei bambini. È
saltata su subito e non mi ha dato il tempo di fermarla».
Isabelle aveva stentato a digerire quelle scuse, provenienti dall’uomo che
le stava rovinando la vita. «È questo che mi devo aspettare, d’ora in poi?»
«In che senso?» le aveva chiesto Bob.
«Nel senso che non mi sarà concesso di passare del tempo in privato con i
miei figli, che dovrò restare ai margini della loro vita, esclusa dal ruolo di
madre, relegata a quello di estranea che ogni tanto si fa viva per rompere le
scatole?»
Bob aveva guardato Laurence che, come Isabelle sapeva benissimo, era in
ansia perché temeva litigassero. Poi si era rivolto di nuovo a lei. «Sei tu che ti
sei messa in questa situazione, non capisci?»
E senza nemmeno aspettare che lei rispondesse aveva raggiunto Laurence,
gli aveva poggiato una mano sulla spalla e lo aveva condotto fuori, per
cercare un taxi. Isabelle era tornata a Londra con la sensazione che un mostro
le avesse strappato a morsi le budella. Aveva stabilito che meritava una
piccola consolazione a parziale risarcimento della serata disastrosa e aveva
tirato fuori la vodka dal freezer, se ne era versata tre dita, ci aveva aggiunto
un po’ di succo di cranberry e si era andata a sedere sul divano con bottiglia e
bicchiere. Aveva acceso la televisione e aveva trovato un film in costume in
cui minatori con la faccia annerita scendevano sotto terra armati di piccozza
mentre un bellone dai pettorali marmorei mieteva grano a petto nudo. Si era
lasciata sprofondare fra i cuscini e aveva guardato il drammone senza vederlo
veramente e senza pensare, bevendo fino a obnubilare la mente.
La televisione trasmetteva il notiziario del mattino a un volume
insostenibile. Isabelle cercò il telecomando e lo trovò, inspiegabilmente,
dentro una scarpa. Spense mentre andavano in onda le previsioni del tempo e
si diresse faticosamente verso il bagno. Constatato lo stato impresentabile dei
capelli, il trucco sfatto e gli occhi rossi, si spogliò cercando con l’altra mano
il collirio nell’armadietto. Dopo un po’ lo trovò, ma non riuscì a metterselo
perché le tremava troppo la mano. Decise di fare una doccia.
Sotto il getto di acqua calda, si chiese che ore fossero e si rimproverò di
non aver controllato prima. Finì in fretta di lavarsi, lasciandosi
semplicemente scorrere l’acqua addosso sulla testa e lungo la schiena per la
maggior parte del tempo, e trovò l’orologio dopo lunghe ricerche. Lo aveva
lasciato nel freezer, al posto della bottiglia di vodka, che era rimasta invece
sul tavolino basso davanti al divano. Si impose di non guardarla e di non
pensarci e andò a vestirsi in camera da letto.
Poi tornò nel bagno e si applicò fondotinta e fard senza problemi. Quando
riprovò a mettersi il collirio e a truccarsi palpebre e ciglia, tuttavia, il tremito
si ripresentò e fu costretta ad ammettere che la doccia non era servita a nulla.
Decise perciò di porre rimedio nell’unica maniera possibile. Era solo per
bloccare il tremore e rendersi presentabile per il lavoro, si disse. E poi se lo
meritava: la sera prima con James e Laurence non aveva bevuto neanche un
goccio. In qualche modo, se lo doveva.
Chalk Farm
Londra
Barbara era contenta di poter tornare alle tortine, dopo le colazioni malsane di
Ludlow. Già solo le uova le avevano certamente alzato il colesterolo, per non
parlare della pancetta, del pane e burro e poi i funghi, i fagioli, la
marmellata... Era un miracolo che fosse sopravvissuta abbastanza a lungo da
potersi tostare una tortina cioccolato e caramello. La accompagnò a un tè PG
Tips con latte e due zollette di zucchero. Senza il minimo senso di colpa, si
accese la prima sigaretta della giornata godendosi quel momento di
beatitudine. Non era ancora sveglia del tutto, decise: aveva bisogno di
qualcosa di più. La sera prima era stata un’esperienza epica: cena con Kaz e
Dorothea dopo la lezione di tip tap.
Quando aveva capito che Kaz sarebbe uscito con loro, aveva cercato di
svicolare. Era convinta che fosse la cosa giusta da fare: dopo tutto Dorothea
si era presentata alla lezione con un abbigliamento degno di Catwoman e
Barbara era sicura di non essere l’unica del gruppo a pensare che la tutina
aderentissima dalla scollatura vertiginosa fosse una scelta finalizzata a far
colpo sull’istruttore.
Dorothea però non aveva voluto sentire ragioni: Barbara doveva
accompagnarla per forza, erano una squadra e quindi dove fosse andata l’una
sarebbe dovuta andare anche l’altra. Nel caso specifico, Barbara doveva
cenare con Dorothea. E con Kaz.
Era venuto fuori che Dorothea aveva un secondo fine e che quel secondo
fine riguardava l’audizione per il saggio di danza di luglio: come prevedibile,
infatti, aveva eseguito una prova impeccabile, ma Barbara non altrettanto e di
conseguenza era stata relegata a una coreografia di gruppo cui comunque non
aveva alcuna intenzione di partecipare. Dorothea era stata affiancata alla
talentuosa e determinata Umaymah. Barbara aveva cercato di mascherare
l’enorme sollievo e aveva detto a Dorothea, fingendosi delusa: «Meglio così,
alla fine». Dorothea non se l’era bevuta.
E l’aveva voluta a tutti i costi portare a cena. A tavola, aveva spiegato a
Kaz che la sua coreografia richiedeva una quantità di ancheggiamenti e
sculettate che difficilmente avrebbero riscosso l’approvazione del marito di
Umaymah, per non parlare di suo padre, dei suoi fratelli e degli altri uomini
della famiglia. Barbara l’aveva guardata come a dire: Quale coreografia?
Dorothea però aveva finto di non essersene accorta e aveva rivolto gli
occhioni celesti all’istruttore per sfoderare un sorriso che poteva solo
significare: Vieni a me, mio prediletto.
Barbara aveva cercato di togliere il disturbo in due occasioni. Le era chiaro
che, perlomeno agli occhi di Kaz, era la quinta ruota del carro. Dorothea
glielo aveva impedito entrambe le volte e aveva lasciato che si allontanasse
dal tavolo soltanto quando Barbara le aveva fatto notare che, se avesse
continuato a impedirle di andare alla toilette, avrebbe messo in imbarazzo
tutti facendosela addosso. Una volta ottenuto il permesso di alzarsi dal posto
che Dorothea le aveva assegnato – schiacciata fra il tavolo e il muro, tanto
che per districarsi aveva dovuto far alzare i suoi commensali e quelli del
tavolo vicino – Barbara si era data alla fuga. Aveva avvertito Dorothea con
un sms soltanto dopo essere salita sulla metropolitana: «Mi sono venuti i
piedi piatti. Kaz vuole restare solo con lei. Faccia la brava, mi raccomando».
Nonostante la fuga, era arrivata a casa più tardi del previsto e la prospettiva di
esibirsi in pubblico con le scarpette da tip tap le aveva messo un’ansia tale
che per prendere sonno aveva dovuto sfogliare la sua copia consunta del
Bartlett’s Familiar Quotations nella sezione dedicata a Shakespeare,
cercando nuove citazioni sull’omicidio. Fino a quel momento si era limitata
alle tragedie e ultimamente aveva letto quelle tratte dall’Otello, pur dubitando
di trovarsi in una situazione che le consentisse di declamare «tua figlia e il
Moro stanno facendo la bestia a due groppe» o «io presi per la gola il cane
circonciso e lo finii così». Meditando su questo, si era finalmente
addormentata, ma pochissimo tempo dopo le cannonate della 1812 l’avevano
buttata giù dal letto.
Stava finendo le briciole della seconda tortina quando le squillò il cellulare,
che aveva lasciato sul tavolino accanto al divano letto su cui ogni notte dava
appuntamento a Morfeo. Lo guardò male sperando che smettesse di
riproporle l’attacco della sigla di Ai confini della realtà. Dopo dieci secondi
la musichetta smise, ma cinque secondi dopo riprese. Temendo che la cosa si
ripetesse senza soluzione di continuità fino al suo ingresso in ufficio, Barbara
si alzò da tavola e andò a rispondere.
Dorothea Harriman era affannata. «Sergente investigativo Havers?»
«Se si aspettava di parlare con qualcun altro, devo darle una delusione»
rispose Barbara. «È stata una notte di fuoco?»
«Volevo avvisarla, Barbara: è furibonda» rispose Dorothea sottovoce.
«Di chi stiamo parlando?»
«Di Sua Eccellenza: e di chi altro? Vuole vederla subito.»
«Sa perché?»
«No. So solo che ha a che fare con il vicecommissario. Sinceramente,
preferisco non sapere altro.»
Barbara chiuse la chiamata. Una convocazione immediata nell’ufficio del
sovrintendente Ardery non era di buon auspicio, come inizio di giornata.
Imprecò fra sé e sospirò. Poi infilò nel tostapane una terza tortina.
Victoria
Londra
La scelta migliore per arrivare in poco tempo in Victoria Street da Chalk
Farm non esisteva: Barbara poteva lasciarsi stritolare dal traffico oppure
affidarsi alla notoriamente inaffidabile Northern Line. Per non pagare la
congestion charge optò per la metropolitana e percorse la strada che separava
casa sua dalla stazione di Chalk Farm con il piglio di un marciatore olimpico.
L’attesa in stazione fu sgradevole e la quantità di gente che aspettava il
treno ancora di più, ma il peggio fu senza dubbio il viaggio su un treno
affollatissimo che sarebbe stato il sogno di qualunque terrorista. I pendolari si
ignoravano come al solito e sgomitavano in cerca della postazione migliore
come gattini in cerca della tetta, ma contemporaneamente scrivevano sul
cellulare, leggevano il giornale oppure ascoltavano musica con gli auricolari.
Barbara si ritrovò accanto a un tizio che stava mangiando un sandwich con le
sardine.
Impiegò quasi un’ora ad arrivare alla stazione di St. James’s Park. Corse in
strada e si diresse a passo svelto verso il complesso grigio di New Scotland
Yard, che si ergeva dinanzi a lei come un monolite. Prima di entrare dovette
sottoporsi ai consueti controlli, code infinite, raggi X, altre code,
perquisizioni che diventavano più complesse ogni anno che passava.
Finalmente raggiunse gli ascensori.
Stava correndo verso l’ufficio di Isabelle Ardery quando il sovrintendente
fece capolino dalla porta e ringhiò a Dorothea: «Mi sembrava di averle detto
di convocarla immediatamente. Dove diavolo è?» Prima che Dorothea
potesse replicare, vide Barbara. «Venga» le ordinò, poi fece dietrofront e
rientrò in ufficio.
Barbara e Dorothea si scambiarono un’occhiata. «Quando è arrivata, il
vicecommissario la stava aspettando. Avevano la porta chiusa, ma li ho
sentiti alzare la voce» mormorò Dorothea.
Maledizione, pensò Barbara.
Entrò senza sapere che cosa aspettarsi, temendo di trovarsi di fronte Hillier
nella sua versione peggiore, ma il sovrintendente Ardery era sola. «Chiuda la
porta!» la apostrofò in piedi dietro la scrivania.
Barbara eseguì all’istante.
Mentre quest’ultima si avvicinava, Isabelle prese in mano una cartellina.
«Si sieda» ordinò, e quando Barbara si accomodò sulla sedia davanti alla
scrivania, le lanciò addosso la cartellina. «Lei qui ha finito» decretò. «Firmi.»
Barbara la guardò sgomenta. «Cos’è successo?»
«Firmi e si tolga dai piedi. Svuoti la sua postazione e stia attenta a prendere
soltanto ciò che le appartiene. Se le trovo addosso una graffetta non sua,
sappia che...»
«Mi dica che cosa è successo!» la interruppe Barbara.
«Stia zitta e firmi quel foglio. Deve essere contenta che sia solo un
trasferimento e non ciò che meriterebbe, e cioè il licenziamento. Se fosse in
mio potere, farei in modo che nessuna forza di polizia al mondo la assumesse
neppure come lavacessi. Le è chiaro il concetto?»
«No!» urlò Barbara. Intuiva che doveva essere successo qualcosa di
terribile, ma non aveva la minima idea di cosa potesse essere. «Ho fatto tutto
quello che mi ha chiesto. Ha ammesso lei stessa che ho... che non ho...» si
difese. Aveva perso il filo del discorso, tanto era confusa. Si impose di
mantenere il controllo. «Se vuole che firmi la domanda di trasferimento»
disse, «mi deve almeno spiegare perché. So che Hillier la aspettava al varco
stamattina e deduco che sia successo qualcosa di...»
«Mi ha sentito?» Isabelle aprì il cassetto della scrivania, prese una
manciata di penne e gliele lanciò addosso. «L’ha fatta veramente grossa,
sergente, e lei è specializzata nel farle grosse. Ma le assicuro che questa è
l’ultima volta che mi...»
«Non è vero! Cos’ho fatto? Me lo dica!»
«Le ho detto di firmare quel foglio!» Isabelle fece il giro della scrivania,
raccolse una delle penne che erano cadute per terra, prese la mano di Barbara
e gliela fece impugnare. Poi spinse più vicino al tavolo la sedia su cui era
seduta. «Metta la sua firma su quel modulo! O ha intenzione di disubbidire
anche a quest’ordine? Perché lei fa sempre di testa sua, crede di essere
onnisciente, Dio sceso in terra. Indipendentemente da ciò che le viene
chiesto, da come le viene chiesto e da quando le viene chiesto, con supremo
disprezzo delle regole, se lei non è d’accordo, se la cosa non le piace o non la
vuole fare, lei si rifiuta. Adesso firmi!» urlò.
«Ma non... La smetta!» Barbara spinse via Isabelle e fece per alzarsi, ma
Isabelle la costrinse a tornare a sedersi. «Basta! Mi ha stufato! Nessuno ne
può più di lei! Pensava di passare inosservata? Pensava di riuscire a farla
franca? È davvero così ottusa?» strillò.
«Inosservata? Farla franca? Mi vuole dire che cosa...»
Inaspettatamente, si intromise una voce. «Lasciala stare, Isabelle. Non ha
fatto niente».
Si voltarono entrambe e videro che Lynley si era unito a loro. «Chi ti ha
autorizzato a entrare? Vattene immediatamente, altrimenti ti farò trascinare
via a forza da...» gridò Isabelle.
«Non è stata Barbara» disse Lynley con la massima calma, com’era suo
uso e costume. «Non sa di cosa parli.»
«Non schierarti dalla sua parte.»
«Non sarebbe in grado di parlare neanche sotto tortura» insistette Lynley.
«Gliel’ho mandato io.»
«Che cosa ha mandato?» urlò Barbara. «A chi? Cosa?»
«Il primo rapporto che ha scritto» rispose Lynley. «Quello che il
sovrintendente le ha fatto correggere. L’ho mandato io a Clive Druitt, di cui
non ho fatto fatica a trovare l’indirizzo. Suppongo che Druitt sia andato dal
suo deputato di riferimento, il quale a sua volta deve aver contattato Hillier.
Ci accusano di aver insabbiato il caso o di essere dei perfetti incompetenti.»
Poi si rivolse a Isabelle. «Quale delle due, sovrintendente Ardery?»
La risposta di Isabelle fu di gelida rabbia. «Scendi dal piedistallo,
presuntuoso che non sei altro. Ti rendi conto di quello che hai scatenato?»
Invece di rispondere a Isabelle, Lynley si rivolse a Barbara. «Forse è
meglio che ci lasci soli, sergente».
«Lei non va da nessuna parte!» urlò Isabelle. «Non abbiamo ancora finito.»
Lynley, che era rimasto vicino alla porta, a quel punto si avvicinò a
Isabelle e la guardò dritto negli occhi. A Barbara sembrò che l’elettricità che
scorreva fra loro fosse sufficiente a far funzionare un frigorifero per un mese.
«Come dicevo, Barbara non ne sa niente» disse Lynley in tono assolutamente
ragionevole. «Mi ha dato il rapporto perché lo leggessi e mi ha confidato le
proprie perplessità riguardo alla parte che le avevi chiesto di espungere.
Voleva la mia opinione e io gliel’ho data.»
«Me lo immagino!» esclamò sdegnata Isabelle. «E che opinione si era fatto
il sommo Lord Asherton, nella sua smisurata superbia?»
«Mi ha detto che dovevo fare quello che mi aveva ordinato lei,
sovrintendente» si affrettò a precisare Barbara. «E io ho corretto il rapporto.
Gliel’ho consegnato, no? Togliendo la parte che riguardava...»
«Andatevene, tutti e due! Via da qui!»
Isabelle tornò dietro la scrivania e Barbara decise di non aver bisogno di
ulteriori inviti per levare le tende. Si alzò, mise un piede su una delle penne
che le aveva lanciato contro il sovrintendente e scivolò. Lynley la sorresse,
impedendole di cadere, e Barbara scattò rapida verso la porta in cerca di
acque più tranquille mentre Lynley diceva: «Cerca di capire, Isabelle, che ci
sono dei motivi per cui...»
Barbara chiuse la porta mentre Isabelle gridava: «Tu non ti rendi conto di
quello che hai fatto! Ma non te ne importa nulla, vero? A te importa solo la
tua visione del mondo, perché ti credi un essere superiore in quanto
aristocratico, ma sei insopportabile!»
Con la porta chiusa, Barbara non riuscì a decifrare la risposta di Lynley.
Colse però la replica di Isabelle, perché fu pronunciata a un volume
esageratamente alto. «Non mi dare colpe che non ho! Non ci provare
nemmeno! Ti immischi nelle faccende altrui perché la tua vita... la tua
miserabile vita... La famiglia in cui sei nato che ti ha agevolato in qualsiasi
cosa decidessi di fare...»
Altro borbottio di Lynley, seguito da: «Non voglio sentire un’altra parola.
Sparisci, prima che chiami la sicurezza. Mi hai sentito? Sei diventato sordo?
T’ho detto di andartene!»
Barbara scappò e vide che Dorothea stava facendo lo stesso.
Victoria
Londra
Andò a rifugiarsi nella toilette con il cuore a mille. Aveva bisogno di un
attimo per riprendersi. Anche un po’ di più. Tutta la mattina, magari. Aveva
una voglia matta di fumare, ma non voleva rischiare. In un altro momento
magari ci avrebbe provato, soffiando il fumo nel gabinetto e sperando di
occultare il reato tirando ripetutamente lo sciacquone, pur sapendo che non
era sufficiente. Date le circostanze, però, accendersi una sigaretta lì sarebbe
stato un suicidio. Aprì il rubinetto e meditò se mettere la faccia sotto il misero
getto.
Era sconvolta da ciò che aveva fatto Lynley. Non era la prima volta che
metteva la propria carriera sull’altare del sacrificio, ma era sicuramente la
prima volta che agiva in maniera subdola. Lynley non era subdolo. Era più il
tipo da lanciare il guanto di sfida con gesto plateale. Probabilmente era per
via delle sue nobili origini, nelle vene gli scorreva sangue blu. Chissà come
avrebbe reagito il vicecommissario nell’apprendere che era stato Lynley a
spedire a Clive Druitt il rapporto in versione originale, si chiese.
Probabilmente gli sarebbe venuto un colpo apoplettico.
Non appena si fu ripresa nella quiete della toilette, tornò alla scrivania e si
rese conto del fermento generale. Lynley era tornato nel suo ufficio, con la
porta aperta, imperturbabile come al solito. Barbara lanciò un’occhiata al
sergente Winston Nkata, che piegò la testa di lato e alzò le spalle. Raggiunse
Lynley.
L’ispettore investigativo stava per fare una telefonata, ma quando vide
Barbara sulla porta si bloccò. Inarcando un sopracciglio le chiese con grande
pacatezza che cosa desiderasse. «Ispettore, io non... Perché l’ha fatto?
Potrebbe... voglio dire... non è una...» rispose lei.
Lynley le rivolse un mezzo sorriso. «È la prima volta che rimane senza
parole da quando la conosco, Barbara.»
«Perché l’ha fatto?»
Lynley alzò una mano e poi la riabbassò. Era un suo gesto tipico, che
significava: Cos’altro potevo fare? In realtà Barbara avrebbe potuto
elencargli un bel po’ di altre cose che avrebbe potuto fare. «Allora?»
«Verrà fuori tutto, sergente. Tutto quanto. Isabelle – il sovrintendente
Ardery – ne è consapevole, mi creda» rispose Lynley.
Barbara annuì. Aveva capito. Lynley non stava parlando soltanto delle due
versioni del rapporto.
Victoria
Londra
Era passato da poco mezzogiorno quando Lynley ricevette il messaggio che
aveva previsto. Era sorpreso che non fosse arrivato prima: pensava di avere
appena il tempo di rientrare in ufficio prima che Judi MacIntosh, novello
arcangelo Gabriele senza la tromba, gli facesse giungere la voce dalle alte
sfere. Invece al Tower Block era cominciato tutto con la convocazione del
vicecommissario da parte del commissario. Judi, che faceva da segretaria a
entrambi, riferì a Lynley in tono sommesso, da confessionale, che si era
trattato di un lungo colloquio a porte chiuse. Al termine, Hillier aveva
richiesto in tono adirato di chiamare immediatamente Lynley e lei aveva
pensato di agevolare l’ispettore inventandosi che Lynley al momento non si
trovava al Victoria Block. Lo aveva fatto perché, a suo avviso, Sir David
aveva bisogno di un’oretta per sbollire. E di conseguenza aveva aspettato a
informarlo che Dorothea Harriman l’aveva avvertita del presunto ritorno di
Lynley in ufficio. Judi concluse chiedendo a Lynley il permesso di informare
Hillier che stava per raggiungerlo. Ora? Lynley promise di andarci subito.
Isabelle doveva aver parlato con Hillier. Poiché le fiamme ormai le
lambivano i piedi, era naturale che si adoperasse perché anche Lynley venisse
messo al rogo. Se Hillier aveva la schiuma alla bocca e una gran voglia di
metterle le mani al collo – «Vacci piano con le metafore!» si disse Lynley –
per cercare di salvarsi, Isabelle non poteva fare altro che prendersela con chi
aveva spedito il rapporto a Clive Druitt.
Non poteva biasimarla. Non poteva neanche accusarla di aver sbagliato,
dicendo a Barbara di togliere dal rapporto ogni riferimento ai giorni trascorsi
fra la denuncia anonima e il fermo, da cui si poteva inferire che sulla presunta
pedofilia di Ian Druitt qualcuno avesse indagato o avrebbe dovuto indagare.
Forse non era un fatto rilevante ai fini del mandato che era stata chiamata a
svolgere nello Shropshire, ma era comunque rilevante perché un uomo era
morto mentre si trovava in stato di fermo. E di conseguenza, secondo Lynley,
andava specificato nel rapporto.
Quando entrò nell’ufficio, il vicecommissario gli indicò con un cenno del
capo una sedia. «Mi aiuti, ispettore: sto cercando di capire quale fra i
numerosi cumuli di letame in cui siamo immersi rappresenti la peggior
castroneria commessa in queste ultime settimane. Lei cosa ne pensa?»
Hillier non era tipo da chiedere lumi a un sottoposto. Per carattere, prima
sganciava la bomba e poi si interrogava sulla precisione del lancio. Lynley
sapeva che il vicecommissario si aspettava che lui desse la risposta sbagliata
e gli fornisse un pretesto per fare ciò che aveva comunque già deciso di fare.
Il problema era capire che cosa avesse deciso di fare Hillier. Lynley non era
preoccupato tanto per sé, quanto per Barbara.
«È stato informato del fatto che ho mandato a Clive Druitt il rapporto del
sergente Havers prima che lo correggesse, vedo» disse.
«Holmes, lei mi meraviglia» rispose Hillier sardonico, senza cambiare
espressione.
«Ero d’accordo con il sergente Havers.»
«Mi sta dicendo che spedire il rapporto a Druitt è stata un’idea del sergente
Havers?»
«No. Lei non ha neanche nominato il signor Druitt. Mi ha espresso le sue
perplessità riguardo all’opportunità di modificare il rapporto come da ordini
ricevuti e mi ha chiesto un parere. Per poterglielo dare, ho dovuto leggere
entrambe le versioni del rapporto. Mi sembra ovvio che la questione dei
diciannove giorni fra la denuncia anonima e il fermo di Ian Druitt andasse
approfondita. Faceva parte del nostro accordo.»
«Infatti.» Hillier non lo disse come se approvasse il ragionamento di
Lynley, ma come se stesse semplicemente seguendo il suo filo logico.
«Secondo Barbara, o la commissione per i reclami contro la polizia ha
notato che era passato del tempo fra la denuncia e il fermo e non l’ha ritenuto
rilevante, oppure – ed è più probabile – non l’ha notato proprio. Sono
d’accordo con lei e mi sembra che ometterlo rischi di peggiorare
ulteriormente la situazione.»
«Lei dice?»
«Cosa, signor vicecommissario?»
«Che rischia di peggiorare la situazione. Nel qual caso, mi chiedo come
mai non sia andato a esternare le sue preoccupazioni al suo diretto superiore.»
Hillier intrecciò le dita sulla scrivania e Lynley notò che aveva le unghie
curatissime e un anello d’oro con sigillo. Resse lo sguardo di Hillier e pensò
che quell’ufficio era veramente silenzioso, con la porta chiusa. Vi regnava
una quiete da chiesa, rotta soltanto dalla sirena di un’autoambulanza che
passava.
«È stata Isabelle Ardery a impartire quell’ordine. Di fatto non ha lasciato
alternative al sergente Havers. Un uomo è morto in stato di custodia cautelare
e...»
«Crede che non ne sia al corrente?» lo interruppe burbero Hillier.
«... e io credo che suo padre meriti di sapere che cosa è effettivamente
successo. O, nel caso specifico, che cosa non è successo e cioè che nessuno
ha prestato attenzione all’intervallo di diciannove giorni fra la denuncia e il
fermo, nessuno ha neppure specificato che c’era stato. Non potevamo non
scriverlo nel nostro rapporto.»
Lynley avrebbe potuto proseguire, sottolineando che la testardaggine con
cui Isabelle si era rifiutata di riconoscere l’importanza di quella cosa, o anche
solo l’esistenza del problema, era preoccupante, ma non voleva che né
Barbara Havers né Isabelle subissero le conseguenze di un gesto che aveva
scelto lui di fare.
Non lo rassicurò vedere che Hillier si alzava per andare alla finestra a
guardare fuori. Da dove era seduto, Lynley vedeva soltanto il cielo azzurro,
ma Hillier aveva modo di ammirare il verde oltre i palazzi lungo Birdcage
Walk.
«Quella donna ha fatto una cazzata monumentale» commentò Hillier.
«Mi permetta, ma non sono d’accordo» ribatté pronto Lynley. «Ha cercato
fin dall’inizio di chiarire i punti oscuri in modo tale che, se la cosa fosse finita
in tribunale, noi fossimo...»
«Non mi riferivo a Barbara Havers» lo interruppe Hillier. «Che pure è la
regina delle cazzate monumentali. No, mi riferivo a Isabelle Ardery. È stata
colpa sua. Le assicuro che mi costa fatica ammettere che stavolta il sergente
Havers non ha responsabilità nel pasticcio in cui è coinvolta. Non sappiamo
cosa sia successo al sovrintendente, ma vogliamo andare a fondo alla
questione.»
Lynley notò con un certo sgomento l’uso del noi, ma sperò che si trattasse
di un plurale maiestatis. Stette zitto in attesa che Hillier chiarisse.
«Sono stato un idiota a confermarle l’incarico a tempo indeterminato.
Adesso licenziarla sarebbe un incubo. Strozzerei Malcolm, se fosse qui.»
Lynley seguì il ragionamento del vicecommissario fino alla sua logica
conclusione: Malcolm era Malcolm Webberly, che occupava la poltrona di
sovrintendente prima di Isabelle e aveva deciso di andare in pensione
anticipata a seguito di un omicidio stradale. La carica era stata offerta
anzitutto a Lynley, che però aveva rifiutato, quindi l’attuale distribuzione
delle cariche era la conseguenza di una scelta di Lynley. In quel momento la
situazione era assai precaria e Lynley si sentì male al pensiero di poter essere
la causa del licenziamento di Isabelle.
«Il suo modo di vedere le cose non era scorretto, comunque» disse.
Hillier si voltò. Avendo la finestra alle spalle, era controluce e Lynley non
riusciva a vedere la sua espressione. «Il modo di vedere le cose di chi?»
domandò Hillier.
«Del sovrintendente Ardery. Secondo lei, lo scopo della missione nello
Shropshire era verificare il rapporto della commissione per i reclami contro la
polizia e stop. Il rapporto edulcorato...»
«La prego di evitare certi termini, ispettore. La situazione è già abbastanza
critica.»
«Il secondo rapporto di Barbara Havers lo evidenzia: il mandato ricevuto
dal sovrintendente si limitava a quello.»
Hillier tornò a sedersi, giocherellò un momento con la penna che aveva
davanti. «Non può tenere il piede in due scarpe, ispettore. O lei ha sbagliato a
spedire il rapporto nella versione originale, o ha sbagliato Isabelle Ardery a
ordinare al sergente Havers di correggerlo. Quale sceglie?»
Bella trappola, pensò Lynley. «Dipende dai punti di vista» rispose.
«Lei quale sceglie, ispettore?»
«Non si tratta di scegliere. Esistono entrambi.»
Hillier sbuffò. «Lei è proprio un bel tipo, sa?»
«Mi scusi?»
«Ha sempre la risposta pronta. Anche in questa situazione, che ha portato
un parlamentare a presentare un reclamo contro la polizia che sfocerà quasi
certamente in un’azione legale più o meno pretestuosa. Sono riuscito a
ottenere altri dieci giorni di tempo, ma se non riusciremo a produrre risultati
soddisfacenti... qualche testa cadrà. Mi sono spiegato?»
Lynley non era per nulla contento di come si stavano mettendo le cose.
«Risultati soddisfacenti?» chiese. «A che cosa si riferisce?»
«Al lavoro che lei dovrà svolgere, ispettore. Credeva di potersi
immischiare in questa faccenda e poi lavarsene le mani?»
Lynley capì dove voleva andare a parare Hillier e si rese conto di essersela
cercata. Provò comunque a svicolare. «Mi scusi, ma ho già dovuto annullare
le ferie quando...»
Hillier scoppiò in una sonora risata. «Crede che mi importi qualcosa delle
sue ferie?» Non aspettò risposta. «Ci andrà lei nello Shropshire, ispettore
Lynley, e spalerà via tutto il letame che si è accumulato, a costo di farlo con
un cucchiaino da tè. Le è chiaro? Il sergente Havers verrà con lei. Se fra tutti
e due non riuscirete a risolvere questo pasticcio nell’arco di otto giorni,
tenuto conto che uno se ne andrà per il viaggio e uno per redigere il rapporto,
ne risponderete a me. Sia voi due sia il sovrintendente Ardery. Sono stato
chiaro?»
Non c’era nulla da dire. «Chiarissimo» rispose Lynley.
«Mi fa piacere. Può andare, ispettore. Non voglio sapere niente finché non
avrete risolto. In maniera soddisfacente, ripeto. A mio insindacabile
giudizio.»
16 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
Non c’era un solo aspetto della sua vita ancora integro. Si sentiva come uno
specchio infranto da una pietrata, percorso da centinaia di crepe che partivano
tutte dallo stesso punto. Ding faceva talmente fatica a tirarsi giù dal letto la
mattina che certe volte non si alzava nemmeno. E la causa di tutto era stata
lei, quindi non aveva neppure l’illusoria consolazione di potersela prendere
con qualcun altro.
Aveva messo in chiaro con Brutus che se il loro era un rapporto di amicizia
«privilegiata», anche lei poteva frequentare altre persone. Finn, per esempio.
Ding era ubriaca, lui era fumato e l’incontro era stato disastroso sotto tutti i
punti di vista. Ma, come lei sperava, la mattina dopo Brutus aveva incrociato
Finn mentre usciva da camera sua e il commento di Finn – «Pure io, Brucie»
– non necessitava di ulteriori spiegazioni poiché Finn era nudo, lo aveva detto
ridendo e aveva accompagnato la frase con un’eloquente mossa del bacino.
«Anche a te Ding fa certe cose? E tu vai con le altre?» aveva aggiunto, nel
caso Brutus non avesse capito.
Quella stessa sera Brutus aveva portato a casa Allison Franklin. L’aveva
preceduta lungo le scale e lei si era prodotta in risate e gridolini, aveva fatto
la ritrosa ma al momento di salire aveva lanciato un’occhiata trionfante verso
il salotto, dove Ding stava cercando di sintonizzare meglio il televisore
antidiluviano che aveva portato lì mesi prima da Cardew Hall. Finn era con
lei e credeva di aiutarla brontolando che le femmine sono negate per la
tecnologia e insistendo perché lasciasse fare a lui.
Ding aveva sentito aprire la porta d’ingresso, l’aveva sentita chiudere e
aveva riconosciuto la voce sommessa di Allison Franklin che diceva: «Non
ce la faccio, Bruce. Sul serio. Con lei in casa non ce la posso fare». Ding si
era sforzata di ignorarli, ma era stato impossibile, specie perché Finn aveva
urlato ai due mentre salivano le scale: «Silenziate gli orgasmi, per cortesia.
Cercheremo di tenere basso il volume pure noi».
Gli occhi di Ding avevano incontrato quelli di Brutus. Lui era rimasto
impassibile e lei aveva fatto la faccia indifferente. Li aveva sentiti salire e
chiudersi in camera e non li aveva più rivisti fino al giorno dopo.
Non si aspettava di soffrire così tanto. L’unica era provare a distrarsi e la
distrazione più facile le bussava alla porta quasi ogni sera, dopo la prima
notte. Ogni volta lei apriva e faceva in modo che Finn se ne andasse
soddisfatto e tornasse la sera successiva.
Dopo la terza volta, Brutus gliene aveva parlato. Non a casa, ma in Castle
Square. Ding stava andando a lezione per cui Brutus aveva avuto poco tempo
per dirle ciò che le voleva dire, per fortuna.
«Dobbiamo parlare, io e te.» E, senza aspettare che Ding rispondesse,
perché ovviamente si era accorto che era arrabbiata e non gli rivolgeva la
parola, aveva dichiarato: «Ho recepito il messaggio».
«Quale messaggio?» Ding aveva finto stupore. «Non so di cosa parli. Se
alludi a me e Finn...»
«Non esiste nessun ’me e Finn’. Così come non esiste un ’me e te’.»
«Hai una bella faccia tosta.»
«Per favore, Ding. Quello che stai facendo con Finn... non è da te. Non ti si
addice.»
Le era venuta voglia di dargli uno spintone e farlo cadere per terra, di
prenderlo a calci negli stinchi e comportarsi come una bambina di otto anni,
perché Brutus la conosceva troppo bene e lei lo odiava per questo.
«Abbiamo un’amicizia ’privilegiata’» gli aveva detto. «Io e Finn. E la cosa
non ti riguarda.»
«Non fare l’idiota, Ding. Sai perfettamente che lo fai per ripicca: visto che
io mi scopo Allison, tu ti scopi Finn. Non ci saresti mai andata, se io non mi
fossi portato a letto Allison.»
«Ah, è così che la pensi, eh? Mi leggi nel pensiero? O la regola vale solo
per te?»
«La regola vale se uno vuol farla valere.» Brutus aveva spostato il peso da
un piede all’altro e si era passato una mano fra i capelli. Come al solito,
sembrava un figurino: non c’era da meravigliarsi che le ragazze cascassero
tutte ai suoi piedi. «Il fatto è che... Insomma, non è che tu non mi piaci, Ding.
Mi piaci molto, anzi. Moltissimo. Ma a parte questo... L’esclusiva... Non so
come fartelo entrare in testa, Ding: l’esclusiva non fa per me. Non mi basta.»
«Questo l’ho capito» aveva ribattuto lei. «E ho capito anche che non basta
nemmeno a me. Devo ringraziarti: condividere le gioie del sesso è molto più
bello e non me ne sarei mai resa conto, se tu non mi avessi fatto ingoiare
quella stronza di Allison. Anzi, mi correggo: se non te lo fossi fatto ingoiare
tu da quella stronza di Allison.»
Brutus aveva fatto una smorfia schifata. «Neppure la volgarità ti si addice.
Non è da te. Dichiariamo una tregua».
«Che ne sai tu di cosa mi si addice e cosa no?» Ding aveva alzato la voce.
«Dici di volere una tregua, ma in realtà quello che vuoi è che io ti aspetti, che
me ne resti lì, nella speranza che tu ti stanchi di lei e mi faccia la grazia di
tornare da me sul Temeside, per risparmiarti la fatica di doverti portare a casa
Allison.»
«Sei ingiusta.» Brutus era arrossito, però, e Ding aveva capito di aver
colpito nel segno.
«Perché?» gli aveva chiesto. «In che cosa sono ingiusta? No, non c’è
bisogno che tu mi risponda. Il problema non è portarti a casa Allison, vero? Il
problema è fare in modo che finito di scopare si tolga dalle palle, no? Non te
la riesci a scrollare di dosso.» Era scoppiata a ridere. Suonava isterica alle sue
stesse orecchie, ma sapeva di aver colpito nel segno. «Oddio, che incubo! Lei
vuole dormire nel tuo letto e tu vorresti che invece si rivestisse e se ne
tornasse a casa, ma non puoi dirglielo, vero? Non puoi dirle: ’Grazie della
scopata, ma adesso, se non ti dispiace...’ È un bel problema!»
Si aspettava che lui se ne andasse furibondo, ma Bruce era rimasto lì,
l’aveva lasciata finire senza distogliere lo sguardo. «Non riesci a tirare le
conclusioni, vero?» aveva detto.
«Quali conclusioni, Brucie?» aveva ribattuto lei.
«Con te restavo.»
«Dove?»
«Dormivo con te. In camera tua. Con te restavo. Perché tu sei diversa da
tutte le altre. Con te restavo perché per te provavo qualcosa di diverso. Lo
provo ancora.»
Ma c’era qualcosa che non la convinceva nel suo tono. Ding lo sentiva,
percepiva l’ombra di panico. E aveva capito perché le aveva voluto parlare in
Castle Square. Ora le era assolutamente chiaro sia cosa voleva da lei sia che,
per ottenerlo, mentiva.
Era rimasta arrabbiata tutto il giorno. Sapeva che la collera l’avrebbe
aiutata a fare ciò che aveva deciso di fare.
Appena arrivò alla casa sul Temeside, salì in camera sua e tirò fuori
dall’armadio gli indumenti che nove giorni prima aveva provato a buttare via
senza riuscirci. C’era andata vicino: li aveva tenuti sospesi sopra un mucchio
di spazzatura puzzolente, ma alla fine non ce l’aveva fatta. Avrebbe voluto
liberarsene, si rendeva conto che era indispensabile, ma all’ultimo momento
aveva ritirato la mano. Poteva tenerli nascosti, si era detta. E un giorno
avrebbe potuto ricominciare a indossarli, no?
Aprì la borsa di plastica in cui aveva riposto la gonna e il top con i lustrini.
Li tirò fuori, li sistemò con cura sul letto e aspettò che Brutus tornasse a casa.
Lo sentì entrare perché era di nuovo con quella deficiente di Allison. Li udì
mormorare e ridere piano, baciarsi nel corridoio e poi aprire la porta della
camera di Bruce.
Aspettò di sentirla richiudere, prese i vestiti, gli piombò nella stanza senza
bussare e glieli lanciò. «Io ti ho protetto. Fanne quello che vuoi» disse.
Si accorse in quel momento che la ragazza assieme a Brutus non era
Allison Franklin, ma Francie Adamucci. Aveva gli occhi spiritati ed era in
ginocchio sul pavimento, pronta ad abbassargli i pantaloni.
«Ding?» esclamò con una risata, senza interrompere il gesto. «Vuoi unirti a
noi?»
Hindlip
Herefordshire
La seconda visita alla sede della West Mercia Police richiese le stesse
procedure tediose della prima. Barbara e Lynley cominciarono con
l’interminabile attesa nella lontanissima palazzina dell’accettazione, che mise
a dura prova la loro pazienza. Poi raggiunsero in macchina l’edificio
principale, attraversando un’ampia zona sorvegliata da numerose
videocamere a circuito chiuso. Seguì un breve interludio in cui Lynley cercò
parcheggio a distanza di sicurezza dagli altri mezzi posteggiati. Lo faceva per
preservare la verniciatura da un milione di dollari della sua amata vettura
color rame, lucidata a mano centimetro per centimetro. Il noiosissimo iter
riprese con un’anticamera piuttosto lunga in attesa del comandante Wyatt, a
dimostrazione – se ce ne fosse stato bisogno – di quanto fosse sgradita la
visita della Metropolitan Police nello Shropshire.
Dopo dieci minuti, Lynley pose fine al tormento. Si avvicinò all’enorme
bancone della reception e si rivolse a uno dei civili di turno. «Abbiamo
perfettamente capito il messaggio del comandante Wyatt. Adesso, però, lo
avverta che stiamo salendo, visto che il sergente investigativo Havers
conosce la strada. Oppure, se preferisce, gli facciamo una sorpresa.
Sergente?» E indicò la scala con un cenno del capo.
Barbara lo raggiunse contenta, mentre alle loro spalle l’impiegato alzava
prima la voce per protestare e poi la cornetta del telefono. «Prego,
accomodatevi. Il comandante Wyatt vi sta aspettando» disse un attimo dopo.
Barbara a quel punto era già in cima alle scale e Lynley era un gradino dietro
di lei.
Si avviarono verso l’imponente porta a due battenti, uno dei quali era
aperto. Barbara entrò e si vide venire incontro il comandante Patrick Wyatt
con espressione granitica.
«Guardi che...»
«Abbiamo capito che non ha tempo per noi, comandante Wyatt. Neanche
noi abbiamo tempo da perdere, però. Possiamo anche discutere su chi ha più
ragione a essere indignato, ma forse conviene che andiamo dritti al sodo»
intervenne Lynley.
Accipicchia, pensò Barbara. Sta usando la Voce. Era da un po’ che non la
sfoderava più, probabilmente perché si rendeva conto che, se c’era un pesce
fuor d’acqua, quel pesce era lui ed era meglio non sottolinearlo. Di tanto in
tanto, tuttavia, era necessario. Sentendo la Voce, l’interlocutore rimaneva
spiazzato e Lynley ne approfittava.
«Non siamo qui per fare le pulci al modo in cui lavorate, e non siamo
venuti di nostra spontanea volontà» disse. «La commissione per i reclami
contro la polizia che ha indagato sul caso di Ludlow ha trascurato un
dettaglio e noi abbiamo il compito di chiarire i punti rimasti oscuri. Non
siamo qui per voi, ma per l’IPCC.»
Be’, rifletté Barbara, non era proprio così. Ma il discorsetto di Lynley ebbe
il merito di cogliere di sorpresa Wyatt e di amplificare l’effetto della Voce:
anziché essere sulla difensiva, adesso Wyatt era disarmato, almeno in parte.
«Continui.» Wyatt non li invitò ad accomodarsi, ma il suo sguardo si fece
un po’ meno granitico, il suo atteggiamento lievemente più disposto
all’ascolto.
«Permette?» disse Lynley, senza dare a Wyatt il tempo di rispondere,
chiuse la porta. Non chiese di accomodarsi al tavolo, per non dare a Wyatt la
possibilità di dirgli di no.
Barbara assistette al duello verbale senza intervenire perché era conscia di
avere la delicatezza di un elefante e di tendere a frantumare fin troppe
porcellane in quel particolare tipo di negozio.
Lynley spiegò a Wyatt che alla Metropolitan Police serviva sapere che
cosa era stato fatto nei diciannove giorni intercorsi fra la denuncia anonima
contro Ian Druitt e il fermo del diacono della chiesa di St. Laurence.
Diciannove giorni erano un tempo sufficiente per verificare almeno di
sfuggita la veridicità delle accuse contro Druitt, ma il rapporto dell’IPCC non
faceva riferimento a indagini di sorta. Che cosa era in grado di dire il capo
della polizia a proposito di quei diciannove giorni?
Wyatt doveva essersi preparato, quando aveva saputo che la Metropolitan
Police stava per tornare nello Shropshire, ma le informazioni in suo possesso
erano poche: la commissione IPCC non faceva cenno ad alcuna indagine
perché non ne era stata svolta nessuna. Se la telefonata anonima avesse
riguardato un possibile omicidio sarebbe stata presa con maggiore serietà, ma
la chiamata si limitava a denigrare un uomo di Chiesa che era appena stato
insignito di un’onorificenza pubblica a Ludlow. L’operatore aveva seguito la
procedura e aveva protocollato la denuncia. Quando il funzionario di turno
l’aveva esaminata, l’aveva trattata come l’avrebbe trattata chiunque altro, e
cioè come la telefonata di un mitomane mosso dalla gelosia o dalla sete di
vendetta.
«Un’accusa di pedofilia non va sottovalutata» ribatté Lynley.
«Naturalmente no» rispose Wyatt. «Ma essendo una denuncia isolata,
senza altre voci o insinuazioni a supportarla, e per di più indirizzata alla
centrale operativa sbagliata – ma questo è un altro discorso – che cosa
avrebbe fatto lei al nostro posto?»
Wyatt proseguì spiegando loro che Druitt sarebbe potuto essere convocato
dai colleghi della stazione di polizia più vicina, a Shrewsbury, ma poiché non
si apre un’inchiesta a seguito di un’unica denuncia anonima, l’interrogatorio
sarebbe consistito in domande tipo «Che cosa ha da dire su questa
telefonata?» e Druitt avrebbe risposto che l’accusa era totalmente campata
per aria. Certo, se non fossero stati sotto organico, avrebbero potuto
interrogare tutti gli uomini, le donne e i bambini con cui il diacono aveva
avuto contatti da quando lavorava alla chiesa di St. Laurence.
«Purtroppo, però, siamo sotto organico» concluse. «Disponiamo di una
sola squadra Omicidi in tutta la zona, che si occupa anche di aggressioni,
stupri e altri reati violenti. Facciamo il possibile. Quindi, spero che capiate
come mai una denuncia anonima a carico di un diacono della chiesa di St.
Laurence non sia finita in cima alla lista delle priorità.»
Certo che capivano, però... come mai allora Ian Druitt diciannove giorni
dopo era stato fermato e condotto alla stazione di polizia di Ludlow? Se non
erano state svolte indagini, come mai il diacono era stato arrestato?
«Dev’essere emerso qualcos’altro nel frattempo» puntualizzò Lynley. «Il
sergente ha saputo dall’agente ausiliario di Ludlow...»
«Gary Ruddock» precisò Barbara. Wyatt le lanciò un’occhiataccia, ma
Barbara non si lasciò intimidire. «Gary Ruddock mi ha detto di aver ricevuto
l’ordine di procedere al fermo dal suo sergente, che deve averlo ricevuto a
sua volta da qualcun altro, a maggior ragione se non erano state svolte
indagini. Dico bene?»
«Lei sa chi ha emesso l’ordine di cattura?» domandò Lynley a Wyatt.
«Non mi occupo dei dettagli, ispettore. Le ho detto tutto quello che potevo.
Chieda ragguagli al sergente dell’ausiliario Ruddock: essendo stata lei a
ordinargli di portare il diacono alla stazione di polizia, sarà in grado di
soddisfare la vostra curiosità.»
Lynley chiese come si chiamava.
Geraldine Gunderson, rispose il comandante Wyatt, e consigliò ai due
colleghi della Metropolitan Police di chiedere i suoi recapiti in segreteria.
Much Wenlock
Shropshire
Mentre andavano verso la Healey Elliott, una volta usciti dalla sede della
polizia, Barbara si accese una sigaretta e la fumò con l’avidità del condannato
a morte deciso a godersi gli ultimi istanti di vita. «Più cose scopriamo, meno
senso ha l’intera faccenda» sentenziò da dentro una nuvola grigiastra.
«Stanno diciannove giorni senza indagare e poi lo arrestano. Per come la
vedo io, qualcuno sa più di quello che dice. E quel qualcuno è qui dietro.»
Indicò la sede della West Mercia Police. «E non vuole che la Metropolitan
Police venga a ficcare il naso.»
Lynley non poteva che essere in buona parte d’accordo. Il fermo di Ian
Druitt di regolare aveva ben poco e il fatto che il diacono fosse morto
all’interno della stazione di polizia era alquanto sospetto. Tuttavia il chi, il
cosa e il perché erano ancora tutti da valutare, e gli riusciva difficile attribuire
delle colpe ai vertici della West Mercia Police.
«Non vorrei essere nei panni del comandante» disse. «Proprio quando gli
riducono le risorse all’osso, si trova a dover gestire la morte di un uomo sotto
custodia cautelare. Wyatt si affida all’IPCC, che svolge le sue indagini e
stabilisce che la morte di Druitt è stata un evento sfortunato, ma non
criminoso. Pensa che la cosa sia finita lì, invece si vede piombare da Londra
lei e Isabelle Ardery. Vi riceve, vi mette a disposizione quello che ha e di
nuovo pensa che sia finita lì. Invece noi torniamo e lui approfondisce, ci dice
tutto quello che sa. Noi però continuiamo ad avere dei dubbi che lui non è in
grado di chiarire. Uno stress dopo l’altro. Si può capire che non veda l’ora di
chiudere il caso e dimenticarselo.»
Arrivarono alla macchina e si posizionarono ognuno sul proprio lato in
attesa che Barbara finisse la sigaretta. «Mi stupisce che la prenda con tanta
filosofia, ispettore. Soprattutto dopo che ha dovuto di nuovo rimandare la sua
vacanza in Cornovaglia» disse lei.
Lynley spostò lo sguardo da Barbara all’operazione in corso dietro di lei,
che vedeva coinvolti numerosi cadetti in assetto antisommossa. Era una vista
ben poco rassicurante. «Pazienza» disse. «Non prometteva di essere una
vacanza da sogno, in ogni caso.»
«Maretta in campo sentimentale?»
«Daidre è bravissima a escogitare scuse.»
Barbara gettò il mozzicone per terra e lo spense sotto la suola. «Secondo
lei cosa si aspetta dalla vostra vacanza in Cornovaglia? Che lei la butti nel
pozzo di una delle vecchie miniere della sua famiglia?»
«Può darsi che sia proprio quella la sua paura, in effetti» rispose ironico
Lynley. Aprì la portiera ed entrambi salirono.
«Si è preso una bella gatta da pelare, mi sa. Come ho già avuto modo di
ripeterle più volte» disse Barbara, dopo che si furono allacciati le cinture e
Lynley ebbe messo in moto.
«Lo so. Ma resto ottimista.»
«La ammiro per questo. Posso dire, però, che...»
«Tanto me lo direbbe comunque» la interruppe Lynley.
«La prospettiva di finire in Cornovaglia in una villa con trecento stanze
non è delle più allettanti.»
«Howenstow non è quel genere di residenza, Barbara.»
«Sarà. Io mi immagino un’immensa quadreria in cui sono esposti secoli di
ritratti dei Lynley che ti guardano dall’alto in basso.»
«Non la definirei ’immensa’.»
«Ah! Lo sapevo che c’era la quadreria.»
Lynley la fulminò con un’occhiata, sapendo che Barbara l’avrebbe
interpretata correttamente. «Non ho proposto a Daidre di sposarmi, Barbara,
ma ormai è più di un anno che stiamo insieme e pensavo che prima o poi
avrei dovuto farle conoscere mia madre. E gli altri, ovviamente» disse.
«Il maggiordomo, intende? Le sguattere?»
«Non abbiamo servitù residente, sergente. Viene qualcuno a darci una
mano, sì, ma non tutti i giorni. Quanto al maggiordomo, per quanto possa
essere imbarazzante averne uno in casa, è ultracentenario e nessuno ricorda
più chi lo abbia assunto. Lasciarlo in mezzo a una strada alla sua età per non
offendere le ansie egualitarie di qualcuno sarebbe un atto di crudeltà.»
«Molto spiritoso. Scherzi pure, ma secondo me Daidre ha paura che lei la
voglia mettere alla prova. Che voglia verificare se sa quale delle venticinque
forchette con cui apparecchiate la tavola va usata per le salsicce con il purè.
Non che voi insozziate i vostri piatti di finissima porcellana con salsicce e
purè.»
«Infatti» confermò Lynley.
«E quindi? Cosa ha intenzione di fare? Persistere?»
«Persistere è la cosa che mi riesce meglio.»
Quando uscirono dal quartier generale della polizia, Barbara stava
sfogliando il voluminoso atlante stradale. Lynley lo preferiva a qualsiasi
navigatore, gli piaceva avere un’idea della regione che stavano attraversando
che il GPS dello smartphone non era in grado di fornirgli. Barbara brontolò
come suo solito, ma alla fine si rassegnò. E riuscì a guidarlo fino alla
cittadina di Much Wenlock senza sbagliare una svolta, anche se nel centro di
Kidderminster a un certo punto gli fece percorrere una rotatoria tre volte
prima di riuscire a leggere il cartello giusto. Giunti a destinazione, si
trovarono nell’ennesima pittoresca località inglese, con architetture medievali
in legno e palazzi georgiani che mandavano in visibilio i turisti armati di
macchina fotografica. La lunga storia della cittadina era incarnata dalla
Guildhall, la sede delle corporazioni, con le sue enormi colonne in rovere,
costruita sull’antica prigione. Era un edificio di legno, con timpani e finestre
dai vetri a piombo, e i ceppi di ferro un tempo usati per le flagellazioni erano
lì a ricordare una giustizia più severa e sbrigativa.
L’indirizzo del sergente Geraldine Gunderson non era chiarissimo,
com’era normale in un paese in cui il postino conosce tutti. Il civico era il 3,
ma non c’era via: soltanto «La Fattoria», seguito dalla dicitura «Vic. al
Convento». Il Convento non fu difficile da trovare, poiché era un monumento
storico e come tale era indicato piuttosto bene, in modo da consentire ai
turisti di non perderselo. Anche seguendo le indicazioni, tuttavia, per
individuarlo ci volle un po’, perché era nascosto non soltanto da un muro di
pietra, ma anche da file di tigli, faggi e cedri. Lo superarono, imboccarono
una stradina così stretta che Lynley temette di rigare la carrozzeria e
finalmente giunsero a una grande costruzione antica, con travi a vista,
suddivisa in una serie di cottage di ragguardevoli dimensioni, che un cartello
indicava come «La Fattoria». Per fortuna i cottage erano numerati e quindi
dovettero semplicemente cercare un posto dove parcheggiare la Healey
Elliott al riparo dai trattori di passaggio.
Una volta lasciata l’auto – con Barbara che come al solito protestava per i
duecento metri che le toccava fare a piedi per tornare dallo spiazzo dove
Lynley si era fermato più avanti lungo la stradina – trovarono senza problemi
il sergente Gunderson. Il suo lotto della ex fattoria suddivisa in unità abitative
era il più derelitto, ma forse era solo un’impressione dovuta al giardinetto sul
davanti, poco curato e quasi completamente invaso da un glicine, che era
stato lasciato libero di soffocare qualsiasi tentativo di insediamento da parte
di altri vegetali. Arrancarono fra le erbacce fino alla porta, che aveva un
grosso batacchio arrugginito. Non essendoci campanello, batterlo un paio di
volte sul legno grezzo era l’unico modo per annunciarsi.
Ad aprire fu una donna alta e affannata. «Siete della Metropolitan Police,
immagino. Venite, accomodatevi. Ero nel bel mezzo di...» Si scostò per
lasciarli entrare, chiuse la porta e fece strada lungo un corridoio di pietra
verso il salotto. Sul tavolo c’era un grande pezzo di stoffa verde che copriva
parzialmente un’anima di fil di ferro di forma allungata. C’erano anche
forbici, una pinzatrice e un rotolo di nastro adesivo che dovevano servire a
fissare la stoffa alla struttura portante. Con gli stessi strumenti era stato
confezionato un grosso pezzo di polistirolo la cui forma ricordava vagamente
una gorgiera elisabettiana, che giaceva da una parte protetto da un foglio di
plastica da imballi in attesa di essere rivestito di tessuto giallo a pois rosa.
Gerry Gunderson parlò con franchezza. «Lo so, sono una pessima sarta,
ma la mia figlia maggiore ha alzato la mano, quando la maestra ha chiesto chi
avrebbe preparato il costume del bruco che fuma il narghilè per il tè
pomeridiano di raccolta fondi per la scuola. Ne organizzano troppi, se volete
sapere come la penso. Questo, ovviamente, è ambientato nel Paese delle
meraviglie. O forse no, è ispirato ad Attraverso lo specchio. Non ne ho idea.
Dovrei essere contenta che Miriam non abbia alzato la mano per le torte o il
rinfresco, visto che cucino ancora peggio di come cucio. Almeno però avrei
potuto comprare qualcosa di pronto, mentre un costume da bruco dove lo
trovo? Il narghilè è stato facile: li vendono su Internet. Ma un costume da
bruco non sono riuscita a trovarlo nemmeno a pagarlo oro.»
«Lei è il sergente Gunderson?» verificò Lynley.
«Ah, già, mi scusi. Gerry.»
Lynley si presentò e presentò anche Barbara. Gerry Gunderson li ringraziò
di averle concesso una pausa dall’ingrato compito, perché quel costume la
stava facendo diventare matta e c’era il rischio che mettesse le mani addosso
alla figlia, non appena le si fosse presentata davanti. Offrì loro limonata fatta
in casa, avvertendoli che era «un tantino aspra, perché ci metto poco
zucchero». Sia Lynley che Barbara la accettarono volentieri e la padrona di
casa propose di andare a sedersi all’aperto, dato che era una bella giornata. Lì
si sarebbero goduti il sole, sempre che non avessero nulla contro le galline.
Lynley e Barbara la seguirono nella cucina, piuttosto ordinata, per poi uscire
nel giardino sul retro dove razzolavano sette galline mentre altre due stavano
appollaiate su un tavolo rotondo, di legno, circondato da sedie incrostate da
licheni millenari.
«Non vi preoccupate per i licheni: in questo periodo dell’anno non si
attaccano ai vestiti e a me piacciono un sacco» li tranquillizzò Gerry
Gunderson. Scacciò i pollastri e invitò i due ospiti a mettersi comodi e a
«godersela», mentre lei andava un momento in cucina. Lynley non sapeva
bene che cosa li avesse esortati a godersi: le galline, i licheni, le condizioni di
quel giardino che sembrava un’aia o la collina di fronte, coperta da carpini
cresciuti senza alcuna manutenzione?
Gerry Gunderson si assentò troppo brevemente perché Lynley e Barbara
avessero il tempo di darsi una risposta: entrò in casa e un attimo dopo tornò
con una grande teglia da forno che usava a mo’ di vassoio per la limonata di
sua produzione.
Lynley la guardò, mentre disponeva i bicchieri sul tavolo, e stabilì che non
aveva nulla di inglese a parte l’accento, che era quello delle Midlands:
carnagione olivastra, capelli neri come il carbone, occhi castani e un naso da
nobildonna italiana.
Gerry Gunderson si sedette e guardò Barbara e Lynley che assaggiavano la
limonata. «Allora? Troppo aspra?»
«No, non è affatto male» rispose Barbara.
Gerry Gunderson sembrò piacevolmente colpita dal suo apprezzamento.
Anche Lynley provò la bevanda e constatò che era molto diluita. Ma forse era
meglio così, vista la scarsa quantità di zucchero. Posato il bicchiere, cominciò
a spiegare come mai erano venuti nello Shropshire.
«Sì, sì, lo so. Non ho bisogno che mi faccia un riassunto di quello che è
successo» replicò Gerry Gunderson.
«Ovvero?»
«Ovvero quella sera di marzo in cui è iniziata tutta questa storia. Non
penso me la dimenticherò mai, ispettore.»
«Thomas.»
«Thomas» ripeté lei.
«Che cosa ci può dire di quella sera?» Mentre Lynley poneva la domanda,
Barbara tirò fuori bloc-notes e matita. Lynley notò con piacere che era
passata ai portamine, come quelli che usava Nkata.
Gerry Gunderson procedette a un breve resoconto dei fatti, confermando
ciò che Barbara aveva scritto nel suo rapporto, ovvero che gli agenti di
pattuglia di Shrewsbury erano stati allertati per una serie di furti in
appartamenti e negozi e quindi non erano potuti andare a prendere Ian Druitt
a Ludlow. Precisò di non essere al corrente di alcuna indagine sulla presunta
pedofilia di Druitt svolta prima del fermo e di aver scoperto che «quel
maledetto pasticcio» era nato da una denuncia anonima solo dopo che Druitt
«si era fatto fuori». Quando gliel’avevano detto, era rimasta basita. In
sostanza, Gerry Gunderson non sapeva che cosa frullasse in testa ai suoi
colleghi né perché le cose fossero andate così.
«In parte è colpa mia, lo so. L’ho detto al mio capo» disse anche.
«Perché è colpa sua?» domandò Barbara.
«Mio marito ha un cancro al colon. È in ospedale. Dovrebbe farcela, ma è
stato un inferno. A volte mi distraggo e sicuramente quella sera può darsi che
avessi la testa altrove, ma in fondo il mio compito è solo quello di coordinare
gli ausiliari della zona. Mi è stato detto di comunicare al nostro agente di
Ludlow di fermare Druitt, e l’ho fatto. Non ho chiesto come mai lo
dovessimo portare dentro. Immagino sia così anche per voi: quando ricevo un
ordine, lo eseguo.»
Lynley evitò di obiettare che non tutti si comportavano in quel modo e che
per esempio Barbara Havers aveva disatteso gli ordini in numerose occasioni.
Chiese invece da chi aveva ricevuto l’ordine di contattare l’ausiliario e
mandarlo a prendere Ian Druitt. La risposta di Gerry Gunderson lo colse alla
sprovvista.
«Dalla sede centrale.»
Lynley guardò Barbara, che gli rivolse un’occhiata significativa: fino a
quel momento non era emerso nulla che facesse risalire l’ordine alla sede
della West Mercia Police.
«Nella persona di chi, esattamente?» chiese Lynley.
«Del vice» rispose Gerry Gunderson.
«Vicecomandante?» chiarì Barbara.
«Alla sede centrale abbiamo incontrato solo il comandante Wyatt. Nessuno
ha mai parlato di un vice» spiegò Lynley.
Gerry Gunderson non parve stupita. Prese il bicchiere e bevve un sorso di
limonata. «Io di questo non so nulla. Quello che posso dirvi è che a me la
chiamata è arrivata dal vicecomandante: dovevo contattare l’agente ausiliario
di Ludlow e dirgli di portare Ian Druitt alla stazione di polizia e aspettare i
colleghi di Shrewsbury che dovevano trasferirlo in camera di sicurezza.
Questo lei mi ha ordinato e questo io ho fatto: ho telefonato a Gary Ruddock
e gli ho trasmesso gli ordini.»
«Lei?» chiese Barbara.
«Io cosa?»
«Il sergente Havers si riferiva al vicecomandante: è una donna?» domandò
Lynley. «Come si chiama?»
«Ah, sì, scusate» disse Gerry Gunderson. «Freeman. Clover Freeman. È
stata lei a darmi l’ordine.»
Much Wenlock
Shropshire
«C’è qualcosa che mi lascia alquanto perplessa, ispettore» disse Barbara
Havers fermandosi appena fuori della porta di Geraldine Gunderson e
facendo ciò che Lynley purtroppo si aspettava: frugare nella borsa in cerca
del pacchetto di Player’s per poi accendersene una.
Lynley, sempre più preoccupato per le conseguenze che quel brutto vizio
poteva avere sulla salute del sergente, avrebbe voluto chiederle per
l’ennesima volta quando aveva intenzione di smettere, ma preferì astenersi.
Barbara gli avrebbe risposto che gli ex fumatori sono bacchettoni e fanatici
quanto gli ex atei che ritrovano la fede. «A parte le doti sartoriali del
sergente, intende?» disse quindi.
Si fecero largo nella giungla di glicine ed erbacce e guadagnarono
incolumi la stradina. Un improvviso krrr krrr li allertò della possibile
presenza di una pernice. Barbara buttò fuori il fumo. «Si è presa una bella
gatta da pelare, poveraccia. Quel costume non assomiglia per niente al bruco
di Alice nel Paese delle Meraviglie» replicò.
Lynley si voltò verso di lei. «Dunque, se non sono le doti sartoriali della
Gunderson, cos’è che la lascia perplessa, Barbara?» osservò sarcastico.
«La più straordinaria delle coincidenze, ispettore. Il vicecomandante di cui
parlava la Gunderson, la donna che le ha ordinato di far portare Ian Druitt alla
stazione di Ludlow...?»
«Clover Freeman» precisò Lynley.
«Non è la prima Freeman che ci capita tra le mani in quest’inchiesta.»
Altra boccata di fumo, più profonda delle altre. Lynley si disse che Barbara
doveva veramente darsi una regolata e smettere.
«Avete incontrato un altro Freeman?»
«Io no, ma il sovrintendente è andata a parlargli: Finnegan Freeman,
aiutava Druitt in quella specie di doposcuola. A quanto mi risulta, non le ha
detto che aveva una parente nelle forze dell’ordine, quando Ardery l’ha
interrogato.»
«Forse non sono parenti. Freeman non è un cognome insolito.»
«Non quanto Stravinskij, d’accordo.»
Lynley alzò un sopracciglio. «Sergente, lei non finisce mai di stupirmi.»
«Non so perché l’ho detto. Non saprei fischiettarle neanche una nota.»
«Va be’, continui.»
«La mia idea è che, quando il sovrintendente Ardery è andato a
interrogarlo, il ragazzo glielo avrebbe sicuramente detto, se sua madre – o
anche sua nonna o sua zia – fosse stata vicecomandante. Vicecomandante è
un grado molto più alto di sovrintendente! Allora, se ti piomba in casa una
poliziotta londinese, non le dici che hai parenti nelle alte sfere della polizia?»
«Per quale motivo, Barbara? Ammesso che siano effettivamente parenti.»
«Per provocarla, metterla in difficoltà. E per farsi trattare con i guanti.
Invece non le ha detto niente. Mi chiedo perché.» Rimase zitta un momento a
guardare la punta incandescente della Player’s.
«Le ripeto che potrebbe non esserci alcuna parentela.»
«Sì, certo. Ma forse c’è. O forse il ragazzo lo ha detto al sovrintendente e il
sovrintendente, per qualche motivo, non l’ha detto a me.»
Lynley conosceva troppo bene Barbara per non capire il sottinteso.
«Perché voleva tornare a Londra il prima possibile e sapeva che il legame di
parentela tra uno degli individui coinvolti e il vicecomandante della West
Mercia Police avrebbe complicato le cose? Perché rendere noto questo
particolare sarebbe stato come lanciare un osso a un branco di cani affamati?»
chiosò.
«Non è un paragone lusinghiero, ma sì, per questo.»
«Chiedo scusa: non l’ho fatto apposta» precisò Lynley. «E comunque si
trattava di una metafora, non di una similitudine. Quindi il sovrintendente
Ardery potrebbe aver volutamente minimizzato un elemento che invece
poteva risultare cruciale...»
«È possibile, no? Aveva fretta di rientrare a Londra e, se mi avesse detto
questa cosa su Freeman, sapeva benissimo che io mi sarei messa a scuoterla
come fanno gli scoiattoli con le nocciole per capire cosa ne potevo ricavare.»
Vedendo l’occhiata di Lynley, si corresse: «Sì, lo so che gli scoiattoli non
scuotono le nocciole. Ma il concetto è chiaro, no?»
«Interessante» fu la laconica risposta di Lynley. Raggiunsero la Healey
Elliott e si appoggiarono alla fiancata, mentre Barbara finiva la sigaretta. Su
un lato della strada c’era una siepe più alta di Lynley, dall’altro c’erano
campi di grano talmente ordinati e perfetti che sembravano un’opera divina.
Il vento faceva frusciare le spighe. Il cielo azzurro punteggiato di nuvolette
bianche completava il panorama idilliaco.
Barbara buttò il mozzicone per terra e lo schiacciò con la punta della
scarpa. «A me sembra che ci sia qualcosa di più» disse. Lynley capì che
Barbara non credeva si trattasse di una mera coincidenza. «Supponiamo che
sia parente di Finnegan. Magari sapeva che dietro le accuse di pedofilia c’era
un fondamento, o comunque pensava che ci potesse essere, e voleva scoprirlo
in fretta, perché suo figlio, suo nipote, o quello che era, lavorava con il
diacono e rischiava di finire nei guai.»
Lynley ci rifletté un momento, poi aprì la portiera per salire in macchina e
accese il motore. «Oppure il figlio, nipote, o quello che era, è l’autore della
denuncia» disse.
«Esatto. Il suo parente. Scopre qualcosa» mormorò Barbara pensosa.
«Vede o sente qualcosa...»
«È testimone oculare di qualcosa» ipotizzò Lynley.
«Oppure glielo dice uno dei bambini dell’oratorio. Lui non ci crede, ma fa
due controlli e scopre che è vero. Però è ancora un ragazzo, a quanto ci ha
riferito Ardery, e come tutti i ragazzi non vuole assolutamente fare la figura
dell’infame, quindi usa il telefono esterno della stazione di polizia di Ludlow
e fa una chiamata anonima. Vuole solo impedire che la cosa vada avanti.
Siccome però non succede niente, cosa fa? Va dalla mamma, la zia, la nonna
o quello che è, e lei, che è il vicecomandante, mette in moto la macchina.»
«Ci starebbe, vero?»
«Però il sovrintendente ha detto che Finnegan si è infiammato, quando
hanno parlato delle accuse di pedofilia, e ha difeso Druitt a spada tratta.
Certo, poteva essere una messinscena. Magari si è scaldato apposta per non
tradirsi, perché nessuno sospettasse che era stato proprio lui a denunciarlo.»
Lynley fece inversione e partì verso il paese. Gli sembrava che fosse
giunto il momento di andare dal vicecomandante Clover Freeman per
ascoltare la sua versione dei fatti che avevano portato alla morte di un
diacono anglicano.
Barbara provò a raggiungerla telefonicamente mentre Lynley guidava.
Chiamò la sede della West Mercia Police, ma le dissero che Clover Freeman
era già andata via. Barbara però riuscì a farsi dare il numero di cellulare dalla
segretaria del comandante, dopo averle spiegato che era una questione
urgente, che i due rappresentanti della Metropolitan Police le dovevano
parlare di persona per chiarire il suo ruolo nella morte di Ian Druitt. Non fu
necessario insistere. Lynley si complimentò con lei. Tornarono in paese e
Lynley parcheggiò nei pressi della Guildhall, dove una donna con un bastone
da selfie sorrideva al suo telefono rovinando quello che sarebbe potuto essere
un bello scatto dell’edificio più fotografato di Much Wenlock.
Ascoltò distrattamente la trattativa di Barbara con il vicecomandante
Freeman, la quale sosteneva che il colloquio con la Metropolitan Police
poteva aspettare fino all’indomani, visto che lei era già quasi a casa.
Seguì un tira e molla in cui Barbara ribatteva educatamente «No,
comandante», e poi «Sì, comandante», e poi ancora «Purtroppo è necessario,
comandante», per finire con «Sì, sì, possiamo venire noi da lei, certo». Il
risultato fu che, data l’ora, sarebbero andati a casa del vicecomandante
Clover Freeman a Worcester per le venti e trenta, dopo essersi fermati a
mangiare un boccone per strada. Se fosse stata così gentile da mandarle
l’indirizzo via sms... «Grazie, comandante.»
Chiuse la telefonata. «Ci aspetta per le otto e mezzo, ma non era per niente
contenta» disse Barbara a Lynley.
«Sì, ho avuto anch’io questa impressione» fu la replica dell’ispettore.
Worcester
Herefordshire
Trevor Freeman tornò dall’escursione con i Rambling Rogues e si guardò gli
scarponi. Non andavano bene: erano troppo puliti.
Prese i bastoncini da trekking e andò nel giardino sul retro, vicino a quella
che sarebbe dovuta essere una bordura fiorita ma non lo era, in quanto non ci
crescevano né fiori né erba. Con l’aiuto della manichetta per l’irrigazione,
creò una bella pozza di fanghiglia, la mescolò con uno dei bastoni e,
raggiunta la consistenza desiderata, vi entrò con gli scarponi. Pestò il fango
per un po’ e tornò alla porta di casa per lasciare in bella vista calzature e
bastoncini adeguatamente infangati.
Entrò in casa e andò a prendere il cellulare, che non aveva portato con sé
all’escursione, dato che il regolamento dei Rambling Rogues ne vietava
l’uso. Solo il capogruppo aveva un telefono per le emergenze. Nel caso a
qualcuno fosse venuto un infarto o un ictus, non potevano lasciarlo morire
per mancanza di mezzi di comunicazione.
Trevor vide che aveva quattro chiamate senza risposta, tre delle quali erano
di Clover e la quarta di Gaz Ruddock. Ascoltò i messaggi in segreteria e
rimase sbigottito sentendo la prima richiesta di Clover: poteva per cortesia
chiamare Gaz Ruddock e invitarlo a cena la sera dopo? Nel secondo
messaggio Clover gli chiedeva se aveva chiamato Gaz Ruddock e se Gaz
aveva accettato l’invito a cena. Il terzo messaggio era: «Perché non mi hai
ancora richiamato?»
Tutto ciò gli parve bizzarro, e anche un po’ inquietante. Perché Clover non
aveva chiamato direttamente Gaz Ruddock? Da quando in qua sprecava
tempo a chiamare tre volte il marito mentre era in gita con i Rambling
Rogues anziché fare personalmente la telefonata che le serviva?
Meditando sulla questione, Trevor aprì il frigo, prese l’acqua minerale
frizzante e bevve. Non trovando una risposta soddisfacente, vagamente
turbato, chiamò l’ausiliario come richiesto e lo sorprese mentre faceva la
spesa. Gaz disse che quella sera voleva preparare gli spaghetti alla bolognese
e gli servivano un paio di ingredienti e, senza dargli il tempo di invitarlo a
cena, gli riferì della nuova visita degli ispettori di Scotland Yard.
«Arrivano di nuovo quelli di Scotland Yard» lo informò. «Me l’ha detto il
mio sergente oggi pomeriggio. Per il suicidio di Druitt. Lei ne è al corrente,
Trev?»
Strana domanda, pensò Trevor. Era solo merito di Clover, se Gaz non era
stato licenziato dopo la morte di Druitt. Per lei era una sorta di protetto fin dai
tempi dell’addestramento. Gaz non poteva pensare che Clover non avesse
informato il marito su tutta quella storia. «Come farei a non esserne al
corrente, Gaz?» disse.
«Non intendevo... cioè... non il fatto che è morto, ma che torna Scotland
Yard. Clo glielo ha detto? Mi chiedo solo come mai non mi abbia telefonato.
Pensavo che mi avvertisse. Non può non saperlo.»
«Non ne ho idea, non l’ho ancora vista. La faccio chiamare appena rincasa,
va bene?»
«Grazie. È solo che...»
«È preoccupato, lo so. Lo capisco.»
«Si dice in giro che ci sarà un processo.»
«È presto per pensarci. Una cosa per volta. Clover voleva invitarla a cena
domani, se le fa piacere.»
Presero accordi e, fatto il suo dovere, Trevor aprì il frigorifero. Era il cuoco
della famiglia dal giorno in cui aveva sposato una poliziotta con orari di
lavoro impossibili e quella sera voleva preparare un piatto di verdure alla
cinese. Annusò una confezione di tofu chiedendosi se fosse andato a male.
Squillò il telefono.
Vide che era Clover e rispose. «Signora Freeman! Credevo di trovarla a
casa, sa? Speravo mi volesse concedere un po’ del suo tempo... Cosa dice, è
interessata?»
«Sei riuscito a parlare con Gaz? Come mai non mi hai richiamato?» gli
rispose lei.
«Cos’è tutto ’sto affanno per Gaz, Clover? A proposito, è in ansia perché
Scotland Yard ha messo in programma un’altra puntatina nello Shropshire.»
«Non l’ha messa in programma: sono già qui» replicò lei. «Wyatt è in uno
stato che non ti dico. Ha ragione, poveraccio. È un casino.» Sospirò e
proseguì. «Non importa. Sono giù di corda. Torno presto. Cosa dici, mi fermo
a comprare qualcosa di pronto o cucini tu?»
Non gli sarebbe dispiaciuto farle comprare qualcosa di pronto, ma sapeva
che era stanca e preferiva tornare subito a casa. «Non preoccuparti: preparo
qualcosa io» le rispose, pur avendo constatato che il sedano era molle come il
fallo di un eunuco, i peperoni erano vecchi – sia quello rosso sia quello verde
– e l’unica cipolla stava assumendo una sfumatura grigiastra ben poco
appetitosa. «Un buon piatto salutare. Seguito da qualcos’altro di salutare.»
«Ah sì? Non ti prometto niente, ho avuto una giornataccia.»
Conclusa la telefonata, Trevor buttò il riso integrale, abbondante perché
non c’era molto altro da mangiare, e andò a prendere il vino. Se Clover era
giù di corda, un bel bicchiere le avrebbe fatto sicuramente piacere. Scelse una
bottiglia di Tempranillo fra quelle che tenevano nel sottoscala e la stappò.
Decise che il vino sarebbe stato migliore se avesse decantato un po’ nei
bicchieri. Lo versò in due calici ballon, poi stabilì che il suo non aveva
nessun bisogno di decantare.
Lo sorseggiò affettando tutte le verdure utilizzabili che aveva trovato in
casa. Qualche tempo prima si era comprato un wok elettrico, ma non aveva
ancora imparato a usarlo e quindi prese la padella grande e vi versò l’olio.
Stava per pelare l’aglio quando sentì sbattere una portiera. Prese il bicchiere
di Clover e corse ad aprire.
Clover era in versione sobria e severa, come sempre quando andava a
lavorare: chignon, divisa impeccabilmente stirata anche dopo ore che la
indossava, semplici orecchini d’oro e nessun altro gioiello a parte la fede e
l’anello di fidanzamento. Aveva l’aria esausta ma, come sempre, Trevor la
trovò irresistibile.
Come previsto, guardò gli scarponi e i bastoncini da trekking. Poi alzò lo
sguardo verso di lui e accettò il bicchiere. «Quanto avete camminato?»
Trevor rispose che avevano sfiorato i venti chilometri e lei fischiò. «Certo e
gli asini volano» disse.
Ma lo baciò lì sulla soglia. Fu un bacio lungo, che lui non fece nulla per
accorciare. Poi Clover staccò le labbra dalle sue. «Palpami per bene: i vicini
hanno bisogno di distrazioni» sussurrò.
Trevor fu lieto di compiacerla. Nonostante Clover fosse reduce da una
giornataccia, forse c’era ancora un barlume di speranza.
«Sai che sei il bipede più mangiabile di tutti?» gli disse, poi rise e gli
accarezzò la patta. «Mmm. Forse non sei proprio un bipede...»
Trevor decise che il sesso sarebbe stato il preludio ideale alla cena e alla
conversazione. Se si fossero rotolati per un po’ fra le lenzuola, o anche lì
nell’ingresso, poi Clover sarebbe stata meno nervosa. Senza dargli il tempo di
prenderle il capezzolo sinistro fra le dita, però, Clover fece un passo indietro.
«Sta bruciando qualcosa?» chiese.
Oddio! Se n’era completamente dimenticato. «Cazzo!» imprecò. «Devo
rimediare. La cena sarà pronta tra poco. Scusa per... la foga e tutto il resto.»
«Va bene così. Sono stanca morta.»
«Magari più tardi?»
«Vediamo. Conviene che adesso...» Annusò l’aria. «Cos’è? Riso?»
«Che fiuto!» si complimentò Trevor.
Corse in cucina e scoprì che il riso si era attaccato sul fondo della pentola,
ma il resto era mangiabile. Così, sperando che Clover fosse salita in camera
da letto a cambiarsi, a mettersi qualcosa di comodo e sexy, facile da sfilare,
finì di preparare la cena.
Clover lo raggiunse mentre stava rosolando il tofu. Si versò un altro
bicchiere di Tempranillo e gli mostrò la bottiglia con aria interrogativa, ma
Trevor scosse la testa. Era già abbastanza brillo, dopo un bicchiere e mezzo.
Clover si sedette a tavola. Trevor si accorse che era nervosa: spostava le
posate, piegava i tovaglioli, riallineava i piatti. Non era da lei essere così
pignola. «Brutta storia?» le chiese.
«Questa di Scotland Yard? Fammi bere un altro po’, prima.» Sollevò il
bicchiere, ma solo per ammirare il color rosso granato del vino spagnolo.
«Davvero avete camminato per venti chilometri?» gli chiese furbescamente.
Trevor fece la faccia vergognosa. «No.»
«Una nota di merito per la sincerità. Siete arrivati fino al pub e basta?»
«È vero, ero con i Rambling Rogues, ma c’è stato... un piccolo cambio di
itinerario.»
«Ovvero?»
Trevor si finse concentratissimo sulla cottura del tofu, ma poi Clover lo
chiamò con quel tono che voleva dire: Se non rispondi sono guai!
«Cinque chilometri» confessò e le lanciò un’occhiata.
Clover alzò gli occhi al cielo. «Santo Dio, Trev. Hai una palestra! Se non
riesci a trovare il tempo per fare un po’ di esercizio fisico tu...»
«Lo so» replicò lui. «Lo troverò. Mi sembra che tu abbia già abbastanza
pensieri: non ti preoccupare anche per me. Se rinuncio a birra e fritture perdo
due chili in una settimana.»
«Come no, un altro asino con le ali...»
Battibeccarono amichevolmente ancora un po’, mentre lui finiva di
preparare e portava la cena in tavola, che era in una nicchia con vista sul
giardino dietro la casa. A maggio l’erba sarebbe dovuta essere bella fitta, ma
non riuscivano mai a trovare il tempo per fare giardinaggio. Si erano limitati
a sparpagliare per il prato quattordici tipi di semi diversi nella speranza che
qualcosa crescesse. Non era andata malissimo, tutto sommato, perché qualche
fiore qua e là era spuntato, sopravvivendo a una lotta darwiniana.
«Scotland Yard?» chiese Trevor.
«Fammi bere ancora un po’. Raccontami la tua giornata.»
Non c’era granché da raccontare. In un centro fitness non succedeva mai
nulla di esaltante: lezioni di spinning, hot yoga, nuoto, zumba, pesi... Al
massimo poteva capitare che un vecchietto avesse un colpo per l’eccessivo
allenamento e venisse portato via in ambulanza o che un personal trainer
palpeggiasse con troppa foga le giovani mamme intente a recuperare il peso
forma.
«Niente di che. Sono andato con i Rogues, abbiamo visto un sacco di
alberi, spaventato una mezza dozzina di cerbiatti, avvistato conigli e gazze.
Mi sono occupato delle paghe e ho parlato al telefono con Gaz. Tutto qui. A
proposito, penso che gli farebbe piacere se lo chiamassi per rassicurarlo:
sembrava un po’ agitato per il ritorno di Scotland Yard.»
Vide che Clover non mangiava con appetito. Si era sciolta i capelli e in
quel momento vi passò le dita per scostarli dalla fronte. «Sì, immagino»
disse. «Non so cos’altro posso fare per lui, però. Il problema principale è
Finnegan, comunque.»
Trevor aggrottò la fronte. Clover se ne accorse e si spiegò meglio.
«Andranno di nuovo a parlargli, presumo.»
«Be’, certo. In fondo Finn e Druitt erano amici.»
«No, proprio amici no. Finnegan era convinto di conoscerlo bene e
nessuno riuscirà mai a fargli entrare in testa che invece non lo conosceva
affatto.»
«Nessuno?»
«Che cosa?»
«Hai detto ’nessuno’, ma immagino ti riferissi a te.»
«Conosco meglio di lui il lato oscuro dell’umanità.»
«Non posso che darti ragione. D’altra parte, nostro figlio si impegnava
parecchio in quel doposcuola, non ci andava tanto per passare il tempo. Gli
interessava davvero. Vedeva le cose dall’interno, non ti pare?»
«Vedeva quello che gli si voleva far vedere. La passione con cui sostiene
l’innocenza di Druitt è... è folle, Trev. Santo Cielo, vorrei che non l’avesse
mai conosciuto.»
Trevor aveva ripreso a mangiare, ma a quel punto alzò gli occhi. Non disse
nulla, non ce n’era bisogno. Clover gli leggeva nel pensiero, da sempre.
«Sì, sì, lo so» gli disse. «Sono stata io a insistere perché si impegnasse in
qualcosa di socialmente utile. Sono stata io a porla come condizione, se
voleva andare a stare da solo. Sono stata io ad approvare il doposcuola di
Druitt, come programma socialmente utile. Lo so, lo so. Capisco tutto.
Volevo soltanto che facesse un po’ di volontariato, tutto qui. Non pensavo
che sarebbe diventata la sua ragione di vita.»
«Non è diventata la sua ragione di vita» puntualizzò Trevor.
«Non lo so. È andato tutto a rotoli: io volevo trovargli un’occupazione utile
per il tempo libero in maniera che non passasse le giornate a... non lo so... a
bere, a drogarsi, a fare sesso promiscuo... Invece guarda tu cos’è venuto
fuori: comunque la rigiri, è un disastro. Se penso che il mio scopo era evitare
che finisse in prigione...»
Trevor non rispose, perché voleva che Clover ci arrivasse da sola, che si
rendesse conto delle cose che diceva a proposito del loro figlio. Era vero,
Finnegan era stato difficile fin da bambino, ma non era un criminale e non era
a rischio di prigione. Era scapestrato, questo sì. Strafottente e a volte
ingovernabile, è vero, ma era un bravo ragazzo.
Dopo un momento di silenzio, Clover assunse un tono completamente
diverso. «Va bene, ho capito dove volevi farmi arrivare. Ma non si tratta di
Finnegan, e forse non è mai stato lui il problema. Ammetto di essere
esagerata, ma sono sotto stress, Trev. Se l’operato della West Mercia Police è
sotto esame, vuol dire che siamo tutti sotto esame, e Gaz Ruddock in
particolare. Di nuovo. Probabilmente ho paura che Finnegan peggiori la
situazione facendo affermazioni imprudenti riguardo a Druitt.»
«Peggiori la situazione per chi?» Trevor pose quella domanda con cautela,
conscio di avventurarsi in acque di cui, prima di quella conversazione,
ignorava l’esistenza.
«Per Gaz, immagino. È la quarta volta che finisce sotto esame. Prima o poi
lo licenzieranno» rispose Clover.
«Possibile. In fondo, però, sono problemi suoi.»
«Non mi sembra giusto che debba subire ancora una volta lo stesso
trattamento.»
«Giusto o non giusto...» Trevor prese in mano il bicchiere, ma prima di
bere aggiunse: «A dire il vero, Clover, non capisco come mai ti preoccupi
tanto per lui».
«È normale che mi preoccupi, Trevor! L’ho assunto io, ho creduto di
vedere in lui qualcosa di speciale, ho investito in lui, ho fatto di lui il mio
protetto. E lui si è comportato splendidamente fino... fino alla storia di Ian
Druitt. Siccome prima non aveva mai compiuto un passo falso, non voglio
che perda il posto, e poi...»
Trevor notò la sua esitazione e pensò che o le era appena venuta in mente
un’altra cosa, oppure Clover non voleva avventurarsi troppo vicino a
qualcosa di cui preferiva tenerlo all’oscuro.
«E poi cosa?» le chiese.
Clover rimase zitta. Guardò il vino nel bicchiere, lo fece roteare, ne bevve
un sorso.
«Che cosa, Clover?»
«Be’, se fa brutta figura lui, faccio brutta figura anch’io. Non voglio fare
brutta figura e suppongo che neanche tu vorresti, se fossi al mio posto.»
«Nient’altro?»
«Cos’altro ci dovrebbe essere?»
«La questione è proprio questa, secondo me» rispose Trevor dopo un
istante di dubbio. Si rendeva conto che rischiava di intorbidare quelle stesse
acque di cui fino a poco prima ignorava l’esistenza, ma era indispensabile
chiarire. «Non ci avevo mai pensato, ma... cos’è veramente per te Gaz
Ruddock, Clover?»
La moglie lo fissò per un tempo che a lui parve lunghissimo, ma che forse
non lo era. «Cosa diavolo vorresti dire con questa domanda?» rispose.
«Quello che ho detto: cos’è veramente per te Gaz Ruddock. Qualcosa di
più di quel promettente ragazzino in cui hai creduto di vedere qualcosa ’di
speciale’?»
«Mi sembra di essermi già spiegata in modo più che esauriente.»
«Davvero? In modo esauriente?»
«Che cosa stai insinuando, Trev?»
«Ti sto semplicemente facendo una domanda. Sei in ansia per Gaz
Ruddock e mi sembra logico che io ti chieda come mai. No?»
«Non lo so» rispose Clover. «Vediamo le cose in maniera diversa.» Posò il
tovagliolo sul tavolo e le posate sul piatto. «Sarà meglio che ci diamo una
mossa: quelli di Scotland Yard stanno per arrivare. Se ti pare il caso, esponi a
loro i tuoi dubbi.»
Worcester
Herefordshire
Il vicecomandante Clover Freeman abitava in un complesso residenziale di
recente costruzione, con villette dotate di garage e ampi giardini fioriti.
Quella dei Freeman era identica a tutte le altre a parte il giardino, che era
poco curato.
Suonarono il campanello e vennero accolti non dal vicecomandante
Freeman ma da un uomo che si presentò come il marito, Trevor Freeman.
Aveva lineamenti marcati e la testa rasata per nascondere la calvizie. Era alto
poco meno di Lynley, ma molto più massiccio sul girovita, come tanti uomini
della sua età, che doveva aggirarsi fra i quarantacinque e i cinquantacinque.
Lynley escluse l’ipotesi nonna: se Clover Freeman era parente di Finnegan,
doveva essere o la mamma o la zia.
Trevor Freeman spiegò ai due poliziotti che Clover stava preparando il
caffè. Se volevano accomodarsi, li avrebbe raggiunti di lì a poco. Indicò loro
la porta aperta di una sala con un finto caminetto spento e un televisore
maxischermo sintonizzato su Shakespeare a colazione.
Lynley e Barbara entrarono e Trevor Freeman li seguì. Una delle pareti era
riservata alle foto di famiglia. Sembrava che i due avessero un solo figlio,
ritratto in varie età in una serie di immagini disposte intorno a quella centrale,
in cui Clover e Trevor Freeman, meno che trentenni, apparivano raggianti nel
giorno delle loro nozze, lui con una criniera di capelli ricci. Inaspettatamente,
a Lynley tornò in mente il giorno delle sue nozze con Helen e, per un breve
istante, l’emozione del momento in cui erano stati dichiarati marito e moglie.
Provò una fitta al cuore nel riandare a quel sì pronunciato senza capire, la cui
rilevanza sarebbe apparsa solo quando aveva rischiato di farsela portare via
da qualcun altro. Poi l’aveva persa comunque, ma quello era un terreno sul
quale non era ancora pronto ad avventurarsi.
«È suo figlio?» disse Barbara Havers.
«Sì. Quello è Finn, sì» rispose Trevor Freeman.
«Bel ragazzo» osservò Barbara.
«Lo era, prima di rasarsi a zero e farsi tatuare la testa. Adesso lo è un po’
meno.»
«Ahi ahi» esclamò Barbara. «Be’, almeno, quando i capelli ricresceranno,
il tatuaggio non si vedrà più. Probabilmente.»
L’uomo si grattò la testa. «Sperando che non abbia preso da me»
commentò.
Barbara osservò le altre foto. «È figlio unico?»
«Ne avremmo voluti di più, ma non è successo. C’è ancora tempo, forse.»
«Quanti anni ha?»
«Diciannove. Abita a Ludlow. Frequenta il college.»
«Speriamo che prima o poi trovi la sua strada. Piacere, Clover Freeman.»
Lynley e Barbara si voltarono. Il vicecomandante era sulla porta con un
vassoio in mano, sul quale erano posati una caffettiera a pressione, tazze e
accessori vari. Il marito corse a prenderglielo per consentirle di stringere la
mano ai due ospiti, che si presentarono. Clover Freeman li pregò di
accomodarsi e servì loro il caffè prima di versarne una tazza per sé. Ce
n’erano soltanto tre e il motivo apparve chiaro quando disse: «Trev, se hai
altro da fare, non è necessario che resti con noi». Poi si voltò verso Lynley
per averne conferma. «Dico bene, ispettore?»
«Non siete qui per Finn, vero?» domandò Trevor, come se la scelta se
ritirarsi o restare dipendesse da quello.
«Direi proprio di no. Ce ne sarebbe motivo?» rispose garbato Lynley.
«No, a quanto ne so» rispose Clover.
«Allora vi lascio al vostro lavoro» fu la conclusione di Trevor Freeman.
Un attimo dopo lo sentirono salire le scale. Poi udirono voci in televisione a
un volume esagerato, che subito venne abbassato.
Lynley ebbe quindi il tempo di studiare Clover Freeman, una volta stabilito
che era la madre del Finnegan di cui gli aveva parlato Barbara e che Isabelle
aveva interrogato. Non era alta, ma il top aderente e smanicato metteva in
evidenza un fisico scolpito, con le braccia e le spalle muscolose di chi si
allena regolarmente con i pesi. Anche le gambe fasciate dai leggings
confermavano la sua perfetta forma fisica. Clover Freeman non aveva un
grammo di grasso.
«Come posso esservi utile? Il comandante Wyatt mi ha detto che siete stati
in sede. Purtroppo non ero in ufficio quando siete andati a parlargli» disse il
vicecomandante con la tazza del caffè in mano.
Lynley fece cenno a Barbara di cominciare. «Il nostro sovrin... Il
sovrintendente Ardery ha parlato con Finnegan nel corso della nostra prima
trasferta qui e lui non le ha detto che sua madre era nella polizia. E neanche
che era stata lei a dare ordine di fermare il suo amico Ian Druitt.»
Clover Freeman guardò prima Barbara, poi Lynley e quindi di nuovo
Barbara. «Devo commentare?»
«Stiamo cercando di chiarire i legami fra i personaggi coinvolti nelle
indagini» rispose Lynley.
«Non saranno molti, immagino.»
«Questo è uno» replicò Barbara. «Lei, suo figlio, Ian Druitt, Geraldine
Gunderson e suppongo di doverci mettere anche Gary Ruddock... È lui a
lasciarci maggiormente perplessi.»
«Per quale motivo?»
Barbara si strinse nelle spalle. «Ogni volta che approfondiamo le
circostanze della morte di Ian Druitt, viene fuori un legame nuovo.»
Il vicecomandante prese il cucchiaino e girò il caffè. «Capisco. Be’, il mio
legame con questa storia è attraverso mio figlio, il quale a sua volta era legato
al signor Druitt, che io non ho mai incontrato di persona. Per il resto si tratta
di rapporti gerarchici tra le persone che sono intervenute la sera del suicidio
di Druitt.»
Lynley si rese conto che continuare di quel passo avrebbe portato
semplicemente a una discussione sui diversi punti di vista di loro tre riguardo
alla morte di Druitt e cambiò approccio. «Siamo tornati nello Shropshire
perché il sergente Havers ha scoperto che sono passati diciannove giorni fra
la denuncia anonima e la morte di Ian Druitt. Il rapporto dell’IPCC non fa
cenno a questo aspetto, né riferisce ciò che è accaduto in quel lasso di tempo.
Parlando con il comandante Wyatt oggi abbiamo appreso che non vennero
svolte indagini a seguito della denuncia per pedofilia. Dal momento che è
stata lei a prendere provvedimenti, dopo diciannove giorni, speravamo che ci
spiegasse cosa l’ha spinta ad agire.»
Clover Freeman ascoltò Lynley attentamente, guardandolo fisso. «La
spiegazione è semplice: fino a quel momento ignoravo che fosse stata sporta
denuncia» rispose poi.
«E come lo è venuta a sapere?» Lynley notò che Barbara aveva tirato fuori
il bloc-notes e anche Clover Freeman se ne accorse. Dalla faccia, non sembrò
affatto contenta.
Si accigliò e, dopo aver riflettuto un momento, rispose: «Se ben ricordo,
l’ho sentito dire al centro di addestramento. Avevamo una riunione con
parecchie persone – è nel complesso dove si trova la sede – e a un certo punto
se n’è parlato. Un diacono della chiesa accusato di pedofilia».
«Può essere più specifica?» chiese Lynley.
«Mi dispiace, ma quel giorno avevo un sacco di cose da fare. Posso dirvi
soltanto che erano in molti a parlarne. Mi spiace, ma non ricordo con
precisione.»
«Come mai ordinò il fermo di Druitt?» domandò Barbara. «È la prassi, in
un caso del genere? Voglio dire, è chiaro che una denuncia a proposito di
un’indagine in corso viene trasmessa immediatamente a chi se ne sta
occupando, ma qui non c’era nessun fascicolo aperto, a quanto ci risulta.»
«È vero» rispose Clover Freeman. «Ma si trattava di un’accusa di pedofilia
che era stata ignorata e la cosa mi ha colpito parecchio, sia come
vicecomandante sia come madre.»
«Quindi ha telefonato alla Gunderson e le ha detto di portarlo dentro.»
«Più o meno, sì. Le ho ordinato di incaricare qualcuno di fermarlo.»
«Quanto tempo dopo essere venuta a sapere della denuncia anonima?»
chiese Lynley.
«Come dicevo, la sera stessa. Le ho telefonato e le ho detto di mandare
qualcuno a prenderlo e trasferirlo nella stazione di Ludlow e lei ha eseguito.
Avrete di sicuro la documentazione che vi è stata fornita la volta scorsa, no?
È spiegato tutto lì.»
«Se ci vuole rinfrescare la memoria...» chiese educatamente Lynley.
Clover Freeman si alterò. Fu una reazione minima, una lieve contrazione
nella regione degli occhi che sarebbe facilmente sfuggita a chi non fosse stato
più che attento. Lynley dedusse da quel moto di stizza quasi impercettibile
che la Freeman sapeva benissimo che né lui né Barbara avevano bisogno che
lei rinfrescasse loro la memoria, ma speravano di farla cadere in
contraddizione.
«Per esempio, come mai non ha chiamato i colleghi di Shrewsbury e non
ha chiesto a loro di occuparsene?»
«L’ho fatto» rispose Clover Freeman. «Non potevano, perché avevano
un’operazione da gestire. Perciò ho chiamato Gerry Gunderson, che è
responsabile degli ausiliari di zona, e le ho chiesto di mandare l’ausiliario di
Ludlow.»
«Perché tanta fretta?» domandò Lynley. «Poteva comunque occuparsene la
polizia di Shrewsbury una volta conclusa l’operazione. Il fermo di Druitt
poteva aspettare.»
«Sì, certo» ammise il vicecomandante. «Sono in parte responsabile per il
modo in cui è stata gestita la faccenda. Vedete, Finnegan...» E indicò con la
testa le fotografie appese al muro. «Finnegan lavorava con Druitt. Se ci fosse
stato anche solo un minimo fondamento... » Prese la tazza fra le due mani.
Sembrava a disagio. «Volevo che stesse lontano da Finnegan, se c’era la
possibilità anche remota che fosse veramente un pedofilo. Volevo
interrogarlo approfonditamente.» Bevve un sorso di caffè e posò la tazza sul
tavolino. «Ho avuto una reazione esagerata, ispettore» aggiunse poi in tono
sincero. «Druitt, Finnegan, la pedofilia, il doposcuola, la denuncia per
molestie... Volevo capire com’era la situazione per via di mio figlio.» Inclinò
la testa verso la porta. «Trev direbbe che non è la prima volta che metto
Finnegan al primo posto. Solo che in questo caso è finita tragicamente.»
«Gary Ruddock mi ha detto di aver lasciato solo Druitt per gestire altri
problemi in città» disse Barbara.
«Non di essere uscito dalla stazione di polizia, vero?»
«No. Di aver lasciato solo Druitt nella stanza.»
«Come pensavo» replicò il vicecomandante. «Mi è stato detto che era in
corso un’abbuffata alcolica in centro. Ma immagino che voi lo sappiate già.
Lo avrete appurato nel corso della vostra prima visita.»
«Siamo tornati per via dell’intervallo di diciannove giorni fra la denuncia e
il fermo» le ricordò Lynley.
«Sì, e per Clive Druitt, il padre del defunto. Nessuno vorrebbe la pubblicità
che accompagnerebbe un’azione legale, se mai dovesse intentarla» aggiunse
Barbara.
«Mi dispiace tantissimo» disse Clover Freeman. «La colpa in fondo è mia,
ne sono consapevole. Credetemi, se tornassi indietro...»
«È sempre così» commentò Barbara.
Ludlow
Shropshire
Barbara Havers sapeva che era sbagliato odiare Clover Freeman solo perché,
pur avendo dieci anni più di lei, aveva il fisico di una campionessa olimpica.
La diffidenza che Barbara provava nei suoi confronti, la voglia matta di
scoprire che era colpevole di qualcosa, era dettata dall’invidia. Sembrava
proprio che la Freeman potesse essere accusata soltanto di curare la propria
forma fisica con una serie di attrezzi che Barbara aveva adocchiato nel
solarium adiacente alla sala. Probabilmente era pure vegetariana, maledetta
lei.
Non esternò queste sue riflessioni all’ispettore durante il viaggio di ritorno
al Griffith Hall, dove avrebbero di nuovo soggiornato. Si soffermò piuttosto
su un’altra caratteristica di Clover Freeman, che si era autodefinita una madre
iperprotettiva. A suo parere, spiegò a Lynley, quella iperprotettività nei
confronti del figlio nel caso specifico poteva essersi concretizzata in due
modi: la Freeman era stata troppo impulsiva perché temeva che le accuse
fossero fondate – e quindi voleva tenere il figlio lontano da Druitt – oppure
perché aveva paura che Finnegan fosse in qualche modo coinvolto.
«Magari per un po’ sta a guardare e basta, poi decide di unirsi al suo amico
e di dare qualche palpatina anche lui» disse. Lynley le lanciò un’occhiataccia
e lei si scusò prontamente. Rifletté ancora un po’. «O magari è lui a mettere
le mani addosso ai bambini, Druitt lo becca e lui per difendersi lo accusa.
Non abita lontano dalla stazione di polizia, fra parentesi.»
Dopo qualche minuto di guida silenziosa e, immaginò Barbara,
meditabonda, Lynley si espresse. «Sono entrambe ipotesi plausibili, per
quanto sgradevoli.»
Altro silenzio. Stava imbrunendo. Lì al Nord, benché la distanza non fosse
molta, le giornate erano più lunghe che a Londra. Meno grattacieli a oscurare
prematuramente il sole, pensò Barbara. Spazi aperti, colline basse e solo
boschi cedui a spezzare la linea dell’orizzonte.
«Questa cosa della pedofilia, Barbara...» Lynley non portò a termine la
frase e rimase pensoso. Barbara si chiese se intendesse andare avanti oppure
no, ma poi Lynley aggiunse: «Uno che conoscevo dai tempi di Eton aveva
queste inclinazioni».
«Un professore?»
«No, un ex studente. Sosteneva di non aver mai ceduto ai propri istinti, ma
aveva alcune foto. Le teneva accuratamente nascoste, ma nel corso di
un’indagine le ho trovate.» Si voltò verso di lei e Barbara lo vide per la prima
volta non solo in imbarazzo, ma anche turbato.
«Cristo, John Corntel!» esclamò Barbara. «L’ha coperto, ispettore? Non ha
pensato che...? E se in questo preciso momento stesse...? Voglio dire, adesso
potrebbe mettere in pratica ciò che fino a un certo punto si è limitato a
guardare. Signore Gesù!»
«Lo so, non ne vado fiero» mormorò Lynley. «Siamo ancora in contatto.
Sostiene di esserne uscito, ma Dio solo sa se è vero.»
«Cos’è? Una confessione?» chiese Barbara. «Dopo tutto ’sto tempo?
Quanti segreti mi tiene nascosti, ispettore?»
«Non ci ho dormito, Barbara, per un sacco di tempo. Sono perfettamente
consapevole di avere delle responsabilità. Non soltanto in questa vicenda.»
Barbara capì che Lynley stava parlando della morte di Helen. Non aveva la
minima colpa per ciò che era successo a sua moglie, ma si rifiutava di
accettarlo. Preferì non infierire, visto quello che le aveva appena confessato.
Non si capacitava che Lynley fosse venuto meno alle proprie responsabilità
in una questione così grave, ma perlomeno ora riusciva a vedere l’ispettore
come un essere umano.
Erano a Leominster e stavano per imboccare la A49 per Ludlow, quando
Lynley riaprì bocca. «Ho ripensato a quella vecchia storia per via delle
fotografie. Fra gli effetti personali di Druitt c’era qualcosa che suggeriva una
tendenza pedofila?»
«Foto di bambini nudi? Pedopornografia? Se parliamo di foto vere e
proprie, no. Ma ormai i maniaci non vanno su Internet?»
«Sì. Di solito, sì. Ian Druitt possedeva un computer? Un portatile? Un
tablet?»
«Non abbiamo trovato niente» rispose Barbara. «Ma siccome non navigava
nell’oro, ci sta.»
«E Clive Druitt?»
«Vuole sapere se ci ha consegnato dispositivi elettronici del figlio? La
risposta è no. Naturalmente, può darsi che Ian Druitt avesse un computer e
che suo padre se lo sia tenuto. Magari gli serviva. Anche se... Non mi sembra
sia spiantato: poteva comprarsene uno nuovo. Perché si sarebbe dovuto tenere
quello del figlio?»
«Se conteneva qualcosa...» ipotizzò Lynley.
«Prima avrebbe dovuto controllare in memoria. E questo significa che
avrebbe dovuto sapere che doveva cercare qualcosa. Sinceramente, mi
sembra poco plausibile.»
«E la donna da cui abitava? Quella che gli affittava la stanza? Come si
chiama?»
«Flora Bevans. Potrebbe essersi tenuta lei il portatile o il tablet di Druitt.
Non so se l’avrebbe consegnato a Druitt padre, se ne avesse avuto bisogno.»
«Oppure Ian Druitt andava su Internet usando lo smartphone» azzardò
Lynley.
«Purtroppo, però...»
«Non mi dica che non avete nemmeno il cellulare!» Lynley la guardò.
Aveva imboccato la A49 e stavano percorrendo un rettilineo. «Non ha senso.
Druitt non abitava nella casa parrocchiale e il vicario doveva avere la
possibilità di contattarlo. Ammettiamo pure che in casa avesse un fisso: cosa
faceva? Rientrava ogni volta che doveva ascoltare i messaggi, aveva
qualcuno che gli prendeva le telefonate quando era fuori? Mi sembra
impossibile che non avesse il cellulare. Dobbiamo scoprire dov’è.»
La logica di Lynley era stringente e Barbara si vergognò di non averci
pensato prima. Quando aveva esaminato gli effetti personali di Druitt, non le
era venuto in mente di chiedersi se il diacono usasse dei dispositivi
elettronici. «Secondo me» disse, «dobbiamo chiedere innanzitutto al
reverendo Spencer, ispettore. È del tutto estraneo alla vicenda. Ci dirà la
verità senza girarci intorno: computer, portatile, tablet, cellulare e chi più ne
ha più ne metta.»
«Andremo a parlargli domattina, allora.»
Era tardi, quando arrivarono al Griffith Hall. Lynley si infilò con la sua
preziosa vettura nello stretto varco che conduceva al parcheggio e la lasciò
lontana dagli altri mezzi e a distanza di sicurezza da eventuali passanti.
Raccolsero le loro cose e pochi minuti dopo salutarono Peace on Earth, che si
dichiarò lieto di rivedere Barbara e si presentò a Lynley sfoggiando i suoi
enormi dilatatori.
«Vi ho dato le stesse camere dell’altra volta» disse premuroso. Poi si
rivolse a Barbara. «La accompagno, se non ricorda la strada o ha bisogno che
le porti la valigia.»
Barbara stava per rispondergli che sia la stanza sia l’hotel le sarebbero
rimasti per sempre impressi nella memoria, ma si trattenne. «Non si disturbi:
faccio da sola. Venga, ispettore» e partì verso le scale.
Arrivarono a quella che era stata la stanza di Barbara e Lynley aprì la
porta. «Oh» disse, poi posò la valigia per terra.
«Ispettore, questa è la mia camera. La sua è l’altra.»
«Non si preoccupi, sergente. È soltanto per dormire» replicò Lynley.
«Sicuro? Voglio dire... La camera del sovrintendente Ardery è più grande,
più... Ho l’impressione che mi abbia messo qui per dispetto.»
«Quando si alloggia a spese della Metropolitan Police, ci si deve
accontentare. Le porto la valigia fino alla sua camera?»
«Ce la faccio da sola» rispose Barbara. «Se mi accompagna, poi per
tornare qui si perde: è un dedalo di corridoi, scale interne, scale esterne... È
sicuro di non volere la stanza del sovrintendente?»
«Non sarà molto diversa da questa, no?»
«Be’, un po’ sì.»
17 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
Barbara vide che Lynley si alzava da tavola con una smorfia, dopo la
colazione, e capì che avrebbe dovuto insistere. La sera prima aveva fatto un
rapido giro per la suite – non sapeva come altro definirla – in cui aveva
soggiornato il sovrintendente Ardery ed era tornata di corsa alla camera di
Lynley con la valigia in mano. Sì, certo le avrebbe fatto piacere avere la
camera del sovrintendente, a spese proprie non si sarebbe mai potuta
permettere un simile lusso, ma non era giusto, sul serio.
Lynley le aveva aperto con lo spazzolino da denti in mano. La striscia di
dentifricio era applicata perfettamente: il suo dentista doveva essere fiero di
lui. L’aveva guardata sbattendo le ciglia. «Cosa c’è, sergente?» aveva chiesto.
«Dobbiamo scambiarci le camere, ispettore» aveva risposto Barbara.
«Davvero? E perché?»
«Appena la vedrà, capirà. Non ha ancora disfatto i bagagli, giusto? A parte
spazzolino e dentifricio, intendo. E filo interdentale, immagino, visto che lei
prende molto sul serio l’igiene orale.»
«Sono lieto che se ne sia accorta, Barbara.»
«Sì. Allora, raccolga le sue cose: le faccio strada.» Aveva lasciato cadere la
sacca per terra e l’aveva spinta dentro con un piede.
«Perché?» aveva ripetuto Lynley.
«Perché ci dobbiamo scambiare le camere? Perché l’altra è molto più bella,
più adatta ai suoi standard... nobiliari.»
«Non dica scempiaggini, sergente» era stata la reazione di Lynley. «Ci
dormiremo e basta. Io, almeno, non la userò per altro. Lei non so. Dovesse
mai incontrare un provetto ballerino di tip tap – e le giuro che Dorothea
Harriman non mi ha detto nulla – conviene che abbia la stanza più grande. Ci
vediamo domattina.»
Barbara era sicura che l’ispettore se ne sarebbe pentito e, quando gli vide
in faccia quella smorfia di dolore, ne ebbe la conferma. Lynley tuttavia si
rifiutò di dirle come aveva dormito – o non dormito – e, finita la colazione,
andarono a parlare al reverendo.
Quando arrivarono lo videro uscire dalla chiesa di St. Laurence. Doveva
aver appena terminato di celebrare il rito mattutino, perché era in compagnia
di un certo numero di vecchiette che dovevano essere parrocchiane, tutte con
il medesimo libretto sottobraccio. Era una congregazione alquanto sparuta,
pensò Barbara, ma era un giorno feriale e forse il motivo era quello.
Dopo aver congedato le vecchiette, Christopher Spencer notò Barbara e
Lynley. Andò loro incontro appena fuori dalla recinzione in ferro battuto che
circondava la chiesa.
«Sergente Havers» disse, cordiale. «È tornata o non è mai partita?»
Barbara rimase favorevolmente impressionata dal fatto che ricordasse
come si chiamava, ma rifletté che probabilmente il reverendo aveva imparato
a memorizzare i nomi delle persone perché doveva ricordare quelli dei suoi
parrocchiani. «Sono tornata» rispose e gli presentò Lynley. «Speravamo di
poterle parlare un attimo. Ha tempo?»
«Certo. Volete venire in canonica? Vi preparo un caffè. Non credo di avere
altro da offrirvi, però, a parte qualche biscotto stantio.»
Barbara e Lynley dissero che avevano appena fatto colazione. «Ci
tratteniamo poco» aggiunse poi Barbara.
«Venite» disse il reverendo indicando il portone della chiesa. «Possiamo
parlare anche qui, staremo tranquilli. La mattina dei giorni feriali vengono
pochi fedeli. Anche nei festivi, a dire il vero. Tranne quando le chiese si
riempiono per gli attentati terroristici.»
Lynley e Barbara dissero che per loro andava bene parlare in chiesa e il
reverendo li accompagnò in quella che chiamò la St. John’s Chapel.
Barbara la riconobbe subito: la splendida finestra in stile gotico era
indimenticabile, con i suoi vetri colorati scampati alla distruzione.
Spencer parlò per primo. «Immagino che siate tornati per Ian. Non so che
cosa dirvi più di quello che vi ho già detto l’altra volta.»
Lynley prese in mano la situazione. «Le circostanze della sua morte non
sono ancora del tutto chiare. Siamo qui per approfondire.»
«E cominciate con me?»
«Abbiamo cominciato ieri.»
«Qualcuno vi ha parlato di me?»
«Volevamo soltanto farle alcune domande che l’altra volta non le abbiamo
fatto.»
«Capisco. Be’, non sono sicuro di potervi essere d’aiuto, ma sono a vostra
completa disposizione.»
Lynley lo ringraziò con i suoi modi cortesi. Poi fece cenno a Barbara che
disse: «L’altra volta, il padre di Druitt ha consegnato al sovrintendente
Ardery gli effetti personali del diacono e noi li abbiamo esaminati con cura
senza riscontrare alcuna anomalia, se posso esprimermi così».
«Anomalie rispetto al fatto che Ian era un uomo di Dio, presumo.» Spencer
si aggiustò gli occhiali, che gli erano scivolati sulla punta del naso, ma che gli
riscivolarono giù subito dopo.
«Esatto» disse Barbara. «Ma l’ispettore e io... Pensiamo che manchino
alcune cose e volevamo controllare con lei. Ian ha vissuto con lei e sua
moglie per un certo periodo, giusto?»
«Per un po’, sì. Le assicuro che né io né Constance ci saremmo mai tenuti
qualcosa di Ian. Ce ne saremmo accorti, se avesse dimenticato qualcosa.
Glielo avremmo restituito. E anche i nostri figli e i nostri nipoti...»
Barbara si affrettò a rassicurare il reverendo che non stavano accusando i
suoi discendenti di cleptomania. «Ci chiedevamo semplicemente se gli aveste
visto usare gli oggetti che ci sembrano mancare, ma che non sappiamo se lui
effettivamente avesse» spiegò.
«Ho capito. A che cosa vi riferite?»
«Cellulare, portatile, tablet, computer...»
Spencer annuì. «Quando stava da noi, usava il computer della casa
parrocchiale. È un bestione enorme e vecchissimo, ma per quello che ci
dobbiamo fare noi va più che bene. Suppongo leggesse la posta elettronica e
lo usasse per tenere i contatti. Che cosa avesse dove è andato ad abitare poi
non vi so dire. Potrebbe essersi comprato qualcosa. Quando stava qui, però,
non aveva nient’altro, o almeno io non l’ho mai visto usare nulla.»
«Neppure il cellulare?»
«Ah, sì, scusatemi. Il cellulare lo aveva. Era uno smartphone, o come si
chiamano.»
Barbara lanciò a Lynley un’occhiata trionfale. «Fra gli oggetti consegnati
da suo padre il cellulare non c’era e Flora Bevans, la signora presso cui Ian
aveva preso in affitto la camera, dice che non è neanche lì. Secondo lei dove
potrebbe essere?» chiese.
Spencer guardò nel vuoto. «Strano. Non capisco come mai non fosse fra i
suoi effetti personali. A meno che non sia rimasto da qualche parte... Siete
sicuri che non gliel’abbiano sequestrato quando è stato fermato? Lo dico
perché Ian lo teneva sempre con sé e quindi do per scontato che lo avesse
anche quella sera. Lo chiamavano in continuazione da una parte e dall’altra e
cercava di essere sempre disponibile, se qualcuno aveva bisogno. Non si
faceva telefonare in canonica o al numero di casa.»
Rimasero un istante in silenzio a riflettere sulla questione. «Se ricordo bene
quello che è scritto nell’incartamento, quando è stato fermato era in chiesa e
stava celebrando una funzione, oppure si stava svestendo appena finito di
celebrarla. Dico bene?» disse Lynley pensoso.
Spencer sorrise. «Ma certo! La sacrestia. L’avrà lasciato lì quando ha
indossato i paramenti. La forza dell’abitudine. Non voleva che suonasse
durante la funzione. Venite.»
Uscirono dalla cappella e, attraverso la navata centrale, raggiunsero il coro,
dove si trovava la porta di rovere della sacrestia. Il vicario accese le luci, che
illuminarono dall’alto alcuni armadi chiusi, una cassettiera e vetrine in cui
erano conservati sottochiave calici, patene, crocifissi e altri accessori
sacerdotali.
«Ecco» disse Spencer. «Sarà qui da qualche parte. Direi di guardare nei
cassetti, prima di tutto. In quegli armadi ci sono casule, cotte e pianete, i
paramenti più ingombranti. Le casule hanno le tasche, ma non credo proprio
che Ian celebrasse con il cellulare in tasca. No, controlliamo i cassetti.»
Barbara notò che nei più larghi erano riposte candide tovaglie da altare
inamidate e suppellettili nei vari colori liturgici. Nient’altro. Accanto ai
cassetti più larghi, tuttavia, ce n’era una fila di più stretti con stole, candele,
brochure sulla storia della chiesa, cartoline e... un cellulare e un mazzo di
chiavi.
«Ci siamo, amici cari» disse Christopher Spencer. «Dev’essere di Ian,
perché mio non è. E queste saranno le chiavi della macchina.»
Ma certo! pensò Barbara. Ian Druitt doveva per forza avere una macchina!
Non poteva abitare a casa di Flora Bevans e far fronte a tutti i suoi numerosi
impegni spostandosi con i mezzi pubblici. Era un’altra delle cose che non
aveva pensato di controllare durante la visita con Isabelle Ardery e se ne
vergognò moltissimo. Guardò Lynley per misurare il suo livello di
irritazione, ma lo vide pensoso.
«Lei sa dove Druitt ha lasciato la macchina?» chiese a Spencer.
Spencer si morse il labbro. «Qui intorno i parcheggi sono riservati ai
residenti o al carico e scarico delle merci, anche se ogni tanto un posto a
pagamento si trova, ma la sosta massima consentita è di due ore. Penso che
Ian cercasse di posteggiare dove poteva fermarsi più di due ore» rispose.
Rifletté ancora un po’. «Ci sono due parcheggi che potrebbe aver usato: uno è
dietro il West Mercia College, vicino a Castle Square, e l’altro è nei pressi
della biblioteca, dall’altra parte di Corve Street, poco più avanti del Bull
Ring, ha presente? Da lì alla chiesa sono solo due passi. In ogni caso, a
quest’ora gliel’avranno portata via» disse con aria mortificata. «Rimozione
forzata. Non usano le ganasce, di solito.»
«Non potrebbe averla presa il padre con un altro paio di chiavi?» chiese
Lynley.
«È possibile. Se sapeva dove era posteggiata...»
«Non le ha fatto domande riguardo all’automobile del figlio?»
Spencer scosse la testa. «Voi siete i primi.»
«Che macchina aveva?» domandò Barbara.
«Ossignore, mi dovete scusare, ma sono negato, con le macchine. L’ho
vista, ma non saprei dirvi che macchina fosse, a parte che era azzurra. E
vecchia. Non so dirvi altro.»
Ludlow
Shropshire
Prima di congedarsi, Lynley disse al reverendo che forse avrebbero portato
via il computer per farlo esaminare da un tecnico della Scientifica. Poiché Ian
Druitt lo aveva usato nel periodo in cui era stato dagli Spencer, poteva aver
lasciato tracce utili ai fini delle indagini. Spencer fece una faccia preoccupata
nel sentirgli pronunciare la parola «tracce», ma non chiese chiarimenti e
assicurò che non c’erano problemi, avrebbe consegnato il computer alla
polizia, se necessario.
Lynley e Barbara lo salutarono e se ne andarono. La prima cosa da fare era
trovare un caricatore per il cellulare di Druitt, che nel frattempo si era
scaricato. Lynley suggerì di incamminarsi verso l’hotel, dove probabilmente
ne avevano un discreto assortimento per gli ospiti smemorati e distratti.
Il mercato a quell’ora era in pieno svolgimento. Sulle bancarelle erano
esposti indumenti, biancheria per la casa e cianfrusaglie assortite e Lynley si
sorprese dell’interesse di Barbara. Ne capì il perché quando lei gli disse:
«Quello è Harry, ispettore». Invece di dirigersi verso le bancarelle, andò da
una fila di cinque ambulanti con la mercanzia esposta su un telo steso per
terra in fondo alla piazza.
Harry era un uomo di mezz’età con un pastore tedesco piuttosto
minaccioso. Aveva i vestiti puliti ma stropicciati: i pantaloni erano un po’
corti, la maglia da golf aveva ricamato sulla sinistra, all’altezza del cuore,
«St. Andrews». Ai piedi aveva un paio di Birkenstock e in testa un cappello
di paglia. Se lo tolse quando vide arrivare Barbara, alzandosi e producendosi
in un inchino. Anche il pastore tedesco si alzò, ma anziché inchinarsi
scodinzolò con foga. Era una femmina e si chiamava Sweet Pea, scoprì
Lynley. Era dolce come un gattino, gli assicurò Barbara.
«Cosa vende di bello, oggi?» chiese poi all’uomo. «E quanto spera di
riuscire a resistere, prima che l’ausiliario la faccia sgomberare?»
«Devo cercare di ingraziarmi l’agente Ruddock» rispose Harry con una
voce che si avvicinava moltissimo alla Voce con la V maiuscola. Lynley
rimase sorpreso. «Mi duole avere rapporti tanto conflittuali con lui. Non
vorrei contrariarlo.»
«Allora perché lo fa?»
«È disdicevole che nella società moderna ci siano tanti sprechi.»
Lynley capì che si riferiva agli articoli in esposizione sulla sua coperta: un
paio di cesoie da vendemmia tutte ossidate, due guinzagli in cuoio, quattro
tazzine di porcellana senza piattino, due piatti in ottime condizioni, un
righello vetusto, un goniometro, un compasso, una bussola e un orologio
Swatch, oltre a tre cardigan ben piegati.
«E poi mi piace conversare con le persone che si fermano a guardare»
proseguì Harry. «Se sto seduto sul marciapiede a suonare il piffero davanti a
una vetrina, nessuno mi rivolge la parola. Ho notato che in generale i cittadini
preferiscono evitare chi dorme per strada. Probabilmente temono di sentirsi
chiedere denaro o altro. La presenza di Sweet Pea non aiuta, peraltro. Lei è
l’unica ad avermi avvicinato mentre sonnecchiavo davanti a un negozio. Chi
è il suo accompagnatore, se non sono indiscreto?»
«L’ispettore investigativo Lynley» rispose Barbara. «Anche lui, come me,
è della Metropolitan Police.»
«Posso chiedere che cosa vi porta a Ludlow?»
«In questo momento, stiamo cercando un caricatore per un cellulare.
Siamo riusciti a mettere le mani sullo smartphone di Ian Druitt.»
«Perbacco! È un risultato importante?»
«Non lo sapremo finché non l’avremo acceso. Non è che lei ha un
caricatore, vero?»
«Ho un telefono, sì. Tempo fa ho ceduto alle ansie di mia sorella per il
fatto che dormo all’aperto e seguo questo stile di vita. Però non ho il
caricatore, visto che non saprei dove attaccarlo. A ricaricarmi il cellulare è il
mio personal banker. Glielo lascio un paio d’ore e me lo riporta carico.»
Altra sorpresa: come mai quello spaventapasseri aveva un personal
banker? Lynley evitò di intervenire e lasciò continuare Barbara.
«Che cosa ci racconta? È successo qualcosa di interessante?» chiese lei.
«Abbuffate alcoliche, risse in piazza, caseifici in sciopero?»
Sovrappensiero, Harry si sollevò la maglietta e si grattò la pancia bianca.
«Al castello stanno provando per il festival shakespeariano e un’attrice ieri si
è fratturata una gamba cadendo in una botola che non era stata chiusa
correttamente, ma dubito che lei volesse sapere questo. E poi... Mi lasci
pensare... Ah. Due giorni fa si è guastato un pullman davanti alla sala da
concerto e trentotto anziane signore in twin set e scarpe con i lacci sono
rimaste tre ore ad aspettare che ne arrivasse un altro. Avrei detto che donne di
quell’età portassero più pazienza, avendone già passate di cotte e di crude,
invece agitavano stizzite i bastoni da passeggio e un deambulatore è stato
usato come arma impropria. Per fortuna l’agente Ruddock ha parlato a lungo
con loro e le ha placate, altrimenti sarebbe scoppiata una rivolta geriatrica.»
«È intervenuto anche per allontanare gli ubriachi dallo Hart and Hind,
dopo che sono partita?»
«Non mi risulta, ma naturalmente è possibile, visto che i giovani bevono
troppo e il college è proprio dietro l’angolo.»
«Non ha più fatto salire nessuno sull’auto di servizio, però?»
Harry guardò prima lei e poi Lynley. L’ispettore notò che aveva lo sguardo
intelligente e sincero. «Spero che non sia nei guai, poverino. È un brav’uomo,
anche se non ci permette di vendere la nostra mercanzia» disse indicando gli
altri abusivi. «Suppongo non dipenda da lui, peraltro: segue le direttive del
sindaco e del consiglio municipale. Non possiamo biasimarlo, se svolge il suo
lavoro.»
Lynley non aveva ben capito dove volesse arrivare Barbara e si chiese se la
conversazione con Harry avesse un obiettivo preciso. Immaginava di sì,
perché dopo aver scambiato ancora qualche parola, lo salutò e gli
raccomandò di tenere sotto controllo la situazione e riferirle se fosse successo
qualcosa di interessante. A tale scopo, gli diede il proprio biglietto da visita.
Mentre tornavano al Griffith Hall disse a Lynley: «Quel tipo vede tutto: mi
ha raccontato lui che l’ausiliario carica in macchina gli studenti del college
che hanno bevuto troppo e li accompagna... dove li accompagna. Io avevo già
visto una sera Ruddock sull’auto di servizio con una ragazza, a fare non so
cosa. Mi ha poi confessato di non avere la ragazza e quindi mi sono posta
qualche domanda. Come ho detto al sovrintendente, se anche la sera del fatto
era chiuso sull’auto di servizio a fare le porcherie, chiunque sarebbe potuto
entrare per ammazzare Druitt. E se davvero è andata così, lui adesso starà
cercando di coprirsi per non passare guai».
Entrarono nell’hotel e un ragazzo che stava parlando al telefono – non
Peace on Earth – alzò una mano per fermarli. Chiuse la chiamata e si rivolse a
Barbara. «C’è un messaggio per lei.» Le porse un foglietto ripiegato, che
Barbara aprì e lesse. «È passato a cercarci l’agente ausiliario Ruddock. Dice
di telefonargli se abbiamo bisogno di qualcosa, che possiamo contare su di
lui.» Alzò gli occhi dal foglietto. «Immagino lo vorrà conoscere, ispettore»
aggiunse.
«Sì, certo» rispose Lynley.
Il concierge li informò che c’era un signore che li aspettava al bar. «Gli ho
spiegato che non sapevo a che ora sareste tornati, ma lui ha voluto aspettare
comunque.»
Il signore in questione era Clive Druitt. Stava bevendo un caffè e, quando
li vide, si alzò in piedi. «Siete voi gli ispettori della Metropolitan Police?
L’onorevole mi ha avvertito del vostro arrivo.»
Disse che aveva portato con sé gli effetti personali del figlio, nel caso
avessero voluto esaminarli di nuovo. Il sovrintendente Ardery – «quell’altra»,
la definì Druitt, facendo venire i capelli dritti a Barbara – gli aveva assicurato
di averli controllati con cura senza trovare nulla di rilevante, ma gli aveva
fatto «una brutta impressione» quando si erano visti a Kidderminster e gli era
sembrato che avesse l’alito un po’... «Be’, non importa. Non si occupa più lei
del caso, no?»
Lynley rispose che in quel momento gli incaricati erano lui e Barbara e
riuscì almeno in parte a rassicurarlo. Non volle sapere altro sull’alito di
Isabelle perché non era il caso di gettare benzina sul fuoco. Ringraziò Clive
Druitt di essersi scomodato per loro e gli chiese se suo figlio possedesse un
computer, un tablet o un portatile.
«Ian?» replicò l’uomo con una risatina. «Non credo proprio. Non amava la
tecnologia. Anni fa aveva un computer, ma una volta decise di cancellare
alcuni file che secondo lui non servivano a niente e finì per formattare il disco
fisso. Era imbranatissimo.»
«Non usava la posta elettronica, Facebook, LinkedIn...?» domandò
Barbara.
«Forse, ma attraverso lo smartphone. Che però non era fra i suoi effetti
personali. Mi piacerebbe tanto scoprire che fine ha fatto.»
«È in nostro possesso» gli rivelò Lynley. In quel momento comparve
Peace on Earth per chiedere se volessero un caffè, una bottiglietta di minerale
o una spremuta. «Grazie. Ci servirebbe qualcuno che portasse queste scatole
su in camera mia» rispose Lynley.
«Meglio che le portiamo da me» intervenne Barbara. «C’è più spazio, se
vogliamo procedere a un nuovo controllo.»
«Lo spero bene» disse Clive Druitt. «Io vorrei che controllaste nuovamente
tutto quanto. E che stavolta faceste un lavoro accurato.»
«Anche il lavoro svolto finora è stato accurato» ribatté Lynley e, senza
dare a Druitt il tempo di obiettare, gli chiese la data di nascita e il numero di
telefono di tutti i membri della famiglia, spiegando che il cellulare di Ian
probabilmente aveva una password e che era possibile che il diacono si fosse
ispirato a quelli, come fa la maggior parte della gente.
Druitt gli chiese per quando gli servissero e Lynley rispose educatamente
che la cosa migliore sarebbe stata mettersi subito all’opera. Barbara prese
taccuino e matita meccanica e assunse un’espressione di estremo interesse per
le rivelazioni che Druitt si accingeva a fare. In realtà Druitt dovette telefonare
alla moglie, perché ricordava solo la data di nascita del primogenito e
neanche di quella era sicuro al cento per cento. Per fortuna la signora Druitt
era più preparata e lui dettò tutte le informazioni a Barbara, che ne prese nota.
Alla fine dell’elenco, Druitt stette a sentire ancora qualcosa che aveva da
dirgli la moglie e poi informò Barbara che Ian era molto affezionato a una
prozia, per cui ritenevano prudente darle anche la data di nascita e il numero
di telefono della zia Uma.
Conclusa la telefonata, si rivolse a Lynley. «Che cosa pensate di trovare
nel telefono di Ian?» gli chiese a bruciapelo.
«È la prassi. Faremo richiesta dei tabulati telefonici, ma se nel frattempo
riusciamo ad accedere ai dati, tanto di guadagnato.»
«Mio figlio è pulito» dichiarò Druitt. «Sono tutte bugie.»
Prese una grossa busta imbottita e la diede a Lynley, il quale constatò che
conteneva un portafoglio, una bibbia, un libro di orazioni, una rubrica e un
fascio di bollette che Druitt aveva saldato dopo la morte del figlio. Barbara
scrisse una ricevuta e gliela consegnò. «Se non c’è altro...» disse Druitt
mentre si alzava.
Una cosa veramente ci sarebbe stata, disse Lynley. Stavano cercando
l’automobile di Ian, ma per il momento avevano soltanto le chiavi. L’aveva
per caso lui? Altrimenti, avrebbe saputo dire loro marca, modello, anno di
immatricolazione?
No, Druitt non sapeva dove fosse, ma spiegò che si trattava di una Hillman
del 1962, azzurra, con ampie chiazze di ruggine sui parafanghi e alcune
vecchie decalcomanie sul lunotto posteriore, perlopiù inneggianti ai Kinks e
ai Rolling Stones. Non ricordava il numero di targa, ma non dovevano esserci
molte auto così a Ludlow.
Prese dalla tasca le chiavi della propria macchina. «L’hanno ucciso. Ve lo
posso assicurare: Ian è stato ammazzato» disse.
Lynley replicò con tutto il tatto che gli riuscì. «È difficile inscenare un
suicidio per impiccagione.»
«Sarà» ribatté Druitt. «Ma in questo caso ci sono riusciti.»
Ludlow
Shropshire
Brutus non si era nemmeno inventato una scusa e questo rendeva la cosa
ancora più offensiva. Era vero che Ding andava a letto con Finn e che Finn
abitava in casa con loro, ma lui e Brutus non erano mai stati amici.
Invece Brutus aveva deciso scientemente di portarsi a letto Francie.
Doveva esserla andata a cercare, prendendola come una sfida con se stesso.
«Vediamo se riesco a farmela.» Ma l’altra faccia della medaglia era: «È
questo che vuoi, Ding? Guarda che io non mi spavento di fronte a nulla». Era
proprio nello stile di Brutus. E non era giusto, ma proprio per niente. Brutus
non aveva capito un tubo, ma questo non lo scusava. Se aveva portato a casa
Francie, quando sarebbe potuto benissimo andare a casa di lei, oppure farlo in
macchina o in camporella, era stato per mandare un messaggio a lei, Ding. «E
va bene, hai deciso che vuoi fare così e così stai facendo. Ma con le mie
amiche no» aveva stabilito lei. «C’è un limite a tutto.»
Voleva parlare con Francie e sapeva che non sarebbe stato difficile trovarla
perché Francie era un’abitudinaria, quando non le veniva la fregola e si
appartava con chiunque fosse sufficientemente dotato. Perciò Ding aspettò di
aver sbollito la rabbia abbastanza da riuscire a non pensare a Francie in
ginocchio davanti alla patta di Brutus e andò a cercarla alla lezione di disegno
dal vero.
L’aula era in fondo al Palmers’ Hall Campus di Mill Street, una delle tre
sedi in cui si svolgevano lezioni e laboratori. Le aule riservate al disegno
erano accanto a quelle di fotografia e stampa digitale e vicino a Scienze della
comunicazione. Le finestre dell’aula di disegno dal vivo erano parzialmente
oscurate e così la porta, per evitare che i curiosi sbirciassero le modelle nude.
Non appena Ding l’aprì, l’insegnante le andò incontro con una mano
alzata, per indicarle che si doveva fermare dov’era. Ding spiegò a quella
matrona dal camice bianco sporco di pittura e carboncino che doveva parlare
un momento con Francie Adamucci. «È impegnata. Devi aspettare la pausa.
Puoi attendere fuori. Grazie. Qui non sono ammessi esterni» rispose la
professoressa.
«È importante. Sono sicura che a Francie non dà fastidio.»
«Dà fastidio a me.»
«Non si preoccupi, professoressa Maxwell» intervenne Francie dalla
pedana su cui posava di tre quarti, completamente nuda, con una corona
d’alloro in testa e una cesta di frutta appoggiata sul fianco. «È una mia amica.
Se vuole stare, per me non c’è problema.» Non mosse la testa e non si spostò
di un millimetro, parlando, come a dimostrare che l’intrusione di Ding non
avrebbe in alcun modo nuociuto alla lezione.
«Basta che non ti distragga» replicò la professoressa.
«Stia tranquilla» disse Francie. «Vero, Ding?»
Ding assicurò che si sarebbe trattenuta solo per poco ed ebbe il permesso
di avvicinarsi alla modella. Quando raggiunse Francie si rese conto però che
non erano le condizioni migliori per affrontare un argomento così delicato,
dato che non poteva neppure guardarla negli occhi. E poi il fatto che fosse in
costume adamitico la metteva in imbarazzo: Francie era bellissima e molto
più sexy di lei. Ding aveva tutto quello che serviva, ma in quantità minore.
Contrariamente a molte ragazze, Francie non si depilava completamente il
pube. Faceva in modo che fosse un triangolo perfetto, ma non esagerava nella
rimozione dei peli, non sembrava una bambina, una modella di biancheria
intima o una pornostar. Se a un ragazzo non piaceva vedere il suo cespuglio,
che andasse a farsi friggere: Francie non aveva intenzione di adeguare il
proprio corpo alle fantasie morbose dei maschi. Naturalmente, si depilava
tutto il resto: ascelle, gambe e persino le dita dei piedi. E non tollerava peli
intorno ai capezzoli, ovviamente. Ma c’era una bella differenza fra essere una
vera donna e una donna vera, sosteneva. Qualsiasi cosa volesse dire.
Ding si avvicinò più che poté alla pedana. «Voglio solo sapere se è stato
lui o sei stata tu» le disse sottovoce.
Francie non finse di non capire. «A cominciare, intendi?»
«Sì. Al resto pensiamo dopo.»
«Guarda che non vuol dire niente» disse Francie. «Brutus è carino, ma non
è che io... Cioè, a me non frega niente di lui. Cos’ha, diciotto anni? Cosa me
ne faccio di uno di diciott’anni, secondo te?»
«Intanto non me lo stai dicendo» sibilò Ding.
«Che cosa non ti sto dicendo?»
«Se hai iniziato tu o lui. Non mi hai risposto.»
«Chi ha cominciato? Aspetta che mi concentro un attimo.» Francie
aggrottò la fronte ripensando, o perlomeno facendo finta di ripensare, a
quello che era successo nella camera di Brutus. «Il problema è... Non me lo
ricordo» disse alla fine.
«Ah, be’, allora... E io ci dovrei credere?»
«Mi conosci, no?» Ding non replicò, e allora Francie sospirò. «Va bene, ci
provo.» E dopo un attimo di presunta riflessione rispose: «Lui era sul kayak».
«Da solo?»
«No, era con una. Non so chi.»
«Descrivimela.»
«Non saprei. Non è che li ho guardati. Aveva le spalle curve, mi pare. E un
taglio di capelli orrendo. Indossava una canottiera – questo me lo ricordo – e
pantaloncini da corsa improponibili. Li ho visti quando è scesa dal kayak.
Larghi sul culo e di un colore terrificante. Color piselli andati a male.»
Ding alzò gli occhi al cielo. Francie notava il taglio di capelli e
l’abbigliamento: nient’altro. «Continua.»
«Ero uscita di casa e stavo attraversando il Ludford Bridge, mi sono sentita
chiamare e li ho visti assieme, Brutus e Miss Piselli Marci. Aveva un paio di
quegli occhiali che cambiano colore a seconda della luce e una roba al collo,
grande, tipo medaglia olimpica.»
«Allison Franklin» concluse Ding. La descrizione era abbastanza calzante.
«Può darsi» disse Francie. «Quindi, come dicevo, mi sono sentita chiamare
e ho risposto: ’Che muscoli! Sei in forma, eh?’ O qualcosa del genere.»
«Sei sempre la solita» fu il commento di Ding.
«Dicevo per scherzo...» ribatté Francie guardandola un attimo. La prof la
richiamò. «Scherzavo. Stavo scherzando. Solo che Brutus... Insomma, l’ha
preso per un invito, perché mi ha chiesto di aspettarlo, che mi voleva parlare
del laboratorio di biologia.»
«Tu non studi biologia, Francie. E lui neanche.»
«E infatti ho capito che era tutta una scusa. Pensavo volesse scaricarla e gli
servissi io. Non potevo dargli torto, visto com’era conciata. Se non sei più
che carina, devi stare attenta a cosa ti metti addosso. Comunque, avevo capito
giusto perché appena sono scesi dal kayak Brutus le ha infilato la lingua in
bocca e le ha messo una mano sul sedere, forse per rassicurarla, ma poi lei se
n’è andata e lui è venuto via con me. Per un ripasso approfondito di biologia.
Non nel senso tradizionale del termine.»
Ding cominciava a sentire caldo. La stanza era torrida per consentire a
Francie di stare nuda – comunque aveva i capezzoli inturgiditi – e alcuni
degli studenti erano sudati, ma Ding aveva caldo perché era furibonda. Disse
a voce più alta di quanto intendesse: «Quindi sei stata tu a cominciare? O è
stato Brutus? Chi è stato?»
Francie la guardò male, poi chiese alla professoressa Maxwell se poteva
fare una breve pausa. Il cesto della frutta era pesante, disse. Cinque minuti,
massimo dieci.
La prof le accordò cinque minuti di pausa e Francie posò il cesto e scese
dalla pedana. Aveva una vestaglia con cui si sarebbe potuta coprire, ma non
se la mise e rimase nuda. Fece strada a Ding verso un angolo della stanza
dove erano riposti tele, fogli da disegno e altri accessori.
«Senti» disse. «Hai sempre detto che fra te e Brutus non c’era un rapporto
esclusivo. Non credevo fosse la fine del mondo.»
«Chi ha cominciato?» chiese per l’ennesima volta Ding.
«Tutti e due, probabilmente. Non lo so, Ding.»
«Raccontami com’è andata. Nei dettagli.»
Francie spostò il peso da un piede all’altro e si grattò distrattamente il
pube. «Se non sbaglio, gli ho chiesto che cosa intendeva con la storia del
laboratorio di biologia e lui ha risposto che aveva voglia di novità e mi ha
fatto uno dei suoi sorrisi. Bisogna dire che è proprio carino, anche se è un po’
troppo giovane per i miei gusti. Fatto sta che gli ho chiesto: ’Che tipo di
novità?’ E lui mi ha fatto un altro dei suoi sorrisi e poi si è scostato i capelli
dalla fronte e mi ha guardato. Hai presente come...?»
«Sì, ho presente» replicò Ding. «Continua.»
«Così siamo andati da lui, ci siamo fumati una canna e abbiamo
cominciato a pomiciare. Tutto qui.»
«Ma per favore!» Ding alzò la voce. Tre disegnatori alzarono la testa dal
foglio. «Non eri in ginocchio a pregare per la pace nel mondo» sussurrò.
«No, certo» disse Francie. «Non era una cosa seria, però. Eravamo lì, lui è
stato carino... Mi sembrava giusto...»
Francie si interruppe: Ding aveva le lacrime agli occhi. Ed era imbufalita,
perché non voleva assolutamente farsi vedere in quello stato.
«Oddio, Ding! Non avevate un rapporto esclusivo e per me è stata una cosa
così, per divertirsi, sesso e basta. Roba di venti minuti...» disse Francie.
«Vuoi dirmi...» Ding aveva le labbra talmente secche che temeva le si
spaccassero. «Vuoi dirmi che quando vi ho sbattuto la porta in faccia, voi...
avete continuato? Come se non vi avessi beccato? Come se non ve ne
importasse niente che vi avessi beccato?»
«Non avremmo dovuto? Perché? Eravamo andati lì apposta! Senti, Ding,
mi hai raccontato che ti sei fatta tutti quei ragazzi a Cardew Hall, il fornitore
di vasetti di vetro di tua madre, quell’altro in fondo alla chiesa durante le
vacanze di Pasqua, l’operaio che era venuto a ripararvi il tetto... Erano
balle?»
«No, ma non è questo il punto» ribatté Ding. «Tu sapevi che io e Brutus...
Viviamo insieme, Francie.»
«Abitate nella stessa casa» puntualizzò Francie. «Non pensavo che te la
prendessi così. Davvero. Pensi che l’avrei fatto, se avessi saputo che...? E
comunque è finita lì, perché Brutus non ci riusciva. A venirmi in bocca,
intendo. E così abbiamo...»
«Smettila!» strillò Ding, tappandosi le orecchie.
«Scusa! Scusa!» gridò Francie. «Se avessi immaginato che ci tenevi così
tanto a lui, non...»
«Non ci tengo così tanto. Pensavo di sì, ma non è vero.»
Francie alzò gli occhi e vide che la Maxwell si stava avvicinando con
passo deciso. «Per me è stato sesso e basta. Ti ho invitata a fare una cosa a
tre, ti ricordi? Sarebbe stato divertente. Poi però ho visto la faccia che hai
fatto e ho capito che non era il caso di insistere. Solo che non mi aspettavo
che te la prendessi così, sapendo della sfilza di ragazzi che ti eri fatta a
Cardew Hall. Continui a spassartela, Ding, o adesso c’è soltanto Brutus?
Perché se è così, voglio morire: non volevo farti uno sgarbo. Sono stata una
cretina. Scusami» disse in fretta.
«Pensavate di concludere il vostro tête-à-tête, signorine belle?» La
Maxwell era piuttosto seccata.
«Ding! Ding!» furono le ultime parole che Ding sentì, quando corse verso
la porta. Le veniva da piangere, non sapeva perché. E non voleva neanche
cercare di capirlo. Perché era tutto vero, le avventure che aveva raccontato a
Francie erano realmente accadute, aveva fatto davvero quelle cose con quei
ragazzi a Cardew Hall. Anzi, a Francie non aveva riferito tutto. Brutus, però,
era sempre stato un gradino sopra gli altri, per Ding. Solo che sapeva com’era
fatto, sapeva che tipo era, e non sapeva che cosa farci.
Ludlow
Shropshire
Lynley si accollò la ricerca della Hillman di Ian Druitt mentre Barbara restò
in albergo con il cellulare del morto, un caricatore fornito – come speravano –
dalla reception e un elenco di date di nascita e numeri di telefono dei parenti
più stretti, compresa la zia Uma. Dal canto suo, Lynley aveva deciso di
cominciare da St. Laurence, nella remota ipotesi che Druitt avesse trovato un
posto senza limiti di sosta nei pressi della chiesa.
Uscì dall’albergo e si incamminò verso Castle Square. La piazza era
piuttosto affollata, perché tre pullman si erano appena fermati in cima a Mill
Street riversando decine di turisti fra i banchi del mercato.
Invece di provare a farsi largo fra la folla, Lynley preferì proseguire sul
marciapiede e attraversare la piazza sul lato orientale, dove vide Harry
Rochester e gli altri venditori abusivi. Un agente li stava facendo sgomberare.
Doveva essere Gary Ruddock, l’ausiliario di Ludlow, pensò. Era alto più di
un metro e ottanta e aveva un fisico massiccio, pur non essendo grasso, e la
faccia rotonda. Lynley lo aveva immaginato più giovane, poco più che
ventenne, invece doveva essere sulla trentina. Stava parlando con Harry
Rochester e non sembrava né particolarmente scorbutico, né aggressivo.
Lynley non si avvicinò e attraversò prima di raggiungerli, imboccando una
stradina lastricata che portava alla chiesa. Era larga poco più dei carri dei
mercanti che un tempo vi passavano per andare al castello e sbucava in
College Street, proprio di fronte a St. Laurence. Lynley vide lì il primo dei
parcheggi possibili, ma notò anche un cartello con le restrizioni cui aveva
accennato il reverendo Spencer: la sosta lungo tutta la strada era riservata ai
residenti e le auto prive del permesso potevano fermarsi fino a un massimo di
due ore, limite oltre il quale scattava la rimozione forzata. Era una strada
residenziale costeggiata da palazzine di mattoni rossi fino a Linney Street,
dove le case erano più antiche e si affacciavano sul fiume Corve. Anche lì la
sosta era riservata ai residenti e le sanzioni per i trasgressori erano elencate
con grande precisione. Se Ian Druitt avesse parcheggiato lì, con ogni
probabilità la sua Hillman sarebbe stata rimossa già la sera in cui era morto.
Prima di chiamare il numero indicato sui cartelli, Lynley decise di
controllare il posteggio pubblico più vicino, che secondo la cartina di cui
disponeva era dietro il West Mercia College, sul lato nord del castello. Era
una bella giornata e una passeggiatina non gli dispiaceva affatto.
Tornò in piazza e vide che Rochester e gli altri abusivi non c’erano più.
L’ausiliario invece era dalla parte opposta del mercato, nei pressi di un
furgone bianco che vendeva vari tipi di salsiccia arrosto, i cui effluvi
facevano venire l’acquolina in bocca anche da lontano.
Ruddock parlava con quello che probabilmente era il proprietario del
furgone e gli dava istruzioni sul modo di esporre una lavagna su cui erano
elencate le varie proposte e i relativi prezzi. Al momento bloccava l’accesso
al West Mercia College e l’agente voleva che la spostasse. L’uomo aveva
l’aria seccata.
Lynley si voltò per andare a cercare il parcheggio e lo trovò senza
problemi dietro gli edifici del college. Poiché era a pagamento, la Hillman di
Druitt sicuramente nel frattempo era stata rimossa, sempre che fosse stata
lasciata lì. Meglio controllare comunque, pensò. C’erano molte macchine,
probabilmente degli studenti del college, ma lo spiazzo non era enorme e
nell’arco di dieci minuti lo perlustrò tutto senza trovare nessuna Hillman del
1962. Il mezzo più vecchio sembrava un camper Volkswagen in condizioni
abominevoli.
Il numero di telefono del servizio di rimozione forzata era indicato in
diversi punti e Lynley decise di chiamarlo, anziché andare a controllare il
parcheggio vicino alla biblioteca. Per fortuna esisteva soltanto un luogo in cui
venivano portati i veicoli rimossi e l’impiegato spiegò a Lynley che si
trovava a nord-est della città, sulla A4117 appena dopo Rockgreen. Lo si
riconosceva dall’enorme elefante rosa girevole accanto all’ingresso. Dio solo
sapeva perché i proprietari lo avessero piazzato lì, ma il lato positivo era che
lo si vedeva da chilometri di distanza.
Siccome Lynley non aveva voglia di andare fino al deposito, per quanto
l’elefante rosa lo incuriosisse, telefonò per chiedere se la Hillman fosse stata
portata lì. Gli risposero di attendere e Lynley restò in linea per un tempo
esageratamente lungo, durante il quale ebbe modo di vedere due studenti che
si passavano del denaro in cambio di una bustina contenente senza dubbio
qualche sostanza illegale, ma poi la signora al telefono gli diede
l’informazione che desiderava: sì, fra i veicoli rimossi c’era una Hillman del
1962. Era sua?
No, rispose Lynley. Lui era della polizia. Il proprietario della Hillman era
morto e loro stavano cercando la sua automobile.
Chi salda il conto, allora? gli domandò la donna. C’era il costo della
rimozione più la tariffa giornaliera.
Lynley promise di versare personalmente i soldi della multa. Era più facile
che attivare la procedura legale per ottenere il veicolo senza pagare.
Il deposito dei veicoli rimossi era lontano e Lynley voleva tornare con la
Hillman, quindi chiamò un taxi. Dopo una breve attesa in cima a Mill Street,
lo vide arrivare, guidato da una signora di una certa età. L’autoradio era
sintonizzata su un canale di classic rock, per fortuna soft.
Attraversarono Ludlow e la tassista comunicò a Lynley che non c’era una
strada diretta per Rockgreen. Questo significò ascoltare Where the Boys Are
seguita da Judy’s Turn to Cry e Johnny Angel.
L’elefante rosa comparve nel bel mezzo di Tell Laura I Love Her. Lynley
pagò la corsa e si chiese come fosse riuscito a risparmiarsi quegli
struggimenti adolescenziali. A sedici anni aveva altro a cui pensare, concluse:
suo padre stava per morire, sua madre aveva una relazione con l’oncologo,
suo fratello minore era già perduto e lui viveva nella confusione e nella
sofferenza.
Entrò nel centro rimozioni e si diresse verso un caravan che sembrava
essere utilizzato sia come abitazione sia come ufficio. I titolari erano una
coppia sui settanta e indossavano la stessa tuta con il nome ricamato sopra:
lui era Totally Roger, lei The Absolute Lucinda, che evidentemente
rispondeva anche al telefono. Lynley mostrò ai coniugi le proprie credenziali
e spiegò che la Hillman era del signor Ian Druitt, deceduto nel mese di marzo.
Nessuno dei due l’aveva mai sentito nominare. Il fatto che Lynley fosse di
Scotland Yard, però, li mise un po’ in agitazione. «E cos’aveva fatto questo
signore?» chiese Roger. «Era ricercato?» chiese invece Lucinda. Parevano
poco propensi a lasciargli portare via il mezzo senza ulteriori prove del fatto
che era autorizzato a ritirarlo. Lynley era stupito che volessero tenere la
Hillman posteggiata lì ancora per chissà quanto e spiegò loro che avrebbe
certamente potuto procurarsi tutta la documentazione necessaria, ma a quel
punto il veicolo sarebbe stato sequestrato e loro non avrebbero incassato un
penny.
Si rivelò un’argomentazione decisiva. The Absolute Lucinda prese la carta
di credito di Lynley per prelevare la somma dovuta e Totally Roger lo
accompagnò alla macchina, che era già stata spostata in fondo alla fila.
Avendo intuito di non avere il coltello dalla parte del manico, i due
furbacchioni avevano deciso di ottenere quel che potevano.
Lynley ringraziò Roger e osservò con attenzione il veicolo che aveva
appena riscattato. Le gomme erano lisce e sul parafango anteriore destro c’era
un’ammaccatura piuttosto evidente, ma per il resto la Hillman era come Clive
Druitt l’aveva descritta: vecchia, arrugginita e con decalcomanie degli anni
Sessanta sul lunotto posteriore. Evidentemente il primo proprietario
collezionava ricordi dei concerti dell’epoca. Come Clive Druitt aveva
correttamente anticipato, la sua band preferita erano i Kinks, seguiti dagli
Stones.
Lynley aprì la portiera e controllò gli interni. Anche i sedili erano originali,
come tutto il resto. In qualche punto la fodera era scucita e sbiadita dal sole.
Lynley si sedette al posto di guida e provò l’accensione. La Hillman, priva
di quell’elettronica moderna che fa scaricare subito la batteria, prese vita al
primo colpo. Lynley la spostò su un lato dello spiazzo, spense il motore e la
perquisì centimetro per centimetro. Incominciò dal bagagliaio, dove scoprì
che Ian Druitt non era particolarmente preciso, almeno per quanto riguardava
la sua automobile. C’erano gli attrezzi per cambiare una gomma (ma non la
ruota di scorta) e una collezione di plaid dall’aria alquanto vissuta. C’erano
anche cinque lattine di olio nuove, segno che la Hillman ne bruciava
parecchio, e tre vuote, in attesa di venire smaltite in maniera adeguata. Da
una parte c’erano un vecchio pullover appallottolato e un rullo adesivo che
rigurgitava peli di animale. A far luce sul suo impiego, due gabbie per gatti
con la targhetta «Gattile» e relativo numero di telefono.
Non c’era altro, a parte polvere e terra, e quindi Lynley passò a esaminare
l’abitacolo. Ian Druitt usava l’auto come ufficio mobile, constatò, perché sul
sedile posteriore, riunite in un apposito contenitore di cartone, c’erano diverse
cartelline. Non erano disposte secondo un ordine riconoscibile, ma vi trovò
ricevute di lavori effettuati sulla macchina, volantini che pubblicizzavano gli
Hangdog Hillbillies, il gruppo musicale di cui Druitt faceva parte come
indicato nel rapporto di Barbara, pagine stampate da Internet su iniziative
antialcol in varie città del Regno Unito e una su un programma di
volontariato a favore delle vittime di violenza, dieci anni di schede
carburante, la fattura da cui risultavano la data dell’acquisto, il costo e il
chilometraggio della vettura, una raccolta di sermoni di autorevoli pastori
anglicani e un libro di poesie di William Butler Yeats con un segnalibro alla
pagina di La seconda venuta. Sotto il contenitore di cartone c’era uno
stradario del Regno Unito vecchio di vent’anni, con numerose orecchie alle
pagine. Lynley lo sfogliò senza trovare nulla di strano, tipo delle X che
segnalavano destinazioni speciali.
Sul fondo, fra i sedili anteriori e posteriori, c’era un bidone di metallo
zincato con un manico di scopa legato con una corda. Lynley si stupì e per un
attimo si interrogò sul possibile utilizzo di quel bizzarro oggetto, finché non
gli venne in mente che negli Hangdog Hillbillies il diacono suonava il
bidofono.
Rimise a posto il sedile del passeggero, vi si sedette e aprì il vano
portaoggetti. Scoprì che Druitt aveva l’obbligo di guida con le lenti e teneva
gli occhiali in una custodia di pelle. Trovò inoltre il libretto di circolazione e
le ricevute del pagamento dell’assicurazione. In fondo al vano portaoggetti,
c’erano una tessera del Royal Automobile Club e una brochure sulle proprietà
del National Trust, da cui dedusse che Druitt era interessato alla storia
religiosa, architettonica e nobiliare del Paese. Ma a sollecitare
particolarmente la sua attenzione fu il primo indizio del fatto che il diacono
fosse sessualmente attivo: una scatola da venti profilattici. Lynley la aprì e
vide che mancavano parecchie bustine.
Ludlow
Shropshire
C’era una cosa di cui Barbara era sicura, dopo aver litigato per un’ora con il
cellulare di Ian Druitt: se ci fosse stata lei a Bletchley Park a cercare di
decifrare i messaggi in codice durante la guerra, l’Inghilterra sarebbe stata
invasa dai nazisti. Mentre Lynley era in altre faccende affaccendato, aveva
provato a sbloccare il telefono usando tutte le date di nascita dell’elenco in un
senso e nell’altro e persino mescolandole fra loro, operazione che accentuò
notevolmente la sua confusione. Poi aveva provato con gli indirizzi forniti da
Clive Druitt, senza ottenere alcun risultato. Per evitare che il maledetto
smartphone andasse in blocco, ogni tre tentativi lo riavviava. Alla fine si era
arresa e aveva lasciato perdere, dedicandosi all’agenda di Ian Druitt. Aveva
ripercorso a ritroso gli appuntamenti del diacono dal giorno della sua morte
cercando sull’elenco telefonico di Ludlow tutte le persone citate per
contattarle una per una.
Non trovò il numero di tutti quelli con cui il diacono aveva preso
appuntamento, forse perché abitavano altrove, o forse semplicemente perché
avevano chiesto di non comparire sull’elenco telefonico. Nessuno di quelli
che riuscì a contattare ebbe remore ad ammettere di averlo conosciuto. Fu
un’operazione che richiese diverse ore, ma consentì a Barbara di apprendere
alcuni particolari che forse non avrebbe definito propriamente interessanti,
ma che la aiutarono a ricostruire i movimenti del diacono nelle ultime
settimane di vita.
Quando Lynley tornò con la Hillman, Barbara era fuori dell’hotel a fumare
una sigaretta e trovò assai divertente vedere l’ispettore al volante di una
simile carretta. Lo aveva visto così a disagio a bordo di una vettura soltanto
un’altra volta, quando gli aveva dato un passaggio sulla sua Mini. Che
l’ispettore avesse dovuto contaminare il pregiato tessuto del suo completo
salendo su quel trabiccolo la faceva morir dal ridere.
Lynley parcheggiò vicino a lei e scese. «È riuscito a trovarla, quindi» disse
Barbara. «Sembra peggio della mia. Non credevo fosse possibile.»
«Anche l’abitacolo ricorda la sua Mini» replicò Lynley. «Mancano solo le
cartacce e gli involucri dei fast-food. Il diacono mangiava prevalentemente a
casa, immagino.»
«Oppure buttava i contenitori nei cestini della spazzatura.»
«Be’, certo.» Lynley scaricò alcuni oggetti dalla Hillman.
«Ha trovato materiale probatorio importante, ispettore?»
«Ho scoperto che il diacono aveva una vita intensa» rispose Lynley. Disse
che l’avrebbe lasciata al suo vizio e andò ad aspettarla nel bar dell’albergo.
Barbara fumò avidamente il resto della sigaretta e lo raggiunse. Entrando,
vide che Lynley aveva disposto una serie di cartelline sul tavolo e diceva a
Peace on Earth, che gli ronzava intorno curioso, che sì, avrebbe gradito una
tazza di tè, molto gentile. Lapsang souchong, se possibile, oppure Assam.
«Earl Grey?» chiese Peace on Earth speranzoso.
«Va bene lo stesso» rispose Lynley. Poi, si rivolse a Barbara. «Sergente?
Gradisce un Earl Grey o teme che diluisca gli effetti tutt’altro che salutari
della sigaretta che ha appena fumato?»
«Molto spiritoso» commentò Barbara. «Per me PG Tips, grazie» disse a
Peace on Earth. «Se proprio non si può fare altrimenti, va bene anche l’Earl
Grey.»
Lynley aspettò che il ragazzo si allontanasse e chiese a Barbara se avesse
fatto progressi con lo smartphone. Barbara ammise la disfatta, ma poi spiegò
di aver ottenuto qualche risultato consultando l’agenda del diacono e l’elenco
telefonico di Ludlow.
Quando era uscita a fumare, aveva riposto il bloc-notes nella borsa. Lo tirò
fuori, lo aprì, si tolse dalla lingua un pezzetto di tabacco e cominciò. Aveva
parlato con i genitori di due bambini che frequentavano il doposcuola,
raccontò, perché Druitt voleva conoscere i genitori, prima di accettare nuovi
iscritti.
«Lo adoravano» spiegò a Lynley. «A sentir loro, li aiutava a fare i compiti,
li faceva giocare, li portava in gita e nient’altro.»
Druitt aveva in agenda un appuntamento a Birmingham, continuò Barbara.
Con una donna che aveva organizzato un servizio di pattugliamento
volontario per assistere i ragazzi che bevevano troppo, facevano uso di
sostanze o si dedicavano ad attività poco raccomandabili. «La norma,
insomma» commentò. «Questi volontari li raccattano per strada e li portano
in un centro di accoglienza, per così dire, e gli danno minestra, caffè, tè,
tramezzini o non so cosa per farli tornare sobri. Il diacono stava cercando di
creare una cosa del genere a Ludlow e immagino che Gary Ruddock gli desse
una mano. Dobbiamo chiederglielo. Druitt non poteva fare tutto da solo e
sarà stato più che felice di avere qualche aiutante.»
Rivelò a Lynley che sull’agenda di Ian Druitt compariva spesso il nome
MacMurra. Il signor Declan MacMurra e Druitt avevano in comune l’amore
per i gatti.
«Prendevano i randagi, li sterilizzavano e li lasciavano nuovamente in
libertà?» chiese Lynley. «Sulla macchina di Druitt ci sono due gabbie.»
«Sono di MacMurra, ispettore» lo informò Barbara. «Mi ha chiesto che
fine avessero fatto, quando ci siamo parlati al telefono. Grande appassionato
di gatti.»
Proseguì con Randy, Blake e Stu, gli unici che sull’agenda comparivano
con il nome di battesimo. Erano i membri della band, gli Hangdog Hillbillies.
Barbara l’aveva capito guardando dentro uno degli scatoloni portati da Clive
Druitt, in cui c’erano i volantini con i nomi dei musicisti: Randy al banjo,
Blake alla chitarra, Stu alle percussioni. Neanche lì erano specificati i
cognomi e quindi non aveva potuto mettersi in contatto con loro, ma andando
in uno dei locali in cui si erano esibiti probabilmente sarebbero riusciti a farsi
dare i nomi completi.
Nell’agenda era citato spesso anche Spencer, tre volte all’ora di cena. Altri
due nomi appartenevano a individui che il diacono era andato a trovare nella
camera di sicurezza della stazione di polizia di Shrewsbury.
Lynley prese una delle cartelline che aveva trovato sulla Hillman. «Qui
aveva del materiale sull’assistenza volontaria ai detenuti» disse.
«Già l’altra volta dicevano tutti che era un invasato delle opere di bene.»
«Altri nomi?»
«Due parrocchiani infermi, uno in ospedale, quattro vittime di reati vari.
Niente di che, intendiamoci. Reati lievi, anche se una delle vittime di scippo
ha riportato un trauma cranico.»
«È un altro dei programmi di volontariato su cui Druitt aveva del
materiale» disse Lynley, cercando fra i documenti. «Vittime di violenza»
lesse. Mentre Barbara apriva la cartellina per dare un’occhiata ai fogli che
conteneva, Lynley osservò: «È curioso, però».
«Cosa?»
«Che fosse coinvolto in così tante attività di volontariato. Anche per un
uomo di Chiesa, mi sembrano un po’ troppe.»
«Anch’io e il sovrintendente l’abbiamo pensato, la prima volta.» Barbara
rifletté su ciò che aveva scoperto nel corso del precedente soggiorno a
Ludlow. «Il reverendo Spencer mi ha detto che Druitt non era riuscito a
passare il concorso da prete, o come si chiama. Che aveva provato cinque
volte e non era mai passato, che la cosa gli pesava. Potrebbe essere che
queste attività...» disse indicando i volantini, «fossero un modo per
compensare la sua incapacità di servire Dio e il prossimo suo come avrebbe
voluto.»
Lynley annuì, ma rimase pensieroso. «In macchina ho trovato anche dei
profilattici» disse. «Una scatola da venti, e ne restano solo dieci. Che cosa le
fa pensare?»
«Magari li distribuiva ai ragazzi. Ai più grandi, intendo. Mi sembra rientri
nel personaggio, non crede?»
«Oppure?»
«La risposta più ovvia: aveva un’amante e prendeva opportune
precauzioni. Strano, però.»
«Che avesse un’amante?»
Barbara scosse la testa. «Che nessuno ce ne abbia parlato. Apertamente o
per allusioni. D’altra parte...» sollevò l’agenda del diacono, «qui qualcosina
c’è. La Lomax.»
«Sospetta che i profilattici fossero per lei?»
«No, a meno che Druitt non fosse gerontofilo. Io e il sovrintendente le
abbiamo parlato: avrà settant’anni.»
«E quindi?»
«Compare nell’agenda ben sette volte, ispettore. A noi ha spiegato che
andava da Druitt perché la sua famiglia è in crisi e aveva bisogno di parlarne
con qualcuno.»
«Lo trova inverosimile? Era un uomo di Chiesa, dopotutto.»
«Sì, ma la Lomax a noi ha detto di non essere religiosa e quando le
abbiamo chiesto come mai si fosse rivolta proprio a lui si è tenuta sul vago. E
comunque Druitt non faceva questo genere di cose. Voglio dire, tutti quelli
con cui abbiamo parlato ci hanno detto che era bravissimo, buonissimo e tutto
il resto, ma non uno di loro ha mai detto di essersi rivolto a lui come guida
spirituale. E la signora Lomax... Be’, si è fatta assistere dall’avvocato, quando
siamo andate a parlarle. Secondo me, vale la pena approfondire.»
«Approfondiamo, allora» disse Lynley.
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Quando Rabiah Lomax aprì la porta e si trovò di fronte la poliziotta sciattona,
di cui non ricordava il nome, e il suo collega damerino, prese brevemente in
considerazione di chiamare Aeschylus, ma poi decise di soprassedere. Aveva
parecchie faccende da sbrigare, prima fra tutte chiamare i membri del
comitato per la manutenzione e le riparazioni, e concordare la data della
prossima riunione. Se avesse chiamato Aeschylus, poi avrebbe dovuto
aspettare che arrivasse. Meglio gestire i due poliziotti da sola e sbarazzarsi di
loro il più in fretta possibile.
La Sciattona prese la parola. «Signora Lomax, possiamo rubarle due
minuti, per favore? Le presento l’ispettore investigativo Lynley. Ci scusi per
il disturbo, ma stiamo ancora indagando e vorremmo chiederle conferma di
qualche particolare. Vuole farsi assistere dal suo avvocato?»
Sviluppo interessante, pensò Rabiah, scervellandosi per farsi venire in
mente come si chiamava la Sciattona. Da quando in qua la polizia ti invitava
a contattare il tuo avvocato? In tv succedeva l’opposto. «Mi scusi, non
ricordo il suo nome» rispose.
«Barbara Havers» rispose la Sciattona. «Ci concede due minuti?»
«È successo qualcosa?»
«Perché pensa che sia successo qualcosa?»
«Non so. Io non ho altro da aggiungere a quello che vi ho già detto su
Druitt. È per lui che siete venuti, vero?»
Con un eloquio elegante come gli abiti che indossava, l’ispettore
investigativo intervenne. «Il sergente Havers e io abbiamo ricevuto l’incarico
di approfondire le circostanze del decesso del signor Druitt.»
«Cosa c’è da approfondire? Ripeto: io non ho niente da aggiungere a
quello che ho già detto.»
«Ci ha fornito qualche informazione, sì. Ma sono emersi altri elementi e
vorremmo chiarirli. Possiamo entrare?» replicò il sergente Havers.
Rabiah si lanciò un’occhiata alle spalle. Fu un gesto istintivo, che non
avrebbe saputo spiegare. «Certo, certo» rispose senza neanche provare a
essere gentile.
Si fece da parte per lasciarli passare e non offrì loro né da bere né altro.
Quando Barbara le chiese per favore un bicchier d’acqua, fece una faccia
scocciata. Anche l’ispettore gradiva un po’ d’acqua, se non era troppo
disturbo. Rabiah si insospettì: sembrava un piano premeditato. Avrebbe
voluto rispondere che potevano comprarsi una bottiglietta d’acqua da qualche
parte, se avevano sete, ma avrebbe significato partire con il piede sbagliato.
Perciò andò in cucina a prendere due bicchieri e li riempì solo a metà. Tornò
in salotto giusto in tempo per accorgersi che il sergente posava sulla mensola
del caminetto una delle cornici. Capì che si trattava di nuovo della foto di
gruppo intorno all’aliante.
«Ecco a voi.» Rabiah porse loro i bicchieri, ma nessuno dei due bevve.
Volevano metterla a disagio, concluse. Decise di non lasciarsi suggestionare.
«Che cosa volete sapere da me, stavolta?»
L’ispettore rivolse al sergente un cenno quasi impercettibile, di cui Rabiah
non si sarebbe accorta se non l’avesse guardato proprio in quel momento.
«Allora, abbiamo parlato con tutte le persone citate nell’agenda di Druitt,
dove compare anche il suo nome, signora Lomax. Non siamo riusciti a
parlare proprio con tutti, perché siete moltissimi, ma abbiamo rilevato uno
schema ricorrente e volevamo farle qualche domanda in proposito» disse il
sergente.
«Dubito di potervi aiutare a rilevare schemi ricorrenti nelle agende altrui,
sergente.»
«Chissà» rispose Barbara in tono allegro. «Pare che Druitt fosse impegnato
in mille attività di volontariato, alle quali, per un verso o per l’altro, erano
legati tutti i suoi appuntamenti in agenda.» Cominciò a enumerarle contando
sulle dita e Rabiah capì che voleva arrivare da qualche parte. «L’oratorio o
quello che era per i bambini, le ronde per raccattare gli ubriachi in giro per la
città, l’assistenza alle vittime, le visite ai detenuti a Shrewsbury, il coro della
chiesa, la vigilanza di vicinato per le strade della città... E poi ha incontrato il
sindaco e tre consiglieri comunali.»
Rabiah si sforzava di sembrare interessata, ma cominciò a sudare. «Non
capisco dove volete arrivare né perché siete venuti da me» disse. «Siete qui
da giorni a interrogare le persone sull’agenda di Druitt?»
«Ottima domanda» ribatté il sergente Havers mimando il saluto militare
con un dito soltanto. «Ho svolto le mie ricerche per telefono e, a parte il
sindaco e i consiglieri comunali, ogni nome appariva una volta soltanto.»
«Continuo a non capire dove vuole andare a parare» disse Rabiah.
«Ora glielo spiego: quando siamo venuti l’altra volta, io e il sovrintendente
Ardery, lei ci ha detto che vedeva il diacono per parlargli dei suoi problemi di
famiglia.»
«Esatto. L’ho detto e lo confermo.»
«Bene. La cosa strana, però, è che il signor Druitt non faceva da guida
spirituale a chi aveva problemi in famiglia. Lei potrebbe obiettare che i
ragazzini frequentavano il suo doposcuola perché le loro famiglie avevano
dei problemi, ma non è la stessa cosa. Perciò volevo chiederle: c’è per caso
qualcosa che vuole rettificare nelle sue dichiarazioni?» Barbara si interruppe
e bevve un sorso d’acqua. L’altro poliziotto, invece, non aveva nemmeno
toccato il bicchiere, notò Rabiah.
«Quali affermazioni?» domandò, ma la voce le uscì un po’ troppo stridula.
«Quelle che ha reso a me e al sovrintendente Ardery la volta scorsa a
proposito dei problemi famigliari di cui avrebbe parlato con Druitt nel corso
dei vostri colloqui. Sette colloqui per parlare della sua famiglia.»
Rabiah si rese conto di dover dare qualche spiegazione più circostanziata e
rimpianse di non aver preso nota delle storie che aveva raccontato alle due
poliziotte la volta precedente. Si affidò alla propria memoria e improvvisò.
«Il diacono e io abbiamo parlato del mio figlio maggiore.»
«Avevate un rapporto speciale, quindi. Lei è l’unica persona a cui il
diacono offriva conforto spirituale» rimarcò il sergente.
«Se è così, forse avevamo davvero un rapporto speciale» osservò Rabiah.
Un momento dopo capì che il sergente e l’ispettore si aspettavano ulteriori
dettagli che lei non aveva nessuna intenzione di fornire. «Vi serve altro?»
«Se magari può dirci qualcosa a proposito dei problemi di suo figlio...»
Ma certo, pensò Rabiah, il sergente aveva preso nota di quello che lei
aveva detto l’altra volta. Stava per dirle di andarsi a rileggere gli appunti,
invece di rompere le scatole a lei, ma si trattenne. «Ve l’ho spiegato: stavamo
passando un brutto periodo.»
«Succede» disse il sergente. In tono solenne e al tempo stesso curioso.
«Perché brutto?» chiese.
«Non sono affari vostri, credo» rispose Rabiah.
«Ha ragione. Peccato, però, che l’uomo con cui ne parlava nel frattempo
sia morto.»
«Pensa che le due cose siano legate? Come dicevo, sono andata a parlargli
per via di mio figlio David.»
«Quello che ha perso la figlia?»
«No, la figlia è morta a Tim» precisò Rabiah, e si rese conto troppo tardi di
esserci cascata.
Il sergente annuì. «La volta scorsa ci ha detto che era per via del figlio che
aveva perso una bambina che era andata a parlare a Druitt. Quello che fa uso
di sostanze, dico bene? Di cosa fa uso, signora Lomax? Alcol? Droga?»
«Tutti e due i miei figli hanno una dipendenza. Uno sta cercando di
uscirne, l’altro no. È possibile che io abbia parlato di entrambi, nel corso dei
miei sette incontri con il diacono. A Tim è morta una figlia, David è stato
lasciato dalla moglie, che si è portata via i miei nipoti... I figli continuano a
essere una preoccupazione anche da adulti, sapete? Se non lo sapete adesso,
lo scoprirete con il tempo.» Si alzò e si mise le mani sui fianchi. «Se non c’è
altro...»
Il sergente lanciò un’occhiata all’ispettore, che era rimasto attento e
fastidiosamente zitto tutto il tempo, gli occhi fissi su Rabiah. Nonostante la
sottile cicatrice sul labbro superiore, Rabiah lo trovava un bell’uomo, pacato
e sicuro di sé come piaceva a lei. Secondo lei, infatti, gli uomini dovevano
essere guardati, ammirati, magari anche corteggiati, ma se evitavano di aprire
bocca era meglio.
Alla fine Lynley pronunciò la prima frase da quando era entrato. «Per il
momento no, non c’è altro» disse.
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Lynley se ne accorgeva, quando Barbara mordeva il freno. I segnali in genere
erano due: anziché procedere con la solita andatura rilassata, partiva a passo
di carica con il piglio di chi deve affrontare una tempesta, anche in assenza di
vento, e assumeva un’espressione del tipo: Hai visto che avevo ragione io?
Quell’espressione poteva scaturire da una certezza già acquisita oppure in
fase di acquisizione. Tornando alla macchina, Lynley riscontrò la presenza di
entrambi i segnali: andatura ed espressione.
«L’ha vista anche lei, vero?» Barbara parlò sottovoce e si voltò furtiva,
quasi temesse di veder spuntare da dietro un cespuglio qualcuno con un
registratore in mano.
«Sì, ma non sono sicuro del significato da attribuire a questa coincidenza.»
Barbara si bloccò sui suoi passi. «E se non fosse una coincidenza?»
Lynley si voltò a guardare la casa, che era in ordine, ben tenuta, senza
nulla di sinistro a distinguerla dalle altre lungo la strada. «Rabiah Lomax e
Clover Freeman compaiono in quella foto di gruppo assieme a un’altra decina
di persone, davanti a un aliante che presumo tutte loro pilotino. Fanno parte
di un club o qualcosa del genere?» disse.
Barbara ignorò la domanda perché, come spesso accadeva, aveva un’altra
cosa importantissima da dirgli. «Sì, sì, ma lasci perdere Rabiah Lomax. Non
dicevo lei, ma quell’altra.»
«Clover Freeman.»
«Nancy Scannell.»
«Chi?»
«Nancy Scannell, ispettore. In quella foto c’è anche lei, oltre a Clover
Freeman e alla signora Lomax. È anche lei pilota di quell’aliante. Ed è
l’anatomopatologa che ha effettuato l’autopsia su Ian Druitt e ha stabilito che
si era suicidato. Capisce, ispettore?»
Quel che Lynley capiva era prima di tutto che Barbara era sovreccitata. Il
fatto che Nancy Scannell facesse parte di quel club – sempre che fosse
davvero così – era meno sorprendente rispetto alla presenza di Clover
Freeman in compagnia di Rabiah Lomax. «Barbara, ci pensi un attimo» disse.
«Non vuol dire niente. È normale che due persone che hanno contatti
professionali scoprano di avere un interesse comune al di fuori del lavoro.
C’è un aerodromo in zona?»
«Sul Long Mynd, sì. Ci siamo andate, io e il sovrintendente. Per parlare
con Nancy Scannell. Ci ha dato appuntamento lì perché doveva aiutare
qualcuno a lanciare un aliante. In seguito abbiamo scoperto che anche Rabiah
Lomax fa parte del club, che quell’aliante era anche suo. A mio avviso come
coincidenza è molto poco incidentale.»
«Sciocchezze» decretò Lynley. «Dubito che nello Shropshire ci sia più di
un aeroclub. Se ce n’è uno soltanto e queste due signore hanno la passione
del volo, è normale che lo frequentino entrambe. Oltretutto, si conoscono per
lavoro. Potrebbero essersi incontrate all’aerodromo, oppure potrebbe esserci
stato un avviso in bacheca per appassionati di alianti: chi fosse interessato ad
acquistarne uno in comproprietà, pregasi contattare eccetera eccetera.
Potrebbero aver avuto insieme l’idea di comprarlo, oppure potrebbero averla
avuta separatamente, ognuna per conto suo, e aver scoperto alla prima
riunione di potenziali acquirenti di avere entrambe lo stesso progetto. Quello
che voglio dire, in sostanza, è che ci sono diverse spiegazioni possibili,
nessuna delle quali è di per sé sospetta.»
«Invece il punto è...»
«Il punto è che avevano un interesse comune. Teniamone conto, d’accordo,
ma non costruiamoci su un castello. Potrebbe essere rilevante come no,
Barbara, e io le sconsiglio di attribuirgli troppi significati.»
Barbara si voltò dall’altra parte. Lynley capì dalla sua espressione che
stava per controbattere e la anticipò. «Controlli se Ruddock ha provato a
contattarla.»
Avevano telefonato all’agente ausiliario prima di uscire dall’hotel, ma
avevano trovato la segreteria telefonica. Barbara gli aveva lasciato detto di
richiamare appena poteva, senza specificare il motivo.
A casa di Rabiah Lomax, però, aveva silenziato il telefono. Lo tirò fuori
dalla borsa. «Non ha chiamato. Quindi secondo lei non dovremmo...» disse a
Lynley.
«Secondo me, non dobbiamo tirare conclusioni affrettate, sergente. Una
cosa per volta.»
«Il tempo stringe, però» gli fece notare Barbara. «Ne abbiamo poco.»
«Poco, ma non pochissimo» puntualizzò Lynley.
Barbara non era d’accordo.
18 MAGGIO
Worcester
Herefordshire
Trevor Freeman si svegliò al buio con la testa e il resto del corpo intorpiditi
come se avesse preso un sonnifero. Si sentiva come se fosse stato ibernato
per un volo spaziale lungo un secolo, e per un attimo si dispiacque di non
essere in una di quelle capsule fantascientifiche perché la coscienza tornando
a poco a poco gli riportava alla mente immagini che avrebbe preferito
dimenticare e che invece lo travolsero. Più lui cercava di scacciarle, più si
imponevano con prepotenza. Traevano la loro forza da diverse fonti, tra cui
due brandelli della conversazione della sera prima. E poi c’era la sua condotta
insaziabilmente libidinosa.
Gaz Ruddock era andato a cena da loro come da programma. Trevor
l’aveva invitato su richiesta della moglie. La chiacchierata con Clover sul
tema del macchinoso invito dell’agente ausiliario, lungi dall’essere
chiarificatrice, aveva aumentato i suoi sospetti e l’aveva reso ancora più
diffidente sia a cena sia dopo. Avevano mangiato bistecca, patate arrosto,
insalata e dolce al cucchiaio in giardino e dal principio alla fine, ogni parola,
gesto, tono di voce e sguardo gli era sembrato carico di significati reconditi.
L’abbigliamento scelto da Clover per la serata l’aveva tutt’altro che
rassicurato. Con lui si vestiva sempre in modo sottilmente sexy, ma per
l’occasione aveva deciso di rinunciare a ogni sottigliezza e optare per un paio
di pantaloni da cui spuntavano le caviglie più belle dell’universo, sandali che
faceva dondolare mollemente dall’alluce e un top che lasciava scoperta una
spalla. Come se non bastasse, era senza reggiseno, forse a rimarcare che
aveva dovuto prepararsi in fretta, con il risultato che l’occhio non poteva che
cadere sui capezzoli sempre turgidi.
Naturalmente aveva fatto in modo di avere una scusa per le sue scelte in
fatto di abbigliamento, era troppo brava per trascurarlo. Trevor era in cucina a
preparare la marinata per le bistecche, quando Clover era tornata dal lavoro.
Era andata a salutarlo e si era offerta di apparecchiare la tavola. Prima, però,
voleva mettersi comoda. Mentre lui controllava le patate nel forno, lo aveva
chiamato dalla camera da letto. «Trev, puoi salire a darmi una mano?» E
poiché le bistecche erano a marinare, le patate dovevano cuocere ancora e
restava da preparare soltanto l’insalata, era salito a vedere di che cosa aveva
bisogno Clover.
L’aveva trovata in camera da letto travestita da suora. Il costume doveva
essere nel pacco che aveva trovato davanti alla porta quando era rientrato, e
dentro quel pacco doveva esserci anche il costume da prete che adesso era
disteso sul letto. Trevor avrebbe dovuto indossarlo per il giochino che Clover
aveva in mente: il sacerdote sedotto dalla monaca, oppure la pia monaca
sedotta dal sacerdote. La seconda ipotesi sembrava più probabile, visto che
Clover aveva costruito una sorta di inginocchiatoio sistemando l’ottomana
davanti al comò e vi si era posizionata in atteggiamento di preghiera, con un
rosario in mano.
Sentendolo entrare, si era girata e gli aveva rivolto uno sguardo pudico, da
verginella. Aveva teso il braccio verso di lui. «Posso confessarmi, padre?»
aveva sussurato.
Trevor aveva esitato un attimo perché, sebbene morisse dalla voglia di
stare al gioco, c’era pochissimo tempo. «Volentieri, sorella» aveva
sussurrato.
Clover aveva guardato il letto e la tonaca da prete. «Deve indossare la
veste, padre?»
«Farei volentieri anche questo. C’è un problema, però: sta per arrivare
Gaz.»
Clover era tornata se stessa in un istante. «Porca miseria, me n’ero
scordata. Ho visto che era arrivato il pacco e non ho capito più niente.» Era
scoppiata a ridere. «Vorrà dire che faremo svelti, allora. Nella mia testa
sarebbe dovuto essere il prete a orchestrare il tutto, ma pazienza. Vieni,
tesoro. Vieni a vedere che cos’ha in mente per te suor Rosaria.»
«Mi induci in tentazione.»
«Sempre. Vieni, padre Freeman.»
Trevor era scoppiato a ridere. «Davvero, Clover, non abbiamo tempo.»
«Sì che lo abbiamo! Non hai idea di cosa riuscirò a fare in pochi...»
In quel momento era suonato il campanello. «Venti secondi sono troppo
pochi anche per te, mia cara. Ci tocca rimandare a dopo» le aveva risposto.
Le era andato vicino e l’aveva baciata e accarezzata in mezzo alle gambe, ma
quando lei aveva provato ad abbassargli la zip dei pantaloni si era ritratto. Era
uscito ed era andato ad aprire la porta a Gaz Ruddock.
Il giochetto proposto da Clover avrebbe dovuto tenergli occupata la mente
tutta la sera. La prospettiva di quello che li aspettava a fine serata lo avrebbe
effettivamente distratto, se mentre usciva sul patio con il caffè non avesse
sentito Gaz che diceva a Clover: «Possiamo pure provarci, se...» Gaz aveva
lasciato la frase a metà e cambiato discorso, lodando l’ottima cena e
dichiarandosi invidioso delle capacità culinarie di Trevor.
Quest’ultimo non si era lasciato sviare, però. «Che cos’è che volete
provare a fare, voi due?» e aveva domandato con il tono più disinvolto che gli
era riuscito.
«Parlavamo di Scotland Yard» aveva risposto Clover. «Sai come va a
finire, se si sente sotto pressione.»
«Chi?»
«Finnegan. Chi altro?»
Trevor aveva aspettato un momento, lasciando che la domanda rimanesse
sospesa. «Non saprei. Dimmelo tu» disse.
Clover era sembrata piuttosto sorpresa. «Se andranno di nuovo da lui, lo
metteranno alle strette. Vorrei essere presente al colloquio. Se non ci potrò
essere io, vorrei che ci fosse almeno Gaz» aveva continuato.
Trevor aveva la netta impressione che Clover avesse abilmente cambiato
discorso, ma non poteva accusarla di non aver risposto alla sua domanda,
perché la conversazione aveva mantenuto un filo logico. Si era detto perciò
che era il desiderio a renderlo troppo geloso e la cosa sarebbe finita lì, se non
avesse sentito Clover salutare Gaz a fine serata con un: «Ne parliamo poi».
Di cosa dovevano parlare? Perché tutto quel segreto? Che bisogno c’era di
bisbigliare per non farsi sentire da lui?
Con la testa piena di dubbi e di sospetti, aveva visto Clover chiudere la
porta, voltarsi verso di lui e trasalire: evidentemente non si aspettava di
trovarlo così vicino. Senza dargli il tempo di fare domande, però, si era
scusata. «Devo correre di sopra, tesoro.» E lo aveva lasciato lì impalato.
Da quel momento in poi, Clover aveva avuto vita facile: Trevor era uscito
a ritirare gli attrezzi del barbecue per lavarli e lei lo aveva raggiunto fuori.
Aveva di nuovo il vestito da suora, ma stavolta si era messa solo il velo, il
soggolo e il rosario a mo’ di cintura.
Il suo primo pensiero era stato: «Cristo! E i vicini?» Si era guardato in giro
per controllare le finestre che davano sul loro giardino, ma non aveva avuto il
tempo di sollevare obiezioni, perché Clover gli era andata vicino. «Suor
Rosaria ha qualcosa di speciale per lei, padre» aveva mormorato. Ciò detto,
gli aveva messo le mani sui fianchi.
«Sono stanco morto, Clover. Facciamo un’altra sera» aveva risposto, ma
era una balla, perché in realtà era eccitatissimo.
«Non se ne parla neanche» aveva ribattuto lei, spostando le mani verso la
zip.
Trevor aveva protestato, usando come scusa il fatto che Gaz si era
trattenuto più a lungo del previsto.
«La volontà di Dio prima di tutto, amore» aveva ribattuto Clover in tono
pio.
«Tu dici?» aveva tentennato lui, mentre Clover gli accarezzava la pelle
nuda.
«Certo.» Si era seduta sul tavolo e aveva allargato le gambe. «Vieni, sia
fatta la sua volontà.»
Trevor aveva capitolato. Clover sapeva benissimo che sarebbe andata a
finire così, perché di fronte a lei Trevor diventava inerme come un pesce con
un amo piantato in gola. La volontà di Dio era stata fatta in giardino e poi di
nuovo in camera da letto. Dopo aver lavato i piatti, infatti, Trevor era salito in
camera e aveva trovato Clover inginocchiata come prima di cena, intenta a
recitare il rosario, questa volta con il costume completo. Da brava suorina,
aveva finto sorpresa e raccapriccio nel vedere un estraneo introdursi nella sua
cella e interrompere le sue devozioni.
Trevor era stato più che contento di trovarla così e di recitare la parte dello
sconosciuto che voleva possederla nonostante le proteste virginali di lei.
Accogliendolo con un «Chi è lei? Che cosa fa qui?» Clover gli aveva dato il
la. Alla fine, stremati, si erano addormentati.
Con Clover era sempre così. Lo conosceva fin troppo bene, sapeva che con
lei era come un sedicenne arrapato e lo stuzzicava con giochetti sempre nuovi
e sempre più maliziosi. Clover sapeva che il modo più semplice ed efficace
per distrarlo e impedirgli di entrare nella sua mente era dargli libero accesso
al proprio corpo perfetto.
In quel momento Trevor si girò nel letto. Era mattino presto e lui puzzava
di sudore. Avrebbe dovuto farsi la doccia, invece si infilò una tuta da
ginnastica e scese di sotto. Sentì il ronzio della cyclette nel solarium e capì
che Clover si stava allenando. Pedalava a una velocità che per lui sarebbe
stata impossibile.
Era un’altra caratteristica di Clover: teneva tantissimo alla forma fisica.
Fino a pochi giorni prima Trevor aveva creduto che fosse per via di suo
padre, che a causa della vita sedentaria (faceva lo psicanalista), del fumo e
dell’alcol, era morto prematuramente all’età di cinquantaquattro anni. Clover
diceva di non voler fare la stessa fine e Trevor la ammirava per la costanza
con cui si allenava. In fondo era per quello che si erano conosciuti, ai tempi
in cui anche lui passava le giornate a fare sport, invece di delegare gli
allenamenti ai suoi sottoposti. Adesso, però, Trevor aveva il dubbio che
Clover lo facesse non per la salute, ma per mantenersi giovane, bella e soda, e
non necessariamente a beneficio del marito.
La raggiunse nel solarium. Fuori albeggiava, ma era ancora abbastanza
buio perché si potesse vedere riflesso nei vetri: stanco, un po’ sovrappeso,
guance flaccide anziché solide e forti. Clover non si accorse di lui perché
indossava le cuffie ed era concentrata sull’esercizio. Gli asciugamani che
aveva posato tutt’intorno alla cyclette erano bagnati di sudore.
Le passò davanti e si sedette sulla panca. Clover alzò gli occhi sorpresa,
perché in genere Trevor non si alzava prima delle sette. Si tolse le cuffiette,
ma continuò a pedalare. Trevor era convinto che sua moglie avesse il cuore di
una ventenne.
Partì un fischio che decretava la fine della fase aerobica e Clover passò alla
fase defaticante, respiri profondi e ritmo meno intenso. Aveva la schiena
perfettamente dritta. «Ti sei alzato presto. Non ti ho svegliato io, vero?»
«Figurati! Ero praticamente in coma. Mi hai messo qualcosa nel vino?»
«Ti ho messo qualcosa da un’altra parte. Due volte. E mi è sembrato che tu
gradissi. Anzi, se vuoi replicare...»
Trevor sapeva di dover rispondere con qualcosa di altrettanto provocante,
di doversi alzare e avvicinarsi a lei e metterle le mani addosso. Se l’avesse
fatto, sarebbe andata a finire come voleva Clover e lui si sarebbe detto per
l’ennesima volta che era un uomo fortunato ad avere una donna così, perché
di donne così ce n’è una su un milione, tanto vale godersi la vita e smettere di
farsi tanti problemi. Dopo i due amplessi della sera prima, tuttavia, l’offerta
di Clover non poteva certo scaturire da un ardente desiderio che poteva essere
placato esclusivamente in un modo.
Trevor le lesse in faccia che aveva capito che qualcosa non andava. Se non
era rimasto a poltrire come al solito, voleva dire che aveva un tarlo in testa.
Parlò per prima e Trevor intuì che voleva mettersi in posizione di
vantaggio. Ciò che gli disse, tuttavia, lo sorprese. «Ho una confessione da
farti. Mi stai a sentire?»
Trevor si fece subito circospetto. «Che cosa mi devi confessare?»
«Il sesso di ieri sera era voluto, avevo voglia di fare l’amore con te. Ma
non ti posso nascondere che avevo altre cose per la testa.»
Trevor non si aspettava che Clover andasse dritta al punto, ma non capiva
a cosa alludesse e glielo disse.
«Non volevo parlare di Finnegan con te» gli rispose Clover.
Altra sorpresa. Trevor aggrottò la fronte. «Di cosa, in particolare?» chiese.
Clover rallentò la pedalata, prese la bottiglietta di acqua e ne bevve metà.
«Sono certa che non approverai.»
«Ti ascolto.»
Clover fece un respiro profondo. «Ho preso accordi con Gaz. Avrei
preferito tenerti all’oscuro, ma ho la sensazione che... Ti conosco troppo
bene, non riesci a nascondermi niente. E ieri sera ho visto che avevi
subodorato... Senti, Trev, io e te abbiamo sempre avuto due approcci diversi
con Finnegan. Adesso è a Ludlow, ha molta più libertà di quanta non ne
avesse qui. L’idea di passare il Natale in Spagna, per esempio. Voglio dire, ci
ho pensato su e... Cioè... Tu sai com’è fatto, no?»
Trevor sapeva com’era fatta lei, in realtà: Clover non era mai a corto di
parole. Se non riusciva a finire una frase, voleva dire che era in grave
difficoltà. Stava per dargli una notizia spiacevole. «Perché non mi dici quel
che mi devi dire senza girarci tanto intorno?» disse.
Clover rallentò ulteriormente la pedalata, ma non sembrava ancora pronta a
scendere dalla cyclette. «Va bene. Ho chiesto a Gaz di tenerlo d’occhio»
disse.
«In che senso?»
«Gli ho chiesto di controllare che Finnegan non faccia cazzate e di
avvertirmi se ne fa. Sai com’è fatto, no? È un incosciente, a volte. E adesso
che è libero di bere quanto gli pare e di farsi tutte le canne che vuole – perché
sicuramente è questo che fa, a Ludlow, e lo sai anche tu –, ora che ha accesso
alle altre droghe di cui fanno uso i ragazzi della sua età... Insomma, ho paura.
E siccome ho avuto modo di conoscere Gaz al centro di addestramento e di
constatare che è volenteroso, disponibile, sempre pronto a compiacere i
superiori, ho pensato di chiedergli di dare un’occhiata a nostro figlio.»
Trevor tacque, riflettendo sulle parole della moglie. Si rese conto che
Clover stava cercando di capire che effetto gli aveva fatto quella confessione.
Evidentemente trasse le sue conclusioni perché riprese a parlare in fretta.
«Avrei dovuto dirtelo prima, ma sapevo che non saresti stato d’accordo e
credevo che Gaz riuscisse a fare quello che gli avevo chiesto senza che tu e
Finnegan lo scopriste. Doveva passare per una sorta di amico di famiglia.
Con la storia di Ian Druitt, però, è diventato tutto molto più complicato e io
non volevo che fra me e te restassero dei non detti. Perciò ho deciso di
confessare.»
Quando si trattava di Clover e Finnegan, Trevor provava un senso di
frustrazione che gli provocava i crampi alle budella. «Il vero problema non è
Finn» disse, «ma la tua incapacità di accettare che non puoi controllare ogni
sua mossa. È da quando aveva sei anni che reagisce male alle tue
intromissioni, Clover, ma tu continui imperterrita.»
«Senti, caro, ammetto di aver sbagliato a non dirtelo subito, ma sapevo che
ti saresti opposto.»
«Mi sarei opposto perché è l’ennesima tua iniziativa che lo farà
imbestialire, sempre che non lo spinga verso le cose da cui vorresti tenerlo
lontano: alcol, droghe, rave e chi più ne ha più ne metta.»
«Non sono d’accordo. Io e te la vediamo in modo completamente diverso.
Da sempre.»
«Cristo, Clover!» Trevor si passò una mano sul volto e sulla testa.
«Possiamo lasciare che il passato detti il nostro modo di fare i genitori,
oppure possiamo decidere di essere i genitori che vogliamo essere basandoci
sul nostro passato. Questa cosa che stai facendo con Finn a quale delle due
categorie appartiene, secondo te?»
«Questa cosa? Quale cosa? Sembri mio padre. Qui lui non c’entra. E non
c’entra nemmeno mia madre. E non c’entrano neanche tuo padre, tua madre e
i tuoi fratelli seduti intorno a un tavolo a recitare la sceneggiata della bella
famigliola. Lo so benissimo che ti manca, che l’avresti voluta anche tu, e mi
dispiace di non essere riuscita a dartela, va bene?»
Mossa astuta, pensò Trevor. Ma non ci sarebbe cascato. «Sono totalmente
d’accordo con te. Qui c’entriamo solo noi due, il modo in cui ci rapportiamo
con Finn e il ruolo di Gaz Ruddock nel quadro generale» disse.
«Quale quadro generale? Gli ho semplicemente chiesto di tenere d’occhio
Finn, tutto qui.»
«Davvero? Sicura che non ci sia altro? Gli hai chiesto questo favore e
basta?»
«Gli ho chiesto questo favore perché è tutto il giorno in giro per Ludlow e
vede quello che succede, sente cosa dice la gente. È facilissimo, per lui,
controllare se Finnegan si comporta bene. È un’esperienza nuova, per Finn: è
la prima volta che sta fuori di casa, che abita con altri studenti, che è in
condizioni di vivere certe esperienze. Sono preoccupata e, onestamente, mi
riesce difficile capire come faccia tu a non esserlo. Come mai non lo sei mai
stato.»
«Non si può vegliare sui figli in ogni singolo momento, farli crescere nella
bambagia...»
«Non è questo che sto facendo.» Clover scese dalla cyclette, raccolse da
terra uno degli asciugamani e si strofinò energicamente. «Come fai a non
capire che sto solo cercando di compiere il mio dovere di madre? Ma
lasciamo perdere. Non ho voglia di impelagarmi in questi discorsi e di
passare per una madre squilibrata che non riesce a non intromettersi nella vita
del figlio. Se tu ritieni di doverlo informare del provvedimento che ho preso –
per il suo bene – fa’ pure.»
Ciò detto, prese anche l’altro asciugamano e la bottiglietta dell’acqua
minerale e se ne andò, lasciandolo lì dov’era. In genere dopo la cyclette si
allenava con i pesi, ma per quel giorno evidentemente aveva deciso di
rinunciare.
Trevor aveva bisogno di un caffè e andò in cucina a prepararlo. Fu solo
quando sentì lo scroscio della doccia al primo piano che si accorse che
Clover, tirando in ballo Finnegan, lo aveva abilmente sviato dalla
conversazione che lui aveva in mente.
Era una donna di un’astuzia diabolica. Era riuscita a non dirgli nulla di ciò
che voleva sapere.
Ludlow
Shropshire
Lynley aveva appena finito di farsi la doccia quando sentì suonare il
cellulare. Sperava che fosse Daidre, invece era Isabelle. Alle sette di mattina
non si sentiva pronto ad ascoltare il sovrintendente, quindi lasciò che
scattasse la segreteria e tornò nel bagno per radersi la barba.
Aveva voluto mostrarsi gentile con Barbara lasciandole la camera di
Isabelle, ma la cavalleria cominciava a pesargli. Il letto era talmente scomodo
che la sera prima aveva spostato per terra il materasso e aveva dormito sul
pavimento. Il bagno sarebbe stato l’ideale per uno gnomo: la doccia era più
piccola di una cabina telefonica e lo specchio sopra il lavabo era minuscolo.
In camera però non ce n’erano altri e gli toccava specchiarsi nel televisore
spento, dopo aver chiuso le tende e acceso la luce. Anche così, vedeva
soltanto la propria sagoma nera.
Stava togliendo la condensa dallo specchio quando sentì partire di nuovo la
suoneria del cellulare. Andò a vedere chi era e, scoprendo che stavolta era
Daidre, tirò un sospiro di sollievo e rispose.
«Prima di tutto devo chiederti se Barbara sta provando il numero di tip tap
come le è stato raccomandato» disse lei.
«Le ho lasciato la camera più grande, quindi lo spazio ce l’ha. Se poi ne
approfitti o meno è tutto da vedere.»
«Devo avvertire Dorothea che è il caso di tirarle le orecchie?»
«Sai benissimo che cosa se ne fa Barbara delle tirate d’orecchie. Lasciamo
a Dorothea la sorpresa di vedere Barbara in azione, sperando che dia il
meglio di sé. Non vedo l’ora. Naturalmente, non le ho anticipato nulla di
quello che abbiamo in mente.»
«Sei crudele.»
«’Debbo essere crudele solo per essere pietoso’, però forse Ofelia non ne
era molto contenta. Come stai, cara? Sei allo zoo o ancora a casa?»
Silenzio. Non avrebbe dovuto chiamarla «cara». Ma poi le aveva fatto una
domanda tranquilla cui lei si appigliò. «Sono a casa. Devo partire per la
Cornovaglia.»
Bello scherzo del destino, pensò Lynley, anche se era ovvio che Daidre
non aveva in programma di andare a Howenstow a conoscere la sua famiglia.
«Cos’è successo?» chiese.
«Be’...» La sentì sospirare e si chiese in che parte della casa si trovasse in
quel momento. Nella cucina che aveva ristrutturato, decise, accanto alla
portafinestra del giardino infestato dalle erbacce. Probabilmente si era
preparata un cappuccino senza zucchero né dolcificante e l’aveva posato
sull’isola, pronta a berlo. Doveva essersi vestita per il viaggio, non per andare
allo zoo, abiti comodi e capelli biondi raccolti dietro la testa. E si era
sicuramente pulita le lenti degli occhiali rimuovendo gli aloni del giorno
prima.
«Mi ha telefonato Gwynder ieri sera» disse. «Se voglio dirle addio, devo
andare adesso.»
«E tu vuoi?»
«Il problema è questo. L’ho già fatto, ma talmente tanto tempo fa che
adesso quella parte della mia vita sembra non appartenermi più.»
«Capisco.»
«Faccio fatica a stabilire se la mia riluttanza a vederla un’ultima volta
derivi da amarezza, rabbia o totale indifferenza.»
«Un mix, probabilmente. Oppure nessuna delle tre. Forse la tua riluttanza è
normale. Non ti ha fatto da madre, in fondo. Ti ha messo al mondo, ma poi ha
fatto poco altro. Sia per te che per tuo fratello e tua sorella.»
«Vorrei tanto essere come Gwynder. Vorrei tanto vedere nostra madre
come una che più di così non poteva fare, ma non ci riesco.»
«Chi conosce la vostra storia non può che capirti se decidi di non andare, e
di certo non può darti addosso.»
«Porto il suo nome, però. Il mio vero nome, Tommy. Quello che mi ha
dato lei, quasi presentisse come sarebbe andata a finire.»
«Già. Edrek» rispose Lynley. Edrek, che voleva dire «rimpianto». Quel
nome, così come la nascita in una piazzuola lungo una strada in Cornovaglia,
l’infanzia in un caravan sulle rive di un torrente nel quale il padre era
convinto di trovare stagno a sufficienza per mandare avanti la famiglia,
facevano parte di un passato dal quale Daidre si era riscattata quando lei e i
suoi fratelli erano stati allontanati dai genitori colpevoli di gravissime
negligenze: non li avevano mandati a scuola, non li avevano mai portati da un
medico, li avevano cresciuti nel disordine e nella sporcizia, con i pidocchi e i
denti marci. Lynley avrebbe voluto dire a Daidre che non doveva nulla ai
suoi genitori, sebbene sua madre fosse in punto di morte, ma lo trattenne quel
nome, Edrek, e la consapevolezza di come si sarebbe potuta sentire un giorno
se non avesse fatto quell’ultimo sforzo per dire addio al passato.
«Vorrei che fossi qui con me» gli disse lei.
«Non sono bravo nell’arte di dispensare consigli.»
«Ma sei bravo nell’arte di starmi vicino. Ti chiederei di accompagnarmi.
Vorrei averti al mio fianco.»
«Mi dispiace, in questo momento è proprio impossibile. Mi sono cacciato
in questa situazione con le mie stesse mani e, se non mi riscatto in qualche
modo, finirò a fare l’agente di quartiere a Penzance. O a Berwick-upon-
Tweed insieme a Barbara. Quindi, qualsiasi cosa tu decida, dovrai farla da
sola. Sarò con te con il cuore, però. Voglio solo dirti che conviene sempre
risolvere questo genere di sospesi, quando se ne presenta l’occasione. E
adesso potrebbe essere il momento giusto. Mi spiace dirtelo, ma lo penso.
Spero che tu non rimpianga di avermi telefonato.»
Seguì un lungo silenzio. A un certo punto Lynley temette che fosse caduta
la linea e pronunciò il suo nome.
«Sì, sì, ci sono. Stavo riflettendo.»
«Se andare o meno?»
«No. Ho deciso che vado.»
«Su cosa riflettevi, allora?»
«Se rimpiangerò mai di averti telefonato.»
«E a quale conclusione sei giunta, se posso chiedere?»
«Non credo. Non credo che avrò mai rimpianti. Indipendentemente da
come andrà a finire questa storia.»
Si salutarono e Lynley rimase un momento seduto sull’unica sedia della
stanza, accanto a un tavolino stretto. Si fermò a pensare, ascoltò il ritmo
regolare del proprio cuore e si chiese cosa significava scegliere di amare
nuovamente dopo un lutto devastante.
Aveva ancora in mano il cellulare, quando partì la suoneria e rispose senza
guardare il display.
«C’è altro?» disse senza preamboli Isabelle.
Non le chiese a che cosa si riferisse e non addolcì la pillola. Forse
l’avrebbe fatto, se Daidre non gli avesse appena detto che avrebbe voluto
averlo al fianco in quel momento e lui non fosse stato bloccato lì senza la
possibilità di accompagnarla in Cornovaglia. «Ian Druitt aveva un cellulare e
un’automobile che abbiamo recuperato. E abbiamo scoperto che il
vicecomandante della West Mercia Police è la madre del ragazzo con cui sei
andata a parlare. Lei e l’anatomopatologa che ha effettuato l’autopsia su
Druitt sono socie di un aeroclub e forse comproprietarie di un aliante. Il
vicecomandante, che si chiama Clover Freeman, ha telefonato al sergente
dell’ausiliario e le ha dato l’ordine di fermare Ian Druitt perché fosse
interrogato. Tutti questi elementi puntano nella medesima direzione: Barbara
aveva ragione a scrivere il rapporto come l’aveva scritto prima che tu glielo
facessi correggere.»
Isabelle restò zitta. Forse meditava sulle possibili conseguenze. Lynley
entrò in modalità polemica. «Cosa ti è venuto in mente di dire a Barbara di
modificare il rapporto? Eravate venute qui per...»
«Non provare nemmeno a insegnarmi il mio mestiere» sbottò Isabelle.
«... per verificare il lavoro della commissione per i reclami contro la
polizia riguardo alla morte di un uomo in stato di fermo, e Barbara questo ha
fatto. Druitt è stato fermato diciannove giorni dopo la denuncia, e in quelle
settimane non è stata svolta alcuna indagine. Questo significa che non c’era
un motivo plausibile per procedere al fermo. Era lì che Barbara voleva
arrivare. Perché tu hai tentato in tutti i modi di impedirglielo?»
«Siamo andate a Ludlow al solo scopo di valutare la correttezza del lavoro
che la commissione ha svolto a seguito della morte di Druitt – non prima – e
questo abbiamo fatto. Il resto non c’entra.»
«Sei impazzita?»
«Come osi rivolgerti a me in questo modo? Chi ti credi di essere?»
«Lascia perdere, Isabelle: con me non attacca. E, già che ci sei, rifletti
anche su questo. Clive Druitt è venuto a parlarci in albergo. Si è accorto che
avevi bevuto, quando vi siete incontrati. Se lo ha accennato a me, penso
proprio che lo abbia riferito anche al suo amico onorevole. E cosa abbia fatto
il suo amico onorevole di questa informazione...» Lasciò che fosse Isabelle a
concludere.
«Ci mancava solo questa» disse lei dopo un po’ con un filo di voce. «Ti
stai chiedendo quando toccherò il fondo, vero, Tommy?» aggiunse in tono
alterato.
Lynley non negò, perché era la verità. D’altra parte, provava per lei la
compassione di chi ha già avuto a che fare con un tossico. «Senti, Isabelle,
non sei la prima e non sarai neanche l’ultima» disse. «Se fosse facile, quelli
che rischiano di perdere tutto come te smetterebbero. Se fosse facile,
smetteresti, perché vuoi bene ai tuoi figli e li hai persi, così come hai perso
tuo marito e adesso rischi di perdere il lavoro. Io credo che in fondo tu questo
lo sappia, ma non riesci a liberarti del mostro che ti tiene in pugno. Se non te
ne liberi, però, sarà la fine. Lo capisci, Isabelle? Te ne rendi conto anche solo
lontanamente?»
«Non farne un dramma, Tommy. Non sono a certi livelli. Tu mi vedi
sull’orlo del baratro, ma esageri. Non sono messa così male.»
Lynley alzò gli occhi al cielo e si augurò che qualcuno riuscisse a farle
vedere la luce. Per esperienza diretta, però, sapeva che l’unica persona che
poteva far vedere la luce a Isabelle Ardery era Isabelle Ardery e che questo
sarebbe successo soltanto il giorno in cui non ne avesse potuto più dei guai
che il suo vizio le procurava.
«Stamattina parleremo con l’ausiliario, spero. Abbiamo cercato di fissare
un appuntamento ieri, ma non siamo riusciti a contattarlo. Barbara gli ha
lasciato un messaggio in segreteria, ma lui si è limitato a recapitarle un
biglietto in albergo. Poi parleremo anche con Finnegan Freeman. A te che
impressione ha fatto?» disse.
«Si atteggia a proletario in cerca di emancipazione e parla di conseguenza.
Troppo spesso con la bocca piena, fra l’altro. Quando l’ho visto io, stava
mangiando un burrito. Difende Druitt a spada tratta.»
«È interessante, non trovi? Che lui fosse amico di Druitt e che il fermo sia
partito da sua madre, intendo.»
Isabelle rimase in silenzio un attimo. Lynley sapeva che si era resa conto di
quanto fosse stata approssimativa nella sua ansia di chiudere la missione e
tornare a Londra ed evitò di sottolinearlo. «Buon lavoro, Tommy. Spero che
riusciate a farvi dire qualcosa di illuminante dall’ausiliario. Barbara aveva
ragione, adesso l’ho capito» disse dopo un po’ Isabelle.
Era il primo barlume di speranza che Isabelle gli dava, pensò Lynley. Si
salutarono. Era giunto il momento di affrontare la giornata.
Ludlow
Shropshire
Rabiah Lomax aveva imparato da tempo che una bella corsetta mattutina le
schiariva le idee e le rendeva più facile la giornata. Aveva preso l’abitudine
quando i figli erano adolescenti e la facevano ammattire. Uscire prima
dell’alba per le strade deserte la aiutava a dimenticare per un po’ le sbronze di
David – che lui minimizzava, ovviamente – e le canne di Tim. Quel momento
era esclusivamente suo, si diceva: i figli e le grane potevano aspettare.
Quando uscì di casa la mattina dopo la seconda visita della Metropolitan
Police, non seguì il suo percorso abituale. Di solito passava per Breadwalk,
un sentiero che da Lower Dinham Street costeggiava in quota il fiume Teme
fra tigli e ontani e arrivava al Ludford Bridge, da cui si godeva uno splendido
panorama. In certe mattine la luce dell’alba sui tetti antichi della città era
spettacolare. Quel giorno però voleva passare sul lungofiume e quindi prese
per St. Julian’s Well.
Voleva vedere dove abitava Dena Donaldson. Aveva parlato al telefono
con sua nipote la sera prima e inaspettatamente il discorso era caduto su
Dena.
A Rabiah non piaceva mentire. Aveva sempre aderito al principio «di’ la
verità perché è più facile da ricordare». La prima volta, alla Metropolitan
Police aveva mentito per necessità: in quel contesto era la cosa più semplice.
Aver mentito anche la seconda, però, era più grave e poteva causare
parecchie complicazioni sia a lei sia alla sua famiglia.
Per questo aveva valutato tutte le possibili opzioni che aveva davanti e
aveva deciso di telefonare a Missa. La prima volta non l’aveva fatto perché
non l’aveva ritenuto necessario. E poi in famiglia avevano la tendenza a non
svegliare il can che dorme, se solo era possibile, e Rabiah aveva seguito la
tradizione sperando che fosse la cosa migliore, dicendosi che non era compito
suo intervenire nella vita dei suoi figli ormai adulti, delle relative consorti e
dei nipoti.
Meditando sulle due visite della Metropolitan Police, su ciò che le avevano
detto, su ciò che aveva detto lei, sulle loro domande e le sue risposte, però,
aveva cambiato atteggiamento, abbandonando il vivi-e-lascia-vivere che
caratterizzava i suoi rapporti con i figli e le loro famiglie. Aveva aspettato che
fosse abbastanza tardi perché Missa si fosse ritirata in camera sua e quindi
fosse fuori della portata dei genitori, e aveva cercato il suo numero in rubrica.
Non aveva perso tempo in convenevoli. «Parlami dei tuoi appuntamenti
con Ian Druitt, Missa.»
Era seguito un lungo silenzio durante il quale Rabiah aveva sentito cantare
in sottofondo uno che si atteggiava a crooner degli anni Quaranta e si era
chiesta se Missa stesse guardando un talent show. Evidentemente era da sola
davanti al televisore perché a un certo punto aveva azzerato l’audio e aveva
chiesto: «Di cosa stai parlando, nonna?»
«Ho avuto due colloqui con gli ispettori della Metropolitan Police riguardo
a Ian Druitt. Vorrei evitare di doverli rivedere, anche se temo non sia
possibile.»
«La polizia di Londra?»
«Esatto. La prima volta, ho chiamato Aeschylus e ho lasciato parlare lui,
ma stavolta ero sola. Cercavano il Lomax che si era incontrato con il diacono
della chiesa di St. Laurence – ovvero, come ben sai, Ian Druitt – e io ho detto
che ero io.»
«E perché? Lo conoscevi?»
«Mi mette ansia averglielo detto. Non tanto perché mi secca aver mentito
alla polizia – anche se mi secca, eccome – ma perché detesto farmi trovare
impreparata. Quindi adesso dimmi: per cosa vi siete incontrati tu e Druitt? Se
devo continuare a mentire, vorrei sapere almeno cosa c’è sotto.»
Altro silenzio. La sua durata lasciava intendere che le successive parole di
Missa non sarebbero state del tutto veritiere. «Io non ho mai incontrato
Druitt, nonna.»
«Come mai allora il nostro cognome compare sette volte sulla sua
agenda?»
«Sette volte? Non ho nessun motivo per incontrare il diacono di una chiesa
neanche una volta, figurati sette! Qualcuno si è presentato come Lomax.»
«Perché avrebbe dovuto, scusa?» Nel momento stesso in cui l’aveva
chiesto, però, le erano venute in mente diverse possibili motivazioni. La
prima era: «così non mi scoprono».
«Nonna» aveva detto Missa. E aveva aspettato un po’ prima di aggiungere:
«Probabilmente è stata Ding».
«Perché dovrebbe...?»
«Sarà andata a chiedere consiglio su Brutus. Bruce Castle, hai presente? È
il suo ragazzo, più o meno. Vanno in crisi un giorno sì e l’altro pure. Finché
io sono stata a Ludlow, almeno. Magari è andata a parlargli perché vorrebbe
cambiare vita e non sa come fare. Non penso avesse cattive intenzioni.
Voglio dire, crearci dei problemi usando il nostro cognome.»
«Non va bene che qualcuno usi il nostro cognome, indipendentemente dal
perché e dal percome» aveva ribattuto Rabiah. «Voglio parlare con quella
ragazza.»
Missa si era affrettata a dissuaderla. «No, per favore.»
«Perché no?»
«Perché sta passando un brutto periodo, poveraccia. Per la storia di Brutus.
Lui va con le altre e pretende che lei lo accetti, e invece lei ci sta male, anche
se fa finta di niente, e ora che finalmente ha avuto il coraggio di mollarlo...
Non vorrei che adesso, se protestiamo perché ha usato il nostro cognome, non
riuscisse più a stargli lontana. Capisci?»
No, Rabiah non capiva. Un conto era non interferire nelle scelte dei suoi
figli e relative famiglie, un conto era fare lo stesso con un’estranea che aveva
messo la sua famiglia in una situazione incresciosa...
In quel momento stava attraversando il fiume sotto una luce bellissima.
Sull’acqua c’era un cigno solitario, che si rassettava le piume prima di
sbattere le ali. Rabiah pensò che fosse un uccello incredibile, sia per le
dimensioni sia per l’aspetto. I cigni sembravano miti, placidi, di buon
carattere. E invece da un momento all’altro potevano diventare molto
aggressivi.
Nelle case sul Temeside incominciavano ad accendersi le luci, ma in quella
di Dena Donaldson le finestre erano tutte buie e, da ciò che Rabiah vide
sbirciando dal bovindo, non si era ancora alzato nessuno. Si fermò un
momento a pensare a Ding, a cosa sapeva di lei e a quello che le aveva
raccontato Missa la sera prima.
Avrebbe voluto provare pena per quella poveretta cui il ragazzo imponeva
una relazione aperta e da un certo punto di vista le dispiaceva davvero per lei,
ma non poteva dare retta a Missa e lasciarla in pace. Doveva assolutamente
parlare con Dena Donaldson. Non era affatto sufficiente aver scoperto perché
il nome Lomax compariva sette volte nell’agenda di un morto.
Ludlow
Shropshire
Ding aveva passato una nottataccia. Dopo aver parlato con Francie Adamucci
aveva fatto un po’ di autocoscienza e aveva riflettuto a lungo sul motivo per
cui si infuriava tanto con Brutus perché si portava a letto tutte quelle che
incontrava. Lei, Dena Donaldson, aveva passato gli ultimi cinque anni a fare
praticamente la stessa cosa a Much Wenlock. Bastava che uno la guardasse
due volte e lei ci stava. «Sono fatta così» non era una spiegazione sufficiente,
per lei. Forse per Brutus sì, ma lei non ci credeva, perché la conseguenza
logica di «sono fatta così» è «e sarò sempre la stessa», e lei non ambiva a
diventare la macchina da sesso numero uno di tutto lo Shropshire. Chi
l’avesse vista in azione la sera prima non l’avrebbe mai detto, però.
Era uscita da sola. Aveva bisogno di una pausa dallo studio e soprattutto
dal testo che doveva consegnare il giorno dopo, si era detta, ma siccome ne
aveva scritto soltanto una minima parte, aveva pensato che tanto valeva
lasciar perdere e si era convinta che le serviva una boccata d’aria. La sua
stanza puzzava di chiuso, una passeggiatina le avrebbe fatto bene.
Ma fra una cosa e l’altra... La passeggiatina l’aveva condotta allo Hart and
Hind, dove non era più stata – da sola – da quando era scappata di corsa dalla
stanza numero due e da Jack Korhonen. Non ci sarebbe entrata neanche
quella sera, se avesse visto qualcuno che conosceva. Purtroppo, però, non
c’era nessuno: se voleva bersi una pinta, doveva ordinarla lei. O a Jack o a
suo nipote.
Si era già avvicinata al bancone dalla parte del nipote, ma Jack aveva detto:
«Ci penso io, Peter. Tu pensa ai bicchieri». Così il nipote era andato a ritirare
dai tavoli i bicchieri sporchi.
«Stavolta sii un po’ più esplicita su quello che vuoi» le aveva detto.
«Cerchiamo di evitare i malintesi, va bene?»
«Non so a cosa ti riferisci» aveva risposto Ding.
«Mettiamola così: sei qui per bagnarti il becco o qualcos’altro?»
«Quanto sei volgare!»
«Lo so. Ma a me volgare piace. A te? Sai, la prima volta che ti ho visto –
mesi e mesi fa – ho pensato che eri perfetta per me. Ho pensato: ’Quella è
una bomba, vedrai che nel giro di qualche settimana ti dà un segnale’.»
«Be’, è passato un po’ più tempo, no?»
«Sì. C’è voluto un filo di più, ma alla fine il segnale è arrivato. Tu bagnata,
io duro. E quel che segue.»
«Non sei un gentiluomo, sai?»
«E tu vieni qui da sola in cerca di gentiluomini? O sotto sotto aspiri a
qualcosa di più eccitante? O sei di quelle che te la fanno annusare e basta
perché hanno qualcosa che non va nella testa?»
«Io non ho niente che non va nella testa.»
«I fatti parlano, no? Il modo in cui ti vedo io è diverso dal modo in cui ti
vedi tu.»
«Io sono una persona normalissima. Nor-ma-lis-si-ma.»
Korhonen aveva annuito. «Se lo dici tu... Al tuo posto, però, vorrei
dimostrarlo con i fatti. Perché, vedi, la maggior parte delle ragazze della tua
età non si rendono conto di quello che fanno e finiscono per cacciarsi in
situazioni da cui esce un ritratto di loro ben diverso da quello che avevano in
testa. E quando succede... Be’, allora, scappano.»
Ding sapeva a che cosa si riferiva Korhonen, ma quella sera era andata così
e nel frattempo erano cambiate tante cose. «Se è questo che pensi, dammi la
chiave di una delle tue stanze. Ci vuole poco a correggere il tiro.»
Jack si era voltato verso il nipote, che era abbastanza vicino e doveva aver
sentito tutto. Ding aveva provato un moto di vergogna. «Tu cosa ne pensi,
Peter? Le do un’altra chance?» aveva detto Jack.
«Se non vuoi dargliela tu, gliela do io, la chance» aveva risposto Peter
posando una pila di bicchieri sul bancone.
«Toglitelo dalla testa» aveva ribattuto lo zio. Aveva allungato il braccio,
aveva preso una chiave e l’aveva data a Ding. «Cinque minuti, bella. Fatti
trovare pronta.»
E lei aveva ubbidito: si era tolta tutto quello che aveva addosso davanti alla
finestra, la schiena contro il vetro e la faccia verso la stanza buia. Non era per
niente agitata. Quando doveva dimostrare a se stessa chi era, Dena Donaldson
non si tirava indietro.
Jack era arrivato e lei gli era andata incontro e gli aveva afferrato una
ciocca di capelli, lunghi e castani, per avvicinare a sé la sua bocca. Mentre lui
la baciava, lei gli aveva cercato il membro. Era già duro. Bene, aveva
pensato. L’avrebbe fatto indurire ancora di più. L’avrebbe portato a
desiderare di farlo come non l’aveva mai fatto e l’avrebbero fatto come lui
non l’aveva mai fatto. Si era impegnata e alle due del mattino Jack Korhonen
aveva avuto ben chiaro che Dena Donaldson non era una che te la faceva
annusare e basta.
Ding era tornata a casa indolenzita. Aveva salito faticosamente le scale,
certa che si sarebbe addormentata appena avesse posato la testa sul cuscino. E
invece si era ritrovata a chiedersi: «Cosa c’è che non va in te, Ding». Poteva
continuare a scopare come un riccio con chiunque incontrasse, ma di certo
questo non l’avrebbe aiutata a rispondere alla domanda.
Quando si era stufata di rigirarsi nel letto, si era messa a sedere con un
gemito, meditando se fare una doccia e andare a lezione. Stava per alzarsi
quando sentì suonare il cellulare.
Era sul comodino. Lo prese e rispose senza controllare chi fosse. Quando
sentì nome e occupazione del suo interlocutore, rimpianse di aver risposto.
«Parlo con Dena Donaldson?» chiese la voce femminile. «Sono Greta
Yates, la psicologa del college. La chiamo per fissare un appuntamento con
lei, sempre che sia ancora interessata a frequentare il West Mercia College. È
ancora interessata?»
A Ding non fregava niente, in realtà, ma non aveva voglia di discussioni e
quindi rispose che sì, certo. Quando pensava di riceverla?
Ludlow
Shropshire
Barbara fece presente a Lynley che fino alla stazione di polizia si poteva
benissimo andare a piedi, ma lui insistette per prendere la macchina. E se una
volta parlato con Gary Ruddock fossero dovuti andare da qualche parte? Se
dopo il colloquio fosse stato necessario parlare con qualcuno o effettuare
qualche verifica, con la macchina sarebbe stato tutto più agevole.
Uscirono dall’hotel alle otto e mezzo e Barbara, facendo da navigatore, si
rese conto che per andare alla stazione di polizia in macchina bisognava
passare davanti alla casa di Finnegan Freeman. La indicò a Lynley e gli
spiegò che da lì c’era anche la possibilità di raggiungere velocemente la
stazione di polizia a piedi o in bicicletta.
A differenza del sovrintendente Ardery, l’ispettore lo considerò un
dettaglio degno di nota. «Ottimo lavoro, Barbara» le disse. «Potrebbe
rivelarsi un’informazione utile.»
Raggiunsero la stazione di polizia all’angolo tra Townsend Close e Lower
Galdeford Street e trovarono l’agente ausiliario nel parcheggio, che li
aspettava appoggiato all’automobile di servizio. Sollevò il bicchiere del caffè
a mo’ di saluto e si avvicinò per presentarsi a Lynley.
«Immagino vorrete vedere l’interno» disse indicando la stazione di polizia.
Lynley disse che sì, volentieri, gli interessava soprattutto visitare la stanza
in cui Ian Druitt era morto. Ruddock rispose che non c’erano problemi, la
porta non era chiusa a chiave e Barbara poteva fargli strada. Aveva
l’impressione che preferissero procedere al sopralluogo senza di lui, che forse
la sua presenza li avrebbe disturbati.
Sebbene non ci fosse granché da vedere, Barbara apprezzò l’offerta di
Ruddock, pensando che così lei e Lynley avrebbero potuto parlare
liberamente. Si incamminò e Lynley la seguì, mentre Ruddock si sedette su
un gradino della scaletta sul retro e inforcò gli occhiali scuri per godersi il
sole primaverile. Si preannunciava una splendida giornata.
Barbara accompagnò Lynley nell’ufficio in cui era morto il diacono. Come
ricordava, c’era ben poco da vedere: la scrivania con accanto la poltroncina
malconcia, una bacheca vuota e pezzetti di scotch alle pareti, dove un tempo
era appeso qualcosa. E poi il guardaroba, con la maniglia a cui Druitt era
stato trovato impiccato. Gli riferì quello che aveva dichiarato la dottoressa
Scannell, e cioè che il decesso in quel tipo di impiccagione avviene a causa
della pressione sulle giugulari che porta a congestione venosa e quindi a
perdita di coscienza e morte. Lynley la ascoltò guardandosi intorno. Spostò la
poltroncina per osservarla, ma non trovò nulla di particolare. Girò per la
stanza scrutando ogni particolare, dalla polvere sul davanzale ai graffi sul
linoleum.
Dopo un po’ uscirono dalla stanza e andarono a visitare il resto della
palazzina: l’ex cucinino, i monitor all’accettazione sui quali scorrevano le
immagini riprese dalle videocamere dell’impianto a circuito chiuso, che
documentavano chi entrava e chi usciva, i computer a disposizione degli
agenti che passavano di lì nel corso dei loro pattugliamenti e gli altri uffici,
nei quali si sarebbe potuto appostare qualcuno. Barbara concluse il tour
portando Lynley all’esterno, a verificare quanto era facile spostare la
telecamera dell’ingresso principale.
Completato il giro, tornarono da Gary Ruddock, che appena li vide si alzò
dal gradino su cui era seduto e si pulì i pantaloni. «È stato utile?» chiese.
«Tutto è utile» rispose Lynley. Si appoggiò al muro di mattoni e guardò il
parcheggio. Barbara era curiosa di vedere dove avrebbe portato il discorso
con Ruddock. «Ho ispezionato la macchina di Druitt. Lei lo conosceva
bene?»
«No, bene no. Se lo incontravo per strada lo salutavo, ogni tanto parlavamo
del tempo e cose così. E sapevo che lavorava alla chiesa di St. Laurence,
ovviamente.»
«Niente di più?»
«Direi di no.» Anche Ruddock guardava il parcheggio, come Lynley.
«Avrei dovuto sapere qualcosa? Nel senso: avete trovato qualcosa sulla sua
macchina?» aggiunse.
«Bella domanda. Perché me l’ha fatta?»
«Be’, non credo che spacciasse droga o facesse niente di losco, però, se
dicevano che era pedofilo...»
«Si riferisce a materiale pedopornografico, foto o roba del genere? No, non
c’era niente del genere. Anche se... Nessuno ha mai accennato al fatto che
Druitt avesse una relazione, però nel vano portaoggetti della sua auto c’era
una confezione di profilattici. Le sembrerò prevenuto, ma non mi aspettavo di
trovare preservativi nella macchina di un diacono scapolo.»
«Magari li distribuiva ai ragazzi» disse Ruddock. «Ne frequentava tanti,
non solo attraverso la chiesa.»
«Conosceva Freeman, per esempio» disse Barbara. «Lo ha confermato
anche il vicecomandante: Finnegan Freeman aiutava Druitt al doposcuola.
Lei lo sapeva, Gary?»
Ruddock annuì. «Magari li dava a lui. A lui e agli altri ragazzi, intendo. È
normale che un uomo di fede si preoccupi che non facciano scemenze.»
«Se non li usava lui, in effetti è la spiegazione più logica» disse Lynley.
«Quanti anni ha Finnegan Freeman?» domandò Barbara. Provò a
rispondersi da sola. «Diciotto? Diciannove? Magari il ragazzo gli ha
confidato che lo faceva ma non usava precauzioni e il diacono si è
preoccupato e ha cercato di rimediare.»
Ruddock non rispose e a Barbara quel silenzio parve strano. Le dispiaceva
che avesse gli occhiali da sole: non riusciva a capire se Ruddock stesse
pensando a come rispondere o a come evitare di rispondere. In entrambi i
casi, non capiva che bisogno ci fosse. L’unica ragione plausibile di
quell’inspiegabile silenzio era che non volesse parlare di Finnegan Freeman
perché sapeva qualcosa sui rapporti fra lui e il morto e perché Finnegan
Freeman era il figlio di un suo superiore.
«Non è nemmeno da escludere che le accuse contro Druitt fossero fondate»
disse. «Magari aveva i preservativi perché molestava veramente i ragazzini,
però ci teneva a fare le cose per benino.»
«Anche questa è un’ipotesi da tenere in considerazione» disse Lynley. «Per
quanto sgradevole sia l’immagine da lei evocata, sergente.»
«La telefonata anonima diceva che Druitt era pedofilo» ricordò Ruddock.
«Sì, ma raramente chi abusa di un minore utilizza il profilattico. Tutto
sommato, l’ipotesi più verosimile è che Druitt li distribuisse ai ragazzi. O che
avesse una relazione di cui finora non sapevamo nulla.»
«Scusate, ma... Posso fare una domanda?» Ruddock era titubante, ma
Lynley lo esortò a continuare con un cenno del capo. «Cosa sperate di
scoprire? Nel senso: dal fatto che Druitt avesse dei preservativi.»
«In tutta onestà, niente di particolare» rispose Lynley. «Ma non è un
dettaglio insignificante e, in attesa di elementi più rilevanti, accogliamo
tutto.»
Burway
Shropshire
Decisero di sentire Flora Bevans. I nuovi elementi che suggerivano
l’esistenza di amanti presenti o passate, mariti gelosi, diverbi, conflitti,
lacrime, passioni e peccati capitali – ovvero i profilattici – imponevano di
indagare più a fondo. Gary Ruddock era stato solo in grado di azzardare
ipotesi, ma forse Flora Bevans sapeva qualcosa di più.
Mentre Lynley studiava l’itinerario, Barbara controllò gli appunti che
aveva preso nei colloqui con le persone citate nell’agenda di Druitt che era
riuscita a contattare fino a quel momento. Nessuno aveva mai accennato alla
possibilità che il diacono avesse un rapporto privilegiato con qualcuno che
non fosse Dio, ma era vero che lei non aveva posto domande specifiche.
Sarebbe stata costretta a ricontattarli tutti, se Flora Bevans non fosse riuscita
a dar loro qualche soddisfazione sulla questione profilattici.
Trovarono il furgone con la scritta Bevan’s Beauties posteggiato nel
vialetto e dedussero che la fiorista era in casa. Barbara suonò il campanello e
Flora si presentò alla porta con il cellulare premuto contro l’orecchio e un
dito alzato a segnalare ai suoi visitatori che era impegnata. Quando riconobbe
Barbara, fece una faccia stupita. «Può restare un attimo in linea?» disse al
telefono, e poi si rivolse a lei: «Non mi aspettavo di rivederla».
«Le presento l’ispettore Lynley. Possiamo parlarle un momento?» replicò
Barbara.
Flora li fece entrare. «Prego, accomodatevi. Finisco con questo cliente e
sono da voi.» Si diresse verso il retro della casa e riprese la telefonata. «Le
dimensioni dell’urna sono più importanti di quanto possa sembrare a prima
vista. Se è troppo grande...»
Barbara e Lynley erano rimasti nel piccolo ingresso. «Si occupa di
cremazioni?» mormorò Lynley.
Barbara aggrottò la fronte. «Come dice, scusi?»
«Parlava di un’urna. Si occupa di cremazioni?»
«Ah! No, no. È una fiorista. Parlava di vasi. Vasi grandi, da esterni. O
anche da interni, non so.»
Flora Bevans li raggiunse. «Scusate. Devo preparare gli addobbi floreali di
un matrimonio, i vasi da sistemare nel giardino dove si svolgerà la festa. La
sposa vuole certi colori, la madre della sposa, siccome il giardino è suo, ne
vuole altri, la madre dello sposo ha già comprato il vestito e pretende che i
fiori siano intonati alla sua mise e anche a quella della testimone, che pare sia
fucsia. Una scelta a mio parere orrenda anche in estate, ma purtroppo non sta
a me decidere. Comunque, veniamo a noi. Non credo siate qui per ordinare
dei fiori. Mi scusi, non ricordo il suo nome.»
Barbara si presentò. Poi ripresentò anche Lynley.
«È per il povero Ian?» domandò Flora. «Volevate rivedere la sua camera?»
«Veramente volevamo parlare di profilattici» spiegò Barbara.
«Ah, be’, allora! Andiamo a sederci: mi avete incuriosita.» Li portò nel
salotto. «Prego, accomodatevi. Metta pure quelle riviste per terra, ispettore.
Posso offrirvi un tè? Un caffè, un bicchier d’acqua? Oh, scusate: non avevo
visto che Jeffrey era lì. Aspetti, lo sposto.»
Jeffrey era un gatto dello stesso identico colore del divano. Era
acciambellato in un angolo e Barbara aveva rischiato di schiacciarlo
sedendosi. Il micio alzò la testa chiaramente infastidito e miagolò seccato
quando Flora lo prese in braccio. Ma dopo che la padrona lo ebbe sistemato
in cima all’albero tiragraffi più gigantesco che Barbara avesse mai visto, da
dove si godeva di una bella panoramica sulla strada, Jeffrey parve
maggiormente disposto a perdonare l’interruzione del suo sonnellino.
Barbara e Lynley rifiutarono educatamente i generi di conforto proposti
dalla padrona di casa e si sedettero. «Non credo proprio di potervi essere
d’aiuto. Profilattici? Perché arrossisco soltanto a pronunciare la parola?»
disse Flora.
«Ne abbiamo trovato una confezione nella macchina di Ian» la informò
Lynley.
«Sul serio? Quindi faceva il monello.»
«Prendendo le dovute precauzioni» replicò Barbara.
«Certo, certo. Ma cosa volete che vi dica al riguardo?»
«Se Druitt aveva quei profilattici, con ogni probabilità li usava» rimarcò
Lynley.
Flora rifletté su quell’affermazione e sulle sue implicazioni. «L’ispettore in
realtà voleva chiederle se lei e Druitt eravate amanti» chiosò Barbara.
«Oddio, no! L’ho già detto alla vostra collega: non c’era assolutamente
niente fra noi, nemmeno la minima attrazione. Io per lui ero la padrona di
casa e lui per me non era niente. E comunque non la persona che volessi far
entrare nel mio letto. Non che ci fosse qualcosa che non andava in lui,
tutt’altro, era un uomo molto gradevole. Ma non c’è mai stata la minima
attrazione fra noi, ripeto, a parte il fatto che fare sesso con un inquilino non è
una grande idea. E se poi quello si piglia delle libertà e non ti paga l’affitto?
Oppure ti si appiccica e non ti molla più? Insomma, non ero io la... come
dire? La beneficiaria dei preservativi di Ian.»
«Druitt ha mai accennato a una o più ’beneficiarie’?» domandò Lynley.
«Magari camuffandolo come un rapporto di altra natura, che non le aveva
destato nessun dubbio?» aggiunse Barbara.
«Be’, è difficile» rispose Flora. «Ian frequentava un sacco di persone, sia
attraverso la parrocchia e la chiesa sia attraverso le attività di volontariato.
Poteva essere chiunque.»
«Maschio o femmina?» chiese Lynley.
«Aiuto! Non ne ho idea. Se aveva una relazione, però, di certo non la
sbandierava in giro. Anzi, era il massimo della discrezione: mai un accenno,
una telefonata, una lettera, una cartolina... E quando ho messo a posto in
camera sua, dopo la tragedia, non ho trovato niente che potesse far pensare...
Che so, un fiore secco, un biglietto del cinema o del teatro...»
«Magari aveva una relazione con una donna sposata» azzardò Lynley.
«Be’, sì, potrebbe essere» replicò Flora Bevans. «Ma, di nuovo, io non ho
mai subodorato niente.»
«Oppure con una minorenne» azzardò Barbara.
«Ossignore! Non mi piace pensare che Ian, uomo di Chiesa e tutto, potesse
mettersi con una ragazzina. Mi sentivo tranquillissima con lui in casa, sa?»
«Nessuno dice che fosse coinvolto in attività criminali» la rassicurò
Lynley.
«Be’... a parte la questione della pedofilia» gli ricordò Barbara.
«Sì, certo.»
«Guardate, non riesco neanche a parlarne. Non ci credo assolutamente.
Non riesco neppure a immaginare che Ian facesse certe cose. Mi spiace non
potervi aiutare, ma sulla base di quanto ho visto e sentito in questa casa, che
come vedete è una casa piccola, Ian era un uomo di fede, moralmente
integerrimo. Ne sono convinta.» Sospirò, si posò le mani sulle cosce e si alzò.
«Mi spiace non esservi di maggiore aiuto» concluse. «Vi siete scomodati per
niente.»
Barbara cercò nella borsa un biglietto da visita e lo porse alla fiorista con la
solita raccomandazione di chiamare se le fosse venuto in mente qualcosa. Poi
anche lei e Lynley si alzarono e si avviarono verso la porta. Prima di uscire, a
Barbara venne in mente di rivolgere un’altra domanda alla padrona di casa:
Ian Druitt conosceva la sua data di nascita? Dopo tutto abitava lì da qualche
anno, no?
«Strana domanda, ma sì, Ian sapeva in che giorno sono nata» replicò Flora.
Barbara glielo chiese e Flora glielo disse.
Senza lasciarle il tempo di domandarle come mai volesse sapere quando
compiva gli anni, Barbara chiuse il taccuino. «Grazie mille. Le manderò gli
auguri» disse.
Una volta per strada, provò a inserire quei numeri nel telefono di Druitt.
Sorrise e alzò gli occhi verso Lynley.
«Tombola!» esclamò.
Bromfield
Shropshire
Visto che erano sulla Bromfield Road, da casa di Flora Bevans andarono a
Bromfield, dove nella traversa subito dopo l’ufficio postale trovarono una
componente essenziale di ogni paesino di campagna: il pub. Impiegarono otto
minuti ad arrivarci, perché la prima volta non svoltarono al punto giusto e
Lynley fu costretto a cercare uno slargo per fare inversione. Barbara passò
tutto il tempo a trafficare con lo smartphone di Druitt che, naturalmente, non
era stato più usato dal giorno della sua morte.
«Bella caccia al tesoro. Che Iddio benedica gli smartphone. Come dice la
canzone, We’re in the money. Da dov’è uscita quella canzone, a proposito?»
disse a Lynley.
«Quello che mi chiedo è dove lei l’abbia sentita, Barbara» osservò Lynley.
«Non essendo rock anni Cinquanta.»
«È comunque un ottimo pezzo da tip tap» lo informò lei.
«Giusto! A proposito, Daidre mi ha pregato di chiederle come va. Il tip tap,
intendo.»
«Daidre? E cosa diavolo le...»
«È molto interessata, sergente. E non è l’unica, come ben ricorderà. Mi
dica: va tutto bene? Glielo domando perché temo mi chiamerà Dee Harriman
e mi conviene farmi trovare informato, se non voglio uscire dalle sue grazie.»
«Le dica che sullo heel drop ormai non mi batte nessuno, ma la danza
irlandese continua a darmi dei problemi. Umaymah è la scelta migliore, se
vuole evitare uova marce sulle scarpette nuove, glielo riferisca.»
«Mi ricordi la data, sergente.»
«Aspetti e speri, ispettore. Non gliela dirò mai.»
Scoprirono che il pub era non soltanto l’unica rivendita di alcolici del
paese, ma anche il ritrovo di un ambizioso gruppo di uomini appassionati di
lavori a maglia. Sotto la guida di un pensionato, che a giudicare dalla pelle
segnata dalle intemperie sembrava aver trascorso tutta la vita in mare, erano
impegnati in un progetto comune che poteva essere o una calza molto lunga o
una sciarpa molto corta. Difficile a dirsi, ma i colori facevano pensare a un
utilizzo in ambito militare. La lezione era accompagnata da abbondanti
libagioni, che contribuivano al buon umore dei partecipanti, decisamente
chiassosi.
Scelsero un tavolo e Barbara tirò fuori il bloc-notes. «Su questi aggeggi»
cominciò, sventolando il cellulare, «resta tutto registrato per due mesi:
chiamate in entrata e in uscita, chiamate perse, messaggi... Non c’è più
bisogno di richiederli a chi di dovere. E visto che questo non è stato più
adoperato dalla sera in cui è morto Ian Druitt, siamo a cavallo. O, perlomeno,
più a cavallo che con un vecchio telefono. Adesso, però, vuole essere così
gentile da ordinarmi una gassosa? Io nel frattempo vedo cosa riesco a
scoprire in termini di chi, come, e perché.»
«Nient’altro?» domandò Lynley prima di avviarsi verso il bancone.
«Qualcosa di commestibile non mi dispiacerebbe. Un pacchetto di patatine,
tipo. Se le hanno, aceto e sale, altrimenti alla cotica di maiale. Grazie, eh.»
Lynley era inorridito, ma eseguì. Nel tempo che impiegò ad attrarre
l’attenzione del titolare, ordinare una gassosa, un caffè e un pacchetto di
patatine, farseli servire e tornare al tavolo, Barbara passò al setaccio le prime
settimane di telefonate. Confrontava i numeri sul cellulare di Druitt con quelli
che si era annotata sul taccuino, gente con cui il diacono aveva a che fare per
le sue varie attività e che compariva sulla sua agenda. Stava cominciando la
quarta settimana, quando Lynley posò il vassoio sul tavolo.
«Grazie» disse Barbara. «Se le va, si pigli pure qualche patatina,
ispettore.»
«Come se avessi accettato» rispose Lynley.
«Mi aprirebbe il sacchetto, per piacere?»
Lynley eseguì. Barbara prese il sacchetto e lo rovesciò, spargendo le
patatine sul piano del tavolo, incurante di germi, batteri, malattie sociali e
sporcizia in genere. Vedendola sgranocchiare, Lynley pensò che a quel punto
l’ispettore Havers doveva aver sviluppato un sistema immunitario degno di
avanzati studi scientifici.
«Abbiamo il reverendo Spencer, una signora della vigilanza di vicinato con
cui ho parlato, Flora Bevans, le due vittime di violenza che compaiono
sull’agenda, il padre e il tipo del gattile. Poi ci sono telefonate da e verso
numeri che io nei miei appunti non ho, ma che intendo chiamare. Prima, però,
finisco i due mesi di dati a nostra disposizione» gli riferì, masticando.
Lynley annuì e prese dalla zuccheriera un cucchiaino di granelli di dubbia
provenienza, cercando di evitare i grumi lasciati dai cucchiaini bagnati di
precedenti avventori. «Quindi finora non ha trovato nulla di esaltante?» disse.
«Finora no, ma qualcosa non mi torna. Per esempio, manca un numero che
mi sarei aspettata di trovare.»
«E cioè?»
Barbara si infilò in bocca una manciata di patatine, masticò e bevve un
sorso di gassosa. «Prima di tutto, a meno che il numero di Rabiah Lomax non
sia fra quelli che non ho ancora identificato, non risultano chiamate fra lei e il
diacono. E a me pare un po’ strano, considerato che si sono visti sette volte e
presumibilmente per incontrarsi dovevano mettersi d’accordo» disse.
«Può darsi che la prima telefonata di Rabiah Lomax a Druitt risalga al
periodo antecedente quello che abbiamo a disposizione, Barbara, e che da
allora in poi non abbiano più avuto bisogno di sentirsi.»
«È possibile, sì» ammise Barbara. «Magari alla fine di ogni incontro si
accordavano per quello successivo. Oppure la Lomax ci ha riempito di palle.»
«Succede, nel nostro lavoro. E poi? Cos’altro non la convince?»
«Gary Ruddock.»
«Per quale motivo?»
«Perché nelle settimane che ho controllato finora, Druitt l’ha chiamato
cinque volte e lui tre.»
«Sul serio?»
«Secondo me, è un dettaglio di cui dobbiamo tenere conto. Tanto più che
Ruddock ci ha detto che lo conosceva solo di vista.» Prese un’altra manciata
di patatine e se le mangiò con gusto. «Ha notato anche lei che, quando il
discorso è caduto su Finnegan Freeman, Ruddock è improvvisamente
ammutolito? Forse sperava che io passassi ad altro prima che gli toccasse dire
qualcosa.»
«O rispondere alle nostre domande su di lui. Su Freeman, intendo.»
«Certo.»
«Dunque c’è qualcosa che non quadra in quello che ci ha raccontato su
Druitt?»
«Ruddock? Eccome. Io la vedo così: una telefonata, passi. Ci può stare.
Ma otto? Otto proprio non me le so spiegare.»
«Non scordiamoci che Druitt prestava assistenza alle vittime di violenza.
Forse era Ruddock a segnalargliele.»
«Forse. Ma cos’è successo a Ludlow in quel periodo, se si sono dovuti
telefonare otto volte in...?» Guardò il telefono. «Undici giorni.»
Lynley annuì pensoso. «Allora magari si sono sentiti per il ragazzo,
Finnegan.»
«Il sovrintendente non ha una bella opinione di lui. Magari aveva
combinato qualche casino e Druitt ne era a conoscenza. Oppure era Ruddock
a sapere qualcosa e aveva chiesto a Druitt di tenerlo d’occhio.»
«Spaccio, furti, scippi, graffiti, tag, risse...»
«Sappiamo che pratica il karate.»
«... affettamento abusivo di cocomeri con il dito indice?»
Barbara alzò gli occhi al cielo. «Scherzi pure, ispettore. Io però glielo devo
dire: l’agente ausiliario Ruddock ha qualcosa che non mi convince, che mi
rode le budella, perché a ogni due per tre esce fuori qualcosa di sospetto sul
suo conto.»
«Vuole spiegarsi meglio, sergente?»
Barbara fece una spunta immaginaria. «Il fatto che la telecamera della
stazione di polizia sia stata spostata a impianto di sorveglianza spento; il fatto
che Ruddock potrebbe essersi appartato con una ragazza sull’auto di servizio
la sera in cui Druitt è morto; il fatto che con me ha sostenuto di non avere una
ragazza quando evidentemente ha qualcosa in ballo con la tizia dell’auto di
servizio; il fatto che dichiara di aver lasciato Druitt da solo per andare a
telefonare ai pub in un altro ufficio. Adesso scopriamo pure che ci ha tenuto
nascoste otto telefonate con il diacono. E probabilmente non è finita qui:
chissà quanto altro scopriremo sul conto dell’ausiliario Gary Ruddock.
Secondo me, è ora di torchiarlo per benino, ispettore.»
«Sono d’accordo con lei sulla necessità di approfondire, Barbara» rispose
Lynley. «Ma attualmente temo che ci sia un unico modo per metterlo in
difficoltà.»
«Ovvero?»
«Il suo cellulare. Potrebbe rivelarci informazioni preziose. Con quello di
Druitt è andata così, no?»
Barbara rifletté un istante, poi replicò. «Possiamo richiedere i tabulati, ma
ci vorranno giorni. Ammesso e non concesso che riusciamo a convincere un
magistrato a emettere un mandato sulla base del poco che abbiamo. E
dall’emissione del mandato alla consegna dei tabulati c’è ancora da aspettare.
Secondo lei, Hillier ci darà tutto questo tempo?»
«Non penso proprio. Per questo proporrei di agire in maniera più diretta e
creativa. Approfitteremo della piena disponibilità che ci ha promesso
l’ausiliario.»
Barbara lo guardò allibita. «Chiedendogli di consegnarci il telefono?»
«Esatto. Ci pensi: come fa a rifiutare? Se la mettiamo giù bene, la nostra
richiesta gli parrà ineludibile. È possibile addirittura che ci prevenga,
consegnandocelo di sua spontanea volontà.»
Barbara rifletté un istante. «Quando vuole, lei è furbo come una volpe,
ispettore» disse poi.
«Mi chiamo Volpe di secondo nome.»
«Perfetto.» Barbara chiuse il bloc-notes e lo infilò in borsa. Poi mise via
anche il cellulare e pulì il tavolo dalle briciole facendosele cadere nella mano.
Per un attimo Lynley temette che se le mangiasse direttamente dalla
superficie del tavolo, come aveva fatto con le patatine. Barbara colse la sua
espressione inorridita. «Anche per me c’è un limite, ispettore.»
«Grazie al cielo» esclamò Lynley. «Ma questo ci rientra» aggiunse
Barbara. E si leccò le briciole dal palmo.
Ludlow
Shropshire
Barbara apprezzava l’approccio diretto proposto da Lynley per mettere le
grinfie sul telefonino di Ruddock, ma aveva delle perplessità sulla sua
efficacia. L’agente ausiliario non sapeva che erano entrati in possesso dello
smartphone del morto, naturalmente, e questo giocava a loro vantaggio.
D’altra parte, poiché Ruddock aveva già ammesso di sapere che Finnegan
Freeman e Druitt si conoscevano, Barbara dubitava che studiare il suo
registro delle chiamate potesse far luce su tutte le ombre che lo circondavano.
Telefonando all’agente ausiliario scoprirono che non si trovava alla
stazione di polizia. Ruddock rimase lievemente sorpreso di sentirli, ma fu
collaborativo come sempre. Spiegò a Barbara che in quel momento si trovava
al centro caravan vicino al Ludlow Business Park, perché uno dei mezzi era
stato forzato. Volevano raggiungerlo lì? Era sulla A49. Oppure potevano
aspettarlo alla stazione di polizia. Purtroppo aveva chiuso a chiave, altrimenti
avrebbe detto loro di accomodarsi.
Optarono per la seconda proposta e Ruddock promise di raggiungerli
prima che poteva. Ma ne avrebbe avuto ancora per un’oretta, pensava.
Durante il tragitto verso la stazione di polizia di Ludlow, Barbara cominciò
a chiamare i numeri registrati sul telefono di Druitt e continuò una volta
arrivati, in attesa che li raggiungesse Ruddock. Scoprì così che Druitt aveva
parlato con i presidi di tre scuole elementari che avevano raccomandato ai
loro alunni il suo doposcuola, con alcuni genitori per organizzare il trasporto
dei bambini a una gara di ginnastica, con l’organista e con uno dei membri
del coro della chiesa per cambiare le musiche. Druitt poi era stato in contatto
con il padre, la madre e tre fratelli in vista dei festeggiamenti per il
novantacinquesimo compleanno della nonna paterna. A certi numeri Barbara
trovò la segreteria telefonica, quindi lasciò un messaggio chiedendo di essere
richiamata.
Quando ebbe concluso il lavoro sullo smartphone, Lynley le spiegò che
aveva pensato al discorso da fare a Ruddock perché non potesse rifiutarsi di
consegnare il cellulare. Glielo espose appena prima che l’ausiliario arrivasse.
Gli andarono incontro nel parcheggio. «Possiamo sederci a parlare un
momento, Gary? Sono emersi alcuni particolari che l’ispettore e io vorremmo
approfondire» disse Barbara.
«Certo» rispose Ruddock. «A vostra disposizione.» Li accompagnò nella
cucina dove aveva già fatto accomodare Barbara una volta, si scusò e andò a
prendere un’altra sedia. Tornò poco dopo spingendo una poltroncina da
ufficio.
Avevano stabilito che sarebbe stato Lynley a dirgli che avevano lo
smartphone di Druitt. Lo aveva lasciato in sagrestia, spiegò, quando Ruddock
era andato a prelevarlo alla chiesa di St. Laurence per trasferirlo alla stazione
di polizia. Ruddock annuì e rimase ad aspettare il seguito.
«Prima di tutto lo abbiamo messo in carica e, quando finalmente siamo
riusciti a risalire alla password e sbloccarlo...» disse Barbara.
«Grazie al sergente Havers» la interruppe Lynley.
«Molto gentile, ispettore» ringraziò lei. «Faccio del mio meglio.» Poi si
rivolse a Ruddock. «Come dicevo, quando finalmente siamo riusciti a
sbloccarlo, abbiamo controllato il registro delle chiamate. In entrata e in
uscita.»
«Nei due mesi precedenti la morte di Druitt. Si può accedere a due mesi di
dati e da marzo il telefono non era più stato usato» intervenne Lynley.
Ruddock li sorprese. «E avete trovato il mio numero. Ci siamo parlati
spesso, in quel periodo» disse.
«Infatti il suo numero compare» disse Barbara. «Sia in entrata che in
uscita.»
«Stiamo interrogando tutti coloro che sono stati in contatto telefonico con
Druitt in quei due mesi per farci dire il motivo della chiamata» spiegò
Lynley.
«Quindi volete che vi spieghi perché ci sentivamo, suppongo.» Guardò
Barbara, poi Lynley, poi Barbara.
«Esatto» rispose lei.
«Me lo fate vedere un attimo?» chiese Ruddock. Barbara gli consegnò il
cellulare di Druitt. «Torna indietro di un bel po’» disse lui.
«Perché non è più stato usato dalla sera della morte» ribadì Barbara.
Ruddock annuì pensoso. Sembrava riflettere su cosa dire e cosa no. «Non
c’entra niente con quello che è successo. Mi chiamava per Finnegan
Freeman» dichiarò alla fine.
«Il figlio del vicecomandante» disse Lynley.
«Druitt era preoccupato. In realtà tutti quelli che conoscono Finn prima o
poi si preoccupano. Tanto per cominciare, c’è il suo aspetto. E poi i modi.
Non è cattivo, ma si rende antipatico. Druitt lo seguiva con più attenzione,
penso. Nel senso che se avesse avuto come assistente un altro ragazzo,
sarebbe stato meno attento.»
«Temeva che potesse combinare qualche guaio?»
«Probabile. Voleva sapere se Finn era mai finito nei pasticci, da quando
era a Ludlow. A parte bere troppo, si era comportato bene, e io gliel’ho
detto.»
«L’ha chiamata più di una volta, però. Come mai? Non era convinto?»
«Se ben ricordo, aveva una brutta sensazione e cercava qualcuno che gliela
confermasse oppure gliela facesse passare. Io non sono stato capace di fare né
una cosa né l’altra. Il ragazzo ogni tanto si fuma una canna, ma lo fanno un
po’ tutti. Beve, ma non si è mai messo nei guai. Questo ho detto a Druitt.
Dopo un po’, però, lui mi ha richiamato per farsi dare i recapiti dei genitori.
Non ha voluto dirmi il motivo, mi ha spiegato semplicemente che aveva
bisogno di parlare con loro ma non voleva che il ragazzo lo sapesse e quindi
non poteva chiedere a lui direttamente. Sapeva che sua madre lavora in
polizia – glielo deve aver detto Finn, oppure qualcun altro del doposcuola – e
voleva che io lo aiutassi a contattarla di nascosto da Finn.»
«Se voleva discuterne con i genitori, sarà stata una cosa seria» osservò
Lynley. «Non le ha accennato proprio nulla?»
«Gliel’ho chiesto, ma lui mi ha risposto che non era sicuro e che non
voleva giudicare prima di aver appurato la cosa» rispose Ruddock. «Ho avuto
l’impressione che fosse preoccupato che Finn... non lo so, che avesse una
cattiva influenza sui bambini, forse. E volesse confrontarsi con i genitori.»
«In che senso?»
«Non lo so» replicò Ruddock. «Poteva essere qualsiasi cosa. Chiedergli se
da bambino avesse mai rubacchiato gli spiccioli delle offerte in chiesa, o se
da bambino gli avevano dato tanti antidolorifici in seguito a qualche
infortunio, per esempio. Se era soggetto a bruschi cambiamenti di umore
senza apparente motivo. Ma sono ipotesi mie: Druitt non mi ha detto per
quale motivo voleva parlare con i genitori di Finn. Io gli ho dato il numero
della madre, che conosco perché lavora in polizia. Basta, nient’altro.»
«Finn Freeman salta fuori spesso in questa indagine» commentò Lynley.
«Tutte le strade portano a lui» sentenziò Barbara.
«Mi spiace non potervi dire di più» mormorò Ruddock. «Quello che
sapevo ve l’ho detto.»
«Riconosce qualcuno di quei numeri?» chiese Lynley, indicando con un
cenno lo smartphone che Ruddock aveva ancora in mano.
Ruddock li guardò servizievole e mortificato al tempo stesso. «Sono un
disastro, ve lo devo confessare. Quando devo telefonare, cerco nella rubrica e
premo il tasto. Non so nemmeno il mio numero. Sono anche discalculico,
capite? Sbaglio le cifre» spiegò.
Barbara ricordava che Ruddock aveva ammesso sin da subito di avere
problemi di apprendimento. Fece un cenno impercettibile a Lynley. Silenzio.
Si finsero immersi in profonde meditazioni: Barbara guardava fisso l’orribile
linoleum grigio con le braccia conserte e le labbra arricciate e Lynley, fronte
aggrottata, si tormentava la cicatrice sul labbro superiore e guardava fuori
della finestra.
Dopo trenta secondi buoni, Lynley parlò. «C’è un punto che lei forse è in
grado di chiarirci.»
«Se posso, volentieri» rispose Ruddock.
«Riguarda la sera della morte di Druitt. Lei ha dichiarato al sergente
Havers di aver saputo che in città era in corso un’abbuffata alcolica e di
essere intervenuto telefonando a una serie di pub. Perciò ha lasciato Druitt da
solo e mentre lei non c’era lui si è impiccato.»
«Mi dispiace tantissimo di...»
«La capisco. Ma ho controllato quanti pub ci sono a Ludlow e ho calcolato
che per chiamarli tutti e convincerli a chiudere...»
«Non voleva che chiudessero, ispettore. Voleva soltanto che smettessero di
servire alcolici ai ragazzi del college» precisò Barbara.
«Va bene» disse Lynley. Poi si rivolse a Ruddock. «Il sergente Havers e io
ci chiedevamo come mai lei abbia impiegato tanto tempo. Lei ha dichiarato di
aver impiegato... Barbara?»
Havers fece finta di controllare i propri appunti. «Poco meno di novanta
minuti, ispettore.»
«Insomma, ci siamo domandati se non fosse successo qualcos’altro, in quei
novanta minuti.»
«No, no.» Ruddock, però, era arrossito.
Barbara si protese verso di lui. «Gary, la prima volta che sono stata a
Ludlow, una sera sono venuta a vedere la stazione. Saranno state... non so...
le dieci e mezzo? C’erano tutte le luci spente, ma a un certo punto ho visto
un’auto di servizio.»
«C’è quasi sempre» osservò Ruddock.
«Era proprio in fondo, nel punto più buio e più lontano. In sé, non vuol
dire niente, ma quella sera dall’auto ho visto scendere una ragazza e poi lei,
Gary. Siete rimasti un attimo lì a guardarvi in cagnesco e poi siete risaliti. E
siete rimasti un po’.»
Ruddock restò zitto e immobile.
«Quindi» disse Barbara, come fosse un punto e a capo. «Abbiamo un lui e
una lei su una macchina ferma nel punto più buio di un parcheggio vuoto.
Cosa le fa pensare?»
Ruddock stava già per replicare, ma Barbara non aveva finito e lo anticipò.
«Mi pare di ricordare che lei mi avesse detto di non avere una fidanzata. Se
non era la sua fidanzata...?»
«Non potevo raccontarle la verità, sergente.» Era diventato paonazzo. «Se
no lei sarebbe andata a cercarla e io non potevo permetterlo. Mi dispiace. È
colpa mia, lo so. È colpa mia se il diacono ha fatto la fine che ha fatto. Ma
non potevo sbandierare ai quattro venti... Nella mia posizione...»
Occorreva fare chiarezza. Barbara lanciò un’occhiata a Lynley per capire
le sue intenzioni. «Si riferisce forse al fatto che quella sera lei lasciò solo
Druitt non soltanto per telefonare ai pub, ma anche...» chiese Lynley a
Ruddock.
«Per fare sesso» concluse Barbara, sapendo che Lynley, gentiluomo
com’era, avrebbe usato un eufemismo. «Per divertirsi un po’. Sull’auto di
servizio posteggiata qui fuori.»
Ruddock evitò il suo sguardo. «Ci eravamo già messi d’accordo. Io e lei.
Prima che mi dicessero di portarlo dentro. Senza specificarmi per quale
motivo, lo ripeto. Della pedofilia io non sapevo niente. Sapevo solo che
doveva aspettare lì che lo venissero a prendere per portarlo a Shrewsbury. E
quindi davo per scontato... Cioè, non immaginavo minimamente che potesse
andare a finire in quel modo.»
«Lo ha lasciato da solo.» Lynley aspettò che Ruddock annuisse. «E mentre
era da solo Druitt ha avuto il tempo di impiccarsi» aggiunse.
«Oppure l’assassino ha avuto il tempo di ucciderlo e inscenare il suicidio»
interloquì Barbara. Ruddock si voltò di scatto per guardarla in faccia. «Non
possiamo escluderlo, giusto? È possibilissimo che mentre lei e la sua amica ci
davate dentro come ricci l’assassino abbia raggiunto Druitt, sapendo che lei e
la sua amica eravate impegnati altrove» gli disse.
«No!» esclamò Ruddock. «È impossibile! Non è andata così!»
«Ci dica come si chiama la donna che era con lei» chiese Lynley.
«Dobbiamo interrogare tutte le persone informate dei fatti, Gary» disse
Barbara. «E quindi anche questa donna.»
«Lei non c’entra niente» protestò Ruddock, accalorandosi. «Non sa... Non
sapeva nemmeno chi era Druitt.»
«Sarà, ma dobbiamo chiederlo alla signorina in questione» insistette
Lynley.
«In fondo una sua conferma per lei sarebbe un alibi, Gary.»
Questa considerazione ebbe l’effetto che avevano sperato, notò Barbara.
Ruddock era sull’orlo del baratro: poteva buttarsi di sotto oppure fare un
passo indietro. Non aveva altre scelte.
«Non voglio che la trasciniate in questa storia. È sposata. Mi assumo le
mie responsabilità. Ho mancato ai miei doveri e sono l’unico colpevole: lei
non c’entra» rispose Ruddock con voce roca.
«Ci dia il cellulare, allora» disse Barbara. «La cerchiamo direttamente lì.
Lo capisce, Gary? È la cosa più semplice, meno ufficiale. Almeno resta fra
noi. Se scomodiamo un giudice per avere un regolare mandato, la cosa
diventa di pubblico dominio...»
Erano arrivati al dunque. Dipendeva tutto da quello che l’ausiliario voleva
o non voleva far sapere, specie ai suoi superiori. Barbara e Lynley contavano
sul fatto che l’interesse personale di Ruddock avesse la meglio su tutto il
resto.
E così fu. Ruddock consegnò loro il cellulare.
«Se la sua amica è registrata qui, la troveremo» disse Lynley. «C’è
qualcosa che vuole dirci, prima che cominciamo i nostri controlli?»
«Non è registrata lì» disse Ruddock.
«Lo appureremo» replicò Lynley. «C’è qualcun altro registrato qui di cui
ci vuole parlare o preferisce che ci arriviamo da soli?»
Ruddock rifletté un momento guardando la finestra, poi spostò lo sguardo
su di loro. Impossibile dire se avesse deciso di mentire o se avesse soppesato
le conseguenze di ciò che stava per dichiarare. «Troverete un certo numero di
telefonate con Trevor Freeman.»
«Il marito del vicecomandante» chiarì Barbara.
«Mi ha chiesto di tenere d’occhio Finn, che a casa ha dato un po’ di
problemi. Vedete, Trev pensa che io possa fargli da fratello maggiore, o
qualcosa del genere. Il problema è che lui e Clo...»
«È molto in confidenza con il vicecomandante, vedo» disse Barbara, che
non riusciva nemmeno a prendere in considerazione di chiamare il
sovrintendente Isa o Hillier Dave. Peraltro, se solo si fosse azzardata a
provarci, si sarebbe beccata un calcio nel sedere.
«Non le do del tu e in pubblico non la chiamo per nome» precisò Ruddock.
«Il fatto è che mi ha preso sotto la sua ala protettrice e mi ha presentato ai
suoi familiari, soprattutto a Finn. Ci siamo simpatici, io e Finn.»
«Capisco» rispose Barbara. Poi si rivolse a Lynley. «Ispettore?»
Lynley annuì. «Abbiamo chiarito ciò che ci serviva.» Si alzò. «Tuttavia, è
sorprendente» aggiunse.
«Cosa è sorprendente?» chiese Ruddock.
«Che Finnegan Freeman abbia un ruolo così centrale in questa vicenda.»
Barbara e Lynley se ne andarono con il cellulare dell’ausiliario.
«Scommetto che si è già precipitato sul telefono fisso per contattare tutti
quelli di cui ricorda il numero. Cercherà di avvertire più gente che può»
osservò Barbara mentre salivano sulla Healey Elliott.
«Non saprei» ribatté Lynley. «Sulla questione del cellulare, tendo a
credergli. Non pensa, Barbara, che la tecnologia ci stia rimbecillendo? Non
memorizziamo più i numeri, non li annotiamo neanche su agende e rubriche
perché basta un clic sullo smartphone per...»
«... metterci in contatto con Tizio o con Caio» concluse per lui Barbara.
«Sì, è vero.»
«Il progresso istupidisce.»
Barbara gli lanciò un’occhiata significativa. «Ispettore, quando pensa di
mettersi al passo con i tempi? La trovo in ritardo di una decina d’anni, o forse
di un centinaio...»
«Anche Helen me lo rimproverava» rispose Lynley con un sorriso. «Ma,
visto che anche lei aveva difficoltà a usare il microonde, mi perdonava questa
mia tendenza al luddismo.»
«Mah» sbuffò Barbara.
«L’importante è che abbiamo il cellulare di Ruddock.» Abbassò il
finestrino, ma non mise in moto. «Posso farle una domanda, sergente? Lei
crede alle telefonate fra Ruddock e Trevor Freeman?» continuò.
«Riguardo al giovane Finnegan? Alla storia che l’ausiliario gli facesse da
fratello maggiore?» Aspettò che Lynley annuisse. «È possibile che quel
ragazzo abbia bisogno di un angelo custode. Al sovrintendente non ha fatto
una buona impressione» aggiunse.
«Andiamo da lui, sergente. Vediamo che impressione farà a noi.»
Worcester
Herefordshire
Trevor Freeman doveva ammettere che la relazione con la moglie era iniziata
secondo i più triti stereotipi. Lei lavorava nella divisione investigativa da
poco, fresca di studi ma ambiziosa e determinata a far carriera. E ad avere
una forma fisica perfetta, tanto che si era procurata un personal trainer. E il
personal trainer era lui.
L’aveva trovata irresistibile fin da subito. Sapeva per esperienza che dopo
un certo numero di settimane di allenamento intenso i suoi allievi
incominciavano a battere la fiacca, maschi o femmine che fossero. Ma Clover
no. Si presentava puntualmente in palestra e svolgeva gli esercizi che lui le
aveva assegnato grugnendo e sudando senza ritegno. Questo, naturalmente,
l’aveva resa ancor più interessante agli occhi di Trevor.
E così l’aveva corteggiata, invitandola a prendere il caffè alla fine
dell’allenamento, offrendole l’aperitivo al bar dietro l’angolo, proponendo
una cena fuori. Niente: Clover rifiutava sempre. Trevor stava già per
arrendersi quando sua cognata lo aveva invitato a una festicciola
avvertendolo che aveva invitato anche una conoscente single che, a suo
parere, sarebbe andata bene per lui. L’aveva conosciuta a una corsa di
beneficenza, gli aveva spiegato.
Trevor era andato alla festa e aveva scoperto che la conoscente di sua
cognata, la donna single con interessi molto simili ai suoi, era Clover. Erano
rimasti stupefatti entrambi, erano scoppiati a ridere e avevano spiegato agli
altri ospiti il motivo di quella reazione. Dopo la festa, Clover aveva accettato
l’invito a cena di Trevor.
Al ristorante aveva messo subito in chiaro che non intendeva dare seguito
all’evidente attrazione che c’era fra loro. «Non sperare di portarmi a letto a
fine serata. So come funziona con voi maschietti e preferisco non lasciare
spazio ai fraintendimenti. Almeno hai chiara la mia posizione» aveva
decretato prima ancora di prendere in mano il menu.
Lo aveva detto con un tono così pragmatico che lui si era lasciato
completamente conquistare da quella che aveva giudicato un’onestà
disarmante, un’onestà cui sua moglie non era mai venuta meno per tutti
quegli anni di matrimonio. Adesso, però, era entrato in scena Gaz Ruddock, e
Trevor aveva sentito la moglie promettergli «ne parliamo in un altro
momento». Certo, Trevor avrebbe potuto scoprire nel giro di un quarto d’ora
che cosa avevano ancora da dirsi sua moglie e l’ausiliario, che necessità
avevano di «parlarne in un altro momento», se avesse evitato di ragionare con
il basso ventre.
Era nel suo ufficio della Freeman Athletics a riflettere su questo punto
quando gli squillò il telefono. Aveva appena deciso di scendere nella sala
delle macchine perché aveva visto uno dei personal trainer prendersi un po’
troppa confidenza con una signora che andava lì per dimagrire ed era ancora
abbastanza fuori forma da accogliere con entusiasmo le avance di un giovane
stallone, purché non fossero eccessivamente sguaiate. E poiché Boyd era
bravissimo a corteggiare le donne, Trevor trovava indispensabile intervenire.
Il telefono tuttavia lo bloccò. Smise di guardare oltre la vetrata e vide che
era la linea privata: Clover o Finn, pensò.
Invece era Gaz. «Ho provato a chiamare Clo, ma non è in ufficio e al
cellulare non risponde. Posso parlare con lei, Trev? Così poi le riferisce?»
Trevor capì al volo che gli era capitata tra le mani una ghiotta occasione.
«Mi deve lasciare un messaggio sull’argomento di cui lei e Clo vi eravate
ripromessi di parlare, Gaz?» rispose. Non si premurò di esprimere il concetto
in maniera più diplomatica.
Attimo di silenzio. «Non capisco» disse Gaz, poi.
«Ieri sera, prima che lei andasse via, vi siete detti che vi sareste sentiti a
breve.»
Altro silenzio, nel quale Trevor ebbe l’impressione che Gaz Ruddock
stesse cercando di farsi venire in mente una scusa credibile. «Ah, sì» disse
alla fine. «È per via di Scotland Yard. Telefono per loro. Sono venuti due
volte e pensavo che Clo lo dovesse sapere.»
«Quindi non mi ha chiamato per quello di cui vi eravate ripromessi di
parlare» concluse Trevor. Voleva mettere l’ausiliario con le spalle al muro,
finalmente. A Clover era impossibile estorcere informazioni che si era messa
in testa di tacere, ma per fortuna Gaz Ruddock non era altrettanto astuto.
«Senta, le posso dire soltanto che... Cioè, soprattutto riguarda Finn. Clo mi
ha chiesto di... in un certo senso di coinvolgere Finn in qualcosa di utile,
diciamo. Visto che ora Druitt è morto e non può più fare il volontario al
doposcuola. Cioè, magari continueranno a tenere i bambini in un modo o
nell’altro, ma per adesso... Voglio dire, ora come ora è tutto sospeso. Magari
un domani... Se qualcuno se ne farà carico, o se assegneranno un altro
diacono alla chiesa di St. Laurence, o non so cosa. Perciò Clover si chiedeva
come se la cavasse Finn, ora che non ha più il volontariato a tenerlo
occupato» disse Gaz.
A Trevor non piaceva la piega che aveva preso la conversazione. «Sono al
corrente dell’accordo che avete preso, Gaz.»
Gaz rimase interdetto. «Quale accordo?»
«Quello che le ha proposto Clover l’autunno scorso. Le ha chiesto di tenere
d’occhio Finnegan e riferire a lei. Per questo la cerca, Gaz? Ha informazioni
da passarle sul conto di mio figlio?»
«Ah.» Trevor sentì che Gaz buttava fuori il fiato. Forse aveva tirato un
sospiro di sollievo. «Non propriamente. Ma mi fa piacere sapere che Clo le
ha parlato di questa cosa. Gliel’ha raccontato ieri sera? Ho avuto
l’impressione che lei avesse subodorato qualcosa, Trev.»
«Fin lì ci sono arrivato. Mi spiega cos’altro state tramando, voi due?»
«Non capisco.»
«Io penso che invece lei capisca benissimo, Gaz. Vorrei sapere come mai
ha chiamato me invece di lasciarle un messaggio in segreteria. O aveva paura
di compromettersi in qualche modo?»
«In che senso? Di cosa sta parlando, Trev?»
Trevor guardò di nuovo oltre la vetrata e vide che Boyd si era seduto a
cavalcioni sulla panca di fronte alla cliente di mezz’età, tutti e due a gambe
divaricate. Ossignore! Doveva togliere a Boyd certe idee dalla testa, ma in
quel momento aveva una cosa più urgente cui pensare. «Sto parlando del
fatto che lei e mia moglie avete preso accordi per risentirvi, quando lei l’ha
salutata ieri sera. E, prima di riferire a Clover qualunque messaggio, voglio
capire come stanno davvero le cose» disse a Ruddock mentre fulminava con
lo sguardo Boyd.
«Trev.» Il tono di Gaz era implorante. «Giuro su Dio che non so proprio a
cosa alluda. Insomma, io telefonavo perché pensavo che Clover dovesse
sapere che quelli di Scotland Yard mi hanno parlato di Finn, visto che Druitt
lo frequentava.»
«Ma cosa c’entra questo? Gaz, mi vuole spiegare che cosa sta
succedendo?»
«Niente. Clover mi ha chiesto di tenere d’occhio Finn e io credevo... mi
sembrava che...» Si interruppe, come per farsi coraggio o per riordinare i
pensieri. Quando riprese, lo fece con una certa precipitazione. «Senta, Trev.
Druitt mi aveva chiamato un paio di volte per parlarmi di Finn e io l’ho
riferito a Clo. L’ho riferito anche a quelli di Scotland Yard, oggi. Non ho
potuto evitarlo, perché hanno recuperato lo smartphone – di Druitt, intendo –
e quindi avevano visto che mi aveva cercato e mi hanno chiesto il motivo.
Adesso si sono presi pure il mio. È anche per questo che l’ho chiamata,
Trev.»
«Le hanno preso il cellulare, Gaz? Per farne cosa?»
«Per controllare tutto.»
«Tutto cosa?»
«Vede, certe volte, per parlarmi di Finn, Clo non usava il proprio cellulare
ma il suo, Trev. Cioè, me ne sono accorto perché a un certo punto ho visto
che mi chiamava sempre da quel numero, che prima invece non usava mai.
Insomma, di questo si tratta.» Ci fu un nuovo silenzio, e Trevor ebbe il
sospetto che Gaz si stesse facendo coraggio. «Alla fine gli ho detto – a quelli
di Scotland Yard, intendo – che mi avevate chiesto di dare un occhio a Finn e
che lei mi telefonava regolarmente per avere notizie, Trev. La contatteranno,
immagino. Chiameranno tutti i numeri sul mio cellulare. Vorranno una
conferma da parte sua, perché la procedura è quella. È meglio che gli dica che
mi aveva chiesto lei di tenere d’occhio Finn, perché se mettiamo di mezzo
Clover poi magari sorgono problemi. Non avrebbe senso, le pare?»
Gaz stava cercando di coprirsi: Trevor lesse fra le righe l’intenzione di
Ruddock come fosse stata una manifestazione d’intenti scritta a caratteri
cubitali. Voleva coprire se stesso e anche Clover e sarebbe stato interessante
sapere il perché. Ma incaponirsi a cavare informazioni dall’ausiliario in quel
momento sarebbe stato inopportuno e quindi promise di seguire le sue
raccomandazioni. Prima, però, doveva confrontarsi con la moglie.
Hindlip
Herefordshire
Prima di partire per Hindlip, Trevor diede una controllata al registro delle
chiamate sul suo cellulare. Non sapeva da quanto tempo andassero avanti le
conversazioni intime tra Clover e Gaz, perché poteva accedere soltanto a una
parte dei dati, ma gli bastò uno sguardo veloce per contare sei telefonate nel
periodo in cui la Metropolitan Police era stata a Ludlow la prima volta, tutte
la sera tardi o la mattina presto. Ma certo, pensò. Erano gli unici momenti in
cui Clover poteva mettere le mani sul cellulare del marito.
Quando arrivò alla sede della West Mercia Police, seppe dalla segretaria
che Clover non era in ufficio, ma al centro di addestramento. Stava tenendo
una lezione ai futuri agenti ausiliari sul tema Garantire la sicurezza sul
territorio. Voleva raggiungerla al centro e intercettarla a fine lezione oppure
preferiva aspettarla lì?
Trevor rispose che sarebbe andato a sentire la lezione di Clover, specificò
che sapeva arrivare al centro di addestramento da solo e si incamminò.
Affrontarla sul lavoro era stata una scelta meditata: Clover era abilissima a
scantonare e lui era troppo debole per resistere alle strategie diversive che
metteva in atto. Era necessario che la discussione avvenisse in un ambiente
dove lei non potesse contare sulla propria capacità di scatenare gli istinti
animali di Trevor.
Il centro di addestramento era oltre la cappella all’estremità dell’edificio
principale. Era una struttura di servizio, in netto contrasto con la sontuosa
villa antica in cui Clover, il comandante e i vari capireparto avevano i loro
uffici. Per entrare bastava aprire una semplice porta, poi si trattava di trovare
l’aula in cui i futuri ausiliari ascoltavano le sagge parole dei funzionari di
polizia seduti in cattedra.
Trevor si fermò in fondo all’aula, in piedi vicino alla doppia porta, testa
lievemente inclinata da una parte e occhi fissi sulla moglie. Quando lei lo
vide, si limitò ad arricciare le labbra nel più piccolo dei sorrisi. Era sorpresa
di vederlo lì, e non essendo stupida doveva aver capito che era successo
qualcosa. Non poteva sapere cosa, perché la sua presenza al corso aveva
impedito a Gaz di contattarla. E se anche fosse stata raggiungibile, con ogni
probabilità Gaz non avrebbe corso il rischio di chiamarla, nemmeno da un
telefono fisso, perché se il suo obiettivo era di proteggerla di certo conveniva
evitare qualunque contatto diretto.
Alla fine della lezione, gli ausiliari uscirono. I colleghi insegnanti di
Clover si scambiarono qualche commento raccogliendo le loro cose e se ne
andarono anche loro. Clover rimase da sola alla cattedra, impegnata a infilare
carte e fascicoli dentro la ventiquattrore.
Trevor le andò incontro e non perse tempo in convenevoli. «Perché
telefoni a Gaz dal mio cellulare? Non me ne sono accorto da solo: me lo ha
detto lui. Ha dovuto consegnare lo smartphone agli ispettori di Londra.»
«Ciao, tesoro. Anche a me fa molto piacere vederti» lo salutò lei. «È stata
una sorpresa alzare gli occhi e trovare il mio bel maritino in fondo all’aula.
Quando sei arrivato? Devi esserti annoiato a morte.»
«Gaz mi ha domandato un favore e ho pensato fosse meglio consultarti.
Vuole che io confermi ai due ispettori di Scotland Yard che sono stato io a
chiedergli di tenere d’occhio Finn e che le diverse chiamate in entrata e uscita
dal mio cellulare riguardavano la mia richiesta e le sue successive
comunicazioni a proposito di Finn. In parole povere, se non ti fosse chiaro,
mi ha chiesto di mentire alla polizia. A beneficio suo ma, evidentemente,
anche tuo: se io dicessi ai due ispettori che non so nulla di tutte quelle
telefonate da e per il numero di Gaz Ruddock nel mio registro delle chiamate
si metterebbero a indagare per scoprire chi è stato a usare il mio cellulare. Mi
segui, Clover?»
Lei passò un dito sulla cucitura della ventiquattrore e Trevor aspettò con
ansia che parlasse. Quando Clover aprì finalmente bocca, non fu per dargli la
risposta che lui si aspettava. «Capisco come la vedi. ’È stata proprio furba, ha
usato il mio cellulare per organizzare le tresche con l’amante perché l’ultima
cosa che uno va a controllare in certi casi è il proprio telefono.’ È questo che
pensi, vero? Mi vedi già accarezzare languidamente i possenti pettorali di
Gaz in attesa di avvinghiarmi a lui in chissà quale misteriosa alcova?»
Si aspettava che lui negasse, ma Trevor intuì che l’argomento di cui voleva
discutere con Clover, ovvero la promessa di risentirsi a breve che si erano
scambiati lei e Gaz, rischiava di trasformarsi in un diversivo per evitare
l’altro discorso che dovevano affrontare. Per distrarlo dal nocciolo del
problema, ovvero Finn, Clover gli aveva appena dipinto uno scenario che ben
si adattava allo stralcio di conversazione che Trevor aveva sentito e facendo
leva sulla sua gelosia cercava di metterlo al centro della discussione. Era una
sua classica strategia.
«Se anche tu, come Gaz, vuoi che menta alla polizia, nel caso mi
interpellino, bisogna che mi spieghi la faccenda nei particolari, perché devo
avere ben chiaro il quadro della situazione.»
Clover rimase di nuovo in silenzio. Fuori, da qualche parte, dei cani
abbaiarono. Era ora di cena, pensò Trevor. «E va bene. Non ci girerò attorno.
Immagino che tu voglia i fatti nudi e crudi» disse infine Clover.
«Esatto.»
«Va bene. Ian Druitt aveva dei dubbi su Finn, e da parecchio tempo. Così
ha telefonato a Gaz per parlargliene, sapendo che lui e Finnegan si
conoscono.»
«Che genere di dubbi?»
«Dubbi del tipo: ’È un bravo ragazzo ma ho paura che nasconda qualcosa e
spero che quel qualcosa non sia quello che penso io’. Gaz mi ha telefonato
per riferirmi il suo colloquio con Druitt. Dovevamo decidere come
comportarci.»
«In che senso, Clover? Smettila di tergiversare e parla chiaro. Non volevi
espormi i fatti nudi e crudi?»
«E va bene: alcol, marijuana, condotta non proprio irreprensibile in
presenza di minori.»
«Cosa significa di preciso? Stai dicendo che Finn distribuiva birra e vino ai
bambini del doposcuola? Che gli vendeva l’erba? Che li portava sulla cattiva
strada attraverso...» Si interruppe a metà. «Aspetta. Non stai insinuando che
Finn faceva qualcosa a quei ragazzini, vero? È di questo che stiamo
parlando?»
«Io non sto insinuando un bel niente. Ti sto riferendo quello che mi è stato
detto. Me lo hai chiesto e io ti ho risposto.»
«Non ci credo.»
«Neanch’io ci ho creduto, lì per lì.»
«Come sarebbe? Adesso ci credi?»
«Senti, ti sto dicendo quali erano le perplessità di Druitt su Finn e il motivo
per cui io e Gaz abbiamo parlato al telefono. Insomma, io lo avevo incaricato
di tener d’occhio Finnegan e Druitt gli aveva confidato di temere che
Finnegan avesse dei comportamenti potenzialmente pericolosi, del genere che
poi ti perseguita per il resto della tua esistenza. Non so a cosa si riferisse –
alcol, droga, sesso... – e continuo a non saperlo. In ogni caso, non volevo che
nostro figlio finisse nei guai, soprattutto perché ero stata io a suggerirgli di
impegnarsi con i bambini. La mia idea, alla luce dei fatti, è che Finnegan
avesse visto Druitt comportarsi in maniera sconveniente con un bambino e
che Druitt aveva preferito giocare d’anticipo accusando Finnegan prima che
Finnegan accusasse lui.»
«E dopo?»
«E dopo Gaz me l’ha riferito. Volevo che Finnegan prendesse le distanze
da Druitt il prima possibile, ma quel testone non ne voleva sapere di
abbandonare i bambini. Capisci che impressione poteva fare un
atteggiamento del genere? Sosteneva che il suo lavoro era importante, che
con Druitt andava d’accordo, che riusciva anche a dare delle piccole
dimostrazioni di karate ai bambini e così via. Quindi gli ho dovuto dire una
verità parziale, ma lui – sai com’è Finnegan – non ci ha creduto nemmeno per
un istante.»
«Quale verità parziale?»
«Soltanto che Druitt aveva espresso a Gaz alcune perplessità sul modo in
cui Finnegan interagiva con i bambini. Mi sono tenuta sul vago. Non potevo
che tenermi sul vago.»
«E perché, Clover? Perché non gli potevi dire chiaro e tondo cos’era
successo, dandogli almeno la possibilità di difendersi?»
«Ma ti senti, perdio? Hai presente cosa significa dare a Finnegan la
possibilità di difendersi? Temevo che si infuriasse e che sfogasse la sua
rabbia in un modo che poteva finire per ritorcersi su di lui.»
«Quindi tu pensavi che...»
«Non pensavo niente. Volevo soltanto che Finnegan smettesse di
frequentare Druitt e il doposcuola. Poi invece a Druitt hanno dato addirittura
un premio ed è arrivata una denuncia anonima in cui lo accusavano di
pedofilia...»
«Ossignore! Tu pensi che sia stato Finn a telefonare al 999, vero? Per
ripicca, visto che Druitt era andato a parlare con Gaz.»
«Io non penso niente. Non so niente. Ma quando ho sentito di quella
telefonata anonima, non ho potuto ignorarla e ho chiesto di portare Druitt in
stazione per interrogarlo.»
Trevor ascoltò quest’ultimo passaggio con un crescente senso di orrore. Le
tessere del mosaico stavano andando una per una al loro posto, per formare
un quadro che non si sarebbe mai sognato di dover vedere. «Quindi Druitt
andava tolto di mezzo» disse a fatica.
Clover si portò una mano alla gola. «Per chi mi hai preso, santo Dio? No,
Druitt non andava ’tolto di mezzo’. Ma era essenziale indagare su quel
doposcuola, altrimenti sotto indagine sarebbe finito Finnegan. Lo conosci
anche tu, sai come reagisce, sai che si infiamma subito, che perde
completamente la capacità di ragionare. Non volevo che si ritrovasse in
quella situazione. Non voglio che ci si ritrovi neanche adesso. È un rischio
che non posso correre.» Clover prese la ventiquattrore dalla cattedra su cui
l’aveva posata e Trevor capì che, per quanto la riguardava, la conversazione
era finita lì.
Lui non era d’accordo, però. «Cosa significa ’un rischio che non puoi
correre’?» disse.
«Non voglio che parli con quelli della Metropolitan Police. Non voglio
nemmeno che gli si avvicinino. Non perché abbia qualcosa da nascondere,
ma perché...»
«Potrebbe pensare che sei stata tu a mandarli da lui.» Trevor non riusciva a
capacitarsi dei discorsi di sua moglie sulla verità e le bugie, sui crimini e le
loro conseguenze. «Cristo, Clover. Qui non si tratta di quello che Finn pensa
di te, non capisci? Stanno indagando su un possibile delitto. Se Finn non ha
fatto niente di male, può stare tranquillo.»
«Non ti credevo tanto ingenuo.» Si incamminò verso la porta in fondo
all’aula. Quando l’ebbe raggiunta, si voltò a guardarlo. «Tu non hai la
minima idea di come si lavora in polizia, perciò credimi: se durante un
colloquio con Finnegan dovesse mai emergere un particolare interessante, la
cosa non morirebbe certo lì. E allora, fra le perplessità che Druitt aveva sul
conto di Finnegan e il fatto che è morto impiccato, magari a Scotland Yard
viene il dubbio che non si sia suicidato, ma che qualcuno lo abbia
ammazzato, e un sospettato c’è, perché aveva un movente e chissà che non
venga fuori che aveva anche l’opportunità. Mi segui, Trevor?»
«Pensi che sia stato lui» mormorò Trevor con un filo di voce, inorridito dal
fatto che la moglie potesse anche solo concepire una simile idea. «Tu credi
che Finn...»
«Io non credo niente» ribatté lei. «Non ho un quadro completo dei fatti.
Non l’ho mai avuto. So solo quello che è stato detto, queste accuse che sono
circolate. So che Finnegan frequentava i bambini del doposcuola e vedo le
possibili implicazioni. Sono sua madre, per l’amor di Dio! Sono prima di
tutto sua madre. Finnegan è in cima ai miei pensieri. Tutto il resto passa in
secondo piano. Voglio che stia bene, Trevor, capisci? È la cosa che mi preme
di più al mondo.»
Trevor lasciò sedimentare quelle parole e la raggiunse sulla porta.
Camminando, prese dalla tasca il cellulare e lo agitò in direzione della
moglie. «Giusto per essere sicuro di aver tutto chiaro, anche tu vuoi che
menta alla polizia, nel caso vengano a chiedermi delucidazioni riguardo alle
telefonate dal mio cellulare a quello di Gaz? Volete davvero che io racconti ai
due ispettori che sono stato io a chiedergli di tenere d’occhio Finn, che la
richiesta è partita da me e che a me lui riferiva? Eh, Clover?» Lei continuò a
stare zitta, ma la sua espressione fissa era di per sé una risposta. «Se vi
illudete che quelli se la bevano e facciano a meno di parlare con Finn, siete
due imbecilli» le disse.
«Di’ tutto quello che vuoi alla Metropolitan Police» ribatté Clover.
«Raccontagli tutto quello che ti ho appena detto. Spiegagli che il mio
obiettivo è evitare che Finnegan si rovini la vita con le sue stesse mani e
prega che, quando andranno a parlare con lui, Finnegan sia in grado di tener
loro testa.»
19 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
Ding aveva brevemente preso in considerazione l’idea di non presentarsi
all’appuntamento con la psicologa del college perché non riusciva a
immaginare in che modo potesse esserle utile. La verità era che aveva perso
completamente la voglia di trascinarsi a lezione ed era indietro con compiti e
verifiche. Il tutor l’aveva convocata più volte e aveva tentato in tutti i modi di
farle capire che doveva cambiare atteggiamento. La convocazione da parte di
Greta Yates, quindi, non era affatto una sorpresa. Piuttosto era sorprendente
che ci avesse messo così tanto ad arrivare. Dunque all’ora prestabilita, Ding
giunse al campus di Castle Square.
Aveva dormito male, ma ultimamente era sempre così. Aveva fatto sesso
con Finn, aveva fumato con lui una cannetta post-coitum, poi lo aveva
rispedito in camera sua. Finn non ne voleva sapere, a suo modo di vedere in
cambio dell’ottima erba lei avrebbe dovuto concedersi ancora una volta, ma
Ding era stata irremovibile. Tuttavia non era riuscita a prendere sonno prima
delle tre, quando finalmente le voci nella sua testa si erano zittite
concedendole un po’ di tregua e lasciandola in balia di sogni inquieti.
Greta Yates era un donnone di proporzioni gigantesche, con il respiro
catarroso e la voce di chi non riesce a incamerare abbastanza ossigeno.
Tornare alla scrivania dopo essersi affacciata alla porta dell’ufficio per
invitare Ding a entrare le costò uno sforzo tale che quando si sedette sulla
poltroncina era paonazza e Ding temette che le venisse un coccolone. Prese
un pacchetto di fazzolettini dal cassetto e lo posò in cima a una pila di
pratiche talmente alta che Ding si chiese se fosse la dimostrazione di un
enorme carico di lavoro o di scarse capacità organizzative.
I fazzolettini erano per lei: con due si asciugò la faccia e con un terzo si
soffiò il naso. Quindi intrecciò le dita, mostrando un enorme smeraldo che o
era finto oppure dimostrava che la Yates era ricca di famiglia, e squadrò
Ding.
Andò subito al punto. «Feste, pub o un folle amore? Ho visto che non abiti
con i tuoi genitori. È la prima volta che vivi per conto tuo?»
Ding approfittò del fatto che la Yates aveva parlato di genitori al plurale.
La scusa che si era preparata non era propriamente una bugia, pur non
essendo neppure la verità, e nel dirla riuscì persino a farsi venire le lacrime
agli occhi.
Era per via di suo padre, spiegò a Greta Yates con il mento che le tremava.
Aveva avuto un incidente ed era morto. In casa. Abitavano vicino a Much
Wenlock, in una casa vecchissima e in condizioni pietose, e venivano tutti
quanti cooptati nello sforzo di renderla vivibile. Nello specifico, lei doveva
tornare a casa ogni fine settimana a dare una mano. Il padre stava facendo dei
lavori all’impianto elettrico e... Lunga esitazione, per creare suspense e dare
modo alla sua interlocutrice di giungere da sola alla tragica conclusione.
Era morto fulminato, spiegò Ding. Sapeva che non era vero, anche se non
sapeva perché ne era così certa, ma era pur sempre la versione cui sua madre
era sempre rimasta fedele fin dal principio, dalla prima volta che Ding le
aveva chiesto fra le lacrime: «Ma mamma, che cosa stava facendo?»
Greta Yates si dimostrò immediatamente più comprensiva. «Condoglianze.
Quando è successo? Come mai il tutor non lo sapeva?»
Era successo quattordici anni prima, ma Ding non poteva certo dirglielo.
«Nel periodo di Pasqua» rispose.
«Ne hai parlato con qualcuno?»
Ding scosse la testa. «Ci siamo chiusi nel nostro lutto, in famiglia.»
«Be’, il tuo calo nel profitto dimostra che tenerti tutto dentro non è una
strategia vincente.»
Ding rispose che sì, lo sapeva, ma non poteva fare diversamente. Stava
troppo male, non riusciva a parlarne. Prima o poi avrebbe dovuto, se ne
rendeva conto, non stava gestendo bene la situazione e i voti erano lì a
dimostrarlo. Ne era consapevole, sul serio.
«Sai dove trovarmi» disse Greta Yates. «Se hai bisogno di sfogarti,
rivolgiti pure a me.»
Vista la quantità di scartoffie sulla scrivania, era improbabile che la Yates
potesse darle qualcosa di più di una vaga parola di conforto, un consiglio di
massima, un generico avvertimento sulle ripercussioni di una scarsa
frequenza di lezioni e laboratori. Ma dato che mentivano tutti, lei compresa,
un autentico sostegno morale era impossibile e quindi poco importava.
Ding ringraziò la psicologa e spiegò che il peggio era passato e stava
lentamente uscendo dalla crisi. Si sentiva un po’ meglio. Forse era la
primavera, con tutto quello che rappresentava: rinascita, speranza, la vita che
si rinnova eccetera eccetera.
«Pensi di riuscire a recuperare?» le chiese Greta Yates. Il tono era
affettuoso, ma con un nocciolo di severità.
Sì, rispose Ding. Dena Donaldson si sarebbe rimessa a studiare, la
dottoressa Yates poteva contarci.
«A volte faccio ancora un po’ fatica, ma penso davvero che il peggio sia
passato» ribadì Ding. Avrebbe voluto credere alle proprie parole, nonostante
fosse perfettamente consapevole che era solo l’ennesima bugia.
Ludlow
Shropshire
Usciti dall’hotel, invece di andare subito sul Temeside, Barbara e Lynley
fecero prima un salto alla stazione di polizia. Barbara disse a Lynley che
voleva mostrargli una cosa. Lynley mise in moto e lei lo diresse prima in
Broad Street e poi giù, verso il fiume, dove andarono a est fino a Weeping
Cross Lane. Svoltando a sinistra, si ritrovarono a meno di un minuto dalla
stazione di polizia di Ludlow. Barbara gli fece notare che i negozi erano
piuttosto arretrati rispetto alla strada, quindi chiunque fosse passato in
automobile, in bicicletta, a piedi, sui pattini o sui trampoli a molla non
sarebbe mai stato inquadrato dalle videocamere di sorveglianza piazzate
sopra le vetrine.
«Insomma, è un ottimo percorso alternativo da casa di Finnegan Freeman
alla stazione di polizia» concluse mentre Lynley svoltava in Townsend Close.
«Quando ci sono passata a piedi mi è sembrato interessante, e sono ancora
convinta che sia un particolare degno di nota, ispettore.»
«Soprattutto ora che sappiamo che cosa faceva in realtà Ruddock quando
Druitt è morto.»
«Arrivare alla stazione di polizia da quella strada sarebbe stato un gioco da
ragazzi. Nessuno avrebbe fatto caso a uno che passava a piedi o in bicicletta.
Da lì si va in centro, alla stazione ferroviaria, al Tesco e in chissà quanti altri
posti. Entrare senza farsi vedere dall’auto di servizio ferma nel parcheggio
non sarebbe stato un problema e, una volta all’interno, per arrivare a Druitt
bastava percorrere il corridoio.»
Lynley seguì lo sguardo di Barbara e vide che stava osservando il
parcheggio. «Vediamo cos’ha da dirci al riguardo Finnegan Freeman»
concluse l’ispettore. «E c’è anche un altro punto che vorrei buttare lì»
aggiunse poi.
«E cioè?»
«I rapporti fra il vicecomandante Freeman e Ruddock.» Lynley fece
inversione per tornare in Lower Galdeford Street e scendere lungo Weeping
Cross Lane fino al lungofiume. «Se Trevor Freeman ritiene di poter chiedere
a Ruddock di tenergli d’occhio il figlio, vuol dire che i due si conoscono
bene. Ma se Ruddock conosce bene lui, conoscerà bene anche il
vicecomandante. Magari si frequentano al di fuori dell’ambiente di lavoro.»
«Sì, potrebbero essere amanti» ipotizzò Barbara. «Clover Freeman avrà
una ventina d’anni più di Ruddock, ma ha un fisico da atleta. E quindi che si
rotoli nuda...»
«... con un giovane ausiliario...»
«... è un’ipotesi che non possiamo escludere. Magari per mettersi
d’accordo con l’amante usa il telefonino del marito.»
«Come dice lei, non dobbiamo trascurare nessuna ipotesi.»
Arrivarono alla casa di Finnegan Freeman, vicino a Weeping Cross Lane, e
parcheggiarono poco più avanti, con due ruote sul marciapiede. Bussarono,
poi suonarono il campanello.
La porta si aprì e si trovarono di fronte un ragazzo vestito come un figurino
e una ragazza con una gran testa di capelli scuri. Si tenevano per mano e
avevano l’aria di essere lì perché stavano uscendo, non per rispondere al
campanello.
«Scusate. Volevate qualcosa? Stavamo uscendo» disse il ragazzo.
Lynley mostrò il tesserino e presentò il sergente Havers. Senza lasciargli il
tempo di spiegare il motivo della visita, il ragazzo li anticipò. «Siete qui per
Finn?»
«Perché lo pensa?» chiese Lynley.
«Perché i poliziotti che vengono qui cercano sempre lui.»
«Voi siete...?»
«Bruce Castle» rispose il ragazzo. «Abito qui. E lei è Monica.»
«Jordan» aggiunse lei.
«E non abita con noi» precisò Castle. «Entrate. Vado a chiamare Finn.»
Lasciò la porta spalancata e andò verso le scale gridando: «Freeman! Ci
sono degli sbirri che ti cercano». Si voltò verso Lynley con un’alzata di
spalle. «Scusi, m’è scappato. Troppa televisione.» Alzò di nuovo la testa
verso il primo piano. «Freeman! Datti una mossa, coglione!» La ragazza,
Monica, scoppiò in una risatina nervosa.
Le grida di Bruce Castle non ottennero risposta. O Finn Freeman non era
in casa, oppure dormiva profondamente. Castle si voltò di nuovo verso di
loro. Volete che gli dica che... non lo so... che lo state cercando? Vi faccio
telefonare? Vi avverto quando lo vedo?»
Lynley prese un biglietto da visita e glielo porse. Anche Barbara gli diede
il proprio, per sicurezza. Castle se li infilò nel taschino della camicia firmata
e disse che, se volevano, potevano accomodarsi e aspettare. Oppure tornare
un’altra volta, eventualmente anche a sorpresa. «La porta non è mai chiusa a
chiave» li informò con una scrollata di spalle. «Di solito la mattina è il
momento migliore. Prima è, meglio è.»
E se ne andò insieme con Monica, lasciando la porta spalancata.
«Potremmo mettere tutto a soqquadro» propose Barbara. Guardò nel
salotto. «Ma lo è già. Caspita, come fanno a vivere in ’sto casino? Sembra di
stare in una discarica» aggiunse.
«I giovani si adattano facilmente» rispose Lynley. «Andiamocene.
Torneremo. La mattina presto, come ci ha consigliato il signor Castle.»
Uscirono e si tirarono dietro la porta. Barbara si incamminò, Lynley
controllò se Bruce Castle aveva detto la verità. Sì, la porta si riapriva senza
problemi. Ne avrebbero approfittato per svegliare Finnegan Freeman all’alba.
Ludlow
Shropshire
Ding si stava trascinando verso casa quando vide Brutus. Non conosceva la
ragazza che era con lui, ma dedusse dall’espressione svanita che si trattava
della sua ultima conquista. La cosa la lasciò stranamente indifferente. Dopo
l’incontro con Greta Yates e lo sforzo di imbastire delle frottole credibili,
vedere Brutus uscire di casa con l’ennesima ragazza non la turbò più di tanto.
Brutus, ovviamente, si aspettava che ci rimanesse malissimo e gli facesse
una scenata. Comprensibile, visto che di solito lei dava in escandescenze. Lo
stupì con la sua pacatezza. «Dimmi che Finn è andato a lezione, per una
volta.» Prima che lui le rispondesse, si presentò alla ragazza. «Ciao, sono
Dena. Ding, veramente. Ho la stanza vicina a quella di Brutus.»
«Monica» replicò la ragazza con un bel sorriso. Doveva aver portato
l’apparecchio, perché aveva una dentatura perfetta.
Brutus era spiazzato. «Stai andando a casa, Ding?» chiese. Il tono era
sospettoso, come se temesse che Dena Donaldson stesse per giocargli uno dei
suoi scherzetti per farlo ingelosire.
«Avevo un colloquio con la psicologa del college» gli rispose. Si passò una
mano fra i capelli e si rese conto di non essersi pettinata, quella mattina prima
di uscire. «Sono sfinita. Ho bisogno di dormire un po’. Dimmi che a casa non
c’è nessuno.»
«Non c’è nessuno» rispose Brutus.
«A parte la polizia» precisò Monica. «Sono rimasti lì.» Si voltò un istante e
poi rettificò. «Ah, no, eccoli. Evidentemente hanno deciso di non aspettare.»
«Altri poliziotti che vogliono parlare con Finn» spiegò Brutus a Ding. La
guardò attentamente, come cercando di leggerle nel pensiero. «Sicura di star
bene?»
Sì, sì, pensò Ding. Più o meno. Una cosa era certa, comunque: in quel
momento non voleva tra i piedi la polizia.
Erano in due: un uomo biondastro vestito come si sarebbe vestito Brutus se
fosse stato un palmo più alto e avesse avuto vent’anni di più e una donna
scarmigliata, capelli corti dal taglio informe, spettinata quanto Ding se non di
più. «Chi sono, esattamente?» domandò a Brutus. Lui prese dal taschino i due
biglietti da visita e glieli passò.
«Dalli a Finn, quando lo vedi. Non so di che cosa gli vogliano parlare.
Probabilmente di Druitt, come l’altra volta.»
Ding guardò i biglietti da visita e constatò che si trattava di due ispettori
inviati a Ludlow da Londra. «Se lo vedo, lo avverto» disse a Brutus.
«Perché non dovresti vederlo?» Brutus era diffidente. Strano, pensò Ding.
È ancora convinto che io stia fingendo.
«Non ho voglia di vedere nessuno, in questo momento. Mi ha fatto piacere
conoscerti, Monica» gli disse. Non aveva altro da aggiungere.
Si accorse che i due ispettori stavano guardando dalla sua parte.
Probabilmente avevano visto che Brutus le aveva dato i biglietti da visita e ne
avevano dedotto che anche lei conosceva Finn Freeman. Quasi sicuramente
avrebbero cercato di parlarle, ma lei non era proprio dell’umore. Era riuscita
a evitarli la prima volta che erano venuti a Ludlow e aveva intenzione di
replicare.
Stava pensando a come svicolare quando la situazione precipitò. Proprio
quando era sul punto di incamminarsi verso Lower Broad Street come per
andare a lezione, allontanandosi dunque dai poliziotti che erano fermi sul
marciapiede come se aspettassero lei, Rabiah Lomax non solo passò in
macchina, ma suonò il clacson e fece segno a Ding di aspettarla dov’era. Poi
accostò e scese. «Dena Donaldson, ti devo parlare» gridò. Ovviamente i
poliziotti videro e sentirono tutto.
Guardarono la signora Lomax che sbatteva la portiera, poi spostarono lo
sguardo su Ding e quindi si scambiarono un’occhiata.
Marca male, pensò Ding.
Ludlow
Shropshire
Rabiah Lomax vide i due di Scotland Yard un attimo dopo aver chiamato
Ding. Non aveva il tempo di elaborare una teoria sul perché fossero a casa di
Ding e su come avrebbero interpretato la sua presenza nello stesso luogo:
doveva focalizzarsi su un unico obiettivo, che consisteva nell’impedire a
Dena Donaldson di darsela a gambe.
E che Dena Donaldson volesse darsela a gambe era evidente. Rabiah
poteva leggere le sue intenzioni come se fosse il personaggio di un cartone
animato: una rapida occhiata panoramica, il busto ruotato verso il Ludford
Bridge, il piede già sollevato da terra. «Dobbiamo parlare, Ding. Vieni qui»
le gridò. «Quanto a voi, cari signori...» aggiunse rivolgendosi agli ispettori di
Scotland Yard che stavano attraversando la strada per andarle incontro, «non
ho tempo per un’altra chiacchierata con la polizia. Rivolgetevi al mio
avvocato. Si chiama Aeschylus Kong ed è sull’elenco telefonico. Chiamatelo
e prendete un appuntamento con lui, se mi volete parlare.»
Ding si fermò, i due ispettori no. «Ho dei problemi familiari, ancora non
l’avete capito?» disse Rabiah quando se li trovò davanti. E poi: «Ding, mi hai
sentito? Va’ a casa: ti raggiungo fra un attimo. Non provare a scappare, sai?
Tanto prima o poi ti becco».
Ding la prese sul serio, forse perché sapeva che Rabiah correva la
maratona mentre lei dopo cento metri aveva il fiatone. Colse al volo
l’occasione di tornare a casa e non degnò di uno sguardo né Rabiah né i
poliziotti.
L’uomo – Rabiah si ricordava il nome, Lynley – parlò per primo.
«Possiamo disturbarla un minuto, signora Lomax?»
La donna – come si chiamava? – spiegò: «Siamo entrati in possesso del
cellulare di Ian Druitt. Nonostante vi siate visti sette volte, non risultano
telefonate da o verso il suo numero, signora Lomax».
«E con questo?» sbottò lei. «Non vedete che non ho tempo per queste
stupidaggini?»
«Avrete pure fissato i vostri appuntamenti, no?» le fece notare Lynley.
«Come vi accordavate, se non per telefono?»
«Che assurdità!» esclamò lei. «Non so a che numero l’ho chiamato.
Probabilmente alla canonica. Non avevo certo il suo numero di cellulare.»
«Sta dicendo che...»
«Sto dicendo che in questo momento devo risolvere un problema familiare,
quindi ho cose più urgenti da fare che rispondere alle vostre domande qui su
due piedi. Come ho detto, se avete bisogno di me, chiamate Aeschylus Kong.
Il sergente lo conosce già.»
Ciò detto, li lasciò e si incamminò di gran carriera verso la casa di Ding.
Senza bussare, né suonare il campanello, aprì ed entrò.
Trovò la ragazza in quello che chiamavano salotto, una stanza arredata con
mobili di recupero che nessuno sembrava aver pulito dall’inizio dell’anno
accademico e dove si erano accumulati vasetti di yogurt, croste di pizza e
involucri di patatine appallottolati. Vi aleggiava un nauseante odore di calzini
e biancheria sporca. Rabiah non capiva come facesse Ding ad abitare in una
simile topaia.
Era seduta, con le ginocchia unite e i piedi divaricati, su un divano di
chintz costellato da macchie sulla cui provenienza Rabiah preferì sorvolare.
Sembrava una scolaretta che sa di averla fatta grossa.
«Cosa diavolo sta succedendo?» chiese Rabiah. «Esigo una spiegazione.
Ho parlato con Missa.»
Ding si passò la lingua sul labbro superiore. «Ah. È qui per Missa?»
«Sai benissimo che sono qui per Missa. Ti ripeto la domanda: che cosa sta
succedendo?»
Ding scosse la testa con un’espressione perplessa. «Mi scusi, signora
Lomax, ma non capisco di che cosa parla.»
«Adesso te lo spiego: la polizia è venuta da me e Missa mi ha detto che
all’origine di tutto ci sei tu. Non li ho mandati direttamente da te perché
prima volevo che mi dicessi la verità. O Missa è una bugiarda, o la bugiarda
sei tu. Oppure siete bugiarde tutt’e due. In ogni caso, io ho raggiunto il limite
della sopportazione. Preferisci parlare con me o con loro? Deciditi, prima che
perda la pazienza.»
Ding posò una mano sulla fodera lercia del divano e tenne l’altra chiusa a
pugno in grembo. «Su cosa staremmo mentendo?» disse.
«Sul diacono. Quello che è morto. Sulla sua agenda c’era il nostro nome e
la polizia vuole sapere come mai.»
«Per questo sono venuti da lei?»
«Non cambiare discorso: ti sei incontrata con lui sette volte dicendo che ti
chiamavi Lomax. Adesso mi spieghi perché e poi lo spieghi anche alla
polizia. Almeno mi libererò di loro una volta per tutte.»
«Non esiste» replicò Ding.
«Non ti azzardare a contraddirmi. E ringrazia che cinque minuti fa non ti
ho denunciato.»
«Non intendevo... Signora Lomax, io non ho mai detto di chiamarmi
Lomax e non ho mai incontrato il diacono. Non sapevo nemmeno chi fosse.
Se Missa le ha raccontato...» Ma preferì non finire la frase.
La concluse Rabiah al suo posto. «Una palla. È questo che volevi dire? E
per quale ragione avrebbe dovuto mentire?»
«Non lo so. Non so nemmeno perché andasse a parlare con lui.»
«Non mi prendere per scema. So cos’è l’amicizia fra donne e so che due
amiche, due carissime amiche, non hanno segreti l’una per l’altra. E tu e
Missa eravate carissime amiche. Poi, di colpo, a quella salta in testa di tornare
a casa e va via da Ludlow. Adesso scopro che forse aveva un buon motivo
per scappare così di corsa e che quel motivo è qui, seduto in questa stanza,
reo di aver usato il nostro nome per organizzare chissà quale piano.»
«Non è vero!» protestò Ding. «Io non ho fatto niente e continuate tutti a
darmi addosso. Non so niente...» Scoppiò a piangere. «Va tutto in merda, e
adesso c’è pure Monica, e tutte le sere quello alza la posta e io non riesco a
trattenermi. Vorrei, ma non ci riesco.»
Rabiah riconobbe la crisi isterica e cambiò tono. «Ossignore, Ding. Cosa ti
prende?»
«Se lo faccia dire da Missa!» urlò Ding fra le lacrime. «È lei la bugiarda,
non io!»
Ludlow
Shropshire
Per paura di sbagliare, Barbara Havers esitò, dopo il diverbio con Rabiah
Lomax. Sapeva di dover stare molto attenta a come riferiva a Lynley le
informazioni in suo possesso, perché non era in grado di valutarne la
veridicità. Lynley non avrebbe comunque reagito impulsivamente a quelle
novità – non era il tipo da farlo – ma un passo falso da parte loro poteva
essere fatale.
«Ecco un’altra coincidenza, sergente» osservò Lynley. «E cioè?» gli chiese
lei.
L’ispettore rimase sorpreso che non ci fosse già arrivata da sola. «Non
trova bizzarro che Rabiah Lomax fosse davanti a casa di Finnegan
Freeman?»
«Ah, in quel senso» replicò Barbara.
«Secondo lei di cosa si tratta? Non credo fosse qui per convincerlo a
entrare negli scout.»
«Penso che le coincidenze ormai siano troppe per poterle chiamare ancora
coincidenze.»
«Non posso darle torto.»
«Dobbiamo risentirla.»
«Mmm. Sì. Anche se non credo riusciremo a scoprire niente di nuovo, se si
trincererà dietro il suo avvocato. Ha sentito cos’ha detto alla ragazza?»
Barbara annuì. Lynley le aveva fornito un ottimo assist, di cui intendeva
approfittare. «A proposito, c’è un’altra cosa.»
Erano scesi al fiume e stavano ammirando una famigliola di cigni. Barbara
decise di accendersi una sigaretta e Lynley, automaticamente, si spostò
sopravvento.
Barbara aspirò una bella boccata di fumo. «La ragazza con cui parlava la
signora Lomax... Dena Donaldson, giusto? L’ha chiamata Ding, mi pare. Non
sono sicura al cento per cento perché sono passati dieci giorni ed era buio, ma
ho l’impressione che questa Ding...»
«Mi ricorda il nomignolo di mia madre, Dorothy, che si è sempre fatta
chiamare Daze. Non so perché. Mi dica.»
«Be’, lei l’avrà sempre chiamata ’mamma’, no? Oppure ’madre mia’,
’mater misericordiosa’ o come dite voi aristocratici. Comunque, tornando a
Ding: ho l’impressione di averla già vista.»
«Niente di sconvolgente, visto che Ludlow non è quella che si direbbe una
metropoli, sergente. A meno che lei non si riferisca a un luogo e una data di
particolare importanza. Dove le sembra di averla vista?»
«Nel parcheggio dietro la stazione di polizia.»
Lynley smise di guardare il fiume e si voltò di scatto. «Ah.»
«Credo sia la ragazza che era in macchina con Gary Ruddock quella sera.
Ma era buio, non posso giurarci. Comunque, le assomiglia tantissimo.»
Lynley guardò con aria pensierosa la casa in cui erano entrate Ding e
Rabiah Lomax.
«Quando si parla di donne, Ruddock va nel pallone. La prima volta che
gliel’ho chiesto mi ha risposto che no, non era fidanzato. Poi ha ammesso di
avere una relazione, ma sostiene che lei è sposata e lui non ci può dire chi è,
altrimenti la mette nei guai. Adesso salta fuori questa Ding, che abita nella
stessa casa di Finnegan Freeman, dalla quale si arriva alla stazione di polizia
di Ludlow in pochi minuti. Mi puzza, ispettore. Mi puzza come un pesce
fuori del frigo da tre giorni» spiegò Barbara.
«Sono d’accordo, sergente» disse Lynley. «Anche se era buio e lei l’ha
vista solo di sfuggita.»
«Sì, l’auto di servizio era posteggiata nel punto più buio e potrei
sbagliarmi. Ma quando è scesa, la luce nell’abitacolo si è accesa,
naturalmente. Lui l’ha raggiunta, le ha detto qualcosa e lei è risalita. Come se
lei a un certo punto avesse deciso di dargli il benservito e lui con quelle
parole le avesse fatto cambiare idea. Sono tornati in macchina e ci sono
restati un po’.»
«Il problema è se Ruddock mente riguardo alla donna sposata o ha più di
una relazione» osservò Lynley. «In entrambi i casi, il fatto che con lei si sia
dichiarato single... Come mai siete finiti sul tema, sergente?»
Barbara fece mente locale. «Gli ho chiesto del tatuaggio. Ha CAT tatuato
su un polso. Gli ho chiesto se era amante dei gatti e lui mi ha spiegato che
CAT stava per Catherine, non per gatto, e che Catherine era sua madre. È
nato in una comunità irlandese dove i figli venivano sottratti alle madri in
tenera età e crescevano in grande promiscuità, quindi dovevano avere un
tatuaggio per non accoppiarsi con madri e sorelle. Una storia da brividi. Forse
avrei dovuto approfondire, ma mi sembrava che ci fossero cose più urgenti...
Insomma, il sovrintendente non era d’accordo, lo sa».
Inaspettatamente, Lynley non manifestò la minima sorpresa. Si voltò e si
appoggiò al parapetto con le braccia conserte. «Povero Edipo, se avessero
tatuato anche lui gli avrebbero risparmiato un mucchio di problemi. Certo,
erano convinti di essersene sbarazzati definitivamente» disse.
Barbara era abituata alle dotte citazioni dell’ispettore e non replicò. Buttò
per terra il mozzicone e lo schiacciò sotto la suola. Lynley lo guardò, poi
guardò lei. Barbara sospirò, raccolse il mozzicone, lo sbriciolò e ne disperse i
frammenti nel vento.
«Stavo pensando una cosa» cominciò, e aspettò un cenno da Lynley per
proseguire. «Se l’ausiliario ha una storia con quella ragazza, lo saprà anche
qualcun altro, oltre a loro due.»
«Da cosa lo deduce?» domandò Lynley.
«Dal fatto che, se li ho visti io, li avrà visti insieme anche qualcun altro. Lì
nel parcheggio o altrove. Dobbiamo semplicemente trovare la persona che
potrebbe averli visti, e io un’idea l’avrei.»
Blists Hill Victorian Town
Shropshire
Nessuna orribile autostrada aveva sfregiato il territorio dello Shropshire, e di
conseguenza per andare da un posto all’altro talvolta si era costretti a
compiere lunghi giri. Il parco a tema di Blists Hill ne era un esempio. Era
vicino a Ironbridge, il ponte di ferro costruito sul fiume Severn e dunque
periodicamente esposto alle alluvioni. Blists Hill era molto più in alto di
Ironbridge, tuttavia, e si raggiungeva attraverso un fitto bosco di querce,
castagni e aceri che in quel periodo dell’anno erano pieni di nuove foglie da
cui filtravano sulla strada sprazzi di luce solare. Un intraprendente signore
aveva pensato di utilizzare i vecchi altiforni di mattoni, una miniera
abbandonata e un ingegnoso piano inclinato utilizzato un tempo per spostare
le imbarcazioni dal fiume allo Shropshire Canal per ricreare una cittadina del
1900 a scopo educativo e come attrazione turistica.
Rabiah Lomax andò lì, dopo aver lasciato Ding sul Temeside. Non visitava
il parco da anni, ma notò che continuava ad avere successo come meta di
gitanti e pensionati, ma anche come occasione per le scolaresche di vedere in
concreto ciò che leggevano sui libri di storia.
Rabiah si mise in coda per acquistare il biglietto. Avrebbe potuto
telefonare e chiedere alla nipote di venirla a prendere all’ingresso e farla
entrare gratis, ma preferiva coglierla di sorpresa. Perciò pagò una cifra
esorbitante – possibile che lo sconto per i pensionati fosse così irrisorio? – e
prese la cartina omaggio, benché non ne avesse alcun bisogno.
Rabiah sapeva benissimo dove trovare Missa. Sua madre le aveva
telefonato subito, quando Missa aveva dichiarato di voler abbandonare gli
studi. Aveva già espresso quel proposito prima di Natale, ma poi si era
lasciata convincere a tornare al college e riprovarci. Tuttavia qualche tempo
dopo era giunta a una decisione definitiva: l’università non faceva per lei, era
inutile continuare a studiare.
«Evidentemente pensa di poter fabbricare candele tutta la vita» aveva
recriminato Yasmina al telefono, amareggiata. «Potresti provare a farla
ragionare tu, mamma?»
Meglio fabbricare candele che friggere pesce e patatine, avrebbe voluto
ribattere Rabiah, ma aveva il sospetto che la nuora non fosse in vena di
battute. E così le aveva risposto che i giovani attraversano delle fasi, che
magari Missa ci avrebbe ripensato. Yasmina non la vedeva così e Rabiah la
capiva, perché Yasmina era sempre stata una donna determinata, anche da
giovane, che aveva inseguito con costanza il proprio obiettivo: diventare
pediatra. Certo, la gravidanza inaspettata le aveva fatto perdere un po’ di
tempo, ma alla fine era riuscita comunque nel suo intento. Perciò le risultava
inconcepibile che la figlia preferisse fabbricare candele in un parco a tema
piuttosto che andare all’università. «Non ragiona» aveva detto alla suocera.
«Sostiene che Justin non c’entra niente, ma io ci credo poco. Secondo me è
stato lui a farla tornare. Deve averle detto o fatto qualcosa. Non vorrei che
l’avesse minacciata di... Non lo so. Per favore, mamma, parlale tu. Timothy e
io ci abbiamo provato in tutti i modi, ma non siamo riusciti a smuoverla.»
Rabiah ci si era messa d’impegno, ma non aveva ottenuto alcun risultato.
Allora però non aveva abbastanza informazioni sotto mano. Ora almeno
conosceva le due diverse versioni dei fatti di Missa e di Ding, e aveva la
certezza che le stessero nascondendo qualcosa.
A Blists Hill si mettevano in scena le attività artigianali del periodo
vittoriano e per le strade si incontravano botteghe di stagnai, maniscalchi,
fabbri e artigiani, e poi negozianti, panettieri, macellai e persino una banca. Il
laboratorio per la fabbricazione di candele era a metà della via principale.
Nella bottega l’unica luce era quella che filtrava dalle due finestre e dalla
porta aperta. Rabiah entrò e si unì alla decina di visitatori che ascoltavano la
spiegazione di Missa. Era un lavoro monotono e Rabiah non avrebbe resistito
più di un giorno, al posto della nipote: gli stoppini, legati a un’assicella di
legno, venivano immersi in una specie di trogolo rettangolare pieno di sego
fuso e poi lasciati asciugare in attesa di venire immersi una seconda volta,
una terza... finché alla millesima immersione si otteneva una candela di
dimensioni ragionevoli. Rabiah faticava a immaginare un’occupazione più
noiosa sulla faccia della Terra.
Si posizionò in maniera che sua nipote la vedesse appena avesse alzato la
testa. Missa era vestita con una lunga sottana d’epoca e un grembiule pesante,
che doveva proteggerla dagli schizzi di cera. Spiegava che tradizionalmente a
fabbricare le candele erano gli uomini, che a quei tempi le donne erano
maestre, commesse, mogli e madri. «Posso farle una domanda?» chiese un
bambino. Missa sollevò la testa, vide Rabiah e sorrise. Rabiah tirò un sospiro
di sollievo, indicò l’orologio che aveva al polso e fece il gesto di portare alle
labbra una tazza. La nipote annuì e Rabiah si sentì ancora più rincuorata.
Prima di dirigersi al padiglione che ospitava la caffetteria, però, fece un
salto dal fabbro. Justin Goodayle, il fidanzato di Missa, stava terminando la
sua dimostrazione, che consisteva nel fabbricare un ferro di cavallo. Non
c’erano cavalli da ferrare, ma nella forgia ardeva un gran fuoco e su un
bancone c’erano tutti gli attrezzi necessari. Altri manufatti in ferro, come
pale, zappe e forconi, erano esposti in teche appese al muro e per terra erano
ammucchiati ganci di tutte le misure.
Rabiah aspettò che il gruppo di visitatori uscisse. Justin la scorse e la
salutò. Come Missa, sembrava contento di vederla.
«Sto per fare una pausa.» Si levò il grembiule di pelle e gli occhiali
protettivi, che non erano d’epoca vittoriana. Aveva due aloni sotto le ascelle e
il sudore gli colava lungo le guance e dentro la barba curata. Prese dalla tasca
un fazzoletto e si asciugò il volto.
Era un bel ragazzo, pensò Rabiah. Era stato bello sin da bambino. Aveva
folti capelli castani che teneva raccolti in un codino, come forse si usava ai
tempi, occhi profondi, scuri, e la faccia simpatica. Era grande e grosso come
ci si aspetta da un fabbro ferraio, con spalle e pettorali possenti. Rabiah
immaginava riscuotesse un discreto successo con le ragazze.
«Avresti voglia di passare la tua pausa con una vecchietta, magari davanti
a una tazza di tè?» gli propose.
«Non vedo vecchiette in giro» replicò lui. «Ma se la bella signora che ho di
fronte vuole farmi l’onore di prendere un tè con me, sarei lieto di accettare.»
«Ma come sei galante!» disse Rabiah. «Meriti anche uno scone.»
«Una fetta di torta no?»
Rabiah rise. Justin si assicurò di aver chiuso bene la porta della bottega e le
diede il braccio per dirigersi verso la caffetteria, che era davanti al luna park
vittoriano. Presero tazze, teiera e una fetta di torta al limone per Justin e
andarono a sedersi a un tavolino vicino ai banchi, dove i bambini, pagando
con monetine fuori corso, potevano tentare di aggiudicarsi ricchi premi e
cotillon sotto forma di caramelle, biglie e bamboline di gesso.
«Allora» cominciò Rabiah sollevando la tazza. «Sei contento che Missa sia
tornata a casa?»
«Sì.» Justin mangiò un boccone di torta.
«Sei contento anche che abbia rinunciato allo studio e all’università per
una vita più semplice?»
«Io non mi sono mai opposto al fatto che andasse all’università» rispose
Justin guardandola in tralice. «Qualunque scelta faccia per me va bene.
Comunque dico la verità: a me, che abbia piantato lì di studiare, non dispiace.
Voleva già farlo a dicembre, ma sua madre si è impuntata.»
«Sì, Yasmina me ne ha parlato» disse Rabiah. «Sinceramente, nessuno di
noi capisce perché Missa abbia deciso di ritirarsi.»
«A me ha detto che il corso di scienze era troppo pesante. Non tutti sono
portati per certe materie, no? Ma le scienze non le serviranno. Vogliamo dei
figli e Missa ha voglia di crescerli. Io manterrò la famiglia.»
«Avete programmi ben definiti, quindi» osservò Rabiah. «Missa non mi
aveva accennato niente. I suoi lo sanno?»
«Che cosa?»
«Che avete in programma di avere dei figli e di...»
«Ah, no. Be’, non ancora. Ma io e Missa stiamo insieme da un sacco di
tempo, di sicuro i suoi se l’aspettano, no? Io intanto continuo a mettere da
parte i soldi che ci servono. Vorrei che stessimo in una casa nostra. Dopo
esserci sposati, s’intende. Non vogliamo convivere. Missa non... Missa è
contraria. Prima del matrimonio, intendo. Sua madre l’ha educata così. Non
penso sia sbagliato, capiamoci. Aspettare le nozze, volevo dire. Però
Yasmina – cioè, la dottoressa Lomax – le ha inculcato che è una cosa
importantissima. Ma lei lo sa già, ovvio. Fatto sta che Missa l’ha messo in
chiaro subito, che prima del matrimonio non se ne parla.»
Rabiah faticava a raccapezzarsi. Justin era un libro aperto, ma spesso si
esprimeva in maniera comprensibile solo a lui. «Niente rapporti
prematrimoniali per evitare inconvenienti tipo quello che è capitato a mio
figlio e Yasmina?» chiese, per chiarire.
Justin arrossì lievemente e la guardò. «Missa vuole che la prima notte di
nozze sia un momento speciale e che se la sposa si veste di bianco
dev’essere... Io la rispetto, figuriamoci.» Strizzò gli occhi per il sole e guardò
la coppia che stava passando davanti a loro, mano di lei nella tasca posteriore
dei jeans di lui e viceversa. Si fermarono un istante e si baciarono sulla bocca.
Justin si voltò dall’altra parte. «Però un po’ mi scoccia» ammise. «Ho anch’io
i miei ormoni, in fondo, e certe volte con Missa... Va be’, in ogni caso presto
ci sposeremo. Posso aspettare.»
«Il mondo è pieno di ragazze» rimarcò Rabiah. «Molte delle quali
sarebbero felici di appartarsi con te in un fienile o chissà dove. Finché non vi
sposate, voglio dire. Sesso e basta. Una botta e via.»
Justin era scandalizzato. «Sta dicendo che...? Per sfogare la voglia e basta?
No, non farei mai una cosa del genere, signora Lomax. Non voglio tradire
Missa. E comunque, davvero, ora che Missa è tornata a casa manca poco. Ho
un po’ di soldi da parte e una seconda attività che mi frutta benino.»
«Hai un secondo lavoro?» domandò Rabiah.
«Ho una piccola impresa» spiegò Justin. «L’ho avviata da poco e quindi
non voglio pronunciarmi, ma è il lavoro che mi piace di più al mondo.» Le
mostrò le mani callose e piene di bruciature. «Questi sono i miei ferri del
mestiere. Finché mi funzionano le mani, sono a posto.»
«Nonna, che gioia vederti!»
Rabiah si voltò e vide che Missa era entrata nella caffetteria e si stava
avvicinando a loro con un biscotto di avena. Diede un bacio sulla testa alla
nonna e dopo essersi seduta divise in due il flapjack e ne porse una metà a
Justin. «Che giornata!» esclamò. «Ho passato la mattina a impedire ai
bambini delle elementari di infilare le mani nella vasca del sego. Tu come fai,
Justin? Da te non cercano di infilare le mani nella forgia?»
«Certo!» Justin, che aveva finito la torta, bevve il tè e guardò l’orologio
che teneva in tasca. Si alzò e avvolse la sua metà di biscotto in un
tovagliolino di carta. «Ai meno un quarto, allora». Missa, inspiegabilmente,
capì.
«Nonna, tu poi passi a casa nostra a trovare mamma, papà e Sati? Se resti
fino all’ora della chiusura, torno con te» disse.
Rabiah voleva parlare con Yasmina a tu per tu. «Vado via prima, tesoro.
Alla mia età non si regge un’immersione completa nell’età vittoriana. Torna
pure con Justin» rispose quindi.
Justin fece un’espressione allegra e si chinò per baciare Missa sulle labbra,
ma lei si voltò offrendogli la guancia. Dopo un attimo di esitazione, Justin si
accontentò del bacetto sulla guancia. Salutò Rabiah con un cenno del capo e
uscì. Rabiah notò che la cassiera e altre due ragazze in costume vittoriano lo
guardavano ammirate. Missa sembrava ignara di tutto.
«Come mai sei venuta fin qui?» chiese a Rabiah con un sorriso affettuoso.
«Avevo voglia di vederti.»
«Davvero?» Missa si ravviò i capelli dietro le orecchie. Erano sani e
lucidissimi, e questo – chissà perché – a Rabiah fece molto piacere. «Sei
venuta fin qui per me?» chiese, poi aggiunse precipitosamente: «Che bello!»
Rabiah si accorse che la nipote era diffidente. Se la nonna era venuta apposta
per lei da Ludlow doveva avere un motivo e con ogni probabilità si trattava di
un motivo spiacevole.
«Justin è sempre tanto innamorato» osservò Rabiah. La giostra con i
cavallini di foggia antica cominciò lentamente a girare accompagnata da una
musica d’organetto.
Missa giocherellò con il mezzo biscotto senza assaggiarlo. «Mmm» fu la
sua risposta.
«Mi ha detto che sta mettendo i soldi da parte perché ha un progetto»
continuò Rabiah. «E che ha messo su una piccola impresa in cui c’entravano
le sue mani. Non è entrato nei dettagli, ma ho intuito che ci fosse di mezzo
l’acquisto di una casa.»
«Be’, era stupido pensare che sarebbe rimasto tutta la vita a fare da
schiavetto ai suoi. A loro piacerebbe, lo so. Il padre dice che Justin è lo
zuccone di famiglia e sperava di tenerselo in casa in eterno, così da vecchio
avrebbe avuto chi lo accudiva. Come se a Justin non dispiacesse essere
trattato come lo scemo di famiglia e non volesse farsi una vita propria.»
«Ho visto! È molto determinato. E di questa attività che sta avviando tu
cosa sai? Te ne ha parlato?»
«Mi ha detto soltanto che sta mettendo da parte dei soldi» rispose Missa.
«Non che avesse messo su un’impresa.»
«Chiediglielo, parlagliene. O comunque...»
Missa la guardò sbalordita. «Scusa, ma perché?»
«Non essere ottusa, Missa: sai perfettamente che Justin ti vuole sposare,
fare dei figli e vivere con te finché morte non vi separi. Se a te sta bene,
siamo tutti contenti. Se però a te non sta bene... Insomma, ti sta bene o non ti
sta bene? Quando sei venuta a Ludlow volevi prenderti una piccola pausa da
lui. Me ne hai parlato a settembre. Adesso come siete messi? Voglio dire, tu
come ti senti? Justin mi ha già parlato di sé.»
«Come sempre, nonna» rispose Missa. «Siamo messi come siamo sempre
stati messi.»
Rabiah la fissò. «Missa, tu non sei un’ingenua. Io lo so.»
Missa inclinò la testa e la guardò con aria offesa, ma Rabiah non si lasciò
scoraggiare. Non era l’argomento su cui intendeva confrontarsi con sua
nipote, ma andava bene così.
«Mi chiedo come reagirà quando gli dirai che non hai nessuna intenzione
di vivere a Ironbridge, accudire una nidiata di bambini, lavargli la biancheria
e cucinargli le verdure biologiche del vostro orto.»
«Non sei gentile a parlare così» la rimproverò Missa.
«E tu, invece? Sei gentile?»
«Non capisco.»
«Sì che capisci. A quanto mi ha raccontato Justin, sei fissata con la
verginità, niente sesso prematrimoniale, e tutto il resto, quindi ne deduco
niente mano...»
«Nonna!»
«... bocca, posteriore e... Sant’Iddio! Cosa c’è?»
Missa aveva gli occhi pieni di lacrime. Rabiah si accorse di aver esagerato.
«Scusami, tesoro» mormorò.
Missa non rispose, ma si voltò dall’altra parte.
«Missa, è successo qualcosa fra te e Justin di cui...»
«Vorrei essere lasciata in pace, nonna. Perché nessuno mi lascia in pace?»
«Scusa» replicò Rabiah. «Perdonami, tesoro. Non sono venuta qui per
parlare di te e Justin.»
«Per cosa sei venuta, allora?»
«Ding e io ci siamo fatte una bella chiacchierata, stamattina. Siccome
quelli di Scotland Yard sono tornati da me una seconda volta, le ho voluto
parlare, prima di sguinzagliarglieli contro.»
Missa guardò la nonna con la stessa espressione aperta e franca di sempre.
«E cosa ti ha raccontato?»
«L’ho presa alla sprovvista. Forse avresti dovuto avvertirla, dopo che ci
siamo sentite per telefono, perché è rimasta senza parole, quando le ho
chiesto come mai aveva detto a Druitt di chiamarsi Lomax. Se tu le avessi
messo la pulce nell’orecchio, si sarebbe preparata una storiella per
giustificare i sette appuntamenti con il diacono. Da parte mia, le avrei
creduto, se mi avesse spiegato che aveva bisogno di mantenere l’incognito
con Druitt. Invece ha proprio negato di averlo visto e, quando ho insistito... è
crollata. Era a pezzi, Missa.»
«Perché l’avevi smascherata» ribatté Missa.
«No, credo sia stato più che altro perché non ha avuto il tempo di
inventarsi una bugia. Alla fine, mi ha consigliato di chiedere spiegazioni a te.
Ed eccomi qui. Un’ultima precisazione. All’inizio io e Ding abbiamo parlato
per strada e nei paraggi c’erano anche i due ispettori di Scotland Yard. Non
ho idea del perché fossero lì, forse volevano parlare con Ding anche loro.
L’ultima volta che sono venuti da me, mi hanno chiesto come mai il mio
numero non compariva nel cellulare di Druitt. Ho improvvisato una risposta
da Oscar, ma poi mi hanno visto con Ding e quindi temo sia stato inutile. C’è
qualcosa che mi vuoi dire, Missa? Nel caso, che sia la verità, per favore.»
Rabiah aspettò la risposta riflettendo sulla possibilità che fosse stata Missa
a incontrare il diacono sette volte prima di andare via da Ludlow. Di certo la
madre l’aveva messa sotto pressione per impedirle di mollare gli studi, la
stessa Rabiah le aveva dato della pazza e compagni e professori si erano
senza dubbio uniti al coro delle proteste. Missa si era lasciata convincere a
riprendere i corsi dopo le vacanze di Natale ma forse, ancora lacerata dai
dubbi, aveva chiesto aiuto a una persona del tutto estranea, per analizzare la
situazione in maniera obiettiva. Chi meglio di un uomo di Chiesa? In fin dei
conti Missa aveva tutto il diritto di consultarsi con chi le pareva, no? Che
male c’era?
«Mi ha telefonato lui. Druitt» disse Missa.
Rabiah proprio non se l’aspettava. «Ti ha chiamato lui?»
«Aveva sentito che volevo ritirarmi dal college e che avevo bisogno di
qualcuno che mi aiutasse a prendere una decisione. Immagino glielo avesse
detto il mio tutor. Anche lui, come tutti gli altri, non voleva che smettessi di
studiare.»
«Druitt non voleva che smettessi di studiare?» Rabiah non stava capendo
niente.
«No, il tutor! Non voleva che prendessi decisioni affrettate.»
«E quindi ti ha mandato a parlarne con un prete?»
«Più o meno. Forse sperava che riuscisse a farmi vedere altri aspetti della
questione, non lo so. Essendo un religioso...»
«Visto che alla fine hai lasciato tutto e sei tornata a casa, deduco che Druitt
approvasse la tua scelta. È così?» Rabiah lo chiese in tono leggero, sapendo
che Missa aveva lasciato Ludlow poco dopo che il diacono si era tolto la vita.
«La polizia ti vorrà parlare, Missa.»
«Non gli hai raccontato che andavi tu a parlare con Druitt?»
«Sì. Non credo però che Ding ti farà lo stesso favore. E sono sicura che i
due ispettori andranno a cercarla, dopo averla vista con me stamattina.»
«Sì, mi è chiaro. Quello che non capisco è cosa c’entri tutto questo con il
suo suicidio.»
«La polizia vuole scoprire che rapporti avevi con lui, immagino. Sei in
grado di spiegarglielo?»
Missa strinse fra le dita il tovagliolino di carta. «Cosa? Che rapporti avevo
con Druitt?»
«Che cosa c’è stato fra voi.»
«Cosa vuoi che ci sia stato? Non capisco.»
«Senti, Missa, io non lo so. Ma il nostro cognome compare troppo spesso
sull’agenda di quel diacono e la polizia sta indagando sul suo suicidio, vorrà
capire come mai si è ammazzato...»
«Io non c’entro niente. Abbiamo parlato soltanto di college e università.»
«Benissimo. Allora, se te lo chiedono, digli così. C’è solo una cosa che non
mi torna: come mai non l’hai detto subito, la prima volta che ti ho telefonato
per chiedertelo?» Rabiah restò in attesa di una risposta. Intuiva che c’era
sotto qualcosa, Missa era troppo tesa. Stava perdendo la pazienza, ma si
sforzò di usare un tono pacato. «Se il motivo è un altro, Missa, dovresti dirlo
alla polizia. Ammesso che te lo vengano a chiedere, ovvio.»
«No, non c’è nessun altro motivo» ribatté Missa. «Il fatto è che adesso mi
sento di nuovo a mio agio, nonna. Sono di nuovo me stessa e non devo
litigare con il mondo per difendere le mie scelte. Mi spiego?»
Si alzò in piedi, disse che doveva riprendere il lavoro nella bottega del
candelaio, che la pausa era finita. Stava bene, andava tutto bene. Non era il
caso che sua nonna mentisse alla polizia per tenerla alla larga da lei. Se
volevano interrogarla a proposito del signor Druitt, era disponibilissima a
parlare con loro.
«Mi ha solo aiutato a prendere una decisione» ripeté. «Non ha fatto altro.
Avevo bisogno di parlarne con qualcuno e ne ho parlato con lui.»
Coalbrookdale
Shropshire
Quando era al lavoro, Yasmina Lomax stava attenta a non guardare con
troppa insistenza il marito, che gestiva la farmacia del loro ambulatorio. Per
la maggior parte del tempo era così presa dai suoi piccoli pazienti e dai loro
genitori che non lo vedeva neanche e questo le dava l’alibi per convincersi
che Timothy non si infilava in tasca gli oppiacei. Timothy aveva vinto la
dipendenza dall’alcol dopo la nascita di Missa, si diceva, non aveva più avuto
ricadute e aveva solo bisogno di tempo, ma prima o poi si sarebbe
riavvicinato a lei. Se non fossero riusciti a ritrovarsi, la loro vita sarebbe
andata a rotoli. Già avevano problemi prima della morte di Janna...
Quando si erano conosciuti erano troppo giovani. I genitori di Yasmina
andavano d’accordo, anche se il loro era stato un matrimonio combinato, e
davano per scontato che lei si sarebbe adeguata alla tradizione. Dapprima
Yasmina li aveva assecondati, era addirittura andata con loro in India, dove
una cugina le aveva aperto gli occhi rivelandole che il vecchio che era stata
costretta a sposare aveva già sottomesso la prima moglie a suon di botte e
stupri e stava facendo lo stesso con lei. I genitori di Yasmina le avevano
spiegato che si trattava di un’eccezione alla regola dei matrimoni combinati,
ma non erano riusciti a rassicurarla. Prima di darla in sposa, tuttavia, le
avrebbero permesso di laurearsi e questo aveva placato le sue ansie.
Non era sua intenzione legarsi a un compagno di università. Il suo
obiettivo era concentrarsi sullo studio. E infatti era stato per ragioni di studio
che aveva incominciato a frequentare Timothy Lomax, capelli ricci, orecchie
a sventola e sorriso accattivante.
Lui era reduce da una festa all’università e lei studiava in un caffè con una
tazza di tè ormai freddo accanto. Timothy alla festa aveva bevuto ed era un
po’ brillo, glielo aveva confessato, aggiungendo che, senza un po’ di alcol in
corpo a infondergli coraggio, non sarebbe mai riuscito ad attaccare discorso
con lei. «Sei bellissima» le aveva detto. «Troppo bella per un tipo ordinario
come me: mi metti in soggezione.»
Yasmina non era abbastanza esperta per chiedergli se fosse il discorsetto
standard con cui abbordava le ragazze, ma in seguito il dubbio le era venuto.
A quel punto però era innamorata di lui, in quello stato in cui la ragione si
blocca e il corpo prende il sopravvento, mandando a monte progetti e piani
per il futuro nell’urgenza di soddisfare la libido. Yasmina non sapeva
neanche cosa fosse, la libido. Non l’aveva mai provata. E così aveva
chiamato «amore» l’attrazione per il corpo di lui e per quello che il corpo di
lui era in grado di produrre nel suo corpo. Era l’unica parola che aveva a sua
disposizione, quella che usavano nei film. Come altro poteva definirlo?
Erano stati fortunati per quattro mesi ma al quinto lei era rimasta incinta.
Timothy c’era stato attento, ma c’era sempre il rischio. E poi c’era stata
quell’unica volta, in cui la voglia era tanta e non c’erano preservativi a
portata di mano, non c’era da preoccuparsi, si sarebbe tirato indietro
all’ultimo momento. La famiglia l’aveva emarginata completamente. La
nascita di Missa e poi di Janna e Sati aveva attenuato il dolore per
l’allontanamento dai genitori e la gentilezza e disponibilità di Rabiah li
avevano aiutati a destreggiarsi fra tre figlie e due lavori impegnativi.
Le difficoltà però erano tante, nonostante l’aiuto di Rabiah. Yasmina era
troppo impegnata con lo studio e le figlie per rendersi conto di quanto lei e il
marito si erano allontanati. Si diceva che ce la stava mettendo tutta perché
cercava di soddisfare il marito anche quando era esausta: era uno dei doveri
che si era assunta con quel matrimonio affrettato. In fondo l’avevano educata
nella convinzione che il destino di una donna dipendeva da quei due
cromosomi che tale l’avevano resa. Toccava a lei fare da mangiare, tenere
pulita la casa, badare ai bambini, fare la spesa e stirare le camicie del marito.
E, quando lui allungava la mano per sfiorarle una coscia o accarezzarle il
seno svegliandola la mattina presto, partecipava attivamente, pur sperando
che finisse presto per poter tornare a dormire. Lo trovava sufficiente.
Timothy sarebbe dovuto essere soddisfatto.
Poi c’era stata la storia di Janna. Ti cade il mondo addosso, quando ti si
ammala gravemente un figlio, specie se è un mondo già imperfetto. È
inevitabile pensare a un castigo divino, indipendentemente dal proprio
retroterra religioso o spirituale. Non sei stata abbastanza brava. Non sei stata
una brava madre, non sei stata una brava moglie. Hai sbagliato.
Gli equilibri fra lei e Timothy erano saltati definitivamente quando nel
cranio della loro figlia di mezzo aveva cominciato a svilupparsi un mostro dai
lunghi tentacoli. Il fatto che Timothy non ritenesse la malattia un castigo
divino non aveva attenuato l’angoscia di Yasmina. Timothy non voleva starla
a sentire mentre gli elencava gli innumerevoli modi in cui lei, pur essendo
pediatra, aveva trascurato la figlia. Alla fine, aveva smesso di ascoltarla del
tutto.
Aveva iniziato a prendere oppiacei quando Janna si era ammalata, con la
scusa che non riusciva a dormire. In realtà aveva bisogno di evadere da
quello che inevitabilmente li aspettava, ovvero lo strazio di perdere la figlia.
La diagnosi si era purtroppo dimostrata corretta, aveva confermato il team di
specialisti, cercando di esprimersi nel modo più delicato possibile. Cinque
anni se si adotta un approccio aggressivo, altrimenti diciotto mesi. In ogni
caso, incurabile. Incurabile, nonostante la giovane età e lo stato di salute per
il resto perfetto. Erano desolati.
La gente tende a credere, pensava Yasmina, di poter riemergere
dall’incubo di perdere un figlio e in qualche modo ritrovare la strada verso
ciò che era prima. Forse per qualcuno era davvero così. Per lei però no.
Eppure ci aveva provato. Si era concentrata sulle due figlie che le erano
rimaste, aveva dedicato le proprie energie al lavoro e ai doveri di madre, ma
per il marito non era rimasto nulla.
Adesso Missa... Era cambiata tantissimo e Yasmina si era resa conto che
esiste più di un modo per perdere un figlio. Ma dopo tante perdite non voleva
arrendersi e con Missa non intendeva demordere. Il rischio era troppo grosso:
se lei non fosse intervenuta Missa si sarebbe giocata il futuro.
Timothy la vedeva diversamente. «Deve trovare la sua strada, non puoi
indicargliela tu» le diceva. Ma se non gliel’avesse indicata lei, Missa avrebbe
rischiato di finire come tante ragazze che Yasmina incontrava sul lavoro:
troppo giovani, con il pancione, un figlio nel passeggino con il moccio al
naso e l’altro aggrappato alle sottane. «Farà quella vita lì, se sposerà Justin
Goodayle» ribatteva Yasmina. «Non lo vuoi vedere perché ti sta simpatico.
Ed è vero, è un bravo ragazzo, ma non va bene che Missa lo sposi.» Allora lui
obiettava: «Continua a insistere, Yasmina, e la convincerai a sposarlo
davvero».
Perché doveva andare così? si chiedeva Yasmina. A lei premeva
semplicemente che le sue figlie si costruissero una vita professionale stabile e
non commettessero gli stessi suoi errori: rimanere incinta e diventare la
pecora nera della famiglia. Almeno di quello non si dovevano preoccupare,
comunque. A meno che Missa fosse rimasta incinta mentre era al West
Mercia College, avesse interrotto la gravidanza e adesso fosse tormentata dal
rimorso. Oppure che fosse incinta e avesse deciso di tenere il bambino...
Yasmina si rendeva conto che continuare a pensarci su rischiava di farla
impazzire e così quando lasciò l’ambulatorio fece un salto al supermercato di
Buildwas Road e spinse il carrello su e giù per i corridoi per mezz’ora
prendendo qua e là prodotti a caso nella speranza che potessero trasformarsi
da soli in una cena decente.
Il supermercato non era lontano da New Road, dove i Lomax abitavano in
una solida casa di mattoni con doppie finestre e un giardino in pendenza
infestato dall’edera e da arbusti un po’ trascurati. La via si inerpicava verso la
chiesa del paese, sovrastando il tratto di lungofiume noto come Wharfage,
che costituiva la principale strada di collegamento fra Ironbridge e il vicino
villaggio di Coalbrookdale.
La casa dei Lomax si affacciava sul fiume Severn e sul Wharfage.
Avevano anche il lusso di un garage, ma quando Yasmina rientrò vide che la
macchina di sua suocera bloccava l’accesso. Posteggiò lungo la strada e prese
le borse della spesa dal sedile posteriore.
Quando entrò in casa non era di ottimo umore e la sua irritazione aumentò
ulteriormente non appena vide che Rabiah era seduta in cucina con Sati e la
stava aiutando a fare i compiti. «Deve imparare a fare i compiti da sola» disse
alla suocera.
«Perché non ne approfitti per berti un tè e farti un bel bagno caldo? Usa un
buon bagnoschiuma profumato» rispose Rabiah pacatamente.
«Devo preparare la cena, mamma. E Sati deve fare i compiti da sola.»
Rabiah si alzò e diede alla nuora una pacca affettuosa sulla spalla, poi si
fece dare le borse. «Non riesce a fare gli esercizi, se prima non capisce la
regola. A cosa serve una prof di matematica in pensione, se non a questo?»
«Mi spiegava soltanto» si difese Sati. «Quando mi spiega Missa non ti
arrabbi.»
«Missa non ti dice il risultato» rispose Yasmina. «Alla fine voglio vedere il
quaderno e se invece di trovare la tua scrittura trovo quella della nonna...»
«Su, su, vai a riposarti. Faccio io» insistette Rabiah, per nulla offesa.
«Accendo il bollitore. Cos’hai comprato? Agnello. Va benissimo per i kebab.
Meno male, perché i kebab sono l’unica cosa che so cucinare.»
«A Natale hai fatto l’oca» puntualizzò Sati. «E fai anche il roastbeef e il
tacchino.»
«I pranzi delle feste non sono un problema» rispose Rabiah. «A me pesa
cucinare tutti i giorni, motivo per cui la maggior parte delle volte me la cavo
con minestra e crostini. Al pomodoro, o di lenticchie quando mi sento in vena
di qualcosa di più avventuroso. Adesso finisci i compiti così poi mi aiuti. La
mamma va a farsi un bel bagno. Dico sul serio, Yasmina. Appena è pronto il
tè, te lo porto su e, se non ti trovo a mollo, mi arrabbio.»
Yasmina conosceva la testardaggine di sua suocera e poiché non aveva
ancora pensato a cosa preparare con l’agnello e gli altri ingredienti che aveva
comprato non ebbe nulla in contrario a lasciar cucinare lei. La prospettiva di
un bagno caldo la attraeva, e anche quella del tè, del silenzio e della
solitudine.
Era immersa nell’acqua calda e profumata quando capì che avrebbe avuto
soltanto i primi due, ma non silenzio e solitudine. Rabiah bussò alla porta e,
quando Yasmina la invitò a entrare, si presentò con due tazze, non una. Porse
il tè a Yasmina e si sedette sul coperchio del water con l’altra tazza fra le
mani.
«Ah.» Yasmina non tentò neppure di mascherare il disappunto. «Come
temevo.»
«Non pensavi che fossi venuta soltanto per aiutare Sati a fare i compiti,
vero? Ti devo parlare. Sono venuti due ispettori da Londra a indagare sulla
morte di quel diacono, ti ricordi? Quello che si è suicidato nella stazione di
polizia di Ludlow.»
Yasmina assaggiò il tè. Come suo solito, Rabiah l’aveva fatto troppo
leggero. L’unica soluzione era tenere a portata di mano lo Yorkshire Tea, che
dopo due minuti di infusione era già così forte da rischiare di corroderti lo
smalto dei denti. Qualsiasi altra qualità, se preparata da Rabiah, si
trasformava in acqua sporca.
«Non credo tu sia venuta a parlarmi di due ispettori in visita da Londra,
mamma» ribatté Yasmina. «Comunque, sì, mi ricordo del diacono che si è
suicidato. Era su tutti i giornali.»
«Ma sui giornali non era specificato che il diacono aveva rapporti con un o
una Lomax» disse Rabiah. «E siccome io non sono, ho pensato che fosse
Missa. Ti ha per caso detto se lo conosceva? No? Be’, lasciami continuare. Il
cognome Lomax compariva sette volte sull’agenda del diacono, il che
dimostra che si sono visti regolarmente. A proposito, quelli di Scotland Yard
sono venuti da me due volte, quindi immagino non sia una bazzecola. Per ora
li ho depistati, ma dubito che si lasceranno prendere per il naso ancora a
lungo.»
Yasmina stava per uscire dalla vasca, dopo quelle rivelazioni, ma non lo
fece per pudore. Sua suocera contava proprio su questo. Non a caso le aveva
consigliato un bel bagno caldo. Se non voleva farsi vedere nuda dalla
suocera, Yasmina doveva restare sotto la schiuma, prigioniera di quella
conversazione. Non poteva che guardare Rabiah, il suo bel volto dalla pelle
ancora liscia, gli occhi castani e sinceri, il fisico scattante della maratoneta.
Stava male al pensiero che Missa le mentiva da mesi. Ogni volta che le
pareva di aver capito che cosa pensasse veramente la figlia, poco dopo
scopriva di essersi sbagliata.
«Hai parlato con Missa?» chiese alla suocera.
«Sì, prima di venire qui sono passata dal parco a tema. Ho parlato sia con
lei sia con Justin. A proposito, sostiene di non essere contrario al fatto che
Missa finisca il college e si iscriva all’università. Secondo me ha paura che,
se non si dimostra collaborativo su questo aspetto, tu non darai mai il... Come
si chiama? È un termine latino... Ah, ecco: l’imprimatur. Teme che non li
lascerai sposare, in sostanza.»
«E Missa che cosa ti ha detto?»
«Riguardo ai suoi rendez-vous con il diacono? All’inizio ha cercato di
farmi credere che era stata Ding a chiamare Druitt sotto falso nome. Poi ho
scoperto che non era vero, e allora mi ha detto che qualcuno lo aveva
interpellato perché la aiutasse a prendere una decisione riguardo al college,
forse il suo tutor. Neanche lui voleva che Missa abbandonasse gli studi e
quindi, quando Druitt l’ha contattata, ha immaginato che fosse stato lui a
dargli il numero. Ti risulta?»
Yasmina sapeva che cosa le stava chiedendo in realtà Rabiah, e sapeva
anche che la sua risposta l’avrebbe contrariata, ma poiché la verità stava a
metà strada fra ciò che Yasmina aveva fatto e ciò che era successo in seguito,
non poteva tacere. «Ho parlato con il tutor di Missa, sì. Non ho potuto farne a
meno: lei mi propinava una storia sempre diversa.»
«E cioè? Accampava scuse diverse per smettere di studiare?»
«All’inizio ha detto che lo faceva per Sati. Sati aveva particolarmente
bisogno che lei stesse a casa, visto che Janna...» Ancora non riusciva a dirlo.
Provò a mascherare la propria incapacità di ammettere la definitiva
scomparsa della figlia posando la tazza e prendendo la saponetta per lavarsi.
«Questo durante le vacanze di Natale. Io e Timothy siamo riusciti a
convincerla che non era il caso. Allora Missa è tornata a Ludlow promettendo
di riprovarci, ma poi ha tirato fuori il disturbo dell’attenzione. Faceva fatica a
concentrarsi, diceva. Forse era dislessica. Fatto sta che non riusciva più a
seguire le lezioni di scienze, mentre prima non aveva difficoltà. Era sicura di
non passare l’esame. Le ho spiegato che i disturbi di apprendimento non si
manifestano così, da un momento all’altro. In assenza di eventi traumatici,
perlomeno. Insisteva che voleva tornare a casa e così ho parlato con il tutor. E
sì, non c’è bisogno che tu me lo dica, mamma: Missa non avrebbe gradito la
mia intromissione. Infatti ho pregato il tutor di non dirle niente. Comunque
Missa gli aveva già parlato e lui era preoccupato quanto me.»
C’era una manopola da bagno pulita in cima a una pila di biancheria
piegata e Rabiah la porse a Yasmina. «E quindi? Cos’ha fatto? Ha chiamato il
vicario?» le disse.
«Ha chiesto alla psicologa del college di convocare Missa per un
colloquio, ma siccome io temevo che i tempi fossero troppo lunghi e Missa
nel frattempo mollasse tutto, mi sono fatta dare il numero e l’ho chiamata io.
Le ho lasciato un messaggio in segreteria. Due, per la verità. Non mi ha mai
richiamato.»
Rabiah annuì. Saggiamente, seguì la pista del: «E Tim è al corrente di tutto
questo?»
Yasmina non gradì i sottintesi di quella domanda. «Non ho segreti per
Timothy» replicò. Poi non poté fare a meno di aggiungere: «Anche se
purtroppo lui è convinto di poterne avere per me, Rabiah».
Il fatto che l’avesse chiamata per nome anziché «mamma» indicava che, se
Rabiah avesse chiesto delucidazioni, Yasmina gliele avrebbe date, ma non
sarebbero state gradevoli. «Non è il momento di parlare dei segreti di Tim.
Ha una piovra sulla schiena, ma finché non se ne renderà conto da solo noi
non possiamo farci niente» replicò Rabiah.
«Credimi, sta peggiorando a vista d’occhio» disse Yasmina. «Stai serena,
però: finché a qualcuno non verrà in mente di controllare le scorte in
farmacia, andremo avanti come se nulla fosse.» Vedendo l’espressione
sgomenta della suocera, si affrettò a rimediare. «Scusa, mamma, non volevo.
Perdonami. È che la tua domanda... No, aspetta, provo a rispondere. Ho
spiegato a Tim le mie intenzioni, gli ho detto che avrei chiamato il tutor. Lui
mi ha dato dell’impicciona. Quando poi Missa a marzo ha lasciato il college
ed è tornata a casa, ha dato la colpa a me. Dice che le ho forzato la mano, che
se l’avessi lasciata fare avrebbe trovato la sua strada e sarebbe andato a finire
tutto bene.»
«Come nelle favole» commentò Rabiah.
«Infatti. Timothy se le scrive e se le legge» concordò Yasmina.
Allington
Kent
Il viaggio fino al Kent fu insostenibile. Isabelle Ardery l’aveva previsto, data
l’ora e la vicinanza a Londra, ma, nonostante si fosse preparata
psicologicamente, il traffico la innervosì al punto che a un certo momento
non resse più e dovette fermarsi in una piazzuola. Fece qualche bel respiro
profondo cercando di calmarsi e di liberare la mente dal groviglio di pensieri
che la attanagliavano. Si sentiva un fallimento totale: aveva mandato in
malora la trasferta a Ludlow, aveva mandato in malora il suo matrimonio e
adesso stava mandando in malora la sua vita. Seduta immobile in macchina,
si concentrò sulla propria pelle per fermare il formicolio che rischiava di
salire fino alle corde vocali e farla gridare. Si aggrappò al volante e guardò i
veicoli passare sull’autostrada.
Rimpiangeva di non aver preso il treno. Sarebbe stato affollato, ma le
avrebbe consentito di raggiungere Maidstone senza trovarsi di fronte ai propri
problemi. In quel momento, non se lo poteva permettere. Doveva poter
contare su tutte le risorse mentali ed emotive che aveva per andare a casa di
Bob nel giorno previsto dagli accordi e parlare con i bambini da sola. Certo,
Bob e Sandra non glieli avrebbero lasciati portare più in là del giardino di
casa per paura che per James «fosse troppo come l’altra volta». Così si era
espresso Bob. Isabelle era disposta ad accettare le sue condizioni perché
voleva a tutti i costi parlare con i bambini.
Aveva bevuto un goccio prima di uscire dall’ufficio per farsi coraggio.
Dopo era andata nel bagno per lavarsi i denti con spazzolino e filo
interdentale e sciacquarsi la bocca con un po’ di collutorio in maniera da
cancellare qualsiasi traccia dall’alito. Aveva ripetuto l’operazione due volte e,
per buona misura, aveva anche succhiato qualche mentina e masticato un
chewing-gum alla menta. Poi, però, il traffico l’aveva mandata in crisi. E lì,
ferma sulla piazzuola, provò di nuovo quell’impulso irrefrenabile, quel
bisogno totalizzante che le impediva di pensare.
Aveva con sé il rimedio, ovviamente. Nel cassetto portaoggetti. Insieme
con spazzolino, dentifricio e collutorio. Questo significava che,
all’occorrenza...
Si disse che no, non avrebbe ceduto. Aspettò un varco per immettersi di
nuovo nel traffico e riprendere il viaggio. Venti minuti dopo, però, vide il
cartello di un Welcome Break. Si fermò nel posteggio dell’area di servizio a
telefonare a Bob, perché si stava facendo tardi. Fu una conversazione breve,
Bob fu gentile e comprensivo. Isabelle gli disse che il traffico era più intenso
di quanto si aspettava, che sarebbe arrivata a Allington in ritardo. Nessun
problema, replicò lui. Purtroppo il traffico era un problema insormontabile.
Conclusa la telefonata, Isabelle guardò l’autogrill. Era grande e
sicuramente l’offerta di cibi e bevande calde era variegata, ma tè e caffè
l’avrebbero resa ancor più nervosa di quanto già era e quindi forse le
conveniva limitarsi a mangiare un boccone.
Dentro di sé, tuttavia, la sola idea di ingurgitare cibo, caffè o tè la
infastidiva. Per calmarsi rapidamente la soluzione era soltanto una. L’aveva
lì, in macchina. Un paio di mignon di vodka, magari tre... No, tre no. Non era
a quei livelli. Due. Sì, due sarebbero bastate a fermare il tremito delle mani, e
fermare il tremito delle mani era indispensabile, perché se si fosse presentata
in quello stato i bambini si sarebbero spaventati. Tra l’altro, se le tremavano
già adesso, al suo arrivo il problema sarebbe stato ancor più evidente.
Ingollò due mignon una dopo l’altra, in fretta, e lasciò che entrassero in
circolo. Allungò la mano per chiudere il cassetto, ma all’ultimo momento
afferrò anche la terza bottiglietta e bevve pure quella. Provò un enorme
sollievo.
Prese tutto ciò che le serviva e andò alla toilette per lavarsi di nuovo i denti
con spazzolino, dentifricio e filo interdentale e concludere con un bel
gargarismo.
A quel punto andò nel piccolo Marks & Spencer all’interno dell’autogrill e
siccome era quasi ora di cena comprò un muffin, che mangiò tornando alla
macchina. Si sentiva molto meglio.
Bob e Sandra abitavano vicino alla chiusa sul fiume Medway e, quando
Isabelle si fermò davanti al loro bel cottage con la facciata in pietra, evitò di
fare paragoni con l’appartamento al piano interrato in cui abitava lei a sud del
Tamigi, fra la Wandsworth Prison e il Wandsworth Cemetery. Bob, Sandra e
i gemelli abitavano vicino a un frutteto, in una casa con vista sul fiume sotto
un enorme carpino.
Percorse il vialetto spazzato con cura, fra primule gialle, bianche e rosa.
Prima di suonare il campanello si soffiò nella mano per controllare l’alito e si
sistemò i capelli, scoprendo di aver perso un orecchino. Come aveva fatto a
perderlo? Si tolse velocemente l’orecchino superstite e suonò, ammirando la
felce rigogliosa nel portavasi di ferro battuto.
Le aprì Laurence. «Mamma!» gridò. «È arrivata la mamma, James!» Un
istante dopo alle sue spalle si materializzò Bob. «Ciao» la salutò e la squadrò
per controllare in che condizioni fosse, cercando di non darlo a vedere.
Prima che Isabelle mettesse piede in casa, comparve anche Sandra. Isabelle
fu cordiale, ma non riuscì a fare a meno di guardarsi intorno alla ricerca di
James. Laurence lo chiamò una seconda volta e finalmente il bimbo fece
capolino da dietro la porta della sala da pranzo. Isabelle stava per salutarlo,
ma Sandra intervenne. «Vieni a dare un bacino alla tua mamma, tesoro.» Gli
tese la mano. James si avvicinò a lei, che gli cinse le spalle con un braccio e
gli bisbigliò nell’orecchio qualcosa che Isabelle non sentì.
Fece il possibile per reprimere l’indignazione, ma in realtà avrebbe voluto
prendere suo figlio – perché James era figlio suo, non di Sandra – e
bisbigliargli nell’orecchio qualcosa anche lei. Si trattenne. «Ciao, tesoro.
Laurence e io andiamo in giardino a chiacchierare. Vuoi venire anche tu?»
disse. Siccome James non rispondeva, ostentò indifferenza. «Se cambi idea,
raggiungici» concluse.
Bob guardò sia lei sia Sandra. «Da questa parte» disse poi. Come se
Isabelle non sapesse da che parte era il giardino. Lo seguì docilmente, però,
tenendo Laurence per mano. «Sei contento di partire per la Nuova Zelanda?»
Aveva visto gli scatoloni pronti da montare e non dubitava che Sandra stesse
per imballare il suo servizio di porcellana inglese, dopo essere riuscita a
impossessarsi dei suoi figli.
Bob li accompagnò in un prato perfettamente rasato e li condusse sotto una
pergola dove c’erano un tavolo e alcune sedie. Isabelle notò che era un punto
del giardino visibile dall’interno della casa ed ebbe un moto di stizza che
represse prontamente. Bob stava cercando di capire fino a che punto lei
avrebbe retto senza dare in escandescenze. Non aveva nessuna intenzione di
cedere alle sue provocazioni. «Perfetto, grazie» disse. «Vedo se riesco a
convincere James» disse Bob prima di ritirarsi, con sua grande sorpresa.
Laurence le parlò allegramente della Nuova Zelanda, della scuola che
avrebbe frequentato con suo fratello e del suo problema principale in quel
momento. «Non faremo vacanze, quest’estate, mamma. Neanche un giorno,
sai? In Nuova Zelanda è tutto al contrario: quando qui è inverno laggiù è
estate e quando qui è estate laggiù è inverno. Così, quando arriveremo là, noi
avremo appena finito la scuola e loro avranno appena finito le vacanze estive!
Non è giusto...»
«Ma sarà una bella scuola, vedrai. Vi divertirete un sacco.»
«Anche papà dice così.» Si voltò un istante verso casa e abbassò il tono di
voce: «Non so se James si troverà tanto bene, sai? È così capriccioso! Cioè, è
sempre capriccioso, ma in questo periodo di più».
«A volte cose che a noi non costano nessuna fatica per altri sono molto
difficili» osservò Isabelle.
«Secondo me, lo fa apposta.» Laurence diede un calcio a una gamba del
tavolo.
La portafinestra si aprì e uscì Sandra con un vassoio, seguita da un
recalcitrante James, testa bassa e capelli sul viso. «Con questa bella giornata,
ci vuole un buon gelato!» disse Sandra, trillante.
Posò il vassoio sul tavolo e Isabelle vide tre coppette di gelato alla fragola
con salsa al cioccolato, nocciole tritate e una ciliegina in cima. Sandra aveva
previsto perfino una cialda per ciascuno. Stava tentando di prendere per la
gola James, in maniera che restasse con la madre e il fratello. «Il gelato di
solito aiuta» disse a Isabelle sottovoce. Poi si rivolse a James. «Vieni, su.
Non vorrai perderti questo buon gelato, no?»
Laurence lanciò un gridolino di gioia e James si andò a sedere sulla sedia
più lontana da Isabelle e impugnò il cucchiaio. Isabelle si trattenne
dall’ammonirlo. Tieni bene quel cucchiaio! Era grande abbastanza per tenere
le posate come si deve e Isabelle l’aveva già visto comportarsi a tavola molto
meglio di così, quindi sapeva che lo stava facendo apposta. Assaggiò il
gelato, si complimentò e attese che Sandra togliesse il disturbo.
«Sei contento anche tu di andare in Nuova Zelanda?» chiese a James
quando finalmente Sandra si levò dai piedi, probabilmente per piazzarsi
dietro una finestra a sbirciare. «È una bella avventura, vero? Laurence mi ha
detto che siete già iscritti a scuola e che purtroppo quest’estate farete poche
vacanze. Però, pensa che bello: Natale d’estate anziché d’inverno. Non è
emozionante? Natale in spiaggia. Invece del tacchino, un bel barbecue. Che
meraviglia!»
James continuava a non guardarla in faccia. Era sempre stato più timido
del fratello, ma in quel momento la differenza era esagerata e Isabelle si
offese: James si comportava così per punirla e non le sembrava giusto.
«Ce l’hai con me, James? Cos’è che ti intristisce? Sei preoccupato all’idea
di andare a vivere in Nuova...?»
Arrivò di corsa dal nulla un cane nero come il carbone e si lanciò contro il
tavolo abbaiando furiosamente. Era grosso e agitato, ma scodinzolava. Forse
voleva semplicemente stare con loro, in braccio o direttamente sul tavolo.
Abbaiava gioioso, correva, saltava e cercava di lappare il gelato, in
particolare quello di James.
Il bambino si mise a gridare, come se invece di un cane fosse arrivato King
Kong, e partì a razzo verso il fiume. Naturalmente il cane pensò che James
volesse giocare e lo rincorse, continuando ad abbaiare tutto allegro. «No! No!
Papà! Mamma! Mamma!» urlò James. Bob uscì di casa di corsa.
«Non ti fa niente!» gli disse. «Fermati, James! Oliver pensa che tu voglia
giocare!»
Ma James continuò a correre, dalla riva del fiume verso il frutteto e in
mezzo agli alberi. Isabelle si accorse che era scoppiato a piangere. Si alzò e
gli andò incontro.
Sandra uscì in giardino e cominciò a chiamarlo, a braccia aperte. «Bob,
allontana quel cagnaccio!» disse. E, a Isabelle: «Ci pensiamo noi, non ti
preoccupare. James! James! Sta’ tranquillo, papà adesso lo fa andar via.
Vedi? Ecco, guarda: il signor Horton è venuto a riprendere Oliver».
James a quel punto era con la schiena appoggiata al tronco di un melo e il
cane era davanti a lui. Era ovvio per tutti tranne che per James che voleva
giocare. «Mandalo via, mamma! Mandalo via!» Quando Bob lo raggiunse,
James era in piena crisi isterica. Si rannicchiò in posizione fetale e
singhiozzava talmente forte che Isabelle lo sentiva da dov’era rimasta.
«Chiedo scusa» disse il signor Horton. «Appena ho aperto la porta è
scappato come una furia» spiegò. «Stiamo cercando di ammaestrarlo, di
insegnargli come si deve comportare, ma è ancora... Oliver! Basta! Qui!»
Bob aveva raggiunto il cane e Oliver era felicissimo di avere un nuovo
potenziale compagno di giochi. Afferrarlo per il collare, allontanarlo da
James e restituirlo al padrone non costituì un problema.
Sandra intanto prese in braccio James, consolandolo e accarezzandogli la
testa come se fosse un poppante.
In tutta quella confusione, Laurence non si era mosso di un millimetro e
aveva gustato il suo gelato osservando la scena come se si fosse svolta in tv.
Isabelle tornò a sedersi al tavolo. «È sempre così, mamma. Oliver viene qui
perché gli piace il fiume, poi ci vede e vuole giocare ma James si spaventa.
Non capisce. È un coglione» le svelò.
«È una parolaccia, Laurence» replicò Isabelle.
«James è un coglione! James è un coglione!» gridò Laurence a suo fratello.
Bob intanto era andato da Sandra, aveva preso il bambino e, tenendogli una
mano sulla spalla, lo stava riportando da loro. «Smettila immediatamente!»
disse a Laurence.
«È vero! È vero!» insistette Laurence. «Sai che controlla di non avere
mostri sotto il letto prima di andare a dormire, mamma? Con me nella stessa
stanza! Io non guardo sotto il letto per vedere se ci sono dei mostri, no? Lui
invece sì. Perché è un coglione. Coglione, coglione, ha paura di un cagnone!»
«Basta!» ordinò Bob severo. «Mi sembra di essere stato chiaro.»
«Bob, vuoi che ci pensi io?» intervenne Sandra, che aveva seguito docile il
marito.
«Non ce n’è bisogno» rispose lui. «James, il cane è andato via. Puoi finire
il gelato con la tua mamma e tuo fratello: il signor Horton l’ha portato a casa
sua.»
«Se non lo vuoi finire tu, lo finisco io» disse Laurence. «Anzi...» E allungò
la mano per prendere la coppetta del fratello e mangiare il suo gelato.
«Stai esagerando, Laurence!» A Isabelle venne spontaneo intervenire.
«Non sai cos’ha in testa James. Non puoi sapere che cosa pensi, che paure
abbia. Non voglio sentirti mai più insultare tuo fratello. E smetti subito di
mangiare quel gelato: non è tuo!»
Seguì un silenzio sbalordito. Isabelle aveva il cuore a mille. Laurence
rimase con il cucchiaino a mezz’aria e James alzò la testa dalla spalla del
papà. Bob la fissava sbigottito e Sandra era rimasta a bocca aperta. Poi la
chiuse.
Isabelle capì di essersi spinta troppo in là e se ne pentì immediatamente:
ancora una volta, aveva dimostrato scarso autocontrollo. Bob però fece un
mezzo sorriso e Laurence posò il cucchiaino e restituì il gelato a suo fratello.
Bob fece sedere James, gli diede un bacio sulla testa e si voltò per tornare in
casa, prendendo Sandra per mano. Isabelle rimase di nuovo sola con i figli.
«Scusa se prima ho alzato la voce, Laurence. Non mi piace che prendi in
giro tuo fratello, però. Non è giusto. Non ti fa onore, sai?» disse in tono
sommesso.
Laurence guardò il gemello, poi di nuovo la madre. «Scusa, mamma»
mormorò.
«Non è a me che devi delle scuse, Laurence.»
Il bambino si voltò verso il fratello. «Scusa, James. Vorrei tanto che...
Scusami.»
James teneva gli occhi sul gelato senza toccarlo. Era in preda ai sentimenti
che una scena del genere può scatenare in un bambino di nove anni. Isabelle
non credeva di poterli comprendere, ma si rendeva conto di quanto fossero
diversi i suoi figli, pur essendo gemelli monozigoti. Aveva inoltre la
sensazione che, se James era così pauroso, fosse in larga parte colpa sua. «È
normale avere delle paure, James. Dei cani, dei mostri sotto il letto, dei lupi
nascosti nell’armadio, dei serpenti...» gli disse.
James non replicò, né alzò lo sguardo. Laurence sbuffò e gli lanciò
un’occhiataccia. Isabelle proseguì.
«Per superare le nostre paure, dobbiamo accettare di averle e guardarle in
faccia. Non c’è altro modo. Se non riusciamo a riconoscerle, diventano
sempre più grandi e ci rovinano la vita. Io lo so, James, e sai perché? Sai
perché sono espertissima in fatto di paure?»
Il bambino scosse la testa. Laurence aveva smesso di mangiare e la
guardava intensamente.
«Perché in tutta la mia vita non ho mai imparato ad affrontarle. Per questo
voi state con papà e Sandra e non con me. Per questo appena ho potuto sono
andata via da Maidstone e mi sono trasferita a Londra. Ma ho imparato che
scappare non serve a niente, perché le paure ti inseguono e continuano a
tormentarti finché non le guardi in faccia.»
«Ma tu fai la poliziotta!» protestò Laurence. «I poliziotti non hanno paura.
Non possono aver paura.»
«Io non ho paura dei criminali a cui do la caccia» ribatté Isabelle. «Ho
paura di vedere come sarei se accettassi le mie paure.»
Laurence aggrottò la fronte. Anche James sembrava perplesso, quando alzò
la testa. Ma sembrava anche che stesse riflettendo tra sé e Isabelle gli lasciò il
tempo di farlo.
«Hai paura di essere paurosa, mamma?» domandò infine James.
«Proprio così» rispose Isabelle, prendendogli il polso e rendendosi conto di
quanto era fragile. «E così, invece di affrontare le mie paure, ho cercato di
mandarle giù bevendo.»
«Come una medicina?»
«No, come una pozione che si prende per dimenticare. Affogavo le mie
paure nella vodka e quando vostro padre mi ha chiesto di smettere non ci
sono riuscita. E non ci sono riuscita perché avevo paura di provarci
veramente. E di conseguenza ho perso lui e ho perso voi. E adesso vi
trasferite e vi vedrò ancora meno. Mi dispiace tantissimo. Insomma, quello
che volevo dire è che le paure vanno superate, altrimenti si vive male, si
perdono un sacco di cose e di persone. Non voglio che tu faccia questa fine,
James. E nemmeno tu, Laurence.»
«Laurence non ha paura di niente» disse James.
Laurence teneva gli occhi fissi sul gelato ormai sciolto in cui girava il
cucchiaino. «Non è vero che non ho paura di niente, James» replicò.
«E di cosa avresti paura, allora?» James era incredulo.
«Di andare via dall’Inghilterra e di non tornare mai più e di...» Gli tremò il
labbro e iniziò a girare il cucchiaino con più foga.
«Di...?» lo pungolò James.
«Di non vedere più la mamma!» Scoppiò a piangere.
Isabelle si sentì mancare. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non ci riuscì.
20 MAGGIO
Wandsworth
Londra
Qual era stata la sua paura più grande? Non perdere il marito, visto che si era
illusa stupidamente che Bob, come tanti altri uomini, non se la sentisse di
tornare a vivere da solo, abituato com’era ad avere una moglie al suo
servizio, benché Isabelle non fosse mai stata al servizio di nessuno, e meno
che mai del marito. E neppure perdere i figli. Era la loro mamma, li aveva
nutriti, cambiati quando se la facevano addosso, li aveva lavati e insaponati,
protetti dai pericoli. Aveva persino comprato un cancelletto da mettere in
cima alle scale perché non ruzzolassero giù... Non era la paura di perdere il
lavoro perché, pur essendo moglie e madre, era sempre riuscita a essere
professionale, distaccata e competente, anche quando a casa ne succedevano
di tutti i colori. No, non erano state queste le sue paure. La sua paura
principale era stata rimanere senza vodka.
Tornando a Londra dopo la serata con James e Laurence, Isabelle percepì
quel vuoto che ormai era parte di lei, l’abisso senza fine e traboccante di sensi
di colpa che si era creata con le sue stesse mani. La responsabilità delle paure
dei suoi figli, del loro dolore, era solo sua. In ultima analisi c’era lei
all’origine di tutte le loro ansie riguardo al trasferimento in Nuova Zelanda e
alla necessità di ambientarsi in un mondo completamente diverso, dove le
stagioni erano al contrario e li aspettava una scuola nuova dove avrebbero
dovuto farsi dei nuovi amici. Purtroppo, non era in grado di rassicurarli.
Al rientro dal Kent, si era accorta di non avere nessunissima voglia di
scendere la scala di ferro battuto ed entrare nel suo appartamento al piano
interrato avvolto da un silenzio che testimoniava le sue scelte sbagliate. E
così aveva parcheggiato e si era incamminata verso Trinity Road con
l’intenzione di andare avanti fino a non farcela più.
Non aveva in programma di entrare nella bottiglieria. Non pensava
neppure di trovarne una aperta. Invece l’aveva trovata, e a meno di un quarto
d’ora da casa.
Si era detta che avrebbe comprato un’acqua minerale. Aveva sete e, se
voleva camminare fino a non farcela più, era meglio idratarsi correttamente.
E così era entrata, imponendosi di guardare esclusivamente il frigo in fondo
al negozio, di fissare lo sguardo solo sulle bottigliette d’acqua.
Ne aveva presa una, soddisfatta di se stessa, l’aveva portata alla cassa,
l’aveva posata sul nastro trasportatore e aveva cercato gli spiccioli nella
borsa. Purtroppo, però, la cassiera le aveva detto: «Buonasera! Abitiamo di
fronte. Lei è il sovrintendente di polizia, vero? Me l’ha detto mia madre, che
è una pettegola di prima categoria e sa tutto di tutti». E Isabelle era stata
costretta ad alzare la testa. La cassiera era una ragazza di vent’anni o giù di lì,
con un granchio coloratissimo tatuato sul collo – davvero bizzarro – ma il
problema era che alle sue spalle c’era lo scaffale dei liquori. Isabelle aveva
sorriso automaticamente, come si fa in questi casi, e aveva risposto che sì,
lavorava in polizia, ma non le pareva di conoscere sua madre. Al che la
cassiera era scoppiata a ridere. «Lo so! Non esce mai. Sta tutto il giorno a
sbirciare da dietro le tende! Sono novanta pence, se non desidera altro» aveva
detto.
E così aveva finito per comprare due bottiglie di vodka Grey Goose. E
siccome non era tipo da lasciarsi fare la predica da nessuno e non permetteva
a nessuno di dirle che cosa doveva e non doveva fare – e chi ci provava poi se
ne pentiva – aveva stabilito di interrompere lì la sua passeggiata serale. Era
tornata a casa, aveva messo una bottiglia di vodka nel frigo e aveva aperto
l’altra.
L’aveva svegliata l’antifurto di un’automobile parcheggiata in una delle
strade vicine. Lì per lì aveva pensato che fosse ancora sera per via della luce
fioca che arrivava da fuori, poi però aveva guardato il tavolino di fronte al
divano su cui era sdraiata e aveva visto il bicchiere rovesciato e accanto la
bottiglia di Grey Goose. Era sicura di averla lasciata in cucina e invece
sembrava galleggiare in un laghetto di vodka costosissima, contenuta dai
bordi del tavolino.
Aveva la bocca impastata e una sete terribile. Posò i piedi per terra e si
accorse di essersi tolta i pantaloni e di avere gli slip infilati in una gamba
soltanto.
Per un attimo si domandò sbalordita se per caso non avesse lasciato entrare
qualcuno in casa, ma poi le venne in mente che a un certo punto era andata in
bagno e aveva preferito lasciare i pantaloni ammonticchiati per terra e poi si
era detta ridacchiando che era assurdo continuare ad andare avanti e indietro
dalla cucina per prepararsi l’ennesimo vodka martini. Solo che... come poteva
essere già ubriaca a quell’ora? Che ore potevano essere? Doveva essere
tornata a casa da un’oretta a dir tanto...
Guardò l’orologio e si rallegrò di averlo ancora. Segnava le cinque e pochi
minuti. Isabelle aggrottò la fronte perché: o l’orologio si era fermato – e non
era così perché la lancetta dei secondi girava – o il tempo andava alla
rovescia, oppure era già la mattina successiva. In ogni caso, le conveniva
dormire ancora un paio d’ore, dato che non riusciva neppure ad alzarsi dal
divano. Prima, però, forse era meglio chiamare in ufficio e lasciare un
messaggio a Dorothea Harriman per avvertire che non si sentiva bene. In
effetti le esplodeva la testa, e comunque quando era stata l’ultima volta che
aveva preso un giorno di malattia?
Isabelle non se lo ricordava e dubitava che Dorothea Harriman tenesse il
conto.
Ludlow
Shropshire
Lynley rimase favorevolmente colpito nel vedere Barbara Havers già pronta a
quell’ora. Evidentemente durante la notte aveva deciso di spuntarsi i capelli e
quando lui la guardò inclinando la testa da un lato gli disse: «Se avessi avuto
un altro specchio per vedermi dietro e sui lati sarebbero venuti meglio.
Pazienza. Sbagliando s’impara».
«Sagge parole. E comunque l’asimmetria ha un suo fascino» commentò
Lynley.
Barbara indicò le rovine del castello sull’altro lato della strada. «Ha notato
quanto siamo affezionati ai nostri mucchi di pietre? Credo che siamo l’unico
Paese al mondo in cui si dedicano interi programmi ai ruderi del passato.»
«Mi stupisce, sergente!» replicò Lynley. «Ha cambiato abitudini
televisive?»
«Assolutamente no» rispose Barbara. «Ho appena messo le nuove pile nel
telecomando.»
«Mi ero illuso che volesse farsi una cultura...»
«Oh, be’. So che questo castello ha a che fare con i Plantageneti, per
esempio. L’altra volta Harry mi ha raccontato di certi York che uscivano dal
castello a cavallo e gli York fanno parte dello stesso clan. Non ha specificato
esattamente chi, ma io non gli ho chiesto lumi, avendo già fatto la mia figura
con gli Edoardi. Non so se mi spiego.»
«Be’, questo castello ospitò più di un Edoardo, visto che si strappavano
Ludlow l’un l’altro come il servizio in una partita di tennis. Naturalmente,
alla fine se la aggiudicò l’usurpatore. Al pari di tutto il resto, compreso il
privilegio di raccontare la storia.»
«Mi scusi?»
«Enrico VII. La storia la scrivono i vincitori, Barbara. Andiamo?»
A parte un furgone del latte, a quell’ora antelucana non c’era nessuno in
giro. Impiegarono pochi minuti a raggiungere la casa di Finnegan Freeman.
Lynley suonò il campanello e, dato che nessuno rispose, bussò
energicamente. Invano. A quel punto provò la maniglia.
La porta non era chiusa a chiave e la casa era silenziosa. C’era odore di
uova bruciate, una puzza a metà fra il carbone e lo zolfo che proveniva da una
padella posata in fondo alle scale, con concrezioni nerastre sul fondo coperte
da uno strato di detersivo per i piatti.
Barbara si diresse verso la cucina, guardò dentro e scosse la testa per
segnalare a Lynley che non c’era nessuno intento a preparare o a consumare
la colazione. Alzò un dito e varcò la soglia. Lynley la sentì aprire e chiudere
sportelli. Conoscendola, sapeva che era tutto possibile: magari aveva deciso
di prepararsi due uova strapazzate. Ma Barbara ricomparve poco dopo con
due coperchi e Lynley capì al volo le sue intenzioni. Lanciò un’occhiata in
direzione del salotto per accertarsi che non ci fosse nessuno e si avviò su per
le scale con Barbara, stando attento a non urtare la padella bruciata.
Al primo piano c’erano tre camere da letto e un bagno. In giro non c’era
nessuno. La prima porta che provarono ad aprire era chiusa a chiave, la
seconda no. Lynley la spalancò senza fare rumore. «Non è proprio il principe
azzurro, eh?» commentò Barbara nel vedere il corpo scompostamente
sdraiato sul letto.
Era la verità: Finnegan Freeman non era granché bello, nel sonno. Aveva
la bocca aperta e un paio di boxer che sarebbero dovuti stare a mollo nella
candeggina un giorno intero per tornare bianchi. Russava leggermente.
Barbara si avvicinò al letto in punta di piedi e Lynley la seguì. La finestra
era chiusa e l’aria nella stanza era viziata e puzzolente: non solo sudore, ma
anche emissioni gassose in quantità. Barbara prese silenziosamente
posizione, guardò Lynley, inarcò un sopracciglio, aspettò che lui le desse il
via e batté i coperchi uno contro l’altro. «Svegliaaa!» gridò.
Finnegan rotolò giù dal letto e atterrò in posa da karateka. Poi, con un urlo
di guerra, cambiò posa: un vero spettacolo, in mutande.
Barbara abbassò i coperchi. «Caspita!» esclamò.
Lynley mostrò il tesserino e si presentò. «Ispettore investigativo Thomas
Lynley, New Scotland Yard. Abbiamo suonato il campanello, ma nessuno ha
risposto. La porta era aperta.»
«Dovreste starci attenti» aggiunse Barbara. «Anche se non c’è niente da
rubare, non credo le farebbe piacere trovarsi Biancaneve sdraiata sul letto.
Ma forse mi sbaglio.»
Finnegan era ancora in posizione da karate, ma si tirò su e sbottò. «Vi ha
mandati lei, vero? È stata lei!»
«Biancaneve?» domandò Barbara. «No, siamo venuti di nostra iniziativa,
l’ispettore e io. Quindi, se si riferiva a sua madre, il vicecomandante di
Ludlow Clover Freeman, le posso dire che no, non ci ha mandato lei. Vuole
vestirsi?»
«Io con voi non vengo. Non mi porterete da nessuna parte.»
«Vogliamo soltanto parlarle, Finn. Possiamo anche farlo qui, con lei in
mutande, seduti per terra o sul letto, oppure possiamo scendere e
accomodarci in cucina o in salotto. Consiglierei la cucina, personalmente. Se
vuole, le preparo il caffè.»
«Voglio un po’ di privacy per vestirmi.»
«Rimango io, sergente» si offrì Lynley. «Se lei intanto vuole portare giù i
coperchi e accendere il bollitore...»
Barbara annuì e li lasciò soli. Lynley vide una sedia in un angolo e la portò
vicino alla porta. Chiuse e si sedette.
«Devo pisciare» annunciò Finn.
«Prima si vesta, per cortesia. Non renda tutto più difficile, Finnegan.»
«Finn» lo corresse il ragazzo.
«Finn. Le prendo qualcosa da mettersi?»
«Certo, perché ho bisogno che me lo faccia qualcun altro?» Raccolse da
terra jeans e maglietta e se li infilò senza cerimonie. «Si leva, adesso?»
Lynley lo lasciò passare, ma lo seguì fino al bagno. «C’è la polizia!
Nascondete la refurtiva!» gridò Finn.
Entrò nel bagno e non si curò di chiudere la porta, permettendo così a
Lynley di assistere al rumoroso scroscio di urina e alle flatulenze che lo
accompagnarono. Poi uscì dal bagno senza tirare lo sciacquone e senza
lavarsi le mani e Lynley prese mentalmente nota di non stringergli la mano
prima di congedarsi.
Finn gli passò davanti. «È contro la legge piombare in casa della gente in
questo modo: non crediate che non lo sappia. Conosco i miei diritti. Se io non
ti apro e tu entri lo stesso è violazione di proprietà privata. E se mi trattieni
contro la mia volontà è sequestro di persona. Vi siete comportati come... Ma
come cazzo state, eh? Vi credete di essere come i poliziotti dei film? Potevate
abbattere la porta a calci, già che c’eravate. Siete convinti di poter intimidire
chiunque come e quando volete tanto nessuno protesta, nessuno dice un
cazzo. Ma con me non attacca: sappiatelo. Io so fin dove potete arrivare»
disse.
«Certo, certo. Andiamo in cucina?»
Una delle altre due porte si aprì e apparve un ragazzo. Bruce Castle, pensò
Lynley: così si chiamava. Dietro di lui c’era la ragazza con cui l’aveva visto
il giorno prima, Monica. Si mordicchiava la nocca dell’indice.
«Freeman, devi fare qualcosa: non può venirci in casa la polizia ogni due
per tre. Comincio a stancarmi» disse Bruce.
«Ma andatevene affanculo, tutti e due. Chi è lei, a proposito? E dov’è
Ding?» Andò a bussare alla terza porta. «Con chi sei, Ding? Lo fa meglio di
me e Brucie?»
Lynley lo prese per un braccio. «Ha esposto fin troppo chiaramente le sue
opinioni, Finnegan. Andiamo.»
Finn si ritrasse. «Finn! La prossima volta che mi mette le mani addosso, le
spezzo una clavicola: la avverto.»
«Perché proprio una clavicola?» domandò incuriosito Lynley. «Bene, è
pronto per il tè, adesso.»
Finn lo fulminò con quella che Lynley immaginò fosse la sua occhiata più
minacciosa e fece strada verso la scala, poi scese brontolando e pestando i
piedi. In cucina, Barbara aveva trovato tre tazze e una scatola di PG Tips. «Il
latte è rancido, ma qualcosa che assomiglia allo zucchero c’è» disse.
«Chi vi ha autorizzato a comportarvi come se foste a casa vostra?» protestò
Finn. «Conosco i miei diritti. Non potete usare le nostre cose come se...»
«Useremo una bustina di tè soltanto» lo interruppe Barbara. «E, se
preferisce, vado a chiedere al vicino se mi riempie d’acqua il bollitore.
Pensavo volesse sbarazzarsi di noi il più in fretta possibile, però. Se è così, le
conviene essere un po’ più cooperativo.»
Il ragazzo si accasciò su una delle tre sedie usate a mo’ di tavolo in un
angolo. Poco più in alto era appesa una bacheca a cui era stata fissata con una
puntina da disegno una tabella con turni di pulizia che, evidentemente, i
coinquilini ignoravano nella maniera più assoluta. La cucina in particolare era
in condizioni pietose: il lavello traboccava di piatti sporchi, i fornelli
parevano reduci da un esperimento scientifico finito male, le ante degli
sportelli erano aperte e c’erano scatolette, sacchetti e bottiglie da tutte le parti.
Il bollitore si spense automaticamente e Barbara preparò il tè usando, come
promesso, una bustina soltanto. Poi portò le tre tazze sul tavolo. «Io lo prendo
con lo zucchero» dichiarò Finn. Barbara allora gli porse una ciotola
contenente una montagnetta grigia da cui Finn staccò alcuni pezzetti a colpi
di cucchiaio.
«Allora: che cosa volete?» chiese. Dando per scontato che il ragazzo
sorbisse rumorosamente il tè, Lynley si era preparato al peggio, ma Finn gli
fece una piacevole sorpresa. Bevve senza far rumore. «Vi do cinque minuti,
perché ho lezione e non la voglio saltare. Scordatevi di trattenermi: non ne
avete il diritto. Non prendetemi per fesso perché non lo sono e conosco i
miei...»
«Diritti. Sì, abbiamo capito. Non la tratterremo, sebbene io abbia il forte
sospetto che lei non abbia lezione a quest’ora del mattino.»
«Chi dorme non piglia pesci» sentenziò Barbara.
«Dubito sia questo il caso.»
«Allora, si può sapere che cosa volete?» chiese Finn. «Vi ha mandato lei,
vero?»
«Sua madre?» chiese Barbara.
«Chi altro?»
«Perché avrebbe dovuto mandarci da lei, Finn?» domandò Lynley.
«Chiedeteglielo. Io proprio non lo so.»
«Non è stata sua madre a mandarci. Non funziona così. Siamo qui per
parlare di Ian Druitt.»
«Cosa c’è ancora da dire? Ho detto quello che ho detto e non ho niente da
aggiungere. Era in gamba, gentile con tutti e non ha mai alzato un dito su
quei bambini. È una balla pazzesca e infatti quel bastardo l’ha denunciato con
una chiamata anonima, perché nessuno può dire certe cose su Ian mettendoci
la faccia. Nessuno.»
«Strano che lei sappia che a telefonare è stato un uomo» osservò Barbara.
«Che cosa? State insinuando che sono stato io? Non saprei manco chi
chiamare per sparare una cazzata così.»
«Interessante, visto che sua madre è in polizia» insistette Barbara.
«Non sarei certo andato a dirlo a lei, se avessi pensato male di Ian, cosa
che non ho fatto, non faccio e mai farò.»
«E se Ian avesse pensato male di lei?» domandò Barbara.
Il ragazzo prese in mano la tazza e bevve un gran sorso di tè, stavolta
facendo rumore. «Nel senso?»
«Pare che Ian Druitt avesse delle perplessità sul suo conto» disse Lynley.
«Pare anche che volesse parlare con i suoi genitori, Finn» aggiunse
Barbara.
«Ma che cazzo dite?» Finn si indignò. «Ian non li conosceva, i miei
genitori. Non li ha mai incontrati.»
«Lo sappiamo» replicò Barbara. «Infatti ha chiesto in giro il loro numero
di cellulare.»
«Chi vi ha raccontato ’sta balla?»
Barbara alzò una mano come per interromperlo. «Non glielo posso dire: è
un’informazione riservata. Posso garantirle, però, che il diacono voleva
parlare di lei ai suoi genitori. L’ispettore può confermarlo.»
«Stronzate. Se Ian aveva un problema con me, me lo diceva direttamente.
Era fatto così. E non aveva nessun problema con me, perché facevo
esattamente quello che dovevo fare e cioè aiutavo i bambini a fare i compiti o
quello che dovevano fare, gli insegnavo a usare Internet per le ricerche della
scuola, li facevo giocare, organizzavo le squadre, li allenavo... Ho sempre
fatto tutto quello che mi veniva detto di fare.»
«Bravo. Molto bene. Purtroppo, però, sembra che le perplessità di Ian
Druitt non riguardassero le cose che doveva fare, ma eventuali libertà che lei
si prendeva e che avrebbe fatto meglio a non prendersi.»
«Tipo? Spacciare droga, convincere i bambini a farsi le canne, distribuire
pasticche? Insegnargli ad arrampicarsi su per le grondaie per aiutarmi a
svaligiare appartamenti?»
«Sono tutte ipotesi interessanti» replicò Barbara. «A lei quale sembra più
probabile?»
«Il signor Druitt ha parlato di ’influenza sui bambini’» disse Lynley. «Ha
espresso la propria preoccupazione per l’influenza che lei poteva avere.»
«Per quel che ne so, era previsto che avessi una qualche influenza»
protestò Finn.
«Dipende dall’influenza» ribadì Barbara. «E può darsi che Ian Druitt
usasse il termine come un...»
«Eufemismo?» suggerì Lynley.
«Esatto. L’influenza può essere di tanti tipi, non so se mi spiego» disse
Barbara al ragazzo.
Finn rimase zitto. Fuori gli uccellini cantavano. Un’automobile si mise in
moto rombando, con il motore su di giri. Finn guardò prima Barbara, poi
Lynley e poi di nuovo Barbara. Si ingobbì sulla sedia e prese la tazza fra le
mani. «Perché non parlate chiaro, così dopo vi caccio?» disse.
«È possibile che Druitt volesse parlare con i suoi genitori perché era
preoccupato di come lei si rapportava con i bambini, Finn» disse Lynley.
«In che senso?»
«Nel senso che le interazioni possono essere di molti tipi. C’è il genere che
ci ha descritto poco fa, in cui lei fa la parte del fratello maggiore e i ragazzini
la guardano come se fosse re Artù, e poi c’è il genere che è meglio tenere
segreto e ben nascosto. Se qualcuno avesse assistito a questo secondo tipo di
interazioni...»
«Non so di che cosa parlate» interloquì Finn.
«Vede, Finn, abbiamo acquisito una serie di fatti, numeri e così via, chi ha
fatto cosa, quali sono state le conseguenze... E ogni volta viene fuori il suo
nome. È come se lei fosse il ragno al centro della ragnatela» replicò Barbara.
«Abbiamo appreso che suo padre ha chiesto all’agente ausiliario di Ludlow
di tenerla d’occhio» lo informò Lynley. «Dal che si deduce che anche suo
padre nutriva perplessità sul suo conto, Finn.»
«Non esiste.» Finn si leccò le labbra. Aveva la lingua grigiastra. Spostò lo
sguardo su Barbara, poi di nuovo su Lynley. Sembrava aver perso di colpo
tutta la sua sicumera.
«Che cosa non esiste?» domandò Barbara. «Sono certa che lei capisce la
nostra situazione.» Fece un gesto vago alla sua destra. «Lei sa che da qui alla
stazione di polizia la strada è breve e poco frequentata, se si passa da
Weeping Cross Lane. Specie di notte. Si arriva dal lato del parcheggio e,
siccome la videocamera sopra l’ingresso posteriore della stazione non
funziona, si può entrare senza essere ripresi. Se Gary Ruddock fosse stato a
bordo dell’auto di servizio assieme alla sua amante, come a volte succede...»
«Gaz non ha nessuna amante. Se ne lamenta in continuazione.»
«... chiunque sarebbe potuto arrivare alla stazione e telefonare al 999...»
«Ve l’ho detto! Non so un bel niente di quella telefonata anonima, che
comunque era solo un mucchio di palle.»
«... ma anche far fuori Ian Druitt una sera di marzo e chiudergli la bocca
per sempre, in maniera che non riferisse le brutte cose che non avrebbe
dovuto vedere ma aveva visto lo stesso.»
«Come ha detto? No! Ma che idee vi siete fatti? Ve l’ha messo in testa
Gaz? Chiunque sia stato, è una cazzata. Se l’ha detto Ian, mentiva. O l’ha
detto un ragazzino che magari si è offeso per qualcosa che ho fatto e vuole
farmela pagare? In ogni caso, ve lo dico chiaramente: non sono obbligato a
parlare con voi e non intendo farlo. Avete capito? Perché state dicendo un
sacco di stronzate e chiunque abbia detto quelle cose di me è un bugiardo
schifoso.»
Spinse indietro la sedia facendola strisciare sul linoleum e uscì. Siccome
andò ad aprire la porta di casa, per un attimo Barbara e Lynley temettero che
volesse darsi alla fuga, invece si mise a gridare: «Uscite! Ho capito a che
gioco giocate e non ci sto! Andatevene!»
Siccome nessuno si mosse, chiuse la porta, facendola sbattere con tanta
violenza che le finestre della cucina tremarono, salì di sopra e si chiuse in
camera sua, sbattendo anche quella porta.
«Che scenata!» Barbara si diresse verso l’ingresso, ma al piano di sopra si
sentirono dei passi e quindi una voce di donna. «Se ne sono andati, Finn?»
Lieve bussare alla porta. «Sei qui, Finn? Che cosa voleva la polizia?»
Barbara guardò Lynley, che alzò una mano. Restarono dov’erano, in
silenzio. La ragazza dopo un po’ scese in cucina, li vide e rimase basita.
Indossava una camicia da notte di cotone e si chiuse pudicamente il colletto
con le dita. Era Dena Donaldson. Si voltò per tornare di sopra.
«Possiamo parlarle un attimo, Dena?» disse Lynley.
«Perché?»
«Curiosità.»
«Di cosa volete parlare?»
«Di Rabiah Lomax.»
Ding rimase immobile e li guardò, prima uno e poi l’altra. «Non ho fatto
niente di male. Non vedo perché dovrei parlare con voi» disse.
«Non è obbligata. Glielo stiamo chiedendo per piacere. Può rifiutarsi, se
crede.»
«Ma, se si rifiutasse, ci chiederemmo il perché.»
«La nostre indagini ci portano a questa casa» spiegò Lynley. «Se lei
riuscisse a chiarire alcuni punti, le saremmo molto grati.»
Sia pur con un’aria decisamente poco convinta, Dena scese di nuovo le
scale. Non era alta, notò Lynley, ma era ben proporzionata e aveva un bel
viso, sebbene in quel momento sembrasse piuttosto tesa.
Si avvicinò. «E va bene. Quali sono i punti da chiarire?» disse.
«Grazie» rispose Lynley. «Che rapporti ha con Rabiah Lomax?»
«Perché?»
«Perché è marginalmente coinvolta nei fatti su cui stiamo indagando.»
«Io però non c’entro niente.»
«D’accordo.»
Ding non replicò. «Quindi, se non le dispiace...» disse Barbara.
«Sono amica di Missa, la nipote. La signora Lomax è venuta qui ieri
perché mi doveva trasmettere un messaggio di Missa.»
«Strano che Missa abbia usato la nonna, anziché il cellulare» commentò
Barbara.
«Missa aveva una mia collana. Si era dimenticata di restituirmela e la
signora Lomax me l’ha portata.»
«Le ha portato la collana o le ha trasmesso un messaggio?» chiese Lynley.
«In che senso? Tutti e due.»
«In che cosa consisteva il messaggio?» domandò Barbara.
Dena inclinò la testa e la squadrò. «Non sono tenuta a dirvelo. È una cosa
personale e penso che non abbia a che fare con le vostre indagini. Missa
aveva un ragazzo, si erano lasciati e adesso stanno di nuovo insieme. Più di
questo non dico.»
«E lei, Dena?» chiese Barbara. «Anche lei ha un fidanzato?»
«No, in questo momento no.»
«Non sta con Gary Ruddock?»
«Chi?»
«L’agente ausiliario. L’ho vista con lui una sera alla stazione di polizia.
Dentro una macchina, per essere precisi. Come mai eravate assieme?»
Dena guardò Lynley e poi si rivolse di nuovo a Barbara. «Non lo conosco
nemmeno. So solo che viene allo Hart and Hind ogni volta che qualcuno si
lamenta per il baccano, perché qui a Ludlow la gente va a dormire alle sette e
mezzo e protesta al minimo rumore. Non sono mai salita sull’auto di
pattuglia. Allora okay: ho risposto alle vostre domande e adesso, se non vi
dispiace, tornerei in camera. Ho una...»
«Lezione, giusto?» disse Barbara. «In questa casa siete tutti secchioni, a
quanto pare.»
La ragazza salì di sopra e chiuse la porta. Un momento dopo si sentì
scrosciare l’acqua nella vasca da bagno.
«Giuro su Dio che era lei la ragazza con Ruddock» disse Barbara a Lynley.
«Non è possibile averne la certezza, sergente. Era buio e la macchina era in
fondo al parcheggio» rispose Lynely.
«Sì, però...»
Lynley la guardò e non capì perché gongolasse. «Però cosa?» chiese.
«Io non ho detto auto di pattuglia. Lei sì, invece.»
Lynley si voltò verso le scale e annuì pensieroso. «Abbiamo bisogno di
conferme» disse.
«D’accordo. Conosco uno che probabilmente è in grado di darcele.
Dobbiamo soltanto trovarlo.»
Worcester
Herefordshire
Trevor Freeman non aveva la più pallida idea di chi potesse telefonargli a
quell’ora inconsulta del mattino. Non erano nemmeno le sei e mezzo. Poi
lesse il nome sul display e gli venne la pelle d’oca. Scostò le coperte e
premette il tasto. «Finn? Tutto bene?» La risposta fu un misto di singhiozzi e
grida.
Trevor non capì nulla. «Calmati, Finn. Non capisco cosa dici. Che cosa è
successo? Hai avuto un incidente? Respira, Finn, perdio! Sei seduto? No?
Siediti da qualche parte e calmati. Sono qui. Riprenditi.»
Aspettò un momento. Sentì che Finn tirava su con il naso, cambiava posto,
ansimava come un corridore e poi cominciava a raccontare. Non seguì un filo
logico, ma Trevor capì comunque il succo del discorso: i due ispettori di New
Scotland Yard che erano venuti a Worcester a parlare con Clover erano andati
a cercarlo a casa, erano saliti in camera sua con delle padelle o delle pentole,
non si capiva perché, e l’avevano interrogato, torchiato, gli avevano fatto il
terzo grado o come si dice. Non era facile sentirsi dire una cosa del genere da
un figlio. Al termine di quel discorso sconclusionato, Trevor aveva un groppo
in gola. Si sforzò di mantenere il sangue freddo e di rassicurare Finn
dicendogli che avrebbe preso in mano lui la situazione.
«Ha mentito, papà. Non è vero niente!»
Trevor non sapeva se Finn stesse parlando di Gaz Ruddock o di Ian Druitt.
«Ci penso io, Finn. Tu non fare niente. Mi hai capito?»
«La storia dei bambini... Io ho fatto solo quello che dovevo, papà, te lo
giuro. Non mi verrebbe manco in mente... Perché quello è andato a dire che
io... E così adesso sono convinti... Credono che sia andato alla stazione di
polizia, ma non è vero. Io non ho fatto niente!»
«Ci penso io, Finn. Ti fidi di me?»
«Che cosa? Che cosa?»
«Tu stai lì e non ti muovere. Mi faccio sentire io.»
«Gli spaccherei la faccia a quel...»
«Lo so, ti capisco. Al tuo posto sarei arrabbiato quanto te. Ma non reagire.
Dammi retta.»
Chiuse la telefonata sconvolto. Sentì la radio accesa al piano di sotto, in
cucina. Clover era ancora a casa e stava ascoltando il notiziario. Certo che era
ancora a casa. Erano le sei e venticinque, Clover usciva dopo. Si diresse
verso la porta della camera, si accorse di essere nudo e cercò i boxer per terra.
Mentre si chinava a raccoglierli, la radio si spense, si udirono dei passi e il
rumore del portone che si apriva e si richiudeva. Clover era uscita.
Trevor si precipitò alla finestra, ma Clover era di schiena e gli venne in
mente di battere sul vetro soltanto quando ormai stava salendo in macchina.
Si infilò i boxer e corse di sotto, ma Clover partì prima che lui riuscisse ad
aprire la porta di casa, perché era maniaca della sicurezza, quando usciva
dava sempre due giri e la chiave non era appesa al solito gancetto.
Clover l’aveva nascosta! Aveva previsto tutto! Aveva intuito cosa stava
per succedere e non voleva essere presente, quando i nodi delle sue azioni
fossero venuti al pettine.
Trevor frugò nell’unico cassetto dello scrittoio nell’ingresso, dove
mettevano la posta in attesa di smistarla, ma la chiave non c’era. Provò in
cucina, spostando gli oggetti sui piani di lavoro e sul tavolo. La chiave era lì,
nel cestino in cui tenevano i tovaglioli di carta. Non ce l’aveva messa lui, ne
era certo. E quindi doveva avercela messa lei. La prese, andò ad aprire la
porta e corse in strada, dove aveva lasciato la sua macchina.
Quando provò a mettere in moto, si rese conto che gli tremavano le mani.
E anche le ginocchia, e le braccia... Era scosso da un tremito convulso, come
un bambino solo nel buio in preda a rabbia, paura, terrore, angoscia,
disperazione... Si tremava anche per la disperazione?
Partì all’inseguimento della moglie, che era una creatura abitudinaria e
percorreva sempre lo stesso itinerario. Ma tutti fanno sempre la stessa strada
per andare a lavorare, no? Non è una gita di piacere, si sceglie il percorso più
breve e più agevole. Nel caso di Clover, la A38.
Trevor raggiunse la statale, accese le luci di emergenza e suonò il clacson.
Quando la strada divenne a quattro corsie, si piazzò su quella di sorpasso e
premette al massimo l’acceleratore. Avvistò l’auto di Clover dopo meno di
dieci chilometri, perché lei stava guidando con prudenza, al contrario di lui.
Clover accostò alla prima occasione. Non era nemmeno una vera e propria
piazzuola, ma un minuscolo spiazzo sul ciglio della strada, fra i pioppi.
Scesero dalle rispettive automobili, lui con il cellulare in mano, che agitò
nella sua direzione. Clover fece una faccia stupita. E stupita era poco, visto
che Trevor era in mutande e scalzo. L’aria fresca del mattino lo fece
rabbrividire.
«Ho il cellulare nella borsa, Trev. Non è il tuo, quello? Avresti dovuto
provare a telefonarmi e te ne saresti accorto» gli disse.
«È andato tutto in malora» protestò lui. «Non so che cos’abbiate tramato,
voi due, ma sappi che è andato in malora.»
Clover sbiancò, sentendolo usare quel tono. «Cosa ti prende? Mi fai
paura.»
«Nostro figlio. Mi ha appena telefonato. Non l’avevo mai sentito in quello
stato.»
«Ha...? È...?»
«Gli ispettori di Londra si sono presentati in camera sua come gli Spiriti
del Natale passato, presente e futuro, lo hanno svegliato e lo hanno trascinato
in cucina per torchiarlo.»
«Oddio.» Clover guardò il cellulare che Trevor aveva ancora in mano, poi
spostò lo sguardo verso il traffico che scorreva vicinissimo a loro e arretrò fra
le due macchine. «Che cosa ha detto? Dov’è adesso? Non lo hanno arrestato,
vero?»
«Quando ho capito cosa cercava di dirmi fra i singhiozzi, mi...»
«È a casa, vero? Non l’hanno arrestato, vero?»
«La polizia lo ha interrogato riguardo a presunte scorrettezze nei confronti
di alunni di sei o sette anni, o quanti anni hanno i bambini di quel cazzo di
doposcuola in cui gli hai imposto di fare volontariato. I tuoi ispettori di
Londra...»
«Non sono miei.»
«... sono convinti che le perplessità di Druitt nei confronti di Finn avessero
a che fare con atti di pedofilia. Tu lo sapevi, Clover? Dimmelo, per favore.»
«Che cosa sapevo? Che New Scotland Yard sarebbe...»
«Non parlo di New Scotland Yard. Voglio sapere se tu eri al corrente del
fatto che le telefonate di Druitt a Gaz avevano come argomento principale la
condotta di Finn con quei bambini. Di questo parlavate tu e Gaz di nascosto
da me?»
«Ho cercato di spiegartelo, Trevor. Il problema è New Scotland Yard. So
come pensano, quelli, e so come lavorano: la prima volta che sono venuti a
Ludlow, ho raccomandato a Finnegan di non parlare con loro se non in
presenza di testimoni, ma lui non mi ha voluto dare retta ed ecco che cosa è
successo. I miei timori si sono avverati.»
«Ovvero? Avevi paura che la Metropolitan Police stabilisse che nostro
figlio è un pedofilo?»
«Ma, no, figurati! Avevo paura della Metropolitan Police, punto e basta.
Non volevo che Finn parlasse con loro a tu per tu, ma lui ha sottovalutato la
situazione, si è illuso di essere all’altezza, era convinto che si limitassero a
Ian Druitt e ai bambini del doposcuola. Perché il fulcro delle indagini era
questo, insieme con l’inchiesta della commissione per i reclami contro la
polizia. Ero convinta che fosse finita lì, invece sono tornati e adesso...»
«Finn pensa che siate stati tu e Gaz a mandare i due ispettori a parlare con
lui. Perché si è fatto questa idea, secondo te?»
«Non dire stupidaggini. Guarda, tremi tutto. Perché non saliamo in
macchina?»
«Stavolta non ci casco, ti avverto.»
«Cosa vuoi dire?»
«Se intendi mettermi a tacere come tuo solito, sappi che stavolta non mi
lascerò fregare.»
Clover alzò le braccia al cielo, come se chiedesse aiuto agli dei o volesse
strapparsi i capelli. «Perché avrei dovuto mandare quei due ispettori da nostro
figlio, Trevor? Faccio di tutto per proteggerlo da quando è nato: mi spieghi
perché di colpo avrei dovuto cambiare atteggiamento?» chiese.
«Perché è un ottimo specchietto per le allodole» rispose Trevor. «Se hai la
certezza che non ci sono prove contro di lui, hai la certezza che alla fine non
gli succederà nulla e quindi, anche se nel frattempo passa qualche grana...»
Clover fece un lungo respiro. O sta cercando di calmarsi, oppure sta
recitando la parte di quella che cerca di calmarsi, pensò Trevor. «Dimmi
chiaramente che cosa stai cercando di insinuare, per cortesia» gli disse.
«Ci sono cose che non vuoi si sappiano in giro, che non vuoi dire
nemmeno a me. Questo sarebbe il modo migliore per raggiungere il tuo
scopo.»
«A cosa ti riferisci?»
«Dimmelo tu, Clover. Io sono stufo di fare la figura del fesso.»
«È questo che pensi?»
«Sì, è questo che penso.»
Clover fece un passo verso di lui e gli parlò faccia a faccia. «Stammi bene
a sentire» sibilò. «Non volevo che si iscrivesse al West Mercia College, ma
l’ho lasciato andare lo stesso. Non volevo che andasse a stare per conto suo,
ma alla fine mi sono arresa. Sì, ho dei dubbi sulla sua capacità di cavarsela da
solo, ma mi sono adeguata perché lui ci teneva e tu anche. E adesso guarda in
che guaio siamo finiti. Dio solo sa che cosa ha detto a quei due ispettori. Dio
solo sa che cosa si sono messi in testa loro. Per una volta, Trevor, lo vuoi
capire che qui non c’entra niente il rapporto che ho con mio figlio o con
chiunque altro? Se vuoi darmi addosso, accusarmi di interferire troppo nella
vita di Finnegan, considera anche il ruolo che hai avuto tu nei rapporti fra me
e lui. Perché tu hai sempre avuto da dire la tua, persino sul modo in cui gli
cambiavo il pannolino. Non siamo mai stati solidali, come genitori: pensaci.
Se siamo arrivati a questo punto, è anche per questo. Adesso io devo andare
al lavoro. Voglio capire che cosa si può fare per rimediare, perché su una
cosa io e te siamo d’accordo.»
«E cioè?» chiese Trevor.
«Che non c’è lo straccio di una prova che Finnegan abbia commesso un
reato. E la prima cosa da evidenziare è questa. Quanto al resto...» Indicò sé e
il marito. «Ci penseremo a tempo debito.»
Si voltò e tornò alla macchina. Aveva lasciato il motore acceso, per cui non
dovette fare altro che immettersi nel traffico e lasciarlo lì nell’incertezza su
chi avesse avuto la meglio nella discussione.
Ludlow
Shropshire
Barbara Havers si aspettava di dover girare a lungo per la città prima di
trovare Harry Rochester e rimase sorpresa nel vederlo attraversare il Ludford
Bridge mentre lei e Lynley andavano verso Broad Street, la salita che portava
al centro storico. Lo indicò a Lynley, che accostò al marciapiede. «Ci pensi
lei, sergente. Non credo sia il caso di andare in due» le disse.
Barbara scese dall’auto e chiamò Rochester, che la salutò agitando in aria
il flauto. «Stamattina ha fatto una levataccia, eh?» esclamò.
«Anche lei, vedo» rispose Barbara. «Posso parlarle un attimo?»
«Certo.»
Si fermarono all’inizio del ponte, sul lato di Ludlow. Barbara salutò Sweet
Pea che, come sempre, stava ubbidiente vicino al padrone e scodinzolò nel
vederla, ma non le venne incontro.
«Già al lavoro?» chiese Harry a Barbara.
«Di solito a quest’ora sono ancora abbracciata al cuscino, ma oggi c’era
una cosa che andava fatta all’alba. Da dove arriva? Sta facendo una
passeggiata mattutina con Sweet Pea?»
«Sì e no» rispose Harry. «Abbiamo passato la notte vicino al fiume.»
«L’hanno mandata via dal centro?»
«No, no. Nella bella stagione Sweet Pea e io amiamo stare in mezzo alla
natura. C’è un prato lungo la Breadwalk da cui si gode una vista incantevole
sul castello. Ha il vantaggio di essere abbastanza lontano dal sentiero, così
posso lasciarci i miei miseri averi e girare con le mani libere. Alla sera vado a
riprenderli e magari mi cerco un posto più vicino al fiume. Su questa sponda,
perché l’altra è troppo ripida.» Fece un gesto vago in direzione del Charlton
Arms. «Conosce la Breadwalk?» chiese poi, evidentemente in vena di
chiacchiere. «La gente di Ludlow ci va a correre, a camminare, in bici oppure
a passeggio con il cane. È un buon modo per arrivare dal fondo di Dinham
Street a qui.»
«Una scorciatoia?»
«Sì. Ha una storia interessante, che a me piace molto. Si chiama Breadwalk
perché un tempo ci passavano gli operai, che venivano retribuiti non in
denaro, ma in pane, in modo che non potessero spendersi la paga in birra
affamando le famiglie. Un’idea niente male, se pensa a quanto beve la
gente.»
«Un po’ scomodo, però, se uno ha intenzione di mettere da parte qualcosa
per la vecchiaia, eh?»
«Sì, è vero, ma non credo che a quei tempi fossero in molti ad arrivare alla
vecchiaia. Viene con noi, sergente? Sweet Pea e io eravamo diretti verso
Castle Square.»
«Con qualcosa da vendere?»
«Oggi no, purtroppo. Andiamo al mercato a curiosare fra i banchi di
alimentari perché abbiamo un certo languorino. Ci sarà anche il furgone delle
salsicce, che a Sweet Pea interessa particolarmente. Cominciano a vendere
più tardi, ma dobbiamo fare anche una puntatina allo Spar per ritirare alcuni
articoli da toeletta che mi hanno preparato alla cassa. Non mi dispiacerebbe
trovare anche una copia del Guardian, benché si tratti comunque di notizie
del giorno prima e sempre brutte, tanto che a volte uno si chiede a cosa serva
leggere il giornale. Ma oggi sento il bisogno di informarmi.»
«Ha qualche presentimento?»
«Spero di no, perché quando mi succede di solito è per disastri tipo
terremoti, tsunami, uragani, alluvioni, tornado, o cose del genere. C’è anche
l’ispettore?»
«È in macchina» rispose Barbara indicando la direzione da cui era venuta.
«Vuole un passaggio fino alla piazza?»
«No, grazie, non sopporto di stare chiuso dentro una macchina. Riesco a
malapena a resistere trenta secondi dentro lo Spar per pagare i miei acquisti.
Posso esserle utile in qualche modo, Barbara? Glielo chiedo perché mi ha
fatto molto piacere incontrarla così di prima mattina, ma conoscendo il suo
mestiere non posso fare a meno di pensare che ci sia anche un secondo fine.»
«In effetti ha ragione, Harry. Volevo parlarle dell’agente ausiliario.» Harry
le aveva raccontato di aver visto più volte Gary Ruddock caricare in
macchina ragazzi ubriachi per accompagnarli a casa, alla stazione di polizia o
chissà dove. Ricordava di averglielo riferito?
Harry rispose che sì, gliene aveva parlato.
Barbara allora gli chiese se pensava di poter riconoscere qualcuno di quei
ragazzi e Harry rispose che non ne era sicuro. Li aveva visti con l’agente
Ruddock la sera tardi, o se non tardi comunque quando era già buio. Non
poteva vederli bene in faccia, a meno che non fossero proprio sotto un
lampione. No, non sarebbe stato in grado di identificarne nessuno. Oltretutto
Ludlow era piena di ragazzi, in particolare nella zona di Castle Square e del
West Mercia College. Per lui era difficile vedere una faccia giovane a
distanza di tempo e affermare con certezza che era la stessa persona che
aveva visto in precedenza in compagnia di Gary Ruddock. Non so se mi
spiego, sergente.
Barbara gli assicurò che si era spiegato benissimo, ma domandò
ugualmente: «Sarebbe disposto almeno a provarci?»
«Certo. Vuole che le telefoni appena vedo una faccia conosciuta?»
Barbara replicò che aveva in mente una cosa un po’ diversa. Visto che il
tempo prometteva bene – anche se, essendo in Inghilterra, non c’era da
fidarsi – aveva pensato di dargli appuntamento quella sera, insieme con
l’ispettore, nel dehors dello Hart and Hind. Aveva voglia di andare?
Harry rispose di sì, ma la avvertì che sarebbe rimasto all’esterno anche in
caso di pioggia. E voleva portare anche Sweet Pea.
Barbara accettò le condizioni, si misero d’accordo sull’ora e si salutarono.
Poi Barbara tornò da Lynley, che nel frattempo era sceso dall’auto e stava
osservando il fiume e una femmina di germano reale che nuotava tranquilla
con i suoi anatroccoli.
«Da dove veniva Harry così di buon mattino?»
«Ha detto che gli piace cambiare scenario, tempo permettendo.»
Lynley annuì. «Buono a sapersi. Più va in giro, più occasioni ha di agire,
interagire e assistere alle azioni di altri» disse dopo un po’, pensieroso.
«È quello che ho pensato anch’io» replicò Barbara, dopodiché gli spiegò
che aveva invitato Harry Rochester allo Hart and Hind quella sera nella
speranza che riconoscesse Dena Donaldson. Stava per dire ancora qualcosa
quando le suonò il cellulare. Dovette frugare un po’, ma riuscì a pescarlo in
fondo alla borsa prima che scattasse la segreteria.
Era Flora Bevans, mattiniera anche lei, evidentemente, che voleva fornirle
un’informazione. Ci aveva riflettuto un po’, prima di decidere che valeva la
pena di parlarne. «Forse non servirà a niente, ma mi è venuta in mente una
cosa a proposito di Ian» spiegò.
Barbara mostrò a Lynley il pollice alzato. «Qualsiasi informazione ci può
essere utile» replicò. Poi aspettò di sentire di che cosa si trattava.
«Più che altro riguarda mia sorella, veramente» cominciò Flora Bevans.
«Dato che siete a Ludlow... Siete qui, vero?»
«Davanti al Ludlow Bridge ad ammirare gli uccelli acquatici.»
«Oh, sì, è un gran bel posto. Una delle mie passeggiate preferite.»
«E sua sorella...?»
Flora capì che Barbara non si stava informando sulle scelte
escursionistiche di sua sorella. «Qualche mese fa, Greta mi ha telefonato per
chiedermi se Ian sarebbe stato disposto a parlare con uno studente del
college. Non mi ricordo più se si trattasse di un ragazzo o una ragazza, ma
forse Greta non lo ha specificato. Voleva sentire Ian per spiegargli meglio la
situazione. Sembrava una cosa piuttosto urgente» rispose.
«Sua sorella ha a che fare con il college?» domandò Barbara.
«Oh, mi scusi, ho dimenticato di specificarlo. È la psicologa del West
Mercia College.»
«E come mai non poteva gestire direttamente lei la cosa? Esulava dalle sue
competenze?»
«Non avrà avuto il tempo di occuparsene, immagino. C’è solo lei a fare
assistenza psicologica per tutto il college... Non so quanti siano esattamente
gli studenti, ma siamo nell’ordine delle centinaia. Magari si trattava di una
crisi spirituale, e quindi Ian era più indicato. Greta non mette piede in chiesa
dai tempi dell’adolescenza! Comunque sia, ho pensato di dovervelo dire,
visto che riguarda Ian. Le do il numero di mia sorella? Sono sicura che, se sa
qualcosa, ve lo dirà volentieri.»
Barbara rispose che sì, grazie, si sarebbe appuntata il numero di Greta, e se
le fosse venuto in mente qualcos’altro la poteva chiamare pure a qualsiasi ora
del giorno e della notte.
«Spero di non avervi disturbato inutilmente» disse Flora Bevans.
«Al contrario» le assicurò Barbara. Chiuse la chiamata e riferì a Lynley, il
quale convenne con lei che valeva la pena approfondire.
«Dopo colazione?» suggerì.
Barbara si rallegrò. «Lei mi conosce: quando c’è da mangiare, non dico
mai di no.»
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Quando si era offerta di presiedere il comitato per la manutenzione e le
riparazioni di Volare, Cantare, Rabiah Lomax non immaginava fosse un
compito così impegnativo: il bello degli alianti è che, rispetto ai velivoli a
motore, c’è molto meno da mantenere e riparare. Quanto tempo poteva
volerci? Tuttavia, poco dopo che si era assunta quella responsabilità, uno dei
soci aveva dimenticato di abbassare il carrello prima dell’atterraggio e si era
aperta una discussione interminabile su chi dovesse pagare i danni. Una
fazione sosteneva che toccasse al pilota, l’altra lo riteneva ingiusto: la quota
associativa che scuciamo coprirà ben qualcosa al di là del piccolo rinfresco
che accompagna le riunioni mensili a Church Stretton, no? E l’assicurazione
a cosa serve, altrimenti? Una terza fazione proponeva di approfittare
dell’occasione per comprare un aliante nuovo. Ogni anno uscivano nuovi
modelli più accessoriati e più sicuri e il loro ormai era un pezzo da museo.
Tanto valeva cogliere l’occasione, a vantaggio di tutti. Così al comitato per la
manutenzione e le riparazioni era stato affidato il compito di pervenire a una
proposta da sottoporre all’assemblea dei soci, che aveva il compito di votarla.
Alla riunione di quella mattina era presente un rappresentante di ciascuna
delle tre fazioni. Rabiah si rallegrò di aver suggerito di cominciare
relativamente presto perché Dennis Crook e Ngaio Marsh Stewart (la cui
madre doveva avere una vera passione per Roderick Alleyn, il detective
protagonista dei gialli di Ngaio Marsh) sembravano più propensi a fare a
cazzotti in mezzo a una strada piuttosto che scendere a un compromesso.
Ngaio aveva appena detto «Amico mio, devi capire che...» – di solito
l’antifona di una tirata polemica – quando suonarono alla porta. Rabiah si
alzò per andare ad aprire rallegrandosi di avere una scusa per prendere le
distanze dalla crescente tensione, ma quando vide chi erano i suoi visitatori si
rallegrò altrettanto di avere una scusa per non farli entrare in casa.
«Mi dispiace, ma in questo momento non posso» disse. L’ispettore si
chiamava Lynley, ricordò, e la donna era il sergente Havers. «Sono in
riunione con il comitato, e sono la presidente.»
«Nessun problema. Possiamo aspettare» replicò Lynley.
«Possiamo anche assistere» propose Barbara.
«Purtroppo non ci sono abbastanza sedie. E vi assicuro che l’argomento
non è molto avvincente. Stiamo discutendo se riparare un aliante o
acquistarne uno nuovo.»
«Interessante» ribatté il sergente Havers. «Non trova, ispettore?»
«Sì, molto» dichiarò Lynley. «Ma se non ci sono abbastanza sedie...»
«Vi telefono appena abbiamo finito.»
«... possiamo benissimo aspettare in cucina. O in giardino. Oppure
possiamo parlare qui, senza bisogno di entrare.»
«Abbiamo sentito Greta Yates del West Mercia College, signora Lomax»
annunciò il sergente Havers in tono molto meno cordiale di quello che aveva
usato per i convenevoli. «E abbiamo scoperto che aveva messo in contatto
Ian Druitt – ricorda chi è, vero? Il diacono – con una ragazza che di nome fa
Melissa e di cognome Lomax. A me e all’ispettore qui presente sono venute
in mente due spiegazioni soltanto: o si tratta di una coincidenza e due Lomax
diverse sono andate a parlare con la stessa persona, che poco tempo dopo è
morta mentre si trovava in stato di fermo alla stazione di polizia di Ludlow,
oppure una Lomax è andata a parlargli mentre l’altra ha mentito alla polizia
che sta cercando di scoprire cosa diavolo sia successo a quel poveraccio.»
Intervenne Lynley. «Vuole illuminarci in proposito, signora Lomax? La
signora Yates è stata così gentile da darci i recapiti di Melissa Lomax...»
«Quindi adesso possiamo contattarla» aggiunse in tono cortese il sergente.
«Prima, però, abbiamo pensato che lei potesse far luce sull’intera vicenda.»
«Non è obbligata a farlo, naturalmente» continuò Barbara Havers. «Certo
che la situazione si sta facendo sempre più curiosa, perché sua nipote Melissa
è amica di Dena Donaldson e chissà cos’altro bolle in pentola. Tra l’altro il
numero di Melissa risulta due volte nel registro delle chiamate effettuate dal
diacono. Ho provato a comporlo anch’io, ma ho trovato la segreteria e non
sono stata richiamata.»
Fin dal momento in cui aveva sentito nominare Greta Yates, Rabiah aveva
cominciato a sudare. Era decisa a non lasciarsi intimidire, ma doveva
prendere tempo e provò di nuovo a usare come scusa la riunione del
comitato. Stavano discutendo una questione delicata, la cosa sarebbe
sicuramente andata per le lunghe e non voleva farli aspettare troppo. «Vi
chiamerò appena...»
«Le ripeto, per noi aspettare non è un problema. E magari nel frattempo
può chiamare anche il suo avvocato.»
«Dal momento che mentire alla polizia non è mai una buona idea» chiosò
Barbara Havers.
Rabiah era con le spalle al muro. «Se volete aspettare in cucina...» disse.
«Vi sarei grata se non diceste a nessuno che siete della polizia.»
«Per me non c’è problema» dichiarò Barbara. «Per lei, ispettore? Potrebbe
spacciarsi per l’operaio venuto a riparare il tetto, che ne dice? O è meglio dire
che è l’idraulico, visto che andiamo in cucina?»
«Peccato che non mi sia portato la chiave inglese.»
Rabiah li fece entrare in fretta e tornò alla riunione dove, in sua assenza,
era stato deciso di sottoporre la questione all’assemblea dei soci. Il comitato
non era riuscito ad accordarsi su una proposta, le tre fazioni non erano state
capaci di giungere a un compromesso.
Prima di accompagnare alla porta l’ultimo dei membri, Rabiah aveva già
deciso che cosa dire ai due ispettori. Li raggiunse in cucina e rimase sorpresa
notando che l’uomo si alzava in piedi vedendola entrare, cosa che non le
capitava da anni. Rabiah partì subito con le spiegazioni, senza lasciare loro il
tempo di farle domande.
«La prima volta che siete venuti da me, ho cercato di proteggere mia
nipote. Ultimamente nella nostra famiglia ne sono successe di tutti i colori.
Un anno fa a Missa è morta una sorella dopo una lunga malattia. Missa
voleva abbandonare gli studi e tornare a casa per stare vicino all’altra sorella,
Sati, che sarebbe stata felicissima, ma tutti erano contrari. Ha annunciato la
sua decisione durante le vacanze di Natale e i suoi sono riusciti a convincerla
a tornare al West Mercia College. Era chiaro che non era contenta, ma
nessuno sapeva che si fosse addirittura rivolta a una guida spirituale. Io lo
ignoravo, quando siete venuti qui la prima volta. Però volevo parlare con lei,
prima che voi la interrogaste. Sono sicura che, nei miei panni, anche voi
avreste fatto la stessa cosa.»
«Forse sua nipote si è rivolta al diacono per altri motivi» suggerì Lynley.
«Missa non dice bugie» ribatté Rabiah. «È stata dura per tutti, dopo la
morte di Janna, e anche durante la malattia. Aveva tutte le ragioni per
chiedere sostegno psicologico.»
«È stata Greta Yates, però, a mandarla da Ian Druitt. Missa non si è rivolta
al diacono di sua spontanea volontà» le fece notare il sergente Havers.
«A prescindere da come si sono conosciuti, cosa c’entra mia nipote con la
morte di Ian Druitt?»
«Non lo sappiamo» disse Lynley.
«Ma stiamo cercando di scoprirlo» aggiunse Barbara Havers. «Perché,
vede, a quanto pare in questa storia tutti conoscono tutti. Noi siamo venuti da
lei per Ian Druitt, ma poi l’abbiamo vista parlare con Dena Donaldson, la
quale abita nella stessa casa di Finnegan Freeman, il quale faceva da
assistente nel doposcuola diretto da Ian Druitt, il quale vedeva regolarmente
sua nipote, la quale è molto amica di Dena Donaldson.»
«Sono tutti collegati» commentò Lynley.
«Posso spiegarvi facilmente la parte che mi riguarda» ribatté Rabiah,
sempre più sudata. «C’è stato un malinteso che volevo chiarire con Dena.
Pensavo fosse stata lei a incontrarsi con Ian Druitt usando il nostro nome.»
«Come mai lo pensava?» domandò il sergente.
«Perché lei e Missa sono amiche.»
Lynley la fissava senza farsi scrupoli. Rabiah notò che aveva gli occhi
marroni e lo trovò strano, visto che era biondo. Seguì un breve silenzio carico
di tensione durante il quale passò una macchina dai cui finestrini aperti
arrivava una fastidiosa musica rap. «Possiamo tornare brevemente
all’eventualità che sua nipote incontrasse il diacono per ragioni diverse da
quelle che ha riferito a lei?» disse dopo un po’ Lynley.
Santo Dio, pensò Rabiah, quanto era formale. Si mise immediatamente
sulla difensiva e dichiarò: «In famiglia non siamo religiosi, se è a questo che
allude. Non credo che Missa andasse da lui per discutere di Gesù Cristo, della
Trinità, della vita eterna o di questioni di fede».
«Abbiamo trovato dei preservativi nell’auto di Druitt. Una confezione già
cominciata.»
«State insinuando che Missa avesse rapporti sessuali con quell’uomo? No.
Impensabile. Missa ha un ragazzo a Ironbridge, con cui sta da molto tempo. E
vuole arrivare vergine al matrimonio. Vi sembrerà strano, ma è così: mia
nipote è una ragazza all’antica.»
«Ce ne sono» commentò Barbara Havers. «Tante sostengono di voler
rimanere pure e illibate... Finché non cambiano idea, non so se mi spiego.»
«Sta dicendo che ha trovato il diacono così affascinante da decidere di
andarci a letto? Non credo proprio.»
«Andremo a parlarle personalmente. È indispensabile» disse Lynley.
Certo, Rabiah se ne rendeva conto, ma non voleva che Missa venisse
interrogata dalla polizia, con tutti i problemi che già la assillavano.
«Lasciatela in pace, se potete. Non ha niente da dirvi. La morte di quel
poveraccio... Mia nipote non c’entra niente. Come faccio a convincervi?»
Nel momento stesso in cui formulò quella domanda si diede la risposta.
Ludlow
Shropshire
Yasmina Lomax era convinta che alla radice di tutti i problemi di sua figlia
Missa ci fosse la morte della sorella. Dopo aver assistito non solo alla morte
di Janna, ma anche al profondo distacco tra i suoi genitori che ne era seguito,
aveva deciso di cambiare la propria vita. Peccato che, se avesse perseverato
in quella scelta, i suoi problemi si sarebbero ulteriormente aggravati. Per
questo Yasmina quella mattina aveva cercato di parlarle e poi aveva annullato
tutti gli appuntamenti in ambulatorio ed era andata a Ludlow.
Con Missa non era riuscita a cavare un ragno dal buco. Si era alzata presto
– rallegrandosi, per una volta, che Timothy si fosse talmente impasticcato da
non sentire la sveglia – ed era andata in camera della figlia. Aveva aperto la
porta senza fare rumore ed era rimasta un momento a guardarla dormire. Poi
aveva osservato la stanza chiedendosi come avesse fatto fino a quel giorno a
non trovare strano che fosse ancora uguale a quando Missa era bambina:
c’erano i suoi libri di favole preferiti sugli scaffali, le bambole sedute
composte su un baule davanti alla finestra e un orsacchiotto che si chiamava
Eeshy Beeshy, nome ridicolo di cui nessuno ricordava più l’origine. Sul
comò c’era anche il portagioie che, quando sollevavi il coperchio, rivelava
una ballerina di plastica che danzava su uno specchio al ritmo del Tema di
Lara, inno all’amore infelice che ribadiva quanto fosse rischioso cedere alle
proprie passioni.
Yasmina lo aveva aperto, facendo partire la musichetta. «Mamma? Che ore
sono?» aveva chiesto Missa dal letto.
Yasmina aveva richiuso il portagioie, si era voltata e aveva detto: «Volevo
parlarti un momento. Vieni in cucina a prendere il tè, o parliamo qui?»
Missa si era girata sulla schiena e per un attimo era rimasta a fissare il
soffitto. Yasmina aveva temuto che la mandasse a quel paese, ma poco dopo
la ragazza si era messa a sedere e aveva bevuto un sorso d’acqua dal
bicchiere posato sul comodino. «Parliamo qui» aveva detto.
Yasmina aveva preso la sedia della scrivania e l’aveva avvicinata al letto.
«Tua nonna mi ha raccontato che la polizia l’ha interrogata e mi ha anche
detto della vostra chiacchierata.» Le era parso che l’espressione di Missa si
indurisse, ma aveva continuato lo stesso. «Non credo che tu avessi bisogno di
andare a consigliarti con un prete per decidere di ritirarti dal college. Quindi
vorrei che mi dicessi cosa c’è che non va.»
Missa si era voltata verso la finestra quasi desiderasse essere fuori, insieme
con gli uccellini che cinguettavano, ed era rimasta zitta.
Yasmina aveva ripreso. «Non vuoi dirmelo? Non capisco perché. È
successo qualcosa, ne sono sicura. Non sei andata a parlare con quel diacono
per il college e vorrei che...»
«Perché non me lo dici tu quello che pensi sia successo?» l’aveva interrotta
bruscamente Missa. «Per come la vedo io il problema è che tu ti rifiuti di
accettare che sono diversa da te e voglio cose diverse dalla vita. Non riesci a
fartene una ragione.»
Per Yasmina quella risposta era stata come uno schiaffo. «Non è vero.»
«No? Basta guardare quanto insisti su questa cosa. Sei venuta qui a
’parlarmi un momento’» aveva detto Missa, mimando le virgolette intorno
alle ultime parole, «eppure ho già cercato un sacco di volte di spiegarti che io
non voglio la vita che vorresti tu per me.»
«Che cosa vuoi, allora? Cos’è che vuoi?»
«Quante volte te lo devo ripetere? Non te lo ricordi più? Va be’, pazienza.
Te lo dico per l’ultima volta: voglio sposarmi e avere dei figli, vivere
semplicemente accanto all’uomo che amo e ai figli che avremo insieme. Ma
tu non riesci neppure a concepire l’idea di una vita così, e quindi pensi che io
abbia dei problemi. Il mio unico problema, mamma, è trovare il coraggio di
essere me stessa e non la persona che vorresti tu. Ecco perché mi sono rivolta
al signor Druitt!»
«Per trovare il coraggio di parlare a tua madre? Sei andata da lui non una o
due volte, ma ben sette! Per trovare il coraggio di parlare con me?»
«Sì! Guarda come reagisci... Continui a cercare un motivo segreto per la
mia decisione di smettere di studiare nonostante te l’abbia già spiegato mille
volte. Da dicembre. Solo che tu non mi sei stata a sentire.»
«Sì che ti sono stata a sentire.»
«A sentire forse sì, ma non hai voluto capire. L’unica cosa che hai detto è
che era troppo presto, che dovevo tornare a Ludlow, che dovevo finire
almeno il college, anche se non volevo andare all’università. Non te lo
ricordi? E io sono tornata al college perché alla fine, volente o nolente, faccio
sempre quello che vuoi tu. Sono andata a parlare con il diacono sette volte
perché qui non ho nessuno con cui parlare, nessuno che mi stia a sentire e
non cerchi subito di convincermi a diventare quello che non sono.»
«E cioè?»
«Te l’ho già detto! Te l’ho detto e ripetuto, ma non ti basta. Tu non mi
ascolti, perché quando ti metti in testa un’idea non ascolti nessuno.»
«Adesso ti sto ascoltando. Sto cercando di capire. Voglio sapere come ho
fatto a sbagliare al punto che tu ti sei dovuta andare a cercare quel diacono...
A proposito, sei stata tu ad andarlo a cercare?»
«Che differenza fa? No. Non sono stata io. È stato lui che ha cercato me, e
per fortuna, perché mi ha aiutato a capire determinate cose, mi ha aiutato a
capire cosa era giusto fare. Adesso che l’ho fatto, vorrei essere lasciata in
pace. Per favore, lasciami in pace.»
Detto questo, Missa aveva sollevato le coperte fino al collo e le aveva
voltato le spalle. E Yasmina l’aveva lasciata in pace come le aveva chiesto.
Ma la questione non era del tutto risolta e, convinta che ci fosse sotto
qualcos’altro, Yasmina partì da Ironbridge e andò a Ludlow, trovò
parcheggio in Broad Street e da lì, a piedi, arrivò in Castle Square. Passò fra i
banchi del mercato e, sul lato nordovest della piazza, varcò il cancello con la
scritta WEST MERCIA COLLEGE che luccicava al sole di quella bella giornata
primaverile.
Scoprì che la psicologa del college, Greta Yates, era in riunione. Le dissero
che poteva aspettare, ma non le garantirono che la dottoressa l’avrebbe
ricevuta, perché aveva molti appuntamenti. Yasmina decise di tentare
comunque. Si trattava di una faccenda urgente, spiegò.
Greta Yates tornò dalla riunione dopo quaranta minuti. Quando la vide,
Yasmina si ritrovò a osservarla da medico e notò i segni di ciò che prima o
poi l’avrebbe uccisa: pressione alta, obesità e diabete di tipo due. La
psicologa aveva l’affanno, il viso congestionato e la fronte sudata. Quando la
ricevette – dopo un’ulteriore breve attesa – Yasmina aggiunse all’elenco
anche lo stress lavorativo.
Nell’ufficio di Greta Yates regnava un tale disordine da far pensare che dei
ladri lo avessero visitato di recente e avessero rovesciato tutto sulla scrivania
e sul pavimento: raccoglitori, fogli stampati, brochure, pubblicazioni
dell’università, libri eccetera. Greta Yates tirò fuori da un cassetto una scatola
di fazzolettini di carta, ne prese uno, si asciugò il viso e poi si rivolse a
Yasmina. «Che strana coincidenza, signora Lomax. È la seconda volta oggi
che qualcuno viene a parlarmi di Missa.»
In altre circostanze, sentendosi chiamare «signora», Yasmina avrebbe
puntualizzato che era «dottoressa», ma questa volta soprassedette. Il fatto che
qualcun altro fosse già stato dalla psicologa a parlare di sua figlia era molto
più importante. «Chi altro è venuto?» domandò.
«Due funzionari di New Scotland Yard.»
Yasmina cercò di darsi una spiegazione: o Rabiah aveva cambiato idea e li
aveva informati del legame tra Missa e Druitt, oppure i due ispettori erano
andati a parlare di sua figlia con Greta Yates per qualche altro motivo. Si
sforzò di sembrare più confusa che in ansia per quella rivelazione. «Spero che
lei mi possa dire cosa desideravano. Missa non ha fatto niente di male, vero?»
replicò.
Greta Yates fece segno di no con la mano grassoccia. A un dito portava un
anello con una colossale pietra verde. «No, no, figuriamoci. Sono venuti a
parlare con me perché avevo contattato io Ian Druitt, tramite mia sorella.»
Yasmina rimase perplessa per quella risposta sibillina. «Riguardo a
Missa?»
«Riguardo alla possibilità di fissarle un colloquio, sì. Vede» disse
indicando con un gesto le pile di scartoffie sparse un po’ dappertutto, «il tutor
me l’aveva segnalata perché il suo rendimento era molto calato. Aveva
cominciato l’anno molto bene, ma poi... diciamo che si era adagiata. Il tutor
l’aveva convocata e voleva che anch’io le parlassi perché la ragazza aveva
detto di voler abbandonare gli studi e lui aveva avuto l’impressione che fosse
in profonda crisi. Considerata l’età, aveva immaginato che fosse un problema
sentimentale e sperava che con me si confidasse più facilmente.»
«Missa cosa gli aveva detto?»
«Soltanto che voleva smettere di studiare, e questo gli era sembrato strano
perché, come le accennavo, all’inizio dell’anno aveva ottimi voti.»
«E a lei Missa cosa ha detto?»
«Be’, tutto nasce da questo: il tutor pensava che le occorressero più
colloqui di sostegno, e aveva ragione perché un incontro soltanto non basta
per aiutare uno studente in difficoltà. Purtroppo però io riesco a malapena a
tenermi a galla in questo mare di scartoffie inutili. Resti tra noi che ne parlo
in questi termini, mi raccomando.» Indicò di nuovo le pratiche e i documenti
da cui era assediata e, proprio quando Yasmina stava per dire qualcosa,
riprese: «Tuttavia, sapevo che mia sorella aveva un inquilino prete che era
laureato in scienze sociali e le ho chiesto se fosse disposto a darmi una mano.
Lui mi ha telefonato e io gli ho dato il numero di Missa. La polizia stamattina
mi ha detto che Missa lo ha incontrato diverse volte».
«Ma si è comunque ritirata dal college. Sostiene di aver deciso di non
volersi iscrivere all’università e quindi trova inutile continuare a frequentare.
Ma io non ci credo.»
Greta Yates la guardò in modo abbastanza comprensivo. «Capisco che lei
sia preoccupata. La sua è una reazione comprensibilissima. In anni di lavoro
con i giovani, però, ho imparato che c’è un punto al di là del quale
l’intervento dei genitori diventa più un ostacolo che un aiuto.»
«È morto – sa? – il prete. Penso sia per questo che hanno mandato due
ispettori da Londra.»
«Lo so. Flora, mia sorella, mi ha detto che si è suicidato.»
La psicologa rimase per un po’ in silenzio a fissare con sguardo assente
una bacheca piena di fogli e foglietti. «Non penserà che sua figlia c’entri
qualcosa con la morte del diacono, vero?»
«Non so che cosa pensare. Missa si rifiuta di dare spiegazioni. Più le parlo,
più si chiude in se stessa. È cambiata. Non so perché.» Yasmina sentiva
montare l’ansia: Missa, il college, il diacono, il futuro, il passato, la morte di
Janna, Timothy che si impasticcava... Era arrivata a un punto critico, a un
momento cruciale che andava esplorato, sviscerato, fatto a pezzi, fermato...
Bisognava che qualcuno lo capisse, che qualcuno facesse qualcosa, perché lei
non sapeva più che pesci pigliare. Aveva bisogno di aiuto, di qualcuno che
prendesse in mano la situazione.
«Bisogna fare qualcosa, è chiaro. Dovrebbe venire qui per un colloquio.
Pensa di riuscire a convincerla?» disse Greta Yates, quasi le avesse letto nel
pensiero.
«Se glielo propongo io dirà sicuramente di no.»
«Capisco. Non c’è qualcun altro che potrebbe fare opera di persuasione?»
Yasmina ci pensò su. Una persona ci sarebbe stata, ma a sua volta avrebbe
dovuto essere persuasa ad agire contro i suoi stessi interessi.
La psicologa continuò. «Se riesce a portarmela, le parlerò volentieri.
Dev’esserci un motivo se non vuole più frequentare e penso che potrei
riuscire a scoprire qual è. Nel caso, le offrirò la possibilità di non perdere
l’anno.» Si sporse in avanti e intrecciò le dita in un gesto che pareva sincero.
«Cerchi di capire, signora Lomax: a volte i giovani hanno bisogno di tempo
per maturare e riuscire a vedere più chiaramente la direzione che hanno preso
e dove andranno a finire se proseguono su quella strada. Sbaglio, o per lei
non è stato facile dare a sua figlia il tempo per maturare la sua decisione?»
aggiunse.
«Non sbaglia» ammise Yasmina.
«Allora le è chiaro cosa fare a questo punto, no? Deve semplicemente
trovare una persona che riesca a convincere sua figlia a venire da me. Deleghi
a questa persona. E poi, per quanto questo le possa riuscire difficile, sia
paziente. Risolveremo il problema, vedrà.»
Worcester
Herefordshire
Per la prima volta da chissà quanto tempo Trevor Freeman aveva non solo
bisogno, ma anche voglia di un bell’allenamento intenso. Sapeva che solo
ammazzandosi di fatica sarebbe riuscito a smettere di pensare alla telefonata
che aveva ricevuto da suo figlio, alla conversazione che aveva avuto subito
dopo con la moglie e alle alternative che aveva davanti.
Appena arrivò alla Freeman Athletics, andò direttamente al tapis roulant.
Dal tapis roulant passò ai pesi e dai pesi alla cyclette. Poi ricominciò dal tapis
roulant. Grondava sudore e a un certo punto una delle istruttrici lasciò un
momento da sola una cliente e gli si avvicinò. «Datti una calmata, se non
vuoi che ti venga un infarto» disse. Trevor pensò che un infarto, una corsa in
ambulanza e un ricovero in ospedale non gli sarebbero affatto dispiaciuti.
Poi arrivarono i due poliziotti. Rimase sorpreso, perché non capiva come
avessero fatto a rintracciarlo, a meno che non fossero andati a cercarlo a casa
e, non trovandolo, avessero parlato con i vicini. Perché non gli avevano
semplicemente dato un colpo di telefono? Che bisogno c’era di venirlo a
cercare fino a Worcester?
Trovò da solo la risposta a quelle domande quando li guardò in faccia e
vide come lo studiavano: non si sarebbero accontentati di parlargli per
telefono perché volevano osservare ogni sua espressione, ogni esitazione e
ogni tic.
Gli chiesero di parlare in privato e lui li accompagnò nel proprio ufficio.
Consapevole di puzzare di sudore, chiuse la porta: se volevano interrogarlo,
che si beccassero pure l’odore.
Si rivolse all’uomo. «Mi ha telefonato mio figlio. Azzardatevi a parlargli di
nuovo senza che io sia presente e dovrete risponderne ai vostri superiori. Vi
sembra normale piombare in camera di un ragazzo mentre dorme e
spaventarlo in quel modo?»
«L’abbiamo cercato altre volte senza mai trovarlo in casa» replicò l’uomo.
Lynley, pensò Trevor, ecco come si chiamava: Lynley.
La donna, che era sergente – questo lo ricordava –, intervenne. «Abbiamo
bussato e suonato il campanello. Gli consigli di chiudere la porta a chiave, di
notte. Rischiano di ritrovarsi in casa chissà chi, se continuano a lasciarla
aperta.»
«Ne deduco che la nostra visita lo abbia turbato» disse Lynley.
«Visita? Così la chiamate? Secondo lei, che effetto avrebbe dovuto fargli?»
«Come mai ha telefonato a lei e non alla madre, che lavora in polizia?»
incalzò il sergente. «Strano. Ed è strano anche che non abbia chiamato
l’agente ausiliario, visto che abita in zona.»
«Io non ci trovo nulla di strano.»
«È che ci chiedevamo, io e l’ispettore, in quali rapporti sia l’agente
ausiliario con la famiglia Freeman.»
«Ruddock è un giovane come si deve. Mia moglie lo ha preso sotto la sua
ala, tutto qui. E comunque non vedo che cosa c’entri questo con la vostra
irruzione in camera di mio figlio all’alba.»
«Giovane... Lei lo definirebbe così, ispettore?» chiese Barbara a Lynley.
«Non è più di primo pelo...» convenne Lynley.
«Cosa diavolo c’entra l’età?» sbottò Trevor. Non capiva cosa volessero, né
come avessero fatto a metterlo così presto sulla difensiva. Era lui che voleva
mettere loro sulla difensiva! «Il centro di addestramento per gli agenti
ausiliari è all’interno del complesso della West Mercia Police, dove lavora
mia moglie. Finn e io abbiamo conosciuto Gaz Ruddock tramite lei» disse.
«Sua moglie lo ha portato a casa?» chiese il sergente Havers.
«Mia moglie voleva che Finn lo conoscesse. Pensava che potesse essere un
buon esempio per lui, una sorta di fratello maggiore. Finn è figlio unico,
vedete. Tutto è cominciato da lì.»
«Tutto?»
«Come?»
«Tutto cosa?» domandò Barbara Havers.
«Lo sapete già. Non sprechiamo tempo.»
Intervenne Lynley. «Sia gentile, ci rinfreschi la memoria.»
«Vogliamo essere sicuri di avere chiara la situazione» aggiunse il sergente.
«Come lei indubbiamente sa» spiegò Lynley, «l’agente ausiliario ci ha
detto che lei e sua moglie gli avete chiesto di tenere d’occhio vostro figlio a
Ludlow.»
«È stata un’idea di Clover» replicò Trevor. «Non voleva chiederlo lei a
Gaz, perché temeva che si sentisse costretto a dire di sì. Per via dei loro
rapporti.»
«Di quali rapporti stiamo parlando esattamente?» chiese il sergente.
Trevor si rallegrò di essere ancora accaldato dall’allenamento, perché il
doppio senso implicito in quella domanda lo fece avvampare. «Mi sembra
ovvio: Clover è una sua superiore! Se glielo avesse chiesto lei, Gaz non
avrebbe potuto rifiutare. Così ne ha parlato prima con me e, siccome l’idea
mi è sembrata buona, gliel’ho chiesto io.» Ecco fatto, pensò. L’ho detto.
Bianca o nera che fosse, aveva detto la bugia che gli era stato chiesto di dire.
Preferiva non pensare a che cosa se ne potesse dedurre sulla sua integrità
morale o sul suo rapporto con la moglie.
«Perché?» chiese Lynley.
«Ve l’ho appena detto.»
«L’ispettore non vuole sapere perché è stato lei a chiederlo, ma perché
pensavate che fosse necessario tenere d’occhio vostro figlio. Evidentemente
eravate preoccupati per qualcosa» spiegò il sergente Havers.
«L’abbiamo fatto per prudenza, direi, non per una preoccupazione
specifica. Finn è sempre stato molto vivace e sua madre temeva che,
trovandosi a Ludlow da solo, approfittasse della libertà che si trovava ad
avere per la prima volta in vita sua e si cacciasse in qualche guaio. Così ha
cercato di organizzargli il tempo libero.»
«Alla sua età immagino che si sarà risentito non poco» commentò Lynley.
«Di cosa?»
«L’ispettore intende dire che la maggior parte dei ragazzi dell’età di Finn si
scoccia se la madre gli organizza la vita o li fa pedinare» chiarì nuovamente il
sergente Havers.
«Non è questo che fa Gaz. Gli butta un occhio ogni tanto e basta.»
«Ed è questo che avrebbe dovuto fare anche Ian Druitt?» chiese Lynley.
A Trevor non piaceva il modo in cui se lo palleggiavano, spingendolo da
un argomento all’altro. Provò a riprendere il controllo della situazione. «Le
cose che avete detto a Finn stamattina, riguardo al fatto che Druitt aveva delle
’perplessità’ su di lui o roba del genere... Non so dove l’abbiate presa, ma è
una gran stronzata.»
«Cosa? Il fatto che Druitt avesse delle ’perplessità’ su vostro figlio o il
fatto che le abbia esternate?»
«Entrambi. Comunque, non importa. Finn è un bravo ragazzo. Questo ve lo
diranno tutti.»
«A quanto pare, però, Druitt voleva parlarne con voi» gli fece notare il
sergente. «A noi risulta che abbia cercato di contattarvi.»
«Non ci ha contattato, quindi, ammesso che ci volesse parlare di queste sue
presunte ’perplessità’, evidentemente a quel punto le aveva già risolte. In un
modo o nell’altro si era tranquillizzato.»
Lynley annuì, pensoso. «È proprio quello che stiamo cercando di accertare,
signor Freeman.»
«In che senso, scusi?»
«Nel senso che il signor Druitt è morto prima di riuscire a contattarvi»
rispose Lynley.
«Ed è una di quelle ’stronzate’ che noi poliziotti cerchiamo di capire fino
in fondo» aggiunse il sergente Havers.
Much Wenlock
Shropshire
Cardew Hall era visitabile tutti i giorni solo dal primo giugno in poi, quindi
Ding era sicura che nessuno si aspettasse il suo arrivo. Era esattamente ciò
che voleva. Anzi, avrebbe voluto che nessuno si accorgesse di lei, se
possibile. Razionalmente non le era chiaro il motivo di tutto ciò, ma glielo
diceva il suo corpo, che si trovava in uno stato a metà fra la tensione e il
malessere fisico. E per più di una ragione.
A Cardew Hall e dintorni si sentiva sempre presa in una specie di vortice,
perché era lì e a Much Wenlock che, appena aveva potuto, aveva inaugurato
la sua tendenza a portarsi a letto i ragazzi non appena ne aveva l’occasione.
Per molto tempo si era detta che lo faceva tanto per fare, per poterlo
raccontare alle amiche, per soddisfare le sue voglie. Ma la verità era un’altra.
La verità era che non aveva idea del perché lo faceva, se non per sputare in
faccia al maschio di turno, cosa che le procurava sempre grande
soddisfazione. Ma perché le veniva voglia di sputare in faccia, mordere,
graffiare, prendere a pugni chi scopava con lei? Doveva assolutamente
riuscire a scoprirlo, se non altro perché sentiva di dover mettere fine alla
sperimentazione sessuale cui si era dedicata in quegli anni. Così, non appena
terminarono le due ore di lezione giornaliere che aveva promesso a Greta
Yates, aveva preso un autobus che l’aveva portata nelle vicinanze di Cardew
Hall.
A quell’ora sua madre era sicuramente nella grande cucina a cuocere
pentoloni di marmellata e chutney da vendere ai turisti al termine della visita
guidata, e suo marito sarà stato occupato a controllare che nelle sale aperte al
pubblico non ci fossero lampadine bruciate, polvere ammucchiata negli
angoli o mobili da lucidare. Con un po’ di attenzione, sarebbe riuscita a non
farsi né vedere né sentire e avrebbe avuto tutto lo spazio e il tempo di cui
aveva bisogno per indagare, meditare e rimuginare per conto suo.
Dalla fermata dell’autobus impiegò una ventina di minuti per arrivare a
piedi a Cardew Hall, dove quasi ogni pianta era nel pieno della fioritura, tanto
che il giardino e le aiuole erano disseminati di colori, dal giallo delle primule
che bordeggiavano le distese erbose, al viola degli iris che attenuava l’effetto
cupo della pietra del muro di cinta.
Dal viale di accesso si vedeva il tetto di ardesia di St. James, la chiesa del
paese che un tempo era stata la chiesa del castello, dove i suoi antenati carichi
di soldi guardavano dall’alto in basso i loro scagnozzi avanzando lungo la
navata per raggiungere i posti loro riservati in prima fila. C’era ancora una
panca con il nome di famiglia. Non Donaldson, naturalmente, perché i quarti
di nobiltà venivano dal lato di sua madre, non da quello di suo padre.
Si bloccò su quel pensiero: suo padre. Non per il nome, ma per suo padre
in quanto tale, suo papà. E insieme alla parola «papà» si affacciò alla sua
coscienza anche qualcos’altro. Ding si fermò e, guardando il campanile,
cercò di mettere a fuoco, di recuperare un ricordo. Ma riuscì a ripescare
soltanto un senso di vuoto accompagnato da una specie di tremito sotto pelle,
qualcosa di molto simile alla paura. Sì, era paura.
Si voltò dall’altra parte, ma continuò ad avere la stessa sensazione anche
dopo essersi allontanata dalla chiesa per fare il giro di Cardew Hall e arrivare
sul retro, alla porta della cantina, cui si accedeva scendendo alcuni gradini
antichissimi, consunti dal passaggio di chissà quante persone nel corso dei
secoli.
Entrò e si trovò in un corridoio umido a malapena illuminato da deboli
lampadine che penzolavano dal soffitto. Lo strato di polvere e ragnatele era
così spesso che le travi di legno alle pareti sembravano grigie, mentre
passandoci sopra un dito si sarebbe visto che erano nere, perché erano state
ricavate dal fasciame di antiche navi della flotta inglese.
Il corridoio portava nelle viscere di Cardew Hall, nelle parti del palazzo
che non venivano mai aperte al pubblico: la cucina e il retrocucina, la
dispensa, il ripostiglio, la cantina dove veniva conservato il vino, il deposito
per le verdure e la lavanderia dove nei secoli passati tante povere ragazze si
erano rovinate le mani a furia di fare il bucato.
Ding si fermò nella semioscurità e tese le orecchie: c’era una radio accesa,
quindi sua madre era effettivamente in cucina. Sentì anche profumo di frutta
che cuoceva, e questo era un bene perché la marmellata l’avrebbe tenuta
occupata per un po’.
Poi Ding udì la voce del patrigno. Non se lo aspettava, ma evidentemente
anche lui era in cucina e parlava o con la moglie o al telefono. Le bastò
sentire il suono della sua voce per provare come sempre – ma perché? perché
le faceva quell’effetto? – prima un brivido e subito dopo una rabbia furiosa.
Stephen l’aveva sempre trattata bene, eppure le scatenava invariabilmente
quella reazione e Ding era stufa marcia di non capire cose che invece aveva
assoluto bisogno di capire, se voleva smettere di fare la vita che faceva. E che
era ora di smettere le era risultato chiaro dopo la serata con Jack Korhonen:
non era mai stata con uno che avrebbe potuto essere suo padre.
Pensando a suo padre, arrivò alla scala in fondo al corridoio, da cui si
raggiungeva la porta che separava le stanze della servitù da quelle padronali,
rivestita come da tradizione di panno verde. Un panno così consunto che
sembrava rosicchiato dai topi, o forse lo era veramente perché, diciamolo,
cosa c’è di meglio del panno per foderarsi il nido? E i nidi di topo a Cardew
Hall abbondavano, come pure quelli degli uccelli nei camini, e tutto a un
tratto Ding ebbe un flash: il nido di peli da cui si ergeva il membro. Ma
perché era così importante? Perché vedere un pene le faceva così
impressione? Perché si costringeva così spesso a guardarlo, a toccarlo, a
prenderlo in bocca, se lui glielo chiedeva, e quando mai lui non glielo
chiedeva? Volevano tutti metterglielo in bocca e in fondo non era quella la
chiave di tutto? L’uccello e ciò che si faceva con l’uccello. Dio mio Dio mio
Dio mio, cos’ho di sbagliato?
Quasi senza rendersene conto si ritrovò in cima alla scala, dentro la casa,
salì un’altra rampa, più larga e con le pareti rivestite di legno. La poca luce
che entrava dalla finestra del pianerottolo illuminava ritratti polverosi di
antenati sconosciuti. Una volta in cima, Ding percorse un corridoio semibuio,
anche questo con pannelli di legno alle pareti, e si fermò davanti a una grande
porta. Come sempre, era chiusa a chiave, perché nessuno voleva entrare in
quella stanza, nessuno voleva ricordare. Ma cosa? Cos’è che nessuno voleva
ricordare? Ding non lo sapeva, ma da come le batteva il cuore e da come le
tremavano le mani, sentiva di dover entrare in quella stanza.
Sapeva dove si trovava la chiave, e si rese conto in quel momento che
l’aveva sempre saputo. Si rivide accucciata in un angolo buio: era arrivata la
polizia, poi se n’era andata, e lei aveva visto sua madre chiudere la porta e
nascondere la chiave sopra un trumeau così alto che si era dovuta alzare in
punta di piedi, in modo che Ding non la potesse trovare, solo che Ding dal
suo angolo buio aveva visto dove era finita la chiave e aveva visto che in
tutto quel tempo sua mamma non aveva versato una lacrima, nemmeno una:
com’era possibile?
Il trumeau era ancora nello stesso posto. A Cardew Hall nessuno spostava
mai nulla e meno che mai i mobili di quelle dimensioni. Piccolina com’era,
Ding non arrivava a toccare la cimasa. Doveva salire su una sedia e così andò
in camera di sua madre a prendere uno sgabello, uno di quei trespoli di legno
intagliato con le gambe ammaccate che la gente porta dall’antiquario a far
valutare, per scoprire che vale a dir tanto venticinque sterline.
Lo trascinò nel corridoio e lo piazzò davanti al trumeau. Ci salì sopra,
allungò le braccia e tastò fra la polvere e la sporcizia, prima dietro la cimasa e
poi verso il centro, finché non trovò la chiave.
Scese dallo sgabello e si avvicinò alla porta con la chiave in mano. Per
poco non se la faceva addosso dalla paura, ma doveva assolutamente entrare
in quella stanza. Era sicura che lì dentro si nascondeva qualcosa di terribile e
doveva scoprire esattamente cos’era. Era la sua ultima chance di capire
perché si comportava come si comportava e perché avrebbe continuato a
comportarsi così per sempre, se non avesse aperto quella porta e non fosse
entrata nella stanza.
La chiave le scottava nel palmo della mano. La infilò nella toppa e girò. Il
cuore le batteva all’impazzata. Si fermò un momento e chiuse gli occhi, non
per non vedere ma per spingere indietro le lacrime che le colavano sulle
guance. Che stupida, pensò. È solo una stanza. Cosa mi aspetto di trovarci?
Una ridda di scheletri danzanti? Jack lo Squartatore? Spiritelli che lanciano
soprammobili di qua e di là?
Si impose di non fermarsi. Spalancò la porta e, benché le tremassero
talmente le gambe che temeva di non riuscire a muovere un passo, entrò.
Occhi aperti, braccia lungo i fianchi, mise un piede davanti all’altro sul
parquet e poi su un vecchio tappeto persiano...
Era una camera da letto come tante, a parte il fatto che odorava di chiuso,
nessuno la usava, nessuno cambiava mai l’aria, nessuno spolverava o passava
mai l’aspirapolvere. Era buia perché gli spessi tendoni erano chiusi, ma Ding
intravedeva i mobili e, a mano a mano che li osservava, il respiro le diventava
più affannoso: un cassettone, una poltrona, un armadio, un letto a
baldacchino, una toeletta... Di colpo ricordò che non aveva il permesso di
entrare in quella stanza nemmeno allora, ma lei era entrata lo stesso... Perché?
Perché era entrata? Ah sì, ora se lo ricordava. Era stato il cane, ma... c’era
davvero un cane? Sì, c’era. Era dentro la stanza? No, non era dentro la stanza,
però era lì, dove non aveva il permesso di stare, ed era seduto come gli aveva
insegnato il papà, e quando lei si era avvicinata per portarlo via perché
nessuno doveva disturbare il papà quando era in quella stanza il cane le aveva
mostrato i denti, cosa che non faceva mai perché lo sapeva che non bisognava
mostrare i denti, e poi aveva uggiolato e allora lei aveva aperto la porta,
perché aveva capito che il cane voleva – anzi no, doveva – entrare in quella
stanza come lei, ma cosa c’era, cosa c’era in quella stanza?
«Ding! Santo cielo! Mi era sembrato di sentire un rumore...»
Ding si voltò di scatto. Sulla soglia c’era sua madre con una mano sulla
bocca e un’espressione da cui Ding capì che qualcosa doveva esserci,
qualcosa che si nascondeva dentro di lei, ai margini della coscienza.
La madre tese la mano. «Mi hai fatto prendere uno spavento... Cosa ci fai
qui dentro? Esci» disse.
Sì! Fu quel gesto, quel gesto sommato alle parole: «Cosa ci fai qui dentro?
Esci». Di colpo a Ding tornò in mente tutto, tutto quanto. «Non è stato un
incidente. Mi hai detto che era stato un incidente, che stava facendo un
lavoretto, che stava riparando qualcosa nell’impianto elettrico. Per via del
cavo! Era un cavo elettrico e hai pensato che avrei creduto...» disse alla
madre. A un tratto ebbe la sensazione che insieme con le parole uscisse da lei
qualcosa di mefitico, un fluido micidiale che le avrebbe travolte e annegate
entrambe. «Era una bugia!» gridò. «Mi hai mentito, mi hai mentito, non hai
fatto altro che mentire!»
«Ding, vieni fuori di lì. Subito. Per piacere.»
Alle spalle della madre Ding vide Stephen ed ebbe un flash ancora
peggiore, perché se lo ricordò miglior amico di suo padre, suo compagno di
scuola... Stephen c’era anche subito dopo che era successo, no, anzi c’era
quando era successo e perché era lì? Che cosa faceva? Perché era a Cardew
Hall?
«L’hai ammazzato tu!» gridò. «Ora mi ricordo. Era...» Si guardò intorno e
lo trovò, lo vide, eccolo il letto con le colonne, sì, era quella la colonna di
legno, grossa e intagliata nello stesso legno scuro e robusto con cui era stata
costruita la casa, ed era lì che si era impiccato.
«Il cavo... il cavo... lo aveva intorno al collo e lui era... mamma, era nudo
ed era morto.»
A quel punto sua madre entrò nella stanza voltandosi indietro per rivolgersi
al marito. «Stephen, lascia fare a me. Lasciami...»
«... mentire» concluse per lei Ding in lacrime. «Stephen, lasciami
continuare a sparare balle, ecco che cosa volevi dire. Stephen lasciami
continuare a raccontare frottole su frottole in modo che Ding non sappia mai
cosa ho fatto, cosa abbiamo fatto, perché lo avete fatto tutti e due, l’avete
organizzato insieme, perché volevate stare insieme per...»
«Zitta! Stephen, ti prego, lasciaci sole.»
«È giusto che sappia che cosa è successo veramente» disse lui.
«Sì, lo so, ma adesso vattene. Ding, esci da questa stanza.»
Ding voleva uscire, certo che voleva uscire, e infatti uscì di corsa,
passando accanto alla madre e al patrigno, si precipitò nel corridoio verso lo
scalone per arrivare nell’atrio e uscire all’aperto, perché doveva
assolutamente andare via, solo che sua madre le gridava fermati! fermati! ma
lei non l’ascoltava, no, non le dava retta ed ecco la chiesa, il cimitero, ma la
strada, la strada era dalla parte opposta e doveva arrivare alla strada, perché là
c’era la fermata dell’autobus che l’avrebbe riportata a...
«Si è impiccato, Dena! Non voleva morire. È stato un incidente. Ma si è
ucciso con le sue stesse mani.»
Si voltò di scatto. «È una bugia! Anche questa è una bugia perché tu menti
sempre, mi hai sempre mentito e io ti odio!»
Ma la sua corsa era finita e Ding lo sapeva. Si lasciò cadere sull’erba
vicino a una lapide così vecchia e consunta che non si leggeva più niente,
serviva solo a indicare che lì sotto era sepolta da chissà quanto tempo una
persona di cui nessuno ricordava più nulla. Quando la madre la raggiunse non
protestò e quando le si sedette accanto sull’erba non cercò di scappare.
Lì per lì la madre tacque. Rimase ad aspettare in silenzio. Aspettava di
trovare il coraggio, pensò Ding. O forse soltanto di calmarsi.
Dopo un po’ le parlò. «Ding, avevi quattro anni appena compiuti. Non
potevo dirtelo perché non c’era modo di spiegare a una bambina di quattro
anni cosa stava facendo suo padre in quella stanza, né che era morto a causa
di quello che stava facendo. Come avresti potuto capire che usava quella
stanza per... che quando aveva voglia di... Era autoerotismo. Ecco come è
morto. Sai come funziona? Lo saprai sicuramente perché al giorno d’oggi voi
ragazzi sapete cose che non avreste mai saputo prima di Internet. Non avevo
idea di cosa combinasse in quella stanza. Sapevo solo che quando la porta era
chiusa non dovevamo entrare, perché lui si chiudeva dentro a leggere e
voleva poter leggere in pace per un’oretta, così diceva. Che aveva bisogno di
rilassarsi un po’. Molto tempo fa, ancora prima che tu nascessi, una volta
l’avevo sorpreso, ma non in quella stanza, perché non avevo ancora ereditato
questa casa. Mi aveva raccontato che lo aveva letto in un romanzo e si era
incuriosito e che l’aveva fatto solo quella volta e si era reso conto di quanto
fosse pericoloso. Mentiva, naturalmente, perché tutti mentono. Su questo hai
ragione, Dena, la gente racconta un sacco di bugie. Io ti ho mentito perché
non sapevo come spiegare a una bambina di quattro anni che aveva appena
trovato suo padre morto, nudo, appeso a una colonna del letto perché
voleva... perché aveva bisogno di... Ruotava tutto intorno a lui, al suo piacere,
a noi non pensava. E così un sabato pomeriggio è finito con un cavo elettrico
al collo, nudo, impiccato a una colonna del letto, con la faccia stravolta e gli
occhi fuori dalle orbite. Hai perfettamente ragione, io non ti ho detto niente
perché non volevo che tu ti ricordassi in che modo era morto e soprattutto il
motivo per cui era morto in quel modo.»
Ding si coprì la bocca con una mano. Sua madre piangeva. Rivide una
serie di immagini, scene che aveva seppellito così in fondo alla sua memoria
da dubitare che fossero vere: le uniformi dei poliziotti, qualcuno che
portava... che cosa? una borsa da dottore? Gente che passava nel corridoio; la
tonaca nera di un prete; una barella; un sacco lungo, scuro, chiuso con una
cerniera; il cane che abbaiava a tutti quegli sconosciuti; sua madre che
piangeva; un succedersi di domande e risposte; una donna che era entrata in
camera sua e si era seduta sull’orlo del letto ed era la pediatra, vero? E diceva
sopra la sua testa: «I bambini molto piccoli» e poi, a lei, «Vediamo se
possiamo aiutarti a dormire un po’ tesoro» perché aveva avuto un incubo,
vero? Era stato un brutto sogno a farle così paura e se si fosse addormentata
di nuovo poi, quando si fosse svegliata, sarebbe stato come se non fosse
successo niente.
Capì. Non perché suo padre si fosse giocato la vita in quel modo né perché
sua madre le avesse mentito per anni, ma per quale motivo lei aveva preso la
strada che aveva preso, una strada che non le dava niente e niente avrebbe
continuato a darle se lei avesse continuato a seguirla.
Coalbrookdale
Shropshire
Timothy era ancora al lavoro in farmacia quando, nel pomeriggio, Yasmina
tornò all’ambulatorio. Lo trovò intento a servire un antibiotico a un anziano
signore che era stato mandato dal farmacista di Broseley, rimasto
evidentemente senza quel tipo di medicinale. Riempita la boccetta con il
numero di pastiglie indicato sulla ricetta, Timothy fece quello che faceva
sempre: si mise a spiegare come andavano prese. Quando fu sicuro che il
cliente avesse capito, gli posò una mano sulla spalla. «Farà come le ho detto,
vero?» disse. «Sì, perché altrimenti mi verrà a cercare, immagino» rispose
burbero l’anziano signore.
«Bravo» concluse Timothy e lo congedò con una pacca sulla spalla.
L’uomo uscì e si diresse verso un minivan dove lo aspettava una donna che
doveva essere la figlia. Poi Timothy si rivolse a Yasmina.
«Hai marinato la scuola oggi?» le chiese in tono scherzoso, con lo stesso
sorriso di quando l’aveva conquistata tanti anni prima. «Dove sei stata? Al
cinema? A fare shopping?»
«Sono stata a Ludlow.»
Il sorriso si spense, sostituito da un’espressione preoccupata. «La mamma
non sta bene?»
«Sono andata al college» replicò Yasmina.
Passò un momento prima che Timothy dicesse, in un tono a metà fra il
rimprovero e la rassegnazione: «Yasmina...» Poi andò a chiudere a chiave la
porta e tornò dietro il banco per sistemare la cassa: estrasse il cassetto con i
soldi, lo posò da una parte e guardò la moglie. «È l’approccio sbagliato, lo
sai, vero?»
«Come fai a dirlo, se non sai nemmeno perché ci sono andata?»
Timothy prese tutte le banconote, tirò fuori da sotto il banco la busta di
pelle in cui le riponeva alla sera e le infilò dentro, quindi aggiunse anche gli
spiccioli e chiuse la cerniera. «Non sono stupido. Se sei andata al college,
sarà stato per Missa.»
«È vero.» Yasmina passò la mano sul banco. Era impolverato e si chiese se
dire qualcosa agli addetti alle pulizie o spolverarlo lei, visto che già due volte
si era lamentata invano del fatto che si limitavano a passare lo straccio sul
pavimento e non pulivano altro.
«Yasmina, non puoi non esserti accorta che facendo così la allontani. Non
occorre una laurea in psicologia.»
«Sto solo cercando di impedirle di fare una vita che non ha mai desiderato
e di cui inevitabilmente si pentirà.»
Timothy sospirò. Sistemato il denaro, passò ai farmaci. Trasferì tutti gli
oppiacei dagli scaffali agli appositi cestini di plastica nei quali venivano
chiusi in cassaforte con i soldi. «Il problema è che tu pensi di poter prevedere
il futuro quando invece capisci a malapena quello che sta succedendo nel
presente.»
«Io capisco soltanto che il mio compito di madre è aiutarla a impostare la
sua vita. Se tu, in quanto padre, non accetti di avere a tua volta questo
compito, mi metti nelle condizioni di dover fare tutto da sola.»
Timothy non si difese da quell’accusa e Yasmina interpretò il suo silenzio
come una pausa di riflessione. «Non credo sia mio compito insistere perché
Missa faccia una cosa che chiaramente non le va di fare» disse lui dopo un
po’.
«Non ti ricordi più che voleva finire il college e andare all’università?
Aveva un progetto di vita, mentre adesso non lo ha più. Non ti sembra
strano?»
«No, perché non sono d’accordo con la tua interpretazione dei fatti.»
Timothy andò nel retro, dove si trovava la cassaforte, e Yasmina sentì che la
apriva e metteva al sicuro denaro e oppiacei. Tornò poco dopo senza il
camice e le si parò davanti. Erano mesi che Yasmina non lo vedeva così da
vicino – a parte quando dormiva – e si accorse di quanto era provato. Era
invecchiato tantissimo in quegli ultimi anni, aveva rughe profonde agli angoli
della bocca e i capelli più sale che pepe. Negli occhi, anziché la vivacità di un
tempo, gli si leggeva solo il desiderio di arrivare al momento in cui avrebbe
finalmente preso una delle pillole sottratte alla farmacia per trovare l’oblio.
Timothy non aveva nessuna voglia di imbarcarsi in una discussione, ma
obiettò ugualmente: «Missa ha un progetto di vita. Diverso da quello che
aveva in origine, ma lo ha. Tu però non lo vuoi accettare».
«È un cambiamento troppo radicale. Ci dev’essere un motivo.»
«Una logica nel cambiamento di Missa c’è: ha provato il college, si è
accorta che non le piaceva e ha deciso di cambiare strada. Ce lo ha detto
chiaramente a dicembre: voleva ritirarsi e tornare a casa. Ma tu non sei
riuscita ad accettarlo.»
«Non era questione di accettare o meno. Io volevo solo che si rendesse
conto delle conseguenze. Alla sua età...»
«Non capisco perché continui a raccontarti tutte queste balle» la interruppe
Timothy. «Perché distorci in questo modo quello che è successo tra te e
Missa. I fatti sono fatti. Hai insistito perché tornasse a Ludlow dopo le
vacanze di Natale e facesse ancora un tentativo. Lei è sempre stata remissiva
– e mi piacerebbe parlarne, prima o poi – e ti ha ubbidito anche questa volta.
Ma se vuoi sapere la verità, per come l’ho vista allora e per come la vedo
adesso, gliel’hai imposto tu.»
Yasmina si offese e sentì montare la rabbia. «Secondo te gliel’ho imposto
io di tornare a Ludlow?»
«Sì. Secondo me, sì.»
«Sei sicuro? Ti sei bruciato talmente il cervello a suon di pasticche che non
ti ricordi nemmeno quello che succede alla tua famiglia.»
«Lascia perdere, Yasmina.»
Yasmina vide la tensione con cui incrociava le braccia sul petto. «No, non
lascio perdere. È ora di parlarne. Ogni sera ti impasticchi con i medicinali che
rubi dalla farmacia. Non sei in grado di vedere quello che hai chiaro e
lampante sotto gli occhi perché ti droghi per non pensare a Janna e non riesci
a...»
«Yasmina, smettila» le disse facendole segno di fermarsi.
«... non riesci ad affrontare quello che tutti noi ci sforziamo di affrontare
perché è ed è stato un inferno, sì, un inferno. Pensa a me, Timothy, che faccio
il medico e non mi sono accorta di niente. Sono pediatra, porca miseria, e non
ho capito che mia figlia non stava bene, non sono stata in grado di
interpretare correttamente i sintomi, mentre se avessi capito, se avessi... Sai
quanto mi piacerebbe impasticcarmi anch’io, dimenticare tutto? Vorrei vivere
nell’oblio, giorno e notte, se potessi. Ma poi cosa succederebbe? Esattamente
quello che è già successo, ecco cosa. La tua figlia maggiore cade a pezzi e tu
lasci che ’sia la persona che vuole essere’, qualunque cosa significhi, perché
così sei sollevato da ogni responsabilità, vero? Perché così puoi continuare a
drogarti in santa pace.»
«Piantala con questi discorsi.» Timothy andò verso l’interruttore della luce.
Yasmina lo seguì. «Di quello che fai tu ormai non mi importa più niente,
ma su Missa non ho intenzione di arrendermi.»
Timothy si voltò di scatto. «E cioè?»
«Greta Yates, la psicologa del college, vorrebbe parlare con lei per capire
che cosa è successo. Dice che, volendo, Missa ce la potrebbe ancora fare a
non perdere l’anno, ma per darle una mano hanno bisogno di capire il vero
motivo per cui ha smesso di frequentare.»
Timothy la fissava. «Ma tu mi ascolti quando ti parlo, eh?»
«Quando mi ha detto così, il mio primo pensiero è stato che se tu e io
parlassimo con Missa insieme e...» Yasmina stentava a trovare le parole. Si
interruppe, poi trovò la forza di continuare. «Se tu e io facessimo fronte
comune – solo riguardo all’andare a parlare con la psicologa del college –
Missa magari ci andrebbe.»
«Io non ci sto, Yasmina.»
«Sono sicura che Missa ci andrebbe, soprattutto se sa che si tratta solo di
un colloquio senza impegno.»
«Smettila, Yasmina.»
«Penso che Justin sarebbe disposto a incoraggiarla ad andare
all’appuntamento a Ludlow, se gli presentassimo la cosa nel modo giusto. Ho
intenzione di parlare anche con lui. Gli ho già accennato qualcosa. Siamo
d’accordo di vederci e pensavo che, se venissi anche tu...»
«Non puoi plasmare il mondo secondo la tua volontà» disse Timothy.
«Non intendo essere tuo complice in questa follia.»
«Come a dire che non ti interessa approfondire il perché di ciò che ci
accade.»
Timothy scoppiò in una risata sgradevole. «Se lo dici tu, Yasmina.»
A quel punto non le restava che cambiare programma e agire da sola.
Quando aveva telefonato a Justin da Ludlow e lui le aveva dato
appuntamento al Jackfield Tile Museum, era rimasta sorpresa. Jackfield era
un paesino sulla riva opposta del fiume Severn rispetto a Ironbridge, a sud-est
del ponte. La sede del museo era una fabbrica di ceramica dismessa, un
complesso costituito da vari edifici in mezzo al verde in cima a una collina, al
riparo dalle periodiche esondazioni del fiume. Vi venivano ancora prodotte
piccole quantità di piastrelle dipinte a mano e cotte sul posto con le tecniche e
le decorazioni tipiche dell’epoca vittoriana e edoardiana. La collezione
comprendeva migliaia di pezzi autentici, dai pannelli in maiolica raffiguranti
paesaggi o scene di vita domestica, alle piastrelle singole usate per decorare
caminetti, pavimenti, terrazzi o mobili.
Siccome nel complesso c’era più spazio di quanto ne fosse necessario per
le sale espositive e la produzione moderna, una parte veniva affittata a terzi.
Yasmina scoprì che Justin Goodayle aveva preso in affitto uno dei laboratori
annessi al museo e, all’ora convenuta, lo trovò ad aspettarla sulla porta.
Era con una ragazza che, a giudicare dalle macchie colorate sul grembiule,
doveva essere una delle ceramiste. Chiacchierava animatamente con Justin,
sorridendo, posandogli di tanto in tanto una mano sul braccio, giocherellando
con i ciuffi di capelli rossicci che le sfuggivano dal fazzoletto sulla testa, ma
lui pareva indifferente ai suoi tentativi di seduzione, che pure erano
chiarissimi a Yasmina.
Appena la vide arrivare, agitò con gioia una mano per salutarla e, quando
scese dalla macchina e gli andò incontro, le presentò la ragazza: Heather
Hawkes. Heather sorrise e disse che doveva andare. «Pensaci, Justin. È
invitata anche Missa» aggiunse poi.
«Glielo dirò» rispose Justin. «In questo periodo non ha tanta voglia di
vedere gente, però.»
«Allora vieni da solo.»
«Se mai. Vediamo.»
La ragazza parve soddisfatta. Mentre si voltava e si incamminava verso il
laboratorio di ceramica, Yasmina disse a Justin: «Ci conta, è chiaro».
Justin le fece uno dei suoi sorrisi sinceri da cui trasparì l’incertezza su
come interpretare le parole di Yasmina. «Sarebbe ben contenta di averti tutto
per lei, mi sa» chiarì lei.
«Oh, non credo, dottoressa Lomax. Io e Missa andavamo a scuola con sua
sorella. Conosco Heather da quando se la faceva ancora addosso. Venga con
me. Voglio farle vedere una cosa. Poi parliamo.»
Si voltò verso l’edificio di mattoni davanti al quale l’aveva aspettata con
Heather, tirò fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, ne infilò una nella
serratura lucidissima e spalancò la grande porta a due battenti.
Il laboratorio era illuminato da un lucernario e dai tubi al neon che Justin
accese entrando. Uno era appeso sopra un bancone da lavoro addossato alla
parete, sul quale erano disposti ordinatamente una serie di attrezzi e, verso il
muro, alcuni contenitori di latta con chiodi e viti di vari tipi. Da un lato del
bancone c’erano dei fogli arrotolati, alcuni tenuti con un elastico, altri
semplicemente avvolti su se stessi. In fondo all’area di lavoro c’erano diverse
seghe elettriche e, da una parte, un carrello con numerosi attrezzi appesi.
Sulla parete di fronte al bancone c’erano scaffali con barattoli di vernice,
pennelli e rulli, illuminati anch’essi da tubi al neon.
Nell’aria c’era odore di segatura e di pittura fresca, che apparentemente
veniva dalla struttura di legno al centro del laboratorio, una sorta di casotto di
superlusso, dipinto di azzurro, con rifiniture di un bianco immacolato. Vi si
entrava da una portafinestra incorniciata da una pergola in miniatura che a
Yasmina parve adatta per un glicine, una vigna o una rosa rampicante.
«Che ne dice?» chiese Justin con un’aria speranzosa che lo fece sembrare
ancora più giovane.
«Incredibile.» Yasmina si avvicinò chiedendosi chi potesse desiderare una
costruzione così raffinata per riporvi un tosaerba e qualche sacco di terra.
«Venga che le mostro l’interno.» Le passò davanti e spalancò la
portafinestra. «Questo è solo un prototipo, un campione dimostrativo. Prego.»
Yasmina vide che dentro la casetta c’erano un letto matrimoniale con
lenzuola e copriletto, un tavolino e due sedie. Sul tavolino era posato un
bollitore elettrico e alla parete soprastante era appesa una rastrelliera per
piatti e tazze. Dal soffitto pendeva un lampadario di ottone e ai lati del letto
erano state montate due abat-jour orientabili coordinate al lampadario.
Era tutto molto curato, pensò Yasmina, ma non capiva a che cosa servisse.
«Che bello!» disse. «Cos’è? Voglio dire, ha un nome?»
«Un nome tipo ’Shady Bower’ o roba del genere?»
Yasmina sorrise. «No, intendevo ’casetta da giardino’, per esempio.»
«Ah! Veramente è per il glamping, ma si può usare anche in altri modi.»
«Glamping?»
Yasmina varcò la portafinestra e si fermò ai piedi del letto. La testiera era
di ferro battuto, bianca come le rifiniture esterne, mentre le pareti erano
gialline e il copriletto aveva un motivo a fiori sulle stesse tinte.
Si voltò verso il ragazzo. «È straordinario, Justin. Non sapevo...» Non finì
la frase per non offenderlo dicendo quello che aveva pensato, ovvero che non
immaginava fosse così bravo. Perché non avrebbe dovuto?
«Quasi nessuno sa cos’è» disse Justin, evidentemente convinto che il suo
«non sapevo» si riferisse al glamping. «È un gradino al di sopra del camping.
Forse anche più di un gradino. Perché, vede, quando per esempio uno vuole
campeggiare nei terreni di un contadino nel Lake District, di solito si porta
appresso una roulotte oppure una tenda, che non è per niente comoda se
piove o tira vento. Invece così si trova già pronta una casetta come questa,
solida e resistente. La maggior parte sono su ruote, in modo che le autorità
non facciano storie al contadino dicendo che ha costruito una struttura
permanente abusiva.»
«E in più si può spostare da un punto all’altro» osservò Yasmina.
Justin annuì e riprese a spiegare, entusiasta, che le casette potevano essere
allacciate alla rete elettrica e anche all’acquedotto e alla fognatura. Erano
grandi abbastanza per due adulti e, con l’aggiunta di due brandine pieghevoli,
due bambini.
«Si adattano a molti usi diversi» continuò. «Ne ho costruita una per una
pittrice che ci ha ricavato il suo atelier, e un’altra che viene sfruttata come
sala da tè in un giardino. Vanno bene pure come cabine da spiaggia – anche
se sono un po’ troppo rifinite – e uno ci si può riparare se fa brutto tempo. Un
signore che sta dalle parti di Shrewsbury me ne ha ordinata una per tenerci gli
attrezzi da pesca e preparare le esche e gliel’ho fatta con le travi a vista.
Venga, gliela faccio vedere.»
Yasmina lo seguì al bancone, dove Justin prese uno dei fogli arrotolati e lo
aprì sul tavolo, fermandolo con i contenitori di chiodi e viti. Era il progetto di
una casetta simile a quella da cui erano appena usciti, ma in versione
«fienile»: al posto della portafinestra aveva una porta di legno divisa in
orizzontale che, nel disegno, era aperta per metà.
«Non sapevo che fossi anche un provetto falegname» disse Yasmina.
«Voglio dire, sapevo che sei un ottimo fabbro, ma lavorare il legno così...
Complimenti.»
Justin chinò il capo, compiaciuto. «Non brillo per intelligenza, ma ho delle
buone idee e due mani d’oro con cui realizzarle. Mia madre ripeteva sempre
che il trucco è seguire i propri talenti e io le ho dato retta. Mio fratello e le
mie sorelle sono molto più svegli di me. ’Justin è lo zuccone di famiglia’
diceva mio padre, invece mia mamma sosteneva che una volta che avessi
capito che cosa volevo fare nella vita lei mi avrebbe aiutato a realizzare il mio
sogno.»
«Da quanto tempo costruisci casette?»
«Quasi tre anni. Voglio mettere da parte i soldi che ci servono. Appena ne
avrò abbastanza, io e Missa...» Si interruppe, colto da un’improvvisa
timidezza. «Lei mi capisce.»
Yasmina si rallegrò per l’assist che inconsapevolmente il ragazzo le aveva
dato e affrontò l’argomento che le stava a cuore. «Anche Missa può
contribuire alla vostra vita insieme, Justin» disse.
«Certo» replicò lui. «E contribuirà sicuramente, perché tutti e due
vogliamo dei figli e vogliamo averli subito. Non troppi, sia chiaro. Magari
tre. Tre è il numero perfetto. Ne abbiamo parlato, con Missa. Più che altro
abbiamo parlato del quando. Ci siamo chiesti quale può essere il momento
migliore sia per lei sia per me. Ora che è tornata a lavorare a Blists Hill e che
io ho avviato questa attività e ho anche il lavoro di fabbro, secondo me ci
siamo quasi. Anche mia madre è d’accordo. Dice che i figli conviene farli
quando si è ancora abbastanza giovani da poterli rincorrere senza farsi venire
il fiatone. Così, quando saranno grandi e se ne andranno a stare per conto
loro, io e Missa avremo ancora un bel pezzo di vita davanti per fare quello
che ci piace. Missa è d’accordo.»
Justin parlava con una tale franchezza che per un attimo Yasmina fu sul
punto di cambiare idea, non sul fine – perché non ne vedeva che uno – ma sui
mezzi per raggiungerlo. Justin era un bravo ragazzo, anzi, un brav’uomo, e
adorava Missa, ma lasciare che la sposasse era inconcepibile e insensato.
Tuttavia Yasmina non glielo poteva dire, perché si sarebbe rifiutato di
aiutarla.
Finse di aver riflettuto sulle sue parole. «Capisco il tuo ragionamento. È
giustissimo» gli disse. Vide che Justin sorrideva soddisfatto. «Ma c’è anche
un altro aspetto da prendere in considerazione, ed è che entrambi dovete
avere un lavoro in modo che, se malauguratamente succedesse qualcosa a
uno dei due, l’altro abbia comunque un reddito sicuro» si affrettò ad
aggiungere.
Justin sorrise un po’ meno. «In che senso? Non capisco.»
«Tu hai il lavoro di fabbro e ora anche questa nuova attività, ma bisogna
che anche Missa abbia un mestiere.»
«Ah. Pensavo di farle tenere la contabilità della ditta a mano a mano che il
lavoro aumenterà. È una cosa che potrà fare mentre i bambini dormono e, più
avanti, quando saranno a scuola. Così potrà lavorare da casa.»
«Ma se ti succedesse qualcosa? Missa non sa lavorare né il legno né il
ferro. Farà la mamma, la casalinga e magari la candelaia nel parco a tema, ma
basterà a mantenere i figli, te e lei, se a un certo punto si trovasse a essere
l’unica che porta a casa uno stipendio?»
Justin aggrottò la fronte sforzandosi di capire. «Ma perché dovrebbe,
dottoressa? Finché ho le mani...»
«Il futuro è sempre incerto: non sappiamo che cosa ci potrà succedere. Una
malattia improvvisa, un infortunio, un problema fisico inatteso. Mi riferivo a
questo.»
Justin rimase a lungo in silenzio a guardarsi le mani. Yasmina si chiese se
stesse riflettendo su quanto gli aveva detto, ma Justin la sorprese. «Lei vuole
che Missa torni al college e poi si iscriva all’università.»
«La psicologa del college avrebbe piacere di vederla, Justin. Le ho parlato
oggi e mi ha spiegato che, quando uno studente decide di ritirarsi, lei lo
convoca per un colloquio per capire le sue motivazioni. Missa però non si è
presentata e a lei dispiace: vorrebbe valutare il suo livello di consapevolezza,
tutto qui.»
Justin alzò gli occhi e non per la prima volta Yasmina si rammaricò che
fosse così lento, come se la bellezza fisica dovesse essere sempre
necessariamente accompagnata dall’intelligenza. «Vuole che la convinca ad
andare a parlare con questa psicologa, giusto?» disse il ragazzo.
«Sì, Justin. Vorrei che tu l’accompagnassi a Ludlow e assistessi al
colloquio. Missa può fare di più che tenere la tua contabilità, avere dei figli e
fare la candelaia in un parco a tema. Justin, ragazzo mio, sono sicura che
anche tu la pensi così.»
Justin arrotolò lentamente il disegno e lo rimise insieme agli altri. «Missa
non ci vorrà andare» obiettò.
«Lo so, ma sono convinta che se glielo dici tu, nel modo giusto, ti starà a
sentire.»
«E quale sarebbe il modo giusto?» Il ragazzo si voltò e si appoggiò al
bancone con le mani nelle tasche dei jeans.
Yasmina si era già preparata il discorso. «Dille che sono venuta da te e che
ti ho chiesto di parlarle. Dille che non smetterò mai di desiderare per lei un
futuro professionale come il mio.»
«E questo dovrebbe convincerla?»
«Sì, perché le dirai anche che l’unico modo per convincermi a lasciar
perdere è andare a parlare con Greta Yates, la psicologa del college. Devi
dirle di insistere – con me, intendo – perché sia tu ad accompagnarla a
Ludlow e di insistere perché tu assista al colloquio con la dottoressa Yates.
Devi dirle che condividi le sue decisioni, compresa quella di ritirarsi dal West
Mercia College, ma che io ti ho sfinito per un’ora e hai capito che l’unico
modo per liberarvi di me è andare dalla psicologa e spiegarle i motivi per cui
Missa vuole smettere di studiare.»
Justin la guardò corrucciato e a Yasmina venne il dubbio che non fosse in
grado di portare a termine la missione. Forse avrebbe dovuto dargli una
scaletta da seguire. Poi però si impose di aver fiducia in lui, dato che stava
per offrirgli l’opportunità di una vita.
«Durante il colloquio, Justin, devi essere convinto che finire il college e
iscriversi all’università è la decisione più ragionevole, che tu condividi
perché vuoi che Missa abbia di che mantenere se stessa e i vostri figli
nell’eventualità che ti succeda qualcosa. Dopodiché, se Missa accetterà di
tornare al college, vorrei che fissaste una data» gli disse.
«Per cosa?»
«Per le nozze, caro» disse Yasmina con dolcezza. «Non potrete sposarvi
subito, è chiaro, ma non appena Missa avrà concluso gli studi, la settimana in
cui si laureerà, celebreremo le nozze. Faremo una bella festa, con tutti gli
annessi e connessi. E, dopo, potrai portarla in luna di miele in qualche posto
meraviglioso e potrai comprare la casa dove crescerete i vostri figli.»
Justin scosse la testa e sfregò con la punta di uno scarpone il pavimento
ruvido del laboratorio. «Sto mettendo da parte dei soldi, ma tutte queste
cose... non mi sembra... ci vorrà un po’» disse.
Yasmina gli posò una mano sul braccio. «Non hai capito, Justin. La casa e
la luna di miele saranno il nostro regalo di nozze. Da parte mia e di mio
marito.»
Justin alzò la testa di scatto, intimidito. «Oh, non potrei mai, dottoressa.
Non sarebbe giusto. Io sono l’uomo e spetta all’uomo... Un regalo così mi
sminuirebbe agli occhi di Missa ed è una cosa che non vorrei mai.»
Yasmina gli strinse il braccio e gli sorrise con grande affetto, perché
provava davvero un grande affetto per lui. «Credo che nulla potrebbe mai
sminuirti agli occhi di Missa. Comunque non dobbiamo decidere tutto
adesso. Quello che voglio sapere ora è soltanto se posso telefonare a Greta
Yates e prendere un appuntamento per Missa e te, per le cose che ci siamo
detti.»
«Missa non vorrà andarci» ribadì il ragazzo, ma con molta meno
convinzione.
«Questo è da vedere. Tutto dipende dal modo in cui glielo dirai. Pensaci.
Sei disposto a fare questa cosa per me? E per lei e per il vostro futuro
insieme?»
Justin sembrò riflettere. Forse, pensò Yasmina, si stava preparando
mentalmente il discorso da fare a Missa. «Quando, allora?» le chiese dopo un
po’.
«Quando parlerai con Missa? O quando andrete a Ludlow?»
«Tutt’e due» disse Justin.
«Il più presto possibile.»
Quality Square
Ludlow
Shropshire
La possibilità che Dena Donaldson quella sera non andasse allo Hart and
Hind c’era, ma a meno di appostarsi davanti a casa sua sul Temeside con
Harry Rochester nella speranza di vederla comparire, a Barbara il pub
sembrava la soluzione migliore. «Se tra Harry Rochester e l’ausiliario
Ruddock corre cattivo sangue, è possibile che questa spedizione sia del tutto
inutile, Barbara. Lo sa, vero?» disse Lynley mentre andavano verso Castle
Square.
«Sì, lo so» rispose lei. «Ma qualunque strada prendano le indagini, mi
ritrovo ad affrontare il fatto che Gaz Ruddock o ha manipolato la verità
quando non ne avrebbe avuto alcun bisogno, oppure ha omesso dettagli che
sapeva essere importanti. E più abbiamo approfondito, più omissioni sono
emerse: una misteriosa compagna, una giovane amante, uno studente da
tenere d’occhio, Finnegan Freeman, sua madre e suo padre, la sua
coinquilina... Secondo me, dobbiamo trovare il modo per metterlo alle strette
e costringerlo finalmente a dire la verità. Sono disposta a tutto pur di
riuscirci, persino a coinvolgere il barbone numero uno di Ludlow.»
Harry Rochester non c’era ancora quando, dopo aver evitato la rumorosa
gara di frisbee in corso a Quality Square, arrivarono allo Hart and Hind. Era
una bella serata e nel dehors c’era parecchia gente. A uno dei tavoli era in
corso una bizzarra partita a scacchi che vedeva contrapposte due squadre, una
maschile e una femminile, che si alternavano con quindici secondi a
disposizione per ogni giocatore. Se quello di turno perdeva un pezzo, doveva
togliersi un indumento. Le squadre erano composte da cinque giocatori
ciascuna e le ragazze stavano letteralmente lasciando i maschi in mutande.
Barbara entrò nel pub e, siccome dentro c’era meno gente che fuori, le
bastarono venti secondi per rendersi conto che ci aveva azzeccato: Dena
Donaldson era lì, seduta a un tavolo a bere qualcosa in compagnia di
un’amica. Perfetto. Si trattava semplicemente di mandare Harry Rochester a
compiere una breve ricognizione e sperare che riconoscesse in Dena una delle
ragazze che aveva visto caricare in macchina da Ruddock.
Ma Barbara aveva sottovalutato la gravità della claustrofobia di Harry
Rochester. Cos’erano trenta secondi dentro un pub? Nulla, ma evidentemente
per lui erano troppi.
Tornando da Lynley, Barbara vide che Harry era arrivato con Sweet Pea e
il necessario per dormire. Spiegò loro che, essendo dovuto venire in centro a
quell’ora, aveva pensato di pernottare nei paraggi, in una delle «strutture
all’aperto» di Ludlow.
«Vada un attimo dentro» propose Barbara rivolgendosi
contemporaneamente a Lynley e a Harry. «Ci vorrà meno di un minuto. Si
guardi intorno e veda se riconosce qualcuna delle ragazze di Ruddock. Faccia
caso a com’è vestita e...»
«Dentro?» Harry deglutì. «Non posso...»
«Noi la aspettiamo qui. O, se preferisce, posso entrare con lei e tenerle la
mano.»
«No, no» disse Harry. «Non ha capito. Non ce la posso fare.»
«Ma in banca per parlare con il suo personal banker ci va, no? Non è molto
diverso.»
«Viene fuori lui.»
«Come, scusi?»
«Esce lui. Gli telefono, lui esce un attimo e parliamo sul marciapiede. Non
sto al chiuso da... Cioè, sono anni che non entro in un locale. A parte lo Spar,
dove però, come le ho detto, sanno di che cosa ho bisogno e me lo fanno
trovare pronto alla cassa.»
«E se si ammala? Non va dal dottore?»
«Grazie a Dio godo di ottima salute.»
«Ma a noi serve che...»
A questo punto intervenne Lynley. «Aspetteremo che escano» propose e
consultò l’orologio da tasca. Barbara notò che Harry era molto impressionato
da quell’ennesimo anacronismo di Lynley. «Il pub chiuderà tra un’ora a dir
tanto» aggiunse quest’ultimo.
Harry parve sollevato. Scelsero un tavolo un po’ in disparte, da cui
sarebbero riusciti a vedere Dena Donaldson appena fosse uscita dal pub senza
che lei li notasse. Nell’attesa, seguirono la sfida a scacchi. Era chiaro che i
maschi erano partiti impreparati, con pochi capi di vestiario addosso. Due
erano già in mutande, mentre nessuna delle ragazze si era ancora spogliata.
Barbara si chiese che cosa prevedesse il regolamento in caso di scacco matto
e pensò che forse preferiva non assistere alla conclusione della partita.
A quanto pareva, però, non aveva motivo di preoccuparsi, perché
spostando lo sguardo verso la porta del pub vide spuntare Dena Donaldson.
Barbara lanciò un’occhiata a Lynley. Dena era sola, quindi non c’era pericolo
che Harry non la vedesse o la confondesse con un’altra ragazza. Barbara
aspettò. Dena entrò nella zona illuminata dalle lampadine e, sentendosi
chiamare, si girò mostrando la faccia. La sua amica la raggiunse e insieme si
incamminarono verso Quality Square chiacchierando animatamente.
«Ah» disse Harry. «Sì. Quella l’ho vista.»
Perfetto, pensò Barbara.
«Quale?» chiese Lynley, che era accanto a Harry ma dall’altra parte.
«La bionda.»
«Sono bionde tutte e due, Harry» gli fece notare Barbara.
«Oh, scusate. Giusto. La più alta.»
«Ma...»
«È sicuro?» domandò Lynley.
«Per quanto possibile, considerato che li ho visti di notte.»
Barbara avrebbe voluto prenderlo per le spalle e dargli una bella scrollata.
Non era quello in cui sperava. Non era quello che si aspettava e di cui aveva
bisogno. Ci mancava solo Harry Rochester che riconosceva un’altra ragazza,
invece di Dena Donaldson.
«Non la sua amica?» chiese. Valeva la pena tentare. «Bionda anche lei, ma
più bassa? Che ne dice di lei? L’ha vista bene in faccia, no?»
«Sì. Non è un volto nuovo. Ma non significa niente, incontro un sacco di
gente in giro.»
«L’ha vista in giro, ma non con Gary Ruddock?»
Harry Rochester scosse la testa. «Con altri studenti e con le amiche, ma
non con Ruddock, che io ricordi.» Rivolse uno sguardo desolato a Barbara.
«Era lei quella che speravate vi indicassi? Mi dispiace molto. Avrei voluto
aiutarvi.»
«Ci ha aiutato» lo rassicurò Lynley. Barbara, invece, avrebbe preferito
strozzarlo. Lynley le lanciò un’occhiata significativa. «Sergente? Vogliamo
andare? Vogliamo lasciare che il signor Rochester si scelga un posto dove
passare la notte?»
Barbara capì cosa stava cercando di dire: dovevano scappare e seguire la
ragazza indicata da Rochester.
Ludlow
Shropshire
Seguire la ragazza come suggerito da Lynley si rivelò superfluo. A quanto
pareva, l’argomento di cui lei e Dena Donaldson dovevano parlare non
richiese molto tempo, perché meno di un minuto dopo aver svoltato l’angolo
di Quality Square con Dena, la ragazza tornò indietro e rientrò nel pub.
«Allora devo restare?» chiese Harry Rochester appena la vide, ma la
prospettiva non sembrava allettarlo particolarmente.
Lynley rispose che non occorreva. Era necessario invece che il sergente
Havers lo aspettasse fuori. Capiva il suo disappunto, ma era inevitabile: il
proprietario del pub sapeva che Barbara era della polizia, mentre ignorava
che mestiere facesse Lynley.
Una volta entrato, Lynley vide che la ragazza era al bar e stava cercando di
scroccare da bere al titolare. Decise di aspettare che prendesse il suo drink,
pagandolo o meno, e che andasse a sedersi a un tavolo. Ma non accadde
nessuna delle due cose, quindi Lynley si avvicinò al banco.
«Posso parlarle un attimo?» disse alla ragazza. Subito dopo aggiunse, per
propiziare la conversazione: «Cosa beve?»
La ragazza si voltò leggermente e lo squadrò. «Ciao, bellone» disse.
«Finora ho bevuto birra, ma quasi quasi adesso preferirei un gin tonic.»
Lynley fece un cenno al barista che rise sguaiatamente, come se avesse già
assistito a manovre di quel genere da parte della ragazza.
«Tu non prendi niente?» chiese lei a Lynley. Abbassò un momento gli
occhi, forse per guardargli i pantaloni o forse per mettere in mostra le lunghe
ciglia. Sembravano vere, ma chi può mai dire? «Non mi piace bere da sola.
Mi chiamo Francie. E tu?»
«Thomas Lynley» rispose lui, poi, a voce più bassa, aggiunse: «New
Scotland Yard. Ho bisogno di parlarle».
La ragazza alzò la testa e spalancò gli occhi azzurri con aria più
strafottente che sorpresa. «Non mi sembra di aver commesso nessun reato
ultimamente. Mi arresti tu, almeno?» Gli mostrò i polsi. «Oppure posso fare
qualcos’altro per te?» sussurrò con finta timidezza. Poi, rivolta al titolare:
«Jack, secondo te le manette mi donano? Questo signore di Scotland Yard
vuole portarmi via. Sei geloso?»
Jack guardò dritto in faccia Lynley. «Siete di nuovo qui? Abbiamo già
assistito al primo round, e adesso ci tocca il secondo? È qui con quella che
’studia i Plantageneti’, per caso?» esclamò.
«Hai già compagnia per stasera, quindi?» chiese Francie a Lynley. «Che
peccato.»
Jack le servì il gin con due cubetti di ghiaccio, una fetta di limone e una
lattina di acqua tonica. Francie aprì la lattina, ne versò un goccio nel
bicchiere e assaggiò. «Sono... diciamo che sono pronta, agente» aggiunse
sorridendo.
Con il bicchiere in mano, andò verso la porta e si voltò a guardare se
Lynley la seguiva. Sì, le stava venendo dietro. Quando uscirono, li raggiunse
Barbara Havers. Francie la squadrò dalla testa ai piedi, poi guardò Lynley,
fece un mezzo sorriso che voleva essere da donna vissuta e chiese: «Dove
andiamo a fare due chiacchiere?»
Lynley non voleva rischiare di essere visto da Gary Ruddock, nel caso
fosse passato dal pub, e lanciò un’occhiata a Barbara che suggerì: «La chiesa
di St. Laurence non è lontana, ispettore, e c’è quel camposanto...?» Lynley
approvò con un cenno e Barbara fece strada.
«Volete interrogarmi al cimitero? Ma quando mai s’è vista una cosa del
genere?» disse Francie.
«Quando ci sono dei cadaveri da riesumare, per esempio» rispose Barbara
voltandosi indietro a guardarla. «Ma non è il nostro caso. Vogliamo
semplicemente un posto in cui poter parlare senza che nessuno ci veda. Se
vuole, andiamo da un’altra parte. Vive con i suoi? Per conto suo? Divide una
casa con qualcuno?»
«Va bene il cimitero» rispose Francie, e questo bastò per capire dove
viveva. I suoi genitori le avrebbero certamente fatto domande che preferiva
evitare, vedendola con due poliziotti.
Il cimitero non era buio, ma era sufficientemente appartato. Sotto uno degli
alberi di tasso più grandi l’ombra era molto fitta, ma per il resto era
illuminato dai lampioni che si trovavano lungo due lati. Barbara Havers si
diresse verso il tasso e Francie la seguì incespicando. Lynley chiudeva il
corteo.
«Sentiamo.» Francie scelse il punto più buio, appoggiò la schiena al tronco
dell’albero e spinse il petto in fuori. «Cosa volete?»
Prima di tutto, volevano capire di che natura erano i suoi rapporti con Dena
Donaldson.
«Ha combinato qualcosa?» La ragazza sembrava più incuriosita che
preoccupata. Bevve un sorso e guardò Lynley da sopra il bicchiere, ignorando
Barbara.
«È interessante che sia subito saltata a questa conclusione» osservò
Lynley.
«A quale conclusione dovrei saltare, se la polizia mi chiede notizie di una
persona? Per qualche motivo state raccogliendo informazioni su di lei, e di
sicuro non è perché Dena ha fatto domanda per entrare in polizia.»
«Perspicace» commentò Lynley.
«Abbiamo parlato con Dena e stiamo cercando conferma di alcune sue
dichiarazioni» spiegò Barbara.
«Vi abbiamo appena visto insieme» aggiunse Lynley. «E, dal momento
che vi conoscete, ci è sembrato giusto partire da lei.»
«Come sarebbe a dire che state ’cercando conferma di alcune sue
dichiarazioni’?» chiese Francie e, vedendo che non rispondevano, rifletté.
Spostò il peso da una gamba all’altra e mise una mano su un fianco. «Ehi,
non si sarà mica inventata qualche strana storia su di me? Perché, se è così,
sappiate che tutto è cominciato quando Ding mi ha beccato mentre me la
facevo con Brutus. Prima eravamo amicissime, io e lei. Quando ci ha beccato,
le ho spiegato che non ci sarei andata, con Brutus, se avessi pensato che lei
faceva anche solo minimamente sul serio con lui. Non mi è manco venuto in
mente, perché lo sanno tutti che la dà in giro e quindi... Che io fossi in
camera con lui non vuol dire niente e... Insomma, come dicevo, le ho
spiegato tutto un sacco di volte: perché siamo finiti a letto e che non
succederà più. Gliel’ho detto e ripetuto fino alla nausea. Quindi, se sta
cercando di inguaiarmi, e sarebbe capacissima perché è così... non so... in
questo periodo è intrattabile.»
«Un bel groviglio» osservò Barbara Havers. «Vediamo se ho capito bene:
siete coinvolti lei, Bruce Castle, Dena Donaldson e una serie di parti del
corpo, giusto? Suona un po’ come quella canzone che dice ’looking for love
in all the wrong places’.»
Lynley intervenne. «Si tratta di materiale molto interessante per un’analisi
dei rapporti umani, ma non siamo qui per parlare di quello che c’è stato fra
voi tre – Dena, Bruce e lei. Ci interessa molto di più quel che c’è stato fra lei
e l’agente ausiliario di Ludlow. Dena sostiene che...»
«Cosa? Che me la faccio anche con lui? Sta proprio cercando di
inguaiarmi, vero? Per via di Brutus. Tutto per quello stupido Brutus. Oppure
Dena sta cercando di inguaiare Ruddock? Ah, se è per questo, ci sono intere
macchinate di persone che sarebbero ben contente.»
«Perché?» domandò Lynley.
Francie bevve un altro sorso e strizzò gli occhi, pensierosa. «Chiedete in
giro, se volete risposte. Io la spia non la faccio. Ho già abbastanza problemi
così. Nel frattempo, concentratevi sui rapporti fra Ding e Gaz Ruddock,
invece di trascinare me in un cavolo di cimitero nel cuore della notte.»
«Il problema è che lei è stata riconosciuta» disse Barbara Havers.
«In che senso?»
«Nel senso che è stata vista in macchina insieme con l’ausiliario.»
«E chi mi avrebbe visto? Quando? Lasciate perdere. Non ditemelo
nemmeno, tanto chiunque sia stato vi ha raccontato delle gran balle.»
«Secondo la nostra fonte, lei era con Ruddock sull’auto di servizio. Per
quale ragione?»
«Cioè, qualcuno vi ha raccontato che sono stata arrestata? Non ho mai
violato la legge in vita mia. Controllate pure sui vostri computer o iPhone o
dove diavolo tenete le informazioni. Frances Adamucci. A-d-a-m-u-c-c-i.
Secondo nome, Sophia.»
«Nessuno ha detto che lei sia stata arrestata» puntualizzò Lynley.
«Le circostanze in cui è stata vista fanno pensare che l’arresto fosse
l’ultimo dei vostri pensieri: suoi, dell’ausiliario, del suo angelo custode,
dell’arcivescovo di Canterbury...» aggiunse Barbara.
«Ci è parso di capire che l’ausiliario è molto efficiente nel gestire gli
episodi di ubriachezza molesta che si verificano in città» rincarò Lynley.
«Abbiamo saputo che in più di un’occasione ha caricato in macchina e
portato via le persone ubriache. E sappiamo anche che ha una relazione che
vuole tenere segreta, soprattutto dopo che è morto un uomo che lui aveva
fermato. Ora, in quale di queste categorie rientra il suo rapporto con
l’ausiliario?»
«State insinuando che ho ammazzato qualcuno?»
«Tra le categorie citate dall’ispettore questa non c’era» le fece notare
Barbara.
Francie batté un piede per terra. Lynley notò che stava molto attenta a non
rovesciare il contenuto del bicchiere. «Non vedo perché dovrei mettermi in
una di quelle categorie.»
«Alla fine dei conti, potrebbe convenirle» disse Lynley. «Se non altro per
collocarsi al di sopra di ogni sospetto.»
«Sospetto di cosa?»
«Complicità in omicidio.»
«E che cavolo...? Ma cosa dite? Io non ho fatto niente. Non ho mai fatto
niente. Ding è completamente fuori di testa se...»
«Non si tratta di Ding» la interruppe Lynley. «Ding non ci ha detto nulla su
di lei e l’ausiliario.»
«E allora chi è stato? Lo voglio sapere!»
«Non possiamo svelare la sua identità» replicò Lynley. «Qualcuno stasera
l’ha riconosciuta. Afferma di averla vista a bordo dell’auto di servizio di
Ruddock. Noi non ce lo aspettavamo affatto.»
«Non sono mai salita su quella macchina, tranne quando Ruddock ci ha
riaccompagnati a casa ubriachi da Quality Square.»
«Riaccompagnati? Al plurale? Chi erano gli altri?» domandò Barbara
Havers.
«Chelsea. Le volte che è successo c’eravamo tutte e due. Ma è finita lì.
Quindi se qualcuno vi ha raccontato qualcosa di diverso, o è un bugiardo, o ci
vede male, oppure per qualche ragione vuole incastrarmi.»
«Per quale ragione?»
«Perché mi sono fatta il suo ragazzo, per esempio. E siccome questa cosa è
successa con Ding... L’ho già detto, non sapevo nemmeno che stessero
insieme! Sapevo che ogni tanto scopavano, ma così, come tutti, senza
impegno, per divertirsi un po’. E se non c’è Ding dietro a questa cosa, vi
conviene controllare un po’ meglio la persona che vi ha raccontato ’sta balla
perché, datemi retta, vi sta prendendo per i fondelli e sarebbe interessante
scoprire perché lo fa. È di questo che dovreste occuparvi, invece di trascinare
me in un cavolo di cimitero. Chiedete a chiunque allo Hart and Hind se sono
mai stata da sola con Ruddock. Chiedete a tutti quelli che stanno a bere fuori
dal pub. Chiedete a chiunque in Castle Square. Chiedete a chiunque al
mondo. E comunque perché non indagate su Ruddock, invece di prendervela
con me?»
«Si spieghi meglio» disse Lynley. «C’è qualcosa che dovremmo sapere
sull’ausiliario?»
«Se volete una risposta, dovete chiedere a qualcun altro. A Ding, per
esempio, oppure a lui direttamente. Ma con me avete finito di parlare!»
Detto questo, passò loro davanti e si incamminò nella direzione da cui
erano venuti. «Quanto a veemenza, la signorina non ha niente da invidiare a
nessuno» commentò Barbara.
«Non so se crederle o no» replicò Lynley.
«Non so se credere a qualcuno. Ma mi sembra che il prossimo di cui
dobbiamo occuparci sia Harry Rochester: o lo portiamo a fare l’esame della
vista, oppure dobbiamo scoprire a che gioco sta giocando.»
«Cristo, non se ne vede la fine, eh?» esclamò Lynley sbuffando.
«Vuole che ci pensi io?»
Lynley scosse la testa. «Penso che le informazioni che ci servono sul
signor Rochester non le troveremo a Ludlow. Telefonerò a Londra domani
mattina.»
21 MAGGIO
Ironbridge
Shropshire
Come sempre, Yasmina fu la prima ad alzarsi. Dalle tende tirate filtravano i
primi raggi del sole. Sentì il richiamo acuto dei tre pispoloni che tornavano
tutti gli anni a fare il nido nel bosco dietro casa Lomax. Il loro canto era
piacevole, ma l’assordante fischio conclusivo la svegliava tutte le mattine,
che lo volesse o no.
Timothy invece non li sentiva nemmeno. Un tempo sì, tanto che aveva
preso l’abitudine di mettersi i tappi nelle orecchie per poter dormire più di
quanto gli avrebbero permesso i tre pispoloni. Ma la necessità di isolarsi dal
rumore era cessata quando aveva cominciato a usare altri sistemi per
«facilitare il sonno». Se non lo svegliava Yasmina, ormai dormiva fino
all’una o alle due del pomeriggio.
Quella mattina il fatto che Timothy continuasse a ronfare stordito dai
farmaci non la infastidì. Il suo umore era cambiato da quando era riuscita a
convincere Justin Goodayle a collaborare alla sua strategia per rimettere
Missa in carreggiata.
La casa era immersa nel silenzio. Scese in cucina pensando di bere il tè
mattutino al tavolo che guardava verso il giardino. In uno dei punti più
soleggiati c’era un cespuglio di eliantemo con una nuvola di fiori rosa sullo
sfondo verde delle foglie. La fioritura era tragicamente effimera, ma finché
durava era di una bellezza irresistibile e Yasmina già pregustava quei pochi
minuti di solitudine con il suo tè e la vista dei fiori...
«Buongiorno, mamma.»
Quando sentì la voce di Missa, Yasmina si voltò di scatto verso il
soggiorno. Era seduta in poltrona con due valigie da una parte e tre scatoloni
dall’altra. Questi ultimi avevano sul fianco la scritta in rosso di una nota
marca di cereali per la prima colazione e, assurdamente, il primo pensiero di
Yasmina fu che a colazione Missa non mangiava cereali bensì yogurt e frutta.
Subito dopo pensò che la figlia fosse giunta alla sua stessa conclusione e
avesse capito che non doveva restare a Ironbridge, ma tornare a Ludlow. Poi,
in una sorta di rapidissimo flusso di coscienza, immaginò un nuovo
sorprendente scenario: Missa era andata di sua spontanea volontà a parlare
con Greta Yates e stava per tornare a Ludlow dalla nonna per riprendere a
studiare, rimettersi in pari e dare gli esami.
Yasmina cercò di mostrarsi sorpresa, e non le risultò affatto difficile,
perché mai si sarebbe aspettata una soluzione in tempi così brevi. Ma sia la
sorpresa che la soddisfazione svanirono non appena vide meglio l’espressione
della figlia. Non propriamente imbronciata, ma impenetrabile, quasi fosse lì
seduta da ore a rimuginare.
Yasmina indicò scatoloni e valigie. «Santo cielo, cos’è tutta questa roba?»
«Sto aspettando Justin» replicò Missa. «Ieri sera abbiamo parlato.»
Yasmina sentì una corrente di aria fresca alle caviglie e si chiese se la sera
precedente avesse dimenticato di chiudere la finestra della cucina. Era
possibile. Aveva tante di quelle cose per la testa... «Non sono sicura...»
cominciò, ma poi si accorse che non sapeva come continuare.
«E abbiamo parlato anche con i suoi» disse Missa. «Soltanto con sua
madre, in realtà. Le ha parlato Justin. L’osso duro è lei; il padre non crea
problemi, ma voi madri... Voi madri certe volte vi impuntate. Vero?»
Yasmina si chiese cosa c’entrassero i genitori di Justin con il ritorno di
Missa a Ludlow, ma non fece domande. Per ottenere qualche informazione in
più, però, qualcosa doveva dire. «Non capisco. Quegli scatoloni... le valigie...
Parti?» provò a chiedere.
Missa non rispose. Yasmina non si era mai sentita osservata in quel modo
da sua figlia. Sentiva avanzare qualcosa di insidioso che sgorgava da Missa e
strisciava verso di lei sulla moquette come una colata di lava. Avrebbe voluto
fermarla, o per lo meno deviarne il corso, ma non trovò le parole per farlo
senza nominare esplicitamente gli scatoloni, le valigie, Justin, i suoi genitori e
tutto ciò che comportavano.
«Tu non conosci Justin» disse Missa. «Credi di conoscerlo, e posso capire
perché. Justin sembra così... Scommetto che tu lo definiresti un sempliciotto.
Non molto intelligente, ingenuo, superficiale...»
«Non è vero, Missa. È sempre stato molto...»
«Lascia perdere.» Il tono di Missa era cambiato, si era fatto brusco. «Mi ha
raccontato tutto, mamma. Dalla A alla Z, per filo e per segno. Mi ha spiegato
il tuo Piano Strategico con la maiuscola, Obiettivo Università. Non pensavi
che me lo dicesse, perché lo consideravi come consideri chiunque abbia a che
fare con te, argilla da plasmare a tuo piacimento. Ma Justin non si lascia
manipolare e non è di argilla, ma di ferro, è autentico, e te lo ha dimostrato
fin dal principio. Solo che, invece dell’autenticità, tu hai visto in lui solo
semplicità e hai pensato di poterlo manovrare...»
«Missa, non è vero!»
«... alle mie spalle. Ma hai trascurato il fatto che per lui la verità è più
importante dei sogni o, in questo caso, dei regali che gli hai promesso.»
Yasmina avrebbe voluto farla tacere. Nell’aria c’era un odore strano,
nuovo, come di piscina, che non le piaceva. Si ripromise di parlarne con la
donna delle pulizie: non le andava che casa sua puzzasse di cloro. «Non so di
cosa stai parlando, Missa» disse.
«Santo cielo, mamma!» esclamò la ragazza. «Qui, adesso, nel nostro
salotto, ti sto dicendo che ieri sera Justin mi ha illustrato il tuo Piano
Strategico. Oh, ha cominciato come volevi tu, raccontandomi che l’avevi
implorato di parlarmi del West Mercia College, che l’unico modo perché tu la
smettessi di insistere era accompagnarmi dalla psicologa del college, che
dovevamo andarci insieme eccetera eccetera. Solo che non ce l’ha fatta,
capisci? Non è riuscito a fare quello che volevi tu perché sapeva che
nell’attimo in cui fossi salita in macchina con lui per andare a Ludlow glielo
avrei letto in faccia. E quindi mi ha detto la verità.»
«Missa, non puoi non capire quanto è importante che...»
La ragazza si alzò in piedi di scatto. «No. Non. Capisco» scandì alzando la
voce.
Sati si sarebbe svegliata e tutto sarebbe andato a rotoli, pensò Yasmina.
«Per favore, parliamone quando sarai...»
«No. Non ne parliamo più. Basta. Per te parlare significa che tu cominci, io
ti sto a sentire e quando provo a rispondere non riesco... non riesco a
rispondere... Fine. Mi sono stufata. Basta, basta, basta!»
«Smettila di strillare, così svegli tua sorella e tuo padre.»
«E tu non vuoi che si sveglino, vero? Perché se si svegliano c’è il rischio
che scoprano che hai tramato alle mie spalle. Potrebbero capire che cosa ti
importa veramente... Perché a te stanno a cuore le apparenze, non la realtà. E
se loro lo capiscono, per te è la fine, vero? Per te, come per questa famiglia
che è finita da un pezzo, solo che tu non lo vuoi ammettere e io non ne posso
più. È chiaro? Hai capito?» Missa prese una foto in cornice che era posata sul
tavolino accanto alla poltrona e la buttò per terra. «Sono stufa di questa
sceneggiata del cazzo! Non voglio più averci niente a che fare! Mai più!»
«Smettila! Smettila di parlare così e di fare l’isterica!»
«No, cazzo! Non voglio! Smettila di rompermi i coglioni!»
Lo urlò e, come prevedibile, subito dopo arrivò di corsa Sati.
Vide Yasmina e Missa che si guardavano in cagnesco, vide le valigie e gli
scatoloni e scoppiò a piangere. «Missa, no! No! No! Voglio venire anch’io!
Voglio venire con te! Ti prego!» Corse verso la sorella, ma Yasmina la
afferrò per un braccio.
«Sati, torna in camera tua» le ordinò a denti stretti. «Torna subito in
camera tua!» La spinse verso le scale.
«Smettila!» strillò Missa. «Lasciala in pace!»
«Missa!» gridò Sati.
«Non ti preoccupare» le disse Missa. «Tornerò a prenderti. Tornerò presto.
Non aver paura, Sati.»
Yasmina si voltò come una furia. «Sati non va da nessuna parte, e
nemmeno tu. Torna subito in camera tua e porta su le valigie. Al resto
penseremo quando tuo padre...»
«Tu non sai niente! Non sai niente di me e non lo saprai mai perché...
perché...» Missa cominciò a piangere ancora più disperatamente di Sati, con
un’angoscia che fece rabbrividire Yasmina.
«Oddio, Missa...» disse, ma la figlia la respinse.
In quel momento suonarono alla porta. Era Justin, naturalmente. E Missa si
buttò fra le sue braccia. Il ragazzo reagì come sempre. «Tranquilla, Missa. Va
tutto bene. Mia madre e mio padre sono d’accordo, come ti avevo detto.»
«Casa sua è qui» disse Yasmina. Bastarono quelle parole perché Missa si
precipitasse verso la porta e verso l’auto di Justin che l’aspettava.
Justin rimase dov’era, incerto fra seguire Missa per consolarla e prendere i
bagagli, come avevano concordato la sera prima.
«Dottoressa Lomax, non ce l’ho fatta. Gliel’ho dovuto dire e lei ha risposto
che non le importava niente. Né del matrimonio, né della casa, né della luna
di miele.» Justin arrossì come al solito e precisò: «Non voglio dire che non ci
sposeremo. Lo faremo, è quello che desideriamo tutti e due. E siamo disposti
ad aspettare. Intendevo il resto. Ma non si preoccupi. Mia mamma sostiene
che Missa può stare nella camera delle mie sorelle. Se ne sono andate da casa
da un pezzo e... be’...»
Ebbe il buon cuore di non far cenno alle lacrime che scorrevano sulle
guance di Yasmina, anche se ovviamente le vide benissimo. Le diede perfino
una leggera pacca sulla spalla, mentre si avvicinava per prendere le due
valigie di Missa. Sarebbe tornato subito a recuperare gli scatoloni, avvisò.
Era tutto così facile quando si aveva un buon piano.
E poco dopo se n’erano andati. Restava però da pensare a Sati, che si era
chiusa in camera e piangeva disperata. Solo che, quando arrivò in cima alle
scale, Yasmina vide che la figlia minore non era andata nella sua stanza, ma a
chiamare il padre perché intervenisse.
«Mamma, non si vuole svegliare!» singhiozzava la ragazzina tirando
Timothy per un braccio e gridando: «Papà! Papà!»
Yasmina corse vicino al letto e tirò via Sati. «Aspettami in camera tua» le
disse.
«Ma non si sveglia... Che cos’ha, mamma? Che cosa succede?»
Yasmina si chinò sul marito: era di un colore che non lasciava presagire
nulla di buono, però respirava, sia pure con un rantolo. Lo chiamò. Nessuna
risposta. Alzò la voce e lo chiamò di nuovo, mentre Sati alle sue spalle si
lasciava cadere per terra piangendo: «No... Noooo...»
Yasmina scostò lenzuola e coperte, salì sul letto e si mise a cavalcioni del
marito. Chiuse la mano a pugno e cominciò a premergli il centro del petto,
appoggiandosi sulla mano con tutto il proprio peso per esercitare maggior
pressione.
«Mamma, che cos’ha? Chiamo il 999. Devo chiamare il 999?» chiese Sati,
dietro di lei.
«No, no!» rispose ansimando Yasmina. Poi si rivolse al marito. «Timothy,
per amor del cielo! Timothy! Timothy!» Non poteva farlo portare al pronto
soccorso perché altrimenti sarebbe emerso tutto quanto: il suo vizio, il fatto
che sottraeva medicinali in farmacia, che aveva una vera e propria
dipendenza. «Va tutto bene, tesoro. Ha solo un po’ di difficoltà a... Vedrai
che ora gli passa. Guarda, Sati, adesso si sveglia...»
Grazie a Dio, Timothy si stava riprendendo davvero: sbatté le palpebre, poi
richiuse gli occhi. Yasmina gli diede uno schiaffo per farglieli riaprire e, con
uno strattone, lo fece mettere a sedere e poi in piedi. «Visto, Sati? Si è
svegliato. Sta bene. Ieri sera ha preso una pillola per dormire. Adesso lo porto
in bagno e ci chiudiamo un attimo dentro, ma va tutto bene, vedi?»
Sati era affranta. Yasmina era in preda a una furia tale che le sembrava di
avere una forza sovrumana: se necessario, sarebbe riuscita a portare Timothy
di peso nel bagno. Ma non ce ne fu bisogno.
«Sati, io...» disse Timothy, a testa bassa. Poi si afflosciò, appoggiandosi
alla moglie, ma quelle parole erano bastate a Sati, che indietreggiò e rimase a
fissarli dal corridoio sconvolta, con i pugni stretti sotto il mento. Prima di
chiudere la porta del bagno, Yasmina la guardò. «Mi dispiace. Sati, tesoro, mi
dispiace tanto.»
Ludlow
Shropshire
Riusciva a essere irritante per mille motivi, ma quando si trattava di
analizzare un caso Barbara Havers era capace di intuizioni azzeccatissime.
Lynley aveva grande fiducia in lei e la sera prima, quando erano tornati dal
cimitero al Griffith Hall ragionando su tutti gli ostacoli, gli intralci e i bastoni
fra le ruote che avevano dovuto superare, Lynley aveva ascoltato con grande
attenzione le sue considerazioni.
«Il problema, ispettore, è che è troppo alta» aveva cominciato Barbara.
«Francie A-d-a-m-u-c-c-i, come dice lei?»
«Esatto. Sono bionde tutte e due e hanno lo stesso look da studentessa-cheavrebbe-bisogno-di-un-parrucchiere.»
Non appena aveva finito di dirlo,
aveva inarcato un sopracciglio e si era affrettata a puntualizzare: «Lo so, lo
so: chi sono io per trovare da ridire sul taglio di capelli altrui? Ma ha capito in
che senso lo dico, vero? Tutte ’ste ragazze che vanno in giro come reduci
degli anni Sessanta... Gli mancano solo una coroncina di fiori in testa e un
biglietto per San Francisco. Ma il punto è che, nonostante siano tutte e due
bionde, la somiglianza finisce lì. La corporatura è completamente diversa.
Quella che ho visto con Ruddock era bassa. Lo so perché l’ho vista vicino
alla portiera dell’auto. Invece questa Francie è alta, magra e prosperosa.
L’invidia di tutte le femmine, insomma. E poi è vero che era buio, ma quando
quella sera la ragazza ha aperto la portiera per scendere dalla macchina, si è
accesa la luce e per un attimo l’ho vista in faccia. Non era lei!» A quel punto
Barbara aveva indicato con il pollice alle proprie spalle la direzione da cui
venivano. «E comunque resta il fatto dell’auto di pattuglia.»
«Cioè che è stata Dena Donaldson a nominare l’auto di pattuglia, mentre
lei aveva solo parlato di una macchina.»
«Qualcosa deve pur significare, e secondo me significa che è stata con
Ruddock. Se vuole il mio parere, qualcuno ci sta tenendo nascosto qualcosa.
Dena, Francie A-d-a-m eccetera, o magari anche Harry Rochester, che
potrebbe aver visto Dena ma adesso per qualche motivo sostiene di aver visto
Francie. Se ne rende conto anche lei, vero?»
Quello di cui si rendeva conto Lynley era che il tempo passava e di lì a
breve Hillier avrebbe preteso dei risultati per evitare a tutti quanti di finire nel
calderone di acqua bollente che il ministro degli Interni aveva pronto per
loro. «A tenerci nascosto qualcosa, sergente, oserei dire che è più di una
persona. Domani mattina telefono a Winston Nkata» aveva detto prima che
arrivassero all’albergo.
E infatti aspettò l’ora in cui il sergente prendeva servizio e gli telefonò.
Nkata gli rispose con il suo inconfondibile accento, un misto di Africa
Occidentale, Caraibi e Brixton. «Posso approfittare della sua bravura e
chiederle di farmi qualche ricerca, Winston? Siamo un po’ in difficoltà qui»
chiese Linley.
«Mi dica» replicò Winston cordialmente.
Lynley gli diede un elenco di nomi che cominciava con Harry Rochester e
terminava con Christopher Spencer, incluso più che altro per disperazione.
Alla fine, Winston Nkata fece un fischio. «Ci vorrà un po’. Cosa devo cercare
di preciso?»
«Qualunque cosa le sembri sospetta nel loro passato. Per il momento ci
interessa soprattutto Harry Rochester, ma se qualcun altro ha starnutito senza
mettersi la mano davanti alla bocca, ce lo segnali, per cortesia. Riesce a
farcela in giornata?»
«Sì. Sto svolgendo anche altre ricerche, ma...» Si interruppe. Lynley sentì
che qualcuno gli diceva qualcosa e Winston rispondeva: «Sì, è lui. Mi ha
appena chiamato» e poi, al telefono: «Dee Harriman vorrebbe parlarle un
attimo, ispettore».
Quando Dee gli disse «È il cielo che la manda, ispettore investigativo»,
Lynley rispose con tutta la lealtà di cui era capace. «A giudicare da quanto è
stanca la mattina, credo che Barbara si alleni tutte le sere, Dee. O forse prima
di colazione. Confesso che non le ho chiesto esattamente a che ora si metta in
comunicazione con Ginger Rogers. In ogni caso, a furia di ballare si sta
consumando i metatarsi. O i metacarpi? Farà un figurone al saggio di danza.
Mi raccomando, mi segni la data in agenda perché, nonostante le minacce di
Barbara, voglio assolutamente esserci.»
«Conto sulla sua presenza, ispettore, quindi se sta facendo dell’ironia...»
replicò Dee.
«Non oserei mai fare dell’ironia sul sergente Havers con le claquettes ai
piedi, mi creda.»
Dee rise. «Sarà uno spettacolo, vedrà. Barbara farà faville. Ma non è di
questo che volevo parlarle.»
«Ah, il cielo mi ha mandato per cosa, allora?»
Ci fu un momento di silenzio, poi Dee rispose a voce bassissima.
Sembrava che si fosse allontanata dalla scrivania di Nkata, o forse si era
voltata. «Non è venuta a lavorare. Ha di nuovo telefonato dandosi malata.
Non si ammala mai, ispettore. Cosa devo fare?»
«Il sovrintendente Ardery.»
«Chi, se no?»
«Forse sarebbe più corretto dire che non si è mai ammalata finora, Dee.» Il
tono di Lynley era volutamente tranquillo, ma la preoccupazione gli aveva
fatto serrare le dita intorno al cellulare. «E adesso invece non si sente bene.»
«Cosa devo fare? Me lo dica lei.»
«Le ha parlato?»
«Ha lasciato un messaggio. Come l’altra volta. Ma le telefoneranno – e
presto, ispettore – oppure telefoneranno a me per chiedere sue notizie. E io
non so che cosa dire, né che cosa fare. Forse, se la chiamasse lei... Perché,
vede, sono preoccupata. Lei mi dirà che non dovrei, che se sta male non sono
affari miei, ma se avesse sentito con che voce... Mi sembra che... Cioè, voglio
dire, posso parlare chiaro e dirle cosa penso, ispettore investigativo Lynley?»
«Cosa pensa?»
«Lei lo sa. E io so che lei lo sa perché certe volte le voci si sentono anche
attraverso le porte chiuse e io non sono una che origlia e non l’ho mai fatto,
ma ho visto che anche lei a volte si ferma davanti alla porta della sua stanza
per sentire se...»
«Dee.»
«Sì?»
Lynley rifletté su cosa rispondere. Dee Harriman era una persona corretta e
leale nei confronti di tutti, compresa Isabelle Ardery, ed era sicuramente in
buona fede. «In questo caso non possiamo fare niente» disse.
«È vero, sì. Ma se il sovrintendente Ardery venisse a sapere che se ne sono
accorte anche altre persone... Voglio dire... Invece che lei è al corrente già lo
sa, immagino.»
«E serve a qualcosa, secondo lei?»
Seguì un silenzio in cui Lynley udì altre voci in sottofondo. L’ufficio di
Londra era in piena attività. Dee aveva ragione a preoccuparsi, perché
qualcuno prima o poi avrebbe dovuto affrontare di petto la questione. Ma
quel qualcuno non sarebbe stato Thomas Lynley. Non era possibile. Né
poteva essere Dorothea Harriman. «No, a niente. Quindi che... che cosa
faccio?» rispose la donna.
«Non lo chieda a me. Sa già cosa deve fare.»
«Oddio, dovrei denunciarla?»
«Deve fare il suo lavoro, Dee» ribatté Lynley. «Il sovrintendente le ha
lasciato un messaggio dicendo che è malata. Lei è convinta che non sia vero,
e probabilmente ha ragione, ma dal momento che non ne ha la certezza e che
il sovrintendente non le ha detto...»
«Non mi dirà mai che deve smaltire la sbornia o che è troppo sconvolta per
presentarsi in ufficio!»
«... l’unica cosa che può fare è riferire quanto le è stato detto a chi dovesse
eventualmente chiederle notizie.»
«Quindi, se nessuno mi chiede niente...»
«Sa già cosa deve fare, non c’è bisogno che glielo dica io.»
«Ma non si può andare avanti così, ispettore investigativo.»
«E infatti non andrà avanti a lungo. I nodi vengono al pettine, prima o
poi.»
Si salutarono. Per telefonare Lynley si era seduto sul letto scomodissimo
della sua stanza simil-cella. Si guardò le scarpe e vide che avrebbero avuto
bisogno di una bella lucidata, ma purtroppo non aveva portato con sé il
necessario e in ogni caso non era bravo come Charlie Denton. Pensò di
telefonargli per chiedere come andava con Mamet, poi pensò di telefonare a
Daidre. Aveva anche lei le sue preoccupazioni: i genitori biologici, il fratello
e la sorella, la madre in punto di morte, eppure Lynley si chiese cosa
significasse quel suo silenzio in un momento in cui era costretta a tornare in
un mondo che era convinta di aver abbandonato per sempre. Daidre stava
affrontando i fantasmi del proprio passato senza di lui e Lynley non poteva
fare a meno di domandarsi come mai non sembrasse aver bisogno di lui in un
momento simile. Sottesa a quella domanda ce n’era inevitabilmente un’altra
più generale: abbiamo davvero bisogno degli altri?
A quella non sapeva rispondere, e non ci provò nemmeno.
Ludlow
Shropshire
Ding si svegliò nel letto in cui aveva dormito sola per tutta la notte. Non le
succedeva da tantissimo tempo. Non ricordava con esattezza da quando, ma
doveva essere da due settimane dopo l’inizio dei corsi, perché era più o meno
in quel periodo che si era messa con Brutus. E anche se lui poco dopo aveva
cominciato ad andare anche con altre ragazze, era sempre tornato a dormire
nel letto di Ding, tranne le notti in cui lei lo aveva mandato via perché l’aveva
fatta arrabbiare troppo con il suo... con il suo essere Brutus in tutto e per
tutto.
Oltre ad aver dormito sola, Ding non aveva fatto sesso né il giorno né la
notte prima. Se questo non era di per sé straordinario, lo era il fatto che fosse
riuscita a prendere sonno e a risvegliarsi senza grossi patemi. In passato
avrebbe cominciato subito a chiedersi con chi mettersi, come se senza
qualcuno con cui «mettersi» – ossia, fondamentalmente, con cui andare a
letto – potesse perdere la propria identità.
E sulla propria identità Ding continuava ad avere le idee piuttosto confuse.
Se non altro, però, adesso riusciva a ricostruire la parabola che da bambina
l’aveva portata a essere l’adolescente e poi la donna che era diventata.
L’aveva percorsa a velocità folle, bruciando le tappe nel tentativo disperato di
raggiungere una meta che non le era chiara. Non avendo chiaro dove stava
andando, anche se fosse giunta a destinazione difficilmente se ne sarebbe
accorta, e così finiva per cercare sempre e soltanto ciò che le era familiare,
pur non sapendo neppure perché le fosse familiare.
Nel momento terribile in cui aveva visto suo padre morto, nudo come un
verme, in qualche modo doveva aver intuito che aveva fatto quella fine per
via dell’arnese che gli pendeva fra le gambe e, nella sua mente di bambina,
doveva aver tratto qualche conclusione: solo così riusciva a spiegarsi la
ripugnanza che provava ogni volta che un uomo le chiedeva di fare qualcosa
con il suo arnese.
Ma allora, pensò Ding sdraiata nel letto a guardare il soffitto, se la sua
analisi era corretta, da dove veniva tutta la sua rabbia, in particolare quella
che provava nei confronti di Brutus e delle altre con cui era andato da quando
si era messo con lei? Ding se l’era sempre presa con quelle che gliela davano
e glielo prendevano in bocca, ma perché? E che cosa significava?
Ci pensò su per un po’ e la risposta le arrivò lenta ma chiarissima, così
limpida che capì subito da dove nasceva. Rivide le facce delle ragazze che
aveva sorpreso con Brutus: Allison, Monica, Francie. Riconosceva la loro
espressione: piacere, libidine, godimento. Comunque lo si volesse chiamare,
era qualcosa che lei non era in grado di provare. Ecco qual era il problema.
Allison che rideva, Monica con quell’aria da gatta soddisfatta, Francie che la
invitava a farlo in tre. Perché per Francie si trattava di un gioco, di un
divertimento e basta, mentre per Ding... Ding aveva sempre fatto sesso
soltanto per dire a se stessa che solo lei sapeva quanto era spregevole il
maschio della specie Homo sapiens.
Si alzò e frugò in un cassetto finché non trovò un paio di pantaloni e una
maglietta che sarebbero andati bene per fare yoga, ma che lei aveva
l’abitudine di portare quando stava in casa. Se li mise e uscì dalla stanza. Le
altre porte erano chiuse. Si avvicinò a quella di Brutus e bussò.
«Bru?» disse. «Posso parlarti un attimo?» Sentì parlottare brevemente
sottovoce, poi silenzio. «Non è niente di grave, Bru. Non aver paura, okay?»
Funzionò. Ding sentì cigolare le molle del materasso e poco dopo Brutus
aprì. Tenne la porta in modo che lei non vedesse dentro la stanza,
probabilmente perché si era portato a letto una ragazza nuova, la raggiunse
nel corridoio e richiuse la stanza. «Sì? Cosa c’è?»
Il tono era guardingo. Lanciò un’occhiata verso la stanza di Finn, poi
guardò di nuovo Ding. Indosso aveva soltanto i boxer.
«Posso parlarti?» chiese Ding. «È una cosa veloce. Puoi venire un
momento in camera mia?»
«Io e te non...»
«Non voglio parlarti di noi» lo interruppe Ding. «Sappiamo benissimo che
tra noi è finita. Ma devo chiederti una cosa e preferisco parlartene di là.»
Inclinò la testa verso la propria stanza.
Brutus si sforzò visibilmente di non perdere la pazienza. «Ding, te l’ho già
spiegato un sacco di volte. Non so come altro spiegartelo.»
«Non si tratta di questo. C’è una cosa che non mi hai mai spiegato, perché
io non te l’ho mai chiesta, ed è di quella che ti voglio parlare. Faccio presto,
vedrai.»
Brutus sospirò. «Okay. Dammi solo un momento» disse.
Tornò in camera, sgattaiolando dentro in modo da non scostare la porta più
di un palmo, e un attimo dopo Ding udì un mormorio, la voce di Brutus e
quella di una donna. La presenza di una sconosciuta la offendeva, ma si
accorse che non era tanto per gelosia nei confronti di Brutus, quanto per un
disagio tutto suo, e che era stato così fin dall’inizio.
Brutus tornò nel corridoio in jeans e maglietta e la seguì, ma si fermò sulla
soglia.
«Mica ti salto addosso» lo tranquillizzò Ding.
«Lo so, ma ho dovuto chiarirle che...» replicò Brutus.
«Capito.» Si rese conto nel momento stesso in cui lo diceva che non aveva
il minimo interesse. Non contava chi fosse la ragazza, perché fosse lì, che
cosa avesse fatto con Brutus. Non gliene importava niente. «Va bene così,
Bru. Adesso ho capito. Non siamo poi così diversi, io e te. Ci arriviamo in
modi diversi, ma in fondo la conclusione è la stessa.»
«Ah.» Brutus aveva l’aria ancora più guardinga di prima.
Ding continuò. «Comunque, non è di questo che ti volevo parlare. Devo
chiederti una cosa su quella sera in cui nevicava e ci siamo sbronzati allo Hart
and Hind, a dicembre.»
Brutus aggrottò la fronte. «È nevicato un sacco di volte. E ci siamo
sbronzati un sacco di volte.»
«Sì, ma quella sera io e te eravamo andati allo Hart and Hind con un piano
e abbiamo bevuto sidro invece che birra. Ti ricordi, Brutus?» Aspettò che gli
tornasse in mente, ma lui continuava a brancolare nel buio. «Quella sera io e
te avevamo un piano, ma le cose ci sono sfuggite di mano. C’era anche Finn.
Lui beveva Guinness mentre noi bevevamo sidro, e ti ricordi come ci siamo
ridotti? Non volevamo, perlomeno io e te, ma è andata così.»
Brutus annuì lentamente. «Me lo ricordo, sì. Abbiamo fatto una stronzata.»
«Peggio che una stronzata. Abbiamo fatto una cosa terribile. Ed è per
questo che le cose sono andate come sono andate.»
«In che senso? Non ti capisco, Ding.»
«Finora sono stata zitta, ma adesso ho bisogno di saperlo. Questa cosa mi
sta facendo impazzire da un sacco di tempo e ora voglio vederci chiaro, ma
per farlo ho bisogno di sapere dov’eri. Perché quella notte mi sono svegliata e
tu non c’eri e, come hai detto anche tu, dormivi sempre con me se... cioè...
quando lo facevamo di sera e non durante il giorno. Solo che quella notte mi
sono svegliata e tu non c’eri e non sei tornato proprio. Dove sei stato?»
Brutus la guardò perplesso. Non capiva perché, dopo tutti quei mesi, le
interessasse tanto una simile inezia. «Ero abbracciato al cesso» rispose dopo
un po’.
«Cosa?»
«Mi sono alzato per pisciare. Solo che mi girava la testa e mi veniva da
vomitare. Sono arrivato nel bagno appena in tempo e ho cacciato anche
l’anima e a un certo punto devo essere svenuto, perché mi ricordo che ho
pensato, quasi quasi mi riposo un momento qui per terra davanti al cesso, e
poi mi sono svegliato con Finn che mi pisciava in testa. Anzi, non solo in
testa. Sai com’è Finn, ha dei problemi a centrare la tazza. Regge l’alcol
meglio di me e non aveva bevuto sidro, lui.»
Ding si coprì la bocca con la mano. «Nel bagno» ripeté. «Quella notte,
quando mi sono svegliata, eri nel bagno?»
«Sì, ci sono rimasto finché non è arrivato Finn. Ma a quel punto fuori c’era
già luce. Sono tornato in camera mia e tanti saluti. Perché me lo chiedi,
Ding?»
Ding scosse la testa in preda all’incertezza. Era convinta di aver capito, ma
ora lo scenario era di nuovo cambiato. Doveva riflettere sulla cosa giusta da
fare.
Ludlow
Shropshire
«Fin dal primo momento, quando sono venuta qui con il sovrintendente,
quest’uomo non ha fatto altro che propinarci mezze verità, ispettore. Ha
omesso dettagli, ha descritto le cose prima in un modo e poi in un altro. Della
serie: ’Ah, già, mi sono dimenticato di dirvi che ho fatto una sfilza di
telefonate al marito del vicecomandante e pure a Ian Druitt. Ah, già, in effetti
conosco Finnegan Freeman. Non vi ho parlato delle perplessità che Druitt
aveva nei suoi confronti? A proposito, conosco parecchio bene una ragazza
che, combinazione, abita in casa con lui’.»
Barbara e Lynley erano sulla terrazza dell’albergo, dove tirava un’aria
fresca che avrebbe scoraggiato chiunque dal fare colazione all’aperto.
Neppure loro avevano intenzione di mangiare lì, ma a Ludlow arrivavano
ogni giorno più turisti e il Griffith Hall era sempre più affollato. Lynley aveva
riferito sottovoce a Barbara la telefonata con Winston Nkata e Barbara
avrebbe voluto richiamarlo per aggiungere alla lista anche Gary Ruddock.
Appena lei aveva cominciato a discutere su quell’idea, Lynley l’aveva portata
sulla terrazza, che non era visibile né dalla sala della prima colazione né dal
bar. Nel prato sottostante c’erano due giardinieri all’opera, ma erano piuttosto
lontani e si poteva parlare senza pericolo di essere sentiti.
Lynley era fin troppo pensieroso. Osservava i due giardinieri come se li
stesse confrontando mentalmente con gli addetti alla manutenzione del
latifondo di cui era proprietario in qualità di Lord Asherton. Barbara fremeva:
avrebbe voluto vederlo entrare in azione, anche se nemmeno lei avrebbe
saputo dire di quale genere di azione ci fosse bisogno. «Ispettore? Mi sente?
Qui Ludlow...»
Lynley si riscosse. «Condivido pienamente le anomalie che...»
«Anomalie?»
«... che ha messo in evidenza. Resta il fatto che, malgrado tutto ciò che
abbiamo visto e sentito, e che è in parte discutibile...»
«Discutibile?»
«... penso che lei sia concorde sulla totale assenza di un movente e...»
Lynley alzò la mano per impedirle di interromperlo di nuovo. «Anche se sono
d’accordo con lei che può essersi trattato di un gesto immotivato, suicidio o
omicidio che fosse, ammetterà che è stranissimo.»
«Stranissimo che siano passati diciannove giorni, intende.»
«Sì, ma non solo quello.»
«E quindi...?» Barbara cercò di incoraggiarlo.
«Sappiamo che c’è sotto qualcos’altro. Ragione in più per vedere cosa
riesce a scoprire Nkata. Ma il problema resta lo stesso che avevamo
all’inizio: non abbiamo testimoni e non abbiamo prove. Abbiamo solo un
teste che afferma di aver visto l’agente Ruddock portare degli ubriachi da
qualche parte, con ogni probabilità a casa. Per tutto il resto non c’è bisogno
che sia io a ricordarle che non abbiamo alcuna prova.»
«E questo non le sembra curioso? Non mi riferisco a Ruddock e agli
ubriachi, ma alla mancanza assoluta di testimoni. Compreso il fatto che
l’autore della telefonata a seguito della quale Druitt è stato fermato è sfuggito
alla sorveglianza. Non le sembra un po’ troppo comodo che la videocamera
fosse stata spostata in maniera da non riprendere il telefono? E che questa
stessa videocamera sia rimasta spenta per venti secondi, ovvero per il tempo
che è occorso a qualcuno per uscire, spostarla, tornare dentro e riaccenderla?
Secondo lei, chi è stato?»
«Sì, concordo con lei, Barbara. Non dimentichiamo, però, che la stazione
di Ludlow è frequentata da decine di persone e può accedervi praticamente
l’intero corpo della West Mercia Police. A che ora è stata effettuata la
telefonata anonima?»
«Intorno a mezzanotte.»
«Perché, a suo avviso, l’agente Ruddock, che avrebbe potuto spostare la
videocamera e fare quella telefonata in qualsiasi momento, si sarebbe dovuto
alzare nel cuore della notte quando gli sarebbe bastato aspettare di essere in
servizio da solo – come pare sia la maggior parte del tempo – per
manomettere la videocamera e fare la sua telefonata in tutta tranquillità?»
«Per farci credere che qualcuno lo vuole incastrare» osservò Barbara.
«Giusto» ammise Lynley. «Ma non abbiamo alcun elemento per
dimostrarlo.»
«Quindi finora abbiamo sprecato il nostro tempo? È questo che sta
dicendo?»
Nel prato uno dei giardinieri aveva messo in moto un tosaerba e si dirigeva
verso di loro, mentre l’altro spruzzava qualcosa su una rosa rampicante
nell’angolo più lontano del giardino. Lynley e Barbara si incamminarono
verso il Ludlow Castle, ma si fermarono a continuare il discorso sul
marciapiede di fronte al castello.
«No, non sto dicendo questo. Ma sa bene anche lei qual è il problema: il
delitto perfetto non esiste. Prima o poi una prova salta sempre fuori, a meno
che l’assassino riesca a simulare la morte naturale così bene che nessuno la
mette in dubbio. Se le cose stanno così – e mi riferisco all’impossibilità di
compiere un delitto perfetto – in mancanza di prove che Druitt sia stato
ammazzato, non possiamo che confermare la tesi iniziale. Per quanto possa
risultare sgradevole, si tratta di un suicidio.»
«Lo crede veramente?»
«Barbara, sono d’accordo che l’ausiliario sembra un personaggio
discutibile, ma la parola chiave è, come lei ben sa, sembra. Se non troviamo
qualcosa di concreto, le nostre restano insinuazioni e accuse campate per aria.
E le ricordo che presto dovremo tornare a Londra: immagino ci faranno
rientrare a breve.»
Barbara diede un calcio a un ciuffo d’erba cresciuta fra le pietre del
marciapiede. «Pazienza» borbottò. Poi però ebbe un’illuminazione e alzò lo
sguardo. «Io le ricordo invece la possibilità di ricorrere a qualche
stratagemma, ispettore.»
«Non escludo di farlo, mi creda. Non ora, però.»
Sugli spalti del castello qualcuno stava srotolando uno striscione che
reclamizzava l’imminente festival shakespeariano. Fra gli spettacoli in
programma c’era Tito Andronico. Lynley lo vide ed esclamò: «Oddio».
«Cosa?» chiese Barbara.
«Uno stupro, mani mozzate, una lingua tagliata a una donna ancora viva,
un pasticcio di carne fatto con pezzi di nemici uccisi. Non ci è ancora
arrivata?»
«Sono alle tragedie. Questa c’entra?»
«È una tragedia anche che venga messa in scena.»
Barbara rise, suo malgrado. «E Francie Adamucci, allora? Ci ha fatto
capire chiaramente che dovremmo indagare su Ruddock. Può darsi che alla
base di tutto ci sia lui e la sua abitudine di portare le studentesse troppo
ubriache alla stazione di polizia, o forse soltanto nel parcheggio. Magari non
è vero che ha una fidanzata di cui non vuol dire il nome per questioni di
’onore’. Magari ogni volta che si carica in macchina giovani ubriachi per
accompagnarli a casa se ne porta nel parcheggio una diversa.»
«E perché la ragazza dovrebbe starci, ammesso che ciò che afferma sia
vero?»
«Perché non vuole farsi vedere in quello stato, per esempio. Da mamma e
papà, oppure dal tutor, da un coinquilino, da chiunque. E l’unico modo per
evitarlo è accontentare il nostro Gaz.»
«E questo dove ci porta, Barbara?»
«A una prima spiegazione del motivo per cui Gaz Ruddock risulta
discutibile. Finora ha dato spiegazioni un tantino traballanti, ma legittime:
una relazione con una donna di cui non vuol fare il nome per questioni di
’onore’ – suona bene, bisogna riconoscerlo –, un incontro nel parcheggio la
sera in cui è morto Druitt, l’abbandono del posto di servizio e il successivo
harakiri in stile Lancillotto o cosa diavolo...»
«Lancillotto non ha...»
«Oh, lo so. Il punto è che Ruddock si dipinge come un cavaliere senza
macchia e senza paura, mentre invece approfitta delle studentesse ubriache
costringendole a fare sesso. E questo è un po’ meno legittimo. Vero è che
dovremmo trovarne una disposta a testimoniare. Però, a proposito di
stratagemmi, potremmo fargli credere che l’abbiamo trovata.»
«E se dovessimo farlo, questo dove ci porterebbe?»
Barbara rifletté sul passo logico successivo: Ruddock, le studentesse
ubriache, il parcheggio della stazione di polizia... Le venne un’idea. «Caspita,
ispettore! Ci porterebbe a una studentessa che va a confessare tutto a un
uomo di Dio! E l’uomo di Dio decide di andare a parlare con Ruddock e
allora Ruddock decide che bisogna prendere provvedimenti prima che Druitt
vada a parlare anche con qualcun altro, per esempio con i suoi superiori in
polizia. Sappiamo che una Lomax è andata da Druitt, ispettore.»
«Non mi venga a dire che le ci sono voluti sette appuntamenti per dire a
Druitt che Ruddock pretendeva favori sessuali da studentesse ubriache.»
«Se però lei era una delle vittime...»
«Senta, Barbara. Per smettere di far parte della categoria bastava smettere
di farsi trovare in giro ubriaca fradicia, no?»
«Ammesso che lui le raccolga in questo modo e per questo motivo.»
«E ammesso che le raccolga veramente, perché nessuno lo ha mai detto
chiaro e tondo.»
«Harry Rochester, sì.»
«Harry Rochester ha semplicemente visto l’ausiliario con dei giovani –
maschi e femmine – in apparente stato di ebbrezza, punto. Si rende conto del
problema, vero?»
Barbara guardò di nuovo il castello. Sugli spalti stavano srotolando un
altro striscione. L’importanza di chiamarsi Ernesto. Anche Lynley lo vide.
«Non è un antidoto all’altro, ma è già qualcosa» mormorò. «Allora?» chiese.
Barbara capì che non si riferiva a Oscar Wilde. «Senza prove, siamo a un
punto morto.»
«Anche se ci piace lo scenario Ruddock-studentessa ubriaca, per far
quadrare i conti stiamo trascurando parecchi dettagli importanti.»
«Me ne rendo conto» ammise Barbara. «Per esempio che ruolo hanno i
Freeman, il motivo delle telefonate fra Druitt e Ruddock, perché i Freeman
hanno chiesto a Ruddock di tenere d’occhio Finnegan e se questo sia
rilevante o meno, come mai è passato tanto tempo dalla denuncia al fermo di
Druitt. E... Cosa c’è, ispettore?»
Lynley aveva fatto schioccare le dita.
«Siamo due perfetti idioti, Barbara» le rispose.
«Perché?»
«I diciannove giorni fra la denuncia e il fermo...»
«Cioè?»
«Doveva essere Ruddock a eseguire il fermo. Questo poteva succedere
solo se gli agenti di Shrewsbury erano impegnati altrove. E ci sono voluti
diciannove giorni perché succedesse.»
«Vuol dire che Ruddock ha aspettato che i suoi colleghi fossero impegnati
altrove, per esempio per una serie di furti?»
Lynley scosse la testa. «No. Provi a seguire le briciole di pane, Barbara.
Non è stato Ruddock ad aspettare.»
Ludlow
Shropshire
La sera prima Trevor aveva fatto una cosa che non faceva da anni: era andato
al pub e aveva bevuto troppo. Clover non era tornata a casa per cena, aveva
telefonato dicendo che avrebbe finito tardi, e lui aveva deciso che non aveva
voglia di cucinare solo per sé ed era andato al pub a mangiare scampi fritti
con contorno di piselli e patatine. Aveva innaffiato il tutto con una pinta di
lager e, finito di mangiare, ne aveva ordinata un’altra. Poi un’altra e un’altra
ancora, fino ad arrivare a quattro. Per completare l’opera, aveva bevuto anche
due dita di Jameson. A quel punto era tornato a casa, dove aveva trovato
Clover in cucina intenta ad aprire la posta che si era accumulata negli ultimi
giorni.
Gli aveva lanciato un’occhiata. «Spero che tu non abbia guidato in queste
condizioni» aveva detto.
Trevor si era avvicinato, le si era piazzato davanti e aveva mimato un
saluto militare. «Soldatino a rapporto» aveva detto. «Si è presentato Mister
Scotland Yard e io gli ho raccontato la storia che volevi tu. L’ordine
mondiale è salvo.»
«Non mi piaci quando sei ubriaco, Trev. Se vuoi parlare...»
«Ho detto che voglio parlare?» E se n’era andato. Era entrato in camera di
Finn e aveva dormito nel letto singolo del figlio.
La mattina Clover era già uscita, quando si alzò. Meglio così, pensò,
perché aveva parecchio da fare e non voleva perdere tempo tentando per
l’ennesima volta di cavarle delle informazioni di bocca.
Andò dritto a Ludlow. Doveva parlare con Gaz Ruddock, non
necessariamente a lungo, ma al più presto. E quindi, appena arrivato in città,
chiamò l’ausiliario sul cellulare per sapere dove si trovava. Gli avrebbe fatto
piacere parlargli un attimo, spiegò. Aggiunse che era a Ludlow e poteva
incontrarlo dove e quando preferiva.
Gaz parve sorpreso che Trevor fosse in città, ma non chiese spiegazioni.
Disse che stava facendo il suo solito giro, era vicino al superstore di Station
Drive e stava andando verso la stazione ferroviaria, la biblioteca e il Bull
Ring. Trevor voleva incontrarlo lungo la strada?
Perfetto, rispose Trevor. Era alla stazione di polizia e il Bull Ring non era
lontano. Di lì a poco si sarebbero visti.
Il discorso si sarebbe potuto fare per telefono, ma Trevor voleva vederlo in
faccia. Appena si furono accordati, perciò, prese Lower Galdeford Street
verso Tower Street e il Bull Ring, sul quale si affacciava l’edificio più
fotografato di Ludlow, la pittoresca Feathers Inn con gli abbaini sul tetto e le
innumerevoli finestre che decoravano i tre piani della facciata.
Come al solito, davanti all’antica locanda c’erano varie persone intente a
immortalare il balcone decorato di fiori e i vetri a rombi su cui si rifletteva il
sole. Trevor vide Gaz Ruddock in posa insieme a un gruppo di turisti,
probabilmente convinti che fosse un esemplare del tradizionale e ormai
praticamente estinto bobby inglese.
Gaz lo notò e sorrise stringendosi nelle spalle come a dire «Cosa ci vuoi
fare?» Trevor aspettò che la foto venisse scattata e i turisti si allontanassero
ascoltando in cuffia le spiegazioni della guida, riconoscibile dalla bandierina.
A quel punto si avvicinò a Gaz. «Qual è la prossima tappa?» disse.
L’ausiliario rispose: «Mill Street, passando per Brand Lane e Bell Lane, ma
possiamo anche fermarci a prendere qualcosa, se vuole. Un caffè, o quello
che preferisce. Ma al Bull» – indicò l’hotel di fronte con il cortile dove un
tempo si fermavano le carrozze per far scendere i passeggeri – «non qui».
Trevor non aveva voglia né di mangiare né di bere, ma intendeva parlare
con Gaz guardandolo in faccia, e camminando sarebbe stato difficile, per cui
accettò. Il Bull andava benissimo.
A quell’ora il bar dell’hotel era semivuoto: c’erano solo un signore che, a
giudicare dall’abbigliamento, poteva essere un docente universitario e tre
giovani che Trevor immaginò essere studenti. Erano nell’angolo in fondo a
parlare tra loro e non fecero caso ai nuovi arrivati.
Trevor declinò l’offerta di un caffè, ma Ruddock andò al banco a ordinarne
uno per sé. Nel frattempo Trevor scelse il tavolo con le condizioni di luce
migliori. Aveva sgabelli, anziché sedie, quindi non sarebbero stati
particolarmente comodi, ma Trevor non aveva intenzione di fermarsi a lungo.
«Finn sta bene?» Gaz posò il caffè sul tavolo, ci aggiunse parecchio latte e
mescolò lentamente, quasi avesse paura di farlo tracimare girando il
cucchiaio con troppa forza.
«Meno bene di quello che vorrei. Scotland Yard gli ha fatto
un’improvvisata ieri mattina.»
Gaz si rabbuiò. «Deve averli morsi la tarantola, a quelli. Vuole che gli parli
e gli dica di non preoccuparsi? Non è l’unico da cui si sono presentati...»
Trevor lo osservò. Aveva una faccia così innocente... O era la sua
espressione naturale, se non la sua vera natura, oppure aveva imparato a
recitare molto bene. Quell’aria sincera e volenterosa sicuramente lo aiutava:
gli era servita durante l’addestramento e ancora di più per conservare il posto
dopo la morte di Druitt. Certo, poteva essergli utile anche al di fuori della vita
professionale.
«Non è il caso, grazie. Finn ha reagito bene. È rimasto un po’ scosso
quando si sono presentati in camera sua...» disse Trevor.
«Cosa?»
«Eh, sì. È stato uno shock. Di sicuro l’hanno fatto apposta. Ma l’ha
superata. Gli ho detto che sporgerò reclamo.»
«Sua moglie lo sa?»
«Perché me lo chiede?»
Gaz aggrottò la fronte, sorpreso da quella domanda. «Clover è più alta in
grado di quei due. Se hanno violato il regolamento, può senz’altro
intervenire. Dare un colpo di telefono a Londra, per esempio.»
«Ah» replicò Trevor. «Sì, l’autorità l’avrebbe. Mi stupisco che lei non si
sia mai lasciato intimidire, Gaz. Quasi nessuno, nella sua posizione, instaura
con un funzionario di grado più alto il rapporto che lei ha con mia moglie.»
«Non solo con sua moglie, Trev. Con tutti i pezzi grossi che insegnavano
al corso di addestramento.»
«Be’, con Clover ha sicuramente un rapporto stretto» osservò Trevor. «A
giudicare dal numero di chiamate che ho trovato sul mio cellulare, vi parlate
spesso.»
«Gliel’ho detto, è stato per Finn.»
«Sì, me l’ha detto.» Trevor lo guardò con un’espressione che voleva essere
benevola e paterna, ma forse non gli riuscì perché non si sentiva per nulla ben
disposto nei confronti di Gaz. Era giunto il momento di darci un taglio.
«Possiamo chiuderla qui, Gaz» disse.
«Cosa?»
«Smetta di tenere d’occhio Finn e riferire a sua madre.»
«Clover non vuole più che me ne occupi?»
«Vuole sicuramente. Se potesse, lo farebbe tenere d’occhio fino alla terza
età. Sono io che dico basta. Finn se la cava discretamente e può organizzarsi
la vita per conto suo.»
Gaz guardò la tazza. Un muscolo dietro la mandibola gli si contrasse
leggermente. «Se è questo che vuole, Trev» disse dopo un po’.
«Sì, è quello che voglio, e lo vuole anche Finn» replicò Trevor. «E sono
certo che, quando glielo dirò, anche Clover riconoscerà che è meglio così. A
nessuno fa piacere che la madre gli metta alle calcagna un angelo custode. O
un gorilla. Anche perché ormai Finn è maggiorenne. Per il resto, lasciamo le
cose come stanno. Ormai lei è praticamente un amico di famiglia, in fondo.»
Gaz alzò lo sguardo. «Lo spero. Siete importanti per me, Trev. Tutti
quanti.»
Trevor sorrise. «Sì, Gaz, lo so. Grazie.»
Ludlow
Shropshire
Ding si incamminò verso il Ludford Bridge a passo meno svelto di quanto
avrebbe dovuto considerando che stava andando a lezione, era in ritardo e
Greta Yates ne sarebbe stata sicuramente informata. Ma più veloce di così
non poteva camminare perché era assorta in un misto di riflessioni e ricordi
che la stavano portando a conclusioni inquietanti. Ormai aveva capito di
essersi lasciata ingannare da Finn Freeman. Come tutti, del resto.
La verità era che lei lo aveva usato per «vendicarsi» di Brutus senza
soffermarsi troppo a pensare a lui, a parte notare che come amante era
piuttosto imbranato. Adesso però si rendeva conto che la goffaggine di Finn
era un indizio per capire chi era davvero e fino a quel momento le era
sfuggito. Insomma, ora aveva chiaro quello che non avrebbe dovuto capire, o
forse nemmeno vedere, ma il problema era che non sapeva come comportarsi.
Mentre rifletteva su tutto questo, attraversò il Ludford Bridge in direzione
del Charlton Arms. Aveva deciso di passare da Breadwalk, che rimaneva
dietro il pub, in alto sul fiume, perché era la via più breve per arrivare in
Dinham Street, dove si trovava la chiesa sconsacrata in cui il suo tutor abitava
e dava lezione agli studenti.
Mentre procedeva di buon passo, si sentì chiamare per nome. Incredibile
ma vero, era Chelsea Lloyd. Dal momento che Chelsea, notoriamente, non si
alzava mai prima delle dieci e si era scelta l’orario delle lezioni in funzione
delle sue abitudini, Ding capì subito che c’era sotto qualcosa. Chelsea le andò
incontro quasi correndo.
«Finalmente!» esclamò. «Ti aspettavo davanti a casa di MacMurra. Lo
sapevi che c’è uno che dorme all’addiaccio sotto la casa? C’è una specie di
portico aperto che doveva far parte di una cripta o roba del genere e...»
«Mi aspettavi? Perché?» la interruppe Ding. «Sono in ritardo. Devo
sbrigarmi, Chelsea.»
«Ah, sì, scusa.» Chelsea si mise al passo con Ding. «Francie mi ha chiesto
di venirti a cercare. Dice che ha provato a spiegarti la faccenda di Brutus, ma
tu non hai voluto sentire ragioni. Accidenti, come sei in forma! Rallenta un
po’, ti spiace? Non riesco a starti dietro. Comunque, Francie si scusa
moltissimo. È fatta così, lo sai. Le piace divertirsi, no? E poi tu mica ci avevi
fatto capire che Brutus ti interessava davvero, giusto?»
«Non me ne importa niente, infatti.»
«Ah. Senti, puoi rallentare un attimo?»
«Sono già in ritardo, Chelsea. E non posso perdere la lezione, sono già
messa abbastanza male così. Se ti ha mandato da me per la storia di Brutus,
dille pure che non me ne frega più niente di lui. Prima sì, certo, ma ora basta.
Via libera, accomodatevi pure, fate quello che vi pare.»
«Allora posso dirle che non vuoi più cavarle gli occhi?»
«Puoi dirle quello che vuoi. Era questo il messaggio?»
«Puf!» Chelsea aveva il fiatone. «Devo mettermi a fare jogging, allenarmi
in qualche modo. No, non era questo. Il messaggio, cioè.» Rimase indietro
perché quel punto era più soleggiato, l’erba e i cespugli crescevano più
rigogliosi e il sentiero si stringeva, ma continuò a parlare lo stesso. «Voleva
dirti che ieri sera due poliziotti le hanno fatto un sacco di domande a
proposito di Gaz Ruddock. Pare che qualcuno l’abbia vista con lui».
«E con questo? Non mi sembra una gran novità. È stata praticamente con
tutti, no?» ribatté Ding.
«Vero. Sì.» Chelsea accelerò per raggiungerla. Il fiume, più in basso,
luccicava al sole. Dagli alberi vicino al ponte si alzarono in volo cinguettando
allegramente numerosi uccellini. «Ma con lui no. Non le è successo quello
che è successo a te, non so se mi spiego. Lui ci ha provato, ma sai com’è
Francie: non ha paura di niente e di nessuno. E poi i suoi sanno che beve e
che passa da un ragazzo all’altro, ma se ne sbattono. Quindi se Ruddock
sperava di ottenere qualcosa da lei, gli è andata buca. Ma lui cosa ne sa? Mica
la conosceva... Quando è stato? A ottobre scorso?»
Finalmente Ding rallentò. Anzi, si fermò proprio e si portò una mano su un
fianco. «Vuoi venire al punto, Chelsea?»
«Be’, sì, certo. Vedi, il problema è che a Francie scoccia essere presa in
giro. Lo so, lo so, non è niente di nuovo. Ma il fatto è che i poliziotti
continuavano a insistere e alla fine lei ha un po’ sclerato.»
Ding allungò il passo. Le sarebbe piaciuto capire dove volesse arrivare
Chelsea con quei discorsi fumosi, ma doveva andare a lezione. «Okay, ho
capito. Ha sclerato» disse.
«Sì, ha sclerato, e ha praticamente detto ai poliziotti che, se volevano
sapere qualcosa di più sul conto di Gaz Ruddock, dovevano chiedere a te.»
Ding si sentì cedere le gambe. Si voltò a guardarla. «E perché? Così ci
vado di mezzo io.»
«Te l’ho detto, l’hanno mandata in confusione. Lo fanno apposta, no?
Cercano di farti cadere in contraddizione. Senti, Francie è pentitissima di aver
fatto il tuo nome, e infatti mi ha mandato ad avvertirti. E comunque ha detto
anche che saremmo contenti tutti se qualcuno desse una lezione a Ruddock. E
questo distrae l’attenzione da te. Probabilmente non si ricordano nemmeno
che ti ha nominato, no? A parte il fatto che non si è inventata niente.»
Ding ritrovò le forze e si rimise in cammino. «Sai che consolazione sapere
che non si è inventata niente!» disse.
«Francie si scusa, Ding. Le dispiace davvero. Mi ha chiesto di dirtelo il
prima possibile, e come vedi l’ho fatto. Voleva avvisarti e darti una
possibilità.»
«Una possibilità di fare cosa, scusa?»
«Non lo so. Di prepararti le risposte, penso. Su Gaz Ruddock e tutto il
resto.»
Ludlow
Shropshire
Quando Lynley bussò alla porta della camera di Barbara, l’ultima cosa che si
aspettava di sentirsi dire dal sergente era: «Scusi. Mi dispiace molto, davvero.
Ho cercato di cedergliela, ispettore. Si ricorda?»
Poi Barbara si fece da parte per lasciarlo entrare e Lynley capì il motivo di
tanto imbarazzo: un’anticamera-salotto con divano, due poltrone e tavolino e
un bagno più spazioso di camera sua. Osservò la suite. «Si rende conto di non
avere scuse per non allenarsi, vero, sergente?» disse.
«Mi raccomando, non dica niente a Dorothea! Ecco, guardi.» Barbara posò
sul divano una sacca da viaggio, frugò fino in fondo e tirò fuori un paio di
scarpe rosse da tip tap. «Visto?»
«Non mi ha convinto: le suole mi sembrano pressoché intatte.»
«Ma se sono consumate! Giuro! Mi esercito tutte le sere. Chieda a quelli
della camera di sotto... Scommetto che pensano che l’albergo sia infestato dai
picchi.» Barbara lanciò le scarpe verso un mucchio di indumenti e roba varia.
«Ho liberato il letto» annunciò.
«Ora sono più tranquillo» disse Lynley. «Vediamo cosa abbiamo.»
Tirò fuori gli occhiali dal taschino ed entrò. Divise in due la pila di rapporti
e foto e, insieme, li sparsero sul letto. Mentre li sistemavano, Lynley disse:
«Secondo me, abbiamo trascurato la possibilità che si trattasse di
neutralizzare alcune persone, e noti che ho usato il plurale. Una andava tolta
di mezzo definitivamente...»
«Ian Druitt.»
«... mentre l’altra, Ruddock, in un modo o nell’altro andava messa
temporaneamente in condizioni di non nuocere. L’IPCC si è concentrata sul
suicidio di Druitt all’interno della stazione di polizia di Ludlow e su quanto è
stato fatto da lì in poi per chiarire le circostanze della sua morte. Lei e
Isabelle – il sovrintendente Ardery – avete indagato su questo e anche sulla
vita di Ian Druitt, per capire se c’era qualcuno che ce l’avesse con lui:
telefonate anonime, accuse di pedofilia, agende, incontri con varie persone.
Vi siete chieste che cosa facesse Druitt, chi conoscesse, che cosa sapesse e
per quale motivo qualcuno potesse volerlo morto. Poi noi due abbiamo
approfondito ulteriormente le indagini, ma senza arrivare a prenderli in
considerazione entrambi insieme: Ruddock e Druitt.»
«Druitt doveva essere portato alla stazione di polizia, ma solo ed
esclusivamente se era Ruddock a prelevarlo.»
«Già: perché il punto era che rimanesse a Ludlow. Se a eseguire il fermo
fossero stati gli agenti di Shrewsbury, il diacono sarebbe stato portato
direttamente là, nella cella di sicurezza.»
«Questo significa che, una volta partita l’accusa di pedofilia, qualcuno ha
cominciato a monitorare la situazione in attesa del momento giusto, che è
arrivato diciannove giorni dopo. Ruddock esegue gli ordini – va a prelevare
Ian Druitt e lo porta in stazione – e poi viene distratto e allontanato.» Barbara
guardava le foto allineate sul letto insieme ai vari documenti. «E come?»
domandò. «Sappiamo che ha telefonato ai pub, ma è un puro caso che sia
dovuto intervenire per un’abbuffata alcolica. E comunque un giro di
telefonate non l’avrebbe tenuto occupato abbastanza a lungo per consentire a
una terza persona di introdursi nella stazione di polizia e uccidere Druitt. A
meno che le telefonate non siano state un piccolo contrattempo, una faccenda
di cui si è dovuto occupare prima del grande evento, cioè l’incontro nel
parcheggio. Ma con chi?»
Lynley la guardò con un sopracciglio inarcato in attesa che ci arrivasse da
sola. Barbara non ci mise molto. «Con una che gli avrà dato appuntamento
dicendogli qualcosa tipo ’O stasera o mai più, mio bel maschione, quindi
cerca di esserci’. Così Druitt resta solo e lei dà il via libera all’assassino, che
può agire indisturbato mentre lei e Ruddock ci danno dentro in macchina.»
Barbara si morse un labbro, con l’espressione corrucciata. «Ma questo
vorrebbe dire che Ruddock...»
«... è in una posizione indifendibile. Pensa che Druitt si sia suicidato
mentre lui era sull’auto di servizio...»
«... a farsi una di cui nessuno deve sapere niente. Se così fosse, almeno
sulla sera fatidica, Ruddock ci avrebbe detto la verità. Solo che non vuole
dirci chi è la signora in questione. Caspita, ispettore. Ruddock sta facendo
harakiri non perché è un galantuomo, ma perché ha capito tutto! Se fa un
passo falso adesso – e in qualsiasi direzione vada, sarà un passo falso – è
fottuto. Perché sa che cosa è successo e sa anche che non c’è uno straccio di
prova.»
«Quindi la cosa più facile per lui è sottoscrivere la teoria del suicidio.
Quando ha chiamato il 999 era nel panico perché credeva che Druitt si fosse
veramente ucciso, ma subito dopo ha fatto due più due.»
«Adesso però gli sta crollando il mondo addosso. Tant’è che ha fatto tutte
quelle telefonate a Worcester...»
«Eh, già.»
Barbara Havers guardò le carte sparpagliate sul letto, poi di nuovo Lynley.
«Ma tutte le nostre ipotesi non ci faranno fare nemmeno un passo avanti,
finché non troviamo le prove.»
Lynley prese due foto e le mise una accanto all’altra. «Non è proprio così,
Barbara. Qualche prova l’abbiamo: qui, da qualche parte. Si tratta solo di
trovarle.»
Wandsworth
Londra
Isabelle non aveva intenzione di prendersi un altro giorno di malattia. In
realtà, ovviamente, nemmeno il giorno prima aveva in programma di restare a
casa, ma la situazione le era sfuggita di mano. Capita, a volte. Nel caso
specifico, una cosa aveva tirato l’altra finché Isabelle si era resa conto di non
poter assolutamente andare a lavorare, e l’unica soluzione possibile era stata
lasciare un messaggio dandosi malata.
Quel mattino, appena alzata, le sembrò di essersi del tutto ripresa dai suoi
malesseri. Si era svegliata più presto del solito, e questo le parve un buon
segno. Andò in cucina e mise su l’acqua per il caffè, dopo essersi versata il
solito succo d’arancia mattutino corretto con un goccio di vodka. Lo mandò
giù e si accorse che, stranamente, non si sentiva tanto bene. Doveva essere
perché non faceva un pasto decente da almeno quarantott’ore.
In seguito a quella riflessione, decise di cuocersi un uovo. Le erano sempre
piaciute le uova alla coque, accompagnate da pane integrale leggermente
abbrustolito. Prese un pentolino e un uovo e li mise sul fornello. Con il pane
ebbe qualche problema, perché era in parte colonizzato dalla muffa, ma ne
tagliò via un pezzo e mise a tostare il resto. Nel frattempo l’acqua era arrivata
a ebollizione e, avendo già provveduto a macinare il caffè, la versò nella
caffettiera a pressione. Poi si fermò un attimo. Un altro succo d’arancia ci
stava. Aveva un sapore un po’ strano, però, e per rimediare lo corresse con un
po’ di vodka. E poi una bella tazza di caffè.
Fin qui tutto bene. Benissimo, anzi. Aveva dimenticato di guardare a che
ora aveva messo a bollire l’uovo, ma dando un’occhiata all’orologio calcolò
che doveva essere pronto, e il pane era già tostato e imburrato.
Fu l’uovo a fregarla. Dopo aver dato alcuni colpetti al guscio e averlo
scoperchiato, si accorse di aver sbagliato i tempi. Non era cotto per niente.
Quando vide il viscidume giallastro che ne uscì con la prima cucchiaiata, lo
stomaco cominciò a farle le bizze. Isabelle si mise prontamente in bocca un
pezzo di pane, lo masticò e mandò giù, ma non fu sufficiente, e le tornò su
tutto quanto, succo d’arancia, caffè, pane tostato. Corse in bagno a vomitare.
Dopo il vomito, le venne il mal di testa. Quando si era svegliata non lo
aveva, ma subito dopo aver rigettato la colazione abortita ebbe le prime fitte
lancinanti di una cefalea che né due, né quattro, né venti pillole di
paracetamolo sarebbero state in grado di debellare. Isabelle era decisa a
vincerla con la sola forza di volontà in modo da poter andare a lavorare, però
prima doveva sdraiarsi un attimo. Si trascinò fino al letto e si coricò
mormorando che era una sfida tra mente e materia, e che la materia in
questione era solo qualche vaso sanguigno dentro il suo cervello. Si girò su
un fianco e abbracciò un cuscino. Dieci minuti, pensò.
Ma non bastarono e Isabelle capì che il rimedio ai suoi mali era uno solo:
la vodka.
Si disse che una donna come lei non poteva non farcela a gestire la
situazione. Si impose di alzarsi e andare in cucina e, sia pure con un certo
sforzo, ci riuscì. Calcolò che alcuni shot di Grey Goose non l’avrebbero stesa
per il secondo giorno di fila, e li bevve uno dietro l’altro.
La risvegliò il telefono che squillava. Guardò l’orologio: erano passate più
di due ore. Il suo primo pensiero furono la Met, Dorothea Harriman, Hillier e
Judi-con-la-i, malgrado non fosse ancora spaventosamente in ritardo. Si mise
a sedere, sentì lo stomaco che le saliva in gola e afferrò il cellulare.
Non era Scotland Yard. Era Bob. «Non ti spaventare, Isabelle, ma
Laurence ha avuto un piccolo incidente» le disse.
Isabelle si premette le dita sulle tempie. Sapeva di doversi sforzare di
parlare normalmente. «C-cos’è... susc.. successo?» chiese.
Silenzio. Poi: «Ha fatto un capitombolo a scuola e lo abbiamo portato al
pronto soccorso. Anzi, ce l’ho portato io. Sandra è con James, che come puoi
immaginare è rimasto piuttosto impressionato».
«Al p-pronto soccorso? Oh mio D-dio. Si è rotto?» Non era proprio quello
che voleva dire. Si mise una mano sotto il mento come per aiutarsi ad
articolare meglio le parole.
Altro silenzio, questa volta più lungo. «Ha un trauma cranico con frattura
lineare. Giocava ad arrampicarsi ed è caduto da uno dei muri di cinta, dove
non sarebbe dovuto salire. Ha perso i sensi...» disse poi Bob.
«Ossignore.»
«... ma per pochissimo tempo. Hanno chiamato l’ambulanza e adesso
siamo qui.»
Cosa poteva dire o fare Isabelle, dal momento che le parole le uscivano
tutte sbagliate e non era in grado neppure di alzarsi? «V-vengo a...?»
«È fuori pericolo. Dobbiamo tenerlo sotto osservazione nelle prossime
settimane e farlo stare tranquillo, ma non c’è che da aspettare che la frattura
si chiuda spontaneamente» replicò Bob.
«Oh, mio Dio.»
«Ti ho chiamato, Isabelle, perché chiede di te. Si dispera, e non è da lui.
Me lo sarei aspettato più da James che da Laurence, invece... Ti chiama in
continuazione. Lì per lì pensavo che volesse Sandra, naturalmente...»
Naturalmente?, pensò Isabelle.
«... perché diceva che voleva la mamma, e di solito la chiamano così, lo
sai. Ma quando Sandra è venuta al pronto soccorso, Laurence ha detto chiaro
e tondo che voleva te.»
Isabelle avrebbe dovuto alzarsi immediatamente e correre da suo figlio,
senza lasciarsi fermare da nulla e da nessuno. Era conscia di doverlo fare, ma
era conscia anche di non averne le forze. «Oh, Bob... Sono così... Puoi dirgli
che...? Digli...»
«Hai bevuto, vero?» le chiese lui a bruciapelo. «Sei in ufficio? No. Non è
possibile. Non puoi essere al lavoro in questo stato.»
«Non sono andata. Sto male. Penso sia influenza. Ho vomitato e ho la testa
che...»
«Basta, Isabelle. Devi smetterla!»
«Per piacere, digli che... che lo verrò a trovare. Digli che la mamma lo
andrà a trovare appena può.»
«E cioè?» Bob non aspettò che rispondesse. La sua non era una vera
domanda. «Non ho intenzione di mentire per coprirti. Laurence non è
stupido. E James neanche.»
«Bob. Bob! Passamelo un momento, almeno.»
«Nelle condizioni in cui sei? Non ho intenzione di farti parlare con lui
finché sei in questo stato.»
«Ma almeno digli...»
«Non gli dico niente. Datti una regolata, Isabelle, e quando ti sarai ripresa
gli potrai parlare di persona.»
Bob chiuse la chiamata e lei rimase lì a implorare che le passasse
Laurence, che la facesse parlare con James, a ripetere che stava benissimo,
che era sobria, che stava per raggiungerli ben sapendo che non era
assolutamente in condizione di guidare fino nel Kent. Si lasciò ricadere sul
letto. Ce la farò, ce la farò, ce la farò, ripeteva fra sé. Aveva solo bisogno di
riposo, ancora un giorno e poi...
Telefonò alla Met e per fortuna poté lasciare un messaggio: Dorothea non
era in ufficio, forse si era allontanata un attimo. Poi, siccome non poteva fare
altro, andò barcollando in cucina. La testa le martellava in maniera
insopportabile ed era scossa da un tremito convulso. Colpa dell’ansia, pensò.
Della preoccupazione. Laurence al pronto soccorso con la testa rotta, a
piangere perché voleva la sua mamma... Era fuori di sé per la
preoccupazione, ovvio. La sua era solo ansia.
Quando prese la bottiglia, si disse che ne aveva bisogno per placare l’ansia,
per prepararsi ad andare da suo figlio, per stare di nuovo bene anziché essere
costretta a fingere costantemente di...
No, no. La soluzione non era quella. Aveva bisogno di mangiare. No, di
bere. No. Un caffè l’avrebbe aiutata a rimettersi, poi avrebbe potuto
ricominciare a vivere come si deve, e non come aveva vissuto fino a quel
momento.
Bevve un’altra sorsata a garganella e si disse che era l’ultima. Dopo quella,
basta. Ma la preoccupazione l’assalì, insieme al pensiero che non poteva
andare da suo figlio mentre invece avrebbe dovuto stargli vicino perché in
fondo era lei la madre, gli voleva bene, l’aveva messo al mondo, gli aveva
cambiato i pannolini e l’aveva allattato, mentre Sandra mica aveva fatto
niente, non sapeva nemmeno cosa volesse dire avere un bambino, anzi, due,
che ti crescono nella pancia e poi escono fuori facendoti provare una
sofferenza e un dolore indicibili, e l’unico modo per affrontare quei dolori e
quella sofferenza che ti rodono dentro, come una creatura aliena che ti
mangia l’anima... Isabelle aveva delle ragioni, non delle scusanti, migliaia di
ragioni, e nessuno gliele poteva togliere né mai gliele avrebbe tolte.
Era in sé, quando suonarono alla porta. Era nel soggiorno e non si era
vestita e sì, aveva bevuto, ma era in sé. Tuttavia sapeva di non poter andare
ad aprire. Nemmeno quando, dopo tre scampanellate, cominciarono a
bussare.
Dopo un po’ le venne in mente che poteva essere Bob. Sì, era sicuramente
lui che, impietosito, era venuto a prenderla. Doveva soltanto fare un doccia
veloce, vestirsi e giurargli qualsiasi cosa le avesse chiesto di giurare in segno
di gratitudine per il fatto che era venuto fino a Londra per accompagnarla a
trovare il figlio all’ospedale.
Solo che... Andò alla porta e, grazie a Dio, non aprì e si limitò a guardare
dallo spioncino. Fu assalita da un senso di orrore che mai si sarebbe aspettata
di provare in tutti i lunghi anni in cui aveva avuto il controllo della propria
vita. Lì fuori, in tenuta da ufficio, c’era Dorothea Harriman che la chiamava
come al solito con il suo titolo ufficiale e continuava a bussare con l’aria di
una che non ha intenzione di arrendersi.
Ludlow
Shropshire
Il sabato sera studiarono fino a tardi le foto del cadavere di Ian Druitt, da tutti
i possibili punti di vista. Barbara era convinta di poter ormai disegnare a
memoria sia il cadavere sia la stanza dove era avvenuto il decesso, quando
Lynley decise finalmente di smettere, prese due foto, mise le altre nella loro
cartellina e si tolse gli occhiali. «Venga, andiamo a prendere una boccata
d’aria. Veramente dovrà guidarmi lei, perché non mi ricordo più come si
arriva a questa stanza.»
Barbara prese la borsa e si avviò lungo il dedalo di scale, porte tagliafuoco
e corridoi fino alla hall dell’albergo. Alla reception Peace on Earth rivolse
loro un’occhiata che a Barbara parve allusiva. Il fatto che un uomo e una
donna restassero chiusi per ore in una camera d’albergo aveva per lui un
significato inequivocabile. Da morir dal ridere, pensò Barbara, e fu tentata di
fare una battuta, ma lasciò perdere per non urtare la sensibilità di Lynley
prospettandogli uno scenario così raccapricciante. Si limitò quindi a seguirlo
in silenzio fuori dall’albergo.
Lynley si incamminò verso il castello. Barbara immaginò che la aspettasse
una dotta lezione su re, regine, battaglie e casate reali e lo prevenne. «Ho un
problema con i Plantageneti, ispettore. Sono troppi, per la miseria, li
confondo tutti.»
Lynley si fermò e si voltò a guardarla. «Ma cosa dice, sergente?»
«Là» rispose Barbara indicando il castello. «Stiamo andando là, vero? Il
torrione, il mastio, i bastioni...»
Lynley guardò prima lei, poi il castello, poi di nuovo lei. «Sergente, a volte
mi domando per chi mi abbia preso. Anche se» – a questo punto Barbara si
accorse che rideva sotto i baffi – «devo dire che la sua cultura in materia di
architettura fortificata mi riempie di ammirazione.»
«Non si lasci impressionare. Viene dai romanzi rosa, avventure erotiche di
damigelle prigioniere in un torrione e cose del genere... E poi ho La storia
fantastica in dvd. ’Hola. Mi nombre es Iñigo Montoya’ eccetera eccetera.
Credo di sapere a memoria tutti i dialoghi del film.»
«Complimenti comunque. Ora mi segua.»
Attraversò la strada per andare a sedersi su una panchina ai piedi delle
mura. C’era gente in giro, soprattutto padroni di cani o genitori che facevano
prendere aria a neonati sul passeggino. In mancanza di un panorama migliore,
Barbara li guardò.
Lynley le porse una delle foto che aveva portato con sé.
«Che cosa nota, sergente?»
Barbara la osservò. Il fotografo della Scientifica aveva documentato
centimetro per centimetro la stanza in cui era morto Druitt e in quella foto in
particolare si vedeva un angolo. C’era una sedia gialla, di plastica, impilabile,
rovesciata su un fianco. Sulla parete c’era una bacheca vuota con chiazze
sbiadite nei punti in cui erano stati appesi fogli e volantini. Accanto c’era la
finestra, visibile solo in parte; la veneziana era abbassata, con le stecche
rivolte all’insù.
«La veneziana» disse Barbara. «Da fuori non si poteva vedere dentro. Ma
non ne abbiamo già parlato? Non è sufficiente per incriminare una persona.
Chiunque potrebbe averla messa in quella posizione.»
«Verissimo. Nient’altro?»
Barbara guardò più da vicino per vedere se le era sfuggito qualcosa, per
esempio... Non sapeva neppure lei cosa cercare. Certo, trovare una
dichiarazione di colpevolezza incisa nel linoleum non sarebbe stato male...
«Essendoci solo la seggiola e la bacheca...» disse.
«Appunto. Le salta agli occhi qualcosa?»
«A che proposito?»
«La seggiola.»
«Intende il fatto che è rovesciata?»
«No. Il fatto che sia lì. L’unico altro mobile nella stanza era una scrivania,
come lei ben sa.»
«Giusto. Ma non potevano mettere Druitt ad aspettare in una stanza senza
dargli almeno una sedia.»
«D’accordo.»
«Quindi lei intende...» Guardò di nuovo la foto e poi Lynley. «Intende
questa sedia in particolare, vero?» Girò la foto per guardarla da
un’angolazione diversa. Sentendosi osservata da Lynley, capì che l’ispettore
doveva aver notato qualcosa. Non poteva trattarsi di sangue o peli o fibre o
altre prove materiali che in foto non si sarebbero visti, a parte il sangue, che
comunque non c’era.
Ripensò alle volte in cui aveva visitato la stazione di polizia di Ludlow, sia
con Lynley sia prima, da sola, e capì a cosa si riferiva. Si sentì mortificata di
non essersene accorta subito. «Quando siamo andati a parlare con Ruddock ci
ha fatto accomodare nel cucinino, dove aveva portato anche me la prima
volta» disse ripensando a ogni gesto compiuto quel giorno dall’ausiliario.
«Ma, siccome c’erano solo due seggiole, è dovuto andare a prenderne una
terza.»
«Esatto» disse Lynley.
«Ed è tornato spingendo una sedia da ufficio con le ruote. È a questo che
voleva arrivare? Perché? Può averla presa ovunque.»
Lynley si fece restituire la foto e la studiò. «Può averla presa ovunque, è
vero. Ma a turbarmi non è tanto questo, quanto il fatto che la sedia da ufficio
non compare in questa foto e, più in generale, non era nella stanza dove è
morto Druitt.»
«Forse l’avevano spostata perché serviva altrove, come quel giorno.»
«Sicuramente è stata spostata altrove» disse Lynley. «Ma dovremmo
chiederci perché è stata sostituita con una seggiola di plastica.»
«Chiediamocelo» convenne Barbara. «C’è da dire che quella con le ruote è
più comoda e nessuno vuole mettere comodo un potenziale pedofilo.»
«È vero, potrebbe trattarsi di una situazione tipo ’Cerchiamo di non
rendergli la vita troppo facile’. Ma questo presupporrebbe che Ruddock
conoscesse il motivo del fermo, mentre noi sappiamo che lo ignorava.»
«Che lo ignorava, però, l’ha detto lui.»
«C’è anche questo aspetto da considerare.» Lynley rimise la foto nella
busta e tirò fuori l’altra che aveva portato con sé, in cui si vedeva Druitt
morto, senza la stola al collo, steso supino sul pavimento dopo il tentativo di
rianimazione di Ruddock. Barbara guardò la foto, poi Lynley, poi di nuovo la
foto. Stava per chiedergli «E adesso cosa facciamo?» quando Lynley
intervenne. «Andiamo a parlare con il medico legale, sergente. Se a noi è
sfuggito qualcosa – per esempio il particolare della sedia –, è possibile che
sia sfuggito qualcosa anche a lei.»
Coalbrookdale
Shropshire
Sati si era lasciata convincere ad andare a scuola. Yasmina aveva aiutato
Timothy a infilarsi sotto la doccia, appoggiato alla parete ma in piedi, ed era
andata dalla figlia minore a rassicurarla: il papà stava bene e litigare, fra
madri e figlie, era inevitabile. Quello cui aveva assistito poco prima che
Missa se ne andasse con Justin era un semplice litigio. Erano cose che
succedevano e Sati non doveva preoccuparsi perché nel pomeriggio Yasmina
sarebbe andata a parlare con Missa e l’avrebbe riportata a casa. Quanto a suo
padre, svegliarlo era stato così difficile solo perché la sera prima aveva preso
un sonnifero.
Alla fine Sati, sia pur riluttante, era andata a scuola con il suo zainetto di
Hello Kitty e Yasmina era potuta tornare in bagno a occuparsi di Timothy.
«Potevi restarci secco» furono le sue prime parole. «Non ti basta tutto
quello che abbiamo passato? Sati ha visto morire sua sorella, ha appena visto
Missa andarsene di casa con armi e bagagli, e poi te, privo di sensi, con me
che ti prendevo a pugni sul petto per farti rinvenire. Ho rischiato di dover
usare il naloxone davanti a lei. È questo che vuoi? È questo che ci aspetta?»
«Ci siamo già» borbottò lui per tutta risposta.
Yasmina avrebbe voluto entrare nella doccia, afferrarlo per i capelli grigi e
riccioluti e sbattergli la testa contro il muro. «Ci stai rovinando la vita! Ci
credo che Missa non vuole più stare qui! Ci credo che se n’è andata!» gridò,
invece.
Timothy aprì gli occhi arrossati, sollevò la testa e la guardò. «Almeno lei
ha il coraggio di fare qualcosa, al contrario di noi due.»
Quelle parole spinsero Yasmina a domandarsi se davvero lo conosceva e
più tardi, all’ambulatorio, a tenerlo d’occhio attraverso la vetrata che li
separava per vedere se intascava altre pillole. Ma non poté restare a
sorvegliarlo tutto il giorno perché doveva mantenere la promessa fatta a Sati.
E per questo annullò gli ultimi quattro appuntamenti del pomeriggio.
Prima di tutto voleva andare a Blists Hill, ma la sua meta ultima era la casa
dove Justin Goodayle viveva con i suoi. Salì in macchina e uscì da
Coalbrookdale.
Arrivata a Blists Hill, andò direttamente alla bottega del candelaio, ma
trovò un’altra ragazza a spiegare a un gruppetto di turisti come si
fabbricavano le candele nell’epoca vittoriana. Appena guardò nella sua
direzione, Yasmina le chiese senza emettere suono: «Missa?» La ragazza
tornò per un attimo nel secolo presente. «Buongiorno, dottoressa Lomax. È al
fish and chips. Mary Reid è malata e Missa è l’unica che sa usare la
friggitrice» rispose.
Yasmina tornò sui suoi passi. Il negozio che cercava era in una delle strade
principali del parco ed era facile da localizzare grazie al profumino appetitoso
e all’insegna in stile antiquato che reclamizzava pesce e patate fritti nello
strutto. Missa era di schiena. Sul banco c’erano una fila di coni di carta in
attesa di essere riempiti e quattro clienti aspettavano di essere serviti. Missa
non dava spiegazioni sul proprio lavoro: c’era ben poco da dire sulla frittura
di pesce e patate.
A un certo punto si voltò, vide Yasmina in coda e rimase impassibile.
Riempì i coni di patate e aggiunse in ciascuno due pezzi di merluzzo fritti. I
clienti se ne andarono soddisfatti e Yasmina si avvicinò al banco. Ordinò un
cono. «A che ora finisci di lavorare, Missa? Vorrei parlarti» disse alla figlia,
quando lo ebbe in mano.
«Ci siamo già dette tutto quello che c’era da dire» replicò Missa.
«Vorrei parlarti lo stesso. A che ora finisci? Non credo che tu voglia
avermi qui in negozio tutto il tempo.»
Missa serrò le labbra riflettendo su quella prospettiva. «Ho l’ultima pausa
fra venti minuti. Se vuoi aspettare, per me va bene. Nel frattempo puoi andare
a cercare Justin per parlargli a quattr’occhi, se vuoi: so che ti piace.»
Yasmina non cadde nella trappola e non si difese. «Ti aspetto alla giostra,
tesoro» replicò, e uscì dal negozio con il suo cono di patate fritte in mano. Al
primo cestino della spazzatura che incontrò, le buttò senza averle neppure
assaggiate.
Vicino alla giostra c’era la caffetteria, con panchine su cui potevano
sedersi i genitori mentre i figli facevano un giro sui cavallini d’epoca.
Yasmina si accomodò e osservò il luna park vittoriano.
C’erano cinque stand con giochi a premi, ma l’attrazione più frequentata
dalle famiglie con bambini era la giostra. Non ce n’erano molti in groppa ai
cavalli di legno quel giorno, ma quei pochi ridevano e salutavano felici
dondolando a ritmo della musica sotto gli sguardi attenti di genitori e nonni.
A Yasmina si riempirono gli occhi di lacrime ricordando che anche le sue
figlie erano salite su quella giostra e avevano riso e salutato con la mano.
Missa, in particolare, aveva sempre amato la Victorian Town e Yasmina
aveva incoraggiato la sua passione per la storia regalandole libri illustrati e
bambole di carta con vestiti d’epoca. Mai avrebbe immaginato che il parco a
tema diventasse il suo lavoro.
Aspettò con pazienza, ripromettendosi di ascoltare Missa, di non discutere
e di non tentare di convincerla. Voleva a tutti i costi mantenere la calma
perché sapeva che, se non fosse riuscita a rappacificarsi subito con la figlia, il
dissidio sarebbe diventato insanabile.
Dopo un po’ Missa la raggiunse, si sedette sulla panchina e si mise anche
lei a guardare la giostra.
«Come ti piaceva!» disse Yasmina. «Dicevi che da grande saresti diventata
la padrona della giostra. Ti ricordi?»
«Abbiamo esaurito e straesaurito l’argomento Blists Hill» replicò acida la
ragazza.
«Non sono venuta per parlare di Blists Hill.»
«E di cosa, allora? Sei venuta a chiedermi scusa per aver cercato di
corrompere Justin con la falsa promessa di matrimoni, lune di miele e case da
sogno? È per questo che sei qui? A proposito, Linda è rimasta stupita. Non
sapeva che tu e papà aveste tanti soldi.»
«Adesso la chiami per nome? Non è più la signora Goodayle?»
Missa si scostò dal viso un capello immaginario. «Abbiamo parlato di
come la chiamerò quando Justin e io saremo sposati. Mamma non piace né a
lei né a me, e ha detto che preferisce che la chiami semplicemente Linda.
Signora Goodayle o signora Linda le sembra troppo formale.»
Yasmina non aveva nessuna voglia di entrare nei dettagli del futuro di sua
figlia nel clan Goodayle. «Ho sbagliato e ti chiedo scusa. Sono venuta a
chiederti di tornare a casa. Sati è rimasta malissimo per quello che è
successo.»
«A quale parte ti riferisci esattamente? Al tuo tentativo di strumentalizzare
Justin o al fatto che io mi sono ribellata?»
«A... Al fatto che te ne sei andata in quel modo... Non è bene che Sati
assista a una scena del genere alla sua età. Penso che tu te ne renda conto,
Missa.»
«Non è bene?» Missa assunse quell’espressione dura che Yasmina trovava
inquietante. «Non stiamo dando un cattivo esempio, se è questo che ti
preoccupa, mamma. Puoi dire a Sati che non vado a letto con Justin, ma ho
una camera tutta per me.» Distolse lo sguardo, mettendosi a osservare la
giostra e i bambini che si divertivano. Dopo un po’ riprese. «Continuo a
desiderare quello che ho sempre desiderato, e che mi hai inculcato tu,
peraltro. Sposarmi in bianco, vergine, pura come un agnello pasquale.»
«Sati ha perso Janna. Ha...»
«Tutti quanti abbiamo perso Janna.»
«... Ha dodici anni. Per lei rappresenti tutto.»
Missa fece una breve risata. «A te non importa quello che rappresento per
Sati, mamma.»
«Non è vero.»
«Se lo dici tu. Comunque, resterò dai Goodayle soltanto finché Justin e io
non avremo una casa nostra. Stiamo cercando una casetta in affitto. Ne
abbiamo vista una a Jackfield, vicino al fiume. C’è una sola camera da letto,
ma per il momento è sufficiente. Justin dormirà sul divano fino al giorno
fatidico. Non preoccuparti, mamma. Più avanti troveremo una casa più
grande, ma ci vorrà tempo. Il lavoro di Justin va bene, ma per ora quello che
incassa basta appena per comprare il materiale, pagare l’affitto del laboratorio
e poco altro. Aumenterà la produzione appena potrà assumere un aiutante.
Non sarà mai bravo come lui ma almeno gli darà una mano.» Guardò
Yasmina negli occhi. «Non pensavi che Justin avesse del talento, vero?»
«In questo momento la mia preoccupazione è Sati» ribadì Yasmina. «Che
tu farai quello che vuoi l’ho capito. Me lo avete detto tutti chiaro e tondo. Ma
Sati ha bisogno di te. Ti sto chiedendo di farlo per Sati.»
«Di’ a Sati che, se prendiamo in affitto il cottage, può venire a trovarci»
replicò Missa. «Poi tra non molto sarà libera anche lei.»
«Siamo a questi livelli, Missa? È davvero questa l’unica cosa che vuoi dire
a tua madre?»
Missa scosse la testa come se da sua madre non si aspettasse altro che quel
genere di domande. Era uno degli atteggiamenti della figlia che Yasmina
trovava insopportabili e che le facevano venire voglia di prenderla a schiaffi.
Da quando sua figlia era diventata così? E soprattutto, perché?
«Sapevo che avresti reagito così, mamma» replicò Missa. «Prendi tutto
come un’offesa personale, ma io ho semplicemente detto come stanno le
cose.»
Yasmina spostò lo sguardo sulla giostra che girava instancabile e sui
bambini entusiasti della loro cavalcata fantastica in groppa a finti cavalli.
«Allora non c’è altro da dire, tesoro mio.»
«Smettila di chiamarmi così. Non sono il tuo tesoro.»
Yasmina si voltò a guardarla. «Certo che sei il mio tesoro. Nonostante
tutto, sei sempre la mia figlia amatissima. Questo... questo brutto momento
tra noi passerà. Magari non proprio nel modo che vorrei io, ma...»
«Non proprio, mamma? Cosa vuol dire ’non proprio’? Io e Justin ci
sposeremo. Tu farai di tutto per impedircelo, lo so, ma noi ci sposeremo lo
stesso. L’hai capito, sì o no?»
«Missa...» Yasmina provava una tale oppressione che per un attimo
temette che stesse per venirle un infarto. «Ho capito. È inutile che io continui
a opporre resistenza. È chiaro. Ma vuoi spiegarmi il motivo di tanta fretta?
Non capisco che bisogno ci sia di prendere una decisione così precipitosa,
come se doveste dimostrare chissà che, come se aveste chissà quale urgenza.»
«Vogliamo sposarci al più presto» rispose Missa. «Vogliamo farlo ora
perché abbiamo deciso così. Perché ho deciso così. Non lo faccio per te, per
papà, per Sati o la nonna, e nemmeno per Justin. Per una volta, ho deciso io e
ho deciso per me.» Si alzò e Yasmina vide, con sorpresa, che si sforzava di
non piangere. Ne ebbe la conferma dalla fatica che le costò concludere
quell’incontro. «Questo voglio e questo farò. Non c’è altro da aggiungere.»
Ma non era vero. Yasmina in cuor suo lo sapeva, lo vedeva... Tutto a un
tratto ebbe un’illuminazione. «È una punizione, vero?» disse con un filo di
voce.
«Non tutto ruota intorno a te» fu la risposta.
«No, no, mi hai frainteso» replicò Yasmina. «Non stavo dicendo che vuoi
punire me, ma te stessa. Non so per quale motivo, ma la verità è questa, no?»
«E non sei neppure la detentrice della verità» ribatté Missa.
Wandsworth
Londra
Non si era fermata a lungo. Le era bastata un’occhiata per capire come mai il
sovrintendente aveva chiesto quei giorni di malattia. Si era presentata a
Wandsworth con minestra e panini comprati lungo la strada e aveva detto,
porgendoli a Isabelle: «Siamo tutti... Siamo... Speriamo che si rimetta
presto».
Isabelle aveva provato la tentazione fortissima di dare della spia a
Dorothea Harriman e si era dovuta mordere la lingua per non dirle qualcosa
tipo Sei venuta a ficcare il naso per conto di uno sbirro di mia conoscenza,
eh? Sapeva che Dorothea non sarebbe andata a spifferare il suo segreto a
tutto il dipartimento, ma di certo ne avrebbe parlato con l’ultima persona al
mondo cui Isabelle voleva farlo sapere.
Subito dopo aver messo alla porta la segretaria, era andata a versare la
minestra nel lavandino e aveva buttato i panini nella pattumiera. Non ne
aveva bisogno. Non aveva bisogno della compassione altrui.
Durante la giornata aveva provato più volte a telefonare a Bob, ma lui non
l’aveva richiamata. Allora aveva provato a chiamare Sandra e, verso le sei,
finalmente era riuscita a parlarle. Nel frattempo aveva bevuto un drink
soltanto, e solo per farsi forza. Era decisa a non perdere altri giorni di lavoro.
Era in grado di controllarsi.
Sandra rispose al cellulare. «Per piacere, non chiamarmi più, Isabelle. Ti
ho risposto solo per dirti che è l’ultima volta. D’ora in poi rivolgiti a Bob,
non a me.»
«Come sta Laurence?»
«Sta riposando. Non è stato molto contento di sapere che sua madre non
era in grado di guidare e quindi non poteva venire a trovarlo, ma Bob è
riuscito a fargliela mandare giù.»
«Gli ha riferito il mio messaggio?»
«Non so di cosa parli. Bob non mi ha detto niente e io non gli ho certo
chiesto se avevi mandato a dire qualcosa a tuo figlio.»
«È la mamma? È la mamma? Posso parlare con la mamma?»
Il tono di James era così pieno di speranza che aprì un varco nella corazza
di rabbia che Isabelle aveva indossato. «Ti prego, passami James.»
«Bob mi ha raccomandato...»
«Immagino. Ma vorrei parlargli lo stesso.»
«No, Isabelle. Tesoro, vai a vedere se nel lettore c’è ancora quel dvd. Ma
sì, quello che abbiamo guardato ieri sera.»
«Voglio parlare con la mia mamma. Voglio raccontarle di Laurence.»
«Sa già tutto di Laurence, James.»
«Non punirlo in questo modo» intervenne Isabelle. «Capisco che tu ce
l’abbia con me, ma James non ha fatto niente di male, a parte avere la
disgrazia di essere mio figlio. Passamelo, per favore.»
La moglie di Bob non rimase del tutto insensibile, perché poco dopo
Isabelle sentì la voce di James che diceva: «Vieni a Maidstone, mamma?
Quando vieni?»
«Appena possibile, tesoro.»
«Laurence guarirà?»
«Certo che guarirà. Non ti preoccupare.»
«Papà è preoccupato, me ne sono accorto.»
«Oh, stai tranquillo, James. I genitori si preoccupano sempre. Ci
preoccupiamo persino quando vi allacciate le scarpe, abbiamo paura che non
siano allacciate bene e che inciampiate nelle stringhe. Se vuoi, tu puoi
preoccuparti da fratello gemello.»
«E cioè?»
«Cioè facendo sentire Laurence davvero speciale, quando tornerà a casa.»
Silenzio. Isabelle lo immaginò intento a riflettere con grande serietà su
quelle parole. «Non so come» disse James dopo un po’.
«Be’, vediamo... Hai qualcosa di speciale che sai che gli piace?»
«Qualcosa da regalargli, intendi?»
«Anche solo da prestargli.»
«Il brontosauro? Siamo andati al museo – hai presente il museo di storia
naturale? – e papà ha detto che ci comprava un dinosauro per uno. Laurence
ha scelto il Tyrannosaurus rex, che è quello che scelgono tutti, e io ho preso il
brontosauro. Li abbiamo portati a scuola e tutti volevano vedere il mio
brontosauro perché il T. rex lo conoscevano già. L’avevano già visto al
cinema o alla tv, no? Invece che i brontosauri non erano feroci non lo sapeva
nessuno, per esempio, e mi hanno fatto un sacco di domande, e a Laurence
nessuno ha chiesto niente e lui c’è rimasto male. Potrei prestargli il
brontosauro. Solo per un po’, però. Mica per sempre.»
«Sì, puoi prestarglielo per un po’, sarebbe un bel gesto da parte tua,
James» disse Isabelle. «Potresti farglielo trovare sul letto quando torna a
casa.»
«Certo» rispose il bambino, pensieroso. «Potrei anche regalarglielo
proprio, però, vero, mamma? Allora sì che sarebbe una cosa speciale.»
«Decidi tu, James. Sei libero di fare come preferisci.»
«Allora quando vieni?»
«Appena posso.»
«Stasera?»
«Stasera no, tesoro. Ma vengo presto, te lo prometto. Molto presto.»
Un attimo dopo Sandra riprese il telefono. «Spero che tu non gli abbia
promesso niente. L’hai già fatto un sacco di volte e le promesse non
mantenute...»
«Gli ho detto che verrò a trovarli e lo farò» puntualizzò Isabelle
interrompendola. «L’ho detto a James e tu puoi riferirlo a Laurence.»
«Devo riferire qualcosa anche a Bob?» Il tono di Sandra si fece
sgradevolmente malizioso.
Isabelle fu tentata di rispondere Sì: che non è stato molto fortunato
nemmeno con la seconda moglie, ma si trattenne. «Per piacere, chiedigli di
chiamarmi appena rientra. Sono preoccupata per Laurence.»
«Immagino» ribatté Sandra, e chiuse la chiamata.
Isabelle rimase seduta sul divano a guardare il brutto terrapieno fuori dalla
finestra. Ripensò a ciò che le aveva detto Sandra e dovette riconoscere che
era la verità: aveva più volte promesso ai figli cose che poi non aveva
mantenuto. Faremo questo e quell’altro insieme. Verrò una domenica
pomeriggio nella bella stagione e prenderemo una barca per fare un giro sul
fiume. Andremo a visitare il castello di Leeds. Andremo in gita a Rye. Un
vero e proprio catalogo di promesse non mantenute. Aveva dato la sua parola
e se l’era rimangiata non una, ma mille volte, e non solo con i ragazzi, ma
anche con Bob e Sandra e con i colleghi. Ma il peggio era che non aveva
mantenuto neppure le promesse che aveva fatto a se stessa. Non più di un
drink stasera, Isabelle. Ah, be’, facciamo due. Non metterti quelle mignon
nella borsa. Santo cielo, non nasconderle nel cassetto della scrivania.
L’elenco era lungo. Infinito, probabilmente.
Una passeggiata, pensò. Una passeggiata serale le avrebbe fatto bene. Era
il modo migliore per cominciare a mantenere l’impegno che aveva appena
preso con se stessa, ovvero non bere né quella sera né l’indomani mattina.
Uscì e si diresse verso Heathfield Road. Per arrivarci dovette passare lungo
il tetro muraglione del carcere di Wandsworth e quindi proseguire in
Magdalen Road. Fu lì che la sete le sferrò il primo attacco. Isabelle resistette.
No, stasera no. Allungò il passo e arrivò in Trinity Road, piena di negozi,
rivendite di giornali, qualche bar e una bottiglieria di cui era cliente.
La voglia di bere era tanta, ma di nuovo si disse no. Attraversò la strada e
procedette di buon passo verso l’entrata del Wandsworth Common, un bel
parco con alberi e prati dove spesso c’era gente che giocava a calcio. Una
volta era passata mentre era in corso una partita di baseball, anche se poi
qualcuno le aveva spiegato che non era baseball ma softball, che a quanto
pareva erano due sport diversi.
Imboccò il primo sentiero che le capitò. Camminava svelta. Il tempo era
bello e c’era gente in giro a godersi l’aria della sera. Una giovane coppia
faceva un picnic sull’erba, una famigliola aveva varato tre piccole barche a
vela in uno dei laghetti; su una panchina due ragazze guardavano assorte i
rispettivi smartphone, mentre su un’altra un’anziana signora con le calze
grinzose e un sacchetto di pane secco dava da mangiare ai piccioni.
Ecco come sarò a settant’anni, pensò Isabelle. Sola in un mondo in cui le
persone non erano mai sole, con nient’altro da fare se non dar da mangiare
agli uccelli.
«Nonna! Nonna!» Due bambine arrivarono di corsa, seguite a poca
distanza dai genitori. «Mamma, i piccioni sono già fin troppo grassi! Dai da
mangiare ai cigni, piuttosto» gridò il padre.
La nonna prese in braccio le nipotine, che la coprirono di baci. Le baciò a
sua volta e risero insieme.
Non sarò neppure così, pensò Isabelle. Doveva andarsene dal parco prima
di lasciarsi travolgere dalla disperazione.
Si rimise in cammino. Sempre più veloce, sempre più lontano, senza
guardare dove andava. Aveva il terrore di posare gli occhi su un’altra
rivendita di alcolici, perché sarebbe stata la fine.
Rimase sorpresa nel ritrovarsi sul Tamigi, perché non era partita con
l’intenzione di andare verso il fiume, e si stupì ancora di più quando si vide
davanti un ponte che non era il Wandsworth Bridge. Restò disorientata per un
attimo, poi vide una libreria che conosceva e capì di essere in Putney High
Street; il ponte era il Putney Bridge, che portava automobilisti, ciclisti e
pedoni verso Parsons Green, sulla sponda nord del fiume.
Non poteva fermarsi. Era troppo pericoloso. Si diresse perciò verso il ponte
e rallentò in prossimità di una chiesa rendendosi conto che non ce la faceva
più, sfinita da quella giornata infernale.
Sulla porta della chiesa c’era un cartello con l’orario delle funzioni. Era in
corso la preghiera della sera. Isabelle scelse fra le due opzioni che le si
presentavano: bere o pregare. Era consapevole di essere in una condizione
fisica da cui Dio non poteva liberarla, ma le alternative erano limitate e scelse
di aggrapparsi alla preghiera della sera.
La funzione era già cominciata, quando entrò. C’erano pochissime
persone. Chissà se, in un’epoca laica in cui la gente andava in chiesa solo a
Natale, a Pasqua e in occasione di matrimoni e funerali, i preti si
scoraggiavano. Lei si sarebbe sicuramente lasciata prendere dallo sconforto.
Scelse un banco e si sedette. Gli altri erano tutti in ginocchio e si sentì un
pesce fuor d’acqua: non metteva piede in una chiesa dal battesimo dei
gemelli. Sentì vagamente il prete intonare una preghiera, ma mise a fuoco
solo a un certo punto: «... come pecorelle smarrite. Abbiamo seguito troppo i
capricci e i desideri del nostro cuore; abbiamo mancato alle tue sante leggi;
abbiamo trascurato di compiere il nostro dovere e...» Si tappò le orecchie.
Non voleva sentire. Non c’era nessun Dio. Non esisteva niente, a parte uno
sconfinato vuoto siderale in cui tutti andavano alla deriva cercando un posto
dove la solitudine fosse meno terribile, visto che si muore soli e la morte
aspetta tutti al varco. «Abbiamo peccato.» Chiuse gli occhi e si mise la mano
stretta a pugno davanti alla bocca. «Risparmia, o Dio, coloro che confessano
le proprie colpe.» Isabelle non poteva ascoltare, non sopportava le parole di
quella preghiera.
Aprì gli occhi, vide il prete con i suoi paramenti ed ebbe l’impressione che
le stesse guardando dritto nel cuore. Non era possibile, perché si era seduta in
fondo alla navata, eppure sentiva che lo sguardo del prete le trapassava
l’anima e, se non era il prete, chi era? Dio? La sua coscienza? Chi la stava
accusando?
Prese dalla panca davanti un cuscino per le ginocchia e lo posò per terra.
La preghiera continuava con parole che cercavano di insegnarle qualcosa.
Non era di insegnamenti che aveva bisogno, ma a quanto pareva questo le
veniva offerto.
Ebbe qualche difficoltà a spostarsi dal banco su cui era seduta. In quel
momento della funzione nessun altro era in ginocchio, ma non importava.
Doveva inginocchiarsi perché altrimenti sarebbe corsa fuori dalla chiesa e
sarebbe andata a cercare da bere. Era l’unica cosa che le restava. Se c’era una
salvezza, doveva venire da dentro di lei.
Le persone che pregavano assieme al prete non la pensavano così. Quella
piccola congregazione credeva in qualcosa di molto diverso. Ma anche
Isabelle voleva credere in qualcosa, perché non poteva più credere in se
stessa.
«Oh ti prego oh ti prego oh ti prego» mormorò. Al terzo «ti prego»
cominciò a piangere.
22 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
La prima telefonata giunse dal vicecommissario e Lynley si guardò bene dal
lasciar scattare la segreteria. Hillier diede il buongiorno a modo suo. «Sono
passati sei giorni. A che punto siamo?» Lynley decise di non puntualizzare
che, a voler essere precisi, i giorni erano solo cinque, al massimo cinque e
mezzo, perché il primo se n’era andato quasi tutto nel viaggio da Londra a
Ludlow, previa sosta alla sede della West Mercia Police. In ogni caso, prima
che potesse formulare una risposta, Hillier proseguì: «Mi ha chiamato
Quentin Walker. Voleva un aggiornamento e ha minacciato di rivolgersi al
ministero degli Interni, anche se vorrei proprio sapere cosa diavolo crede che
possa fare quell’idiota del ministro per ’spingere le cose nella direzione
giusta’. Quindi le chiedo: a che punto siete? Cosa avete scoperto, lei e il
famigerato sergente Havers?»
Lynley non ebbe difficoltà a immaginare la faccia rubiconda di Hillier che
diventava ancora più rossa. Che il vicecommissario fosse collerico era
risaputo. Che non gli fosse ancora venuto un ictus era quasi un miracolo.
«Stiamo restringendo il ventaglio delle ipotesi» rispose.
«E cioè?»
«Pensiamo che l’agente ausiliario di Ludlow possa essere stato manovrato
da qualcuno.»
«Da qualcuno? E chi?»
Lynley non volle rispondere dal vicecomandante della West Mercia Police
per paura che a Hillier venisse un colpo apoplettico. «Non siamo ancora in
grado di puntare il dito contro nessuno, commissario, ma oggi andremo a
riesaminare in modo più approfondito la scena del crimine e a parlare con
l’anatomopatologa» disse perciò.
«Quindi posso dire a Walker che la morte è sospetta?»
«È un’ipotesi che stiamo valutando.»
«Cosa cavolo significa che la state ’valutando’?»
«Significa che parlarne all’onorevole sarebbe prematuro.»
«Devo dedurre da questo suo spassionato consiglio che ipotizzare una
’morte sospetta’ non scoraggerà Clive Druitt dal mettere mano al portafoglio
e chiamare i suoi avvocati?»
«Al momento potrebbe sortire l’effetto opposto.»
«Si rende conto della posizione in cui mi trovo, vero? Non posso dire altro
che: ’Ci stanno lavorando. Le farò avere notizie appena possibile’.»
«Temo proprio di sì.»
«Cristo. Avrei fatto meglio a non telefonarle.» Hillier chiuse la chiamata.
Non sbatté giù il telefono solo perché aveva usato il cellulare, altrimenti lo
avrebbe fatto sicuramente, e con un certo gusto.
Lynley aveva appena finito di radersi quando arrivò la seconda telefonata.
Ormai non sperava neanche più che Daidre si facesse viva e pertanto non
rimase deluso nel vedere che era Nkata.
«Pulito come un neonato» furono le prime parole del sergente.
«Ha mai assistito a un parto?»
«No, ispettore.»
«Nemmeno io, ma ho visto le foto e ’pulito’ non mi sembra l’aggettivo più
calzante.»
«Vero. Ha ragione. Ma ha capito cosa intendevo. Rochester, Henry
Geoffrey, meglio noto come Harry, è esattamente quello che dice di essere,
cioè un professore di storia che ha dovuto smettere di insegnare: attacchi di
panico in aula, lezioni con le finestre spalancate nel cuore dell’inverno,
eccetera eccetera. L’unica piccola macchia nel suo passato è una denuncia per
vagabondaggio, ma risale a molti anni fa e non ha avuto seguito.»
«Nient’altro? Rapporti particolari con studenti – maschi, femmine o vie di
mezzo?»
«Niente di niente. Però ho scoperto perché soffre di quel disturbo.»
«La claustrofobia?»
«Sì. Una storia tristissima.»
Lynley andò ad aprire le tende. Dalla finestra, alla luce del mattino, si
vedeva parte del castello. Notò che nello striscione del Tito Andronico le
maiuscole grondavano sangue che si raccoglieva in due pozze rossastre.
Almeno gli spettatori erano avvertiti, pensò.
«È rilevante ai fini di questa vicenda?» chiese.
«Probabilmente no» rispose Nkata e cominciò a raccontare: il padre di
Harry Rochester, ingegnere elettrico, era un genio ed era convinto che anche
il figlio dovesse esserlo, esattamente nello stesso modo; quando si era accorto
che non era così, frustratissimo, aveva concluso che lo scarso rendimento del
ragazzo nelle materie scientifiche era dovuto a lazzaronaggine. «Perciò ha
deciso di dimostrargli l’importanza dell’elettricità facendogli provare il buio
più totale. E l’unico modo che ha trovato, nella casa in cui stavano, è stato
chiuderlo in un armadio ogni volta che prendeva un voto non all’altezza delle
sue aspettative. Il ragazzo ha passato tutte le vacanze scolastiche chiuso là
dentro, finché non è andato all’università. Ma a quel punto il danno ormai era
fatto.»
Mentre ascoltava, Lynley sentì montare l’indignazione. «Un giorno o
l’altro riuscirò a capire cos’ha nella testa certa gente, Winston.»
«In bocca al lupo, ispettore» rispose Nkata.
«Come ha saputo queste cose?»
«La storia dell’armadio? Ho rintracciato la sorella. Fatto sta che, come le
dicevo, Rochester in questa storia non c’entra, non ha niente da nascondere e
niente da dimostrare.»
Come in tutte le camere d’albergo, c’era un bollitore elettrico e mentre
parlavano Lynley mise a scaldare l’acqua per la prima tazza di tè della
giornata. «Ha tempo per un’altra piccola ricerca?» chiese a Nkata.
«Posso lavorarci fra un impegno e l’altro. Su chi?» replicò il sergente.
«Gary Ruddock, l’agente ausiliario di Ludlow. Stando a quello che ha
raccontato a Barbara, ha trascorsi che potrebbero essere illuminanti. È
cresciuto in una setta nel Donegal. Non so se valga la pena di approfondire,
ma poco fa mi ha chiamato Hillier e se, come è probabile, dovesse
richiamarmi, mi piacerebbe avere qualcosa da dirgli per salvarlo
dall’autodefenestrazione.»
«In che senso?»
«L’ho sentito sull’orlo del suicidio.»
Nkata rise. «Ci provo, allora. Le farò sapere.» E chiuse la chiamata.
Prima che arrivasse la terza telefonata, Lynley ebbe il tempo di vestirsi,
scendere le scale e fare colazione con Barbara Havers, la quale giurò sulla
testa del proprio gatto – animale che notoriamente non possedeva – di essersi
allenata per un’ora: al ritorno a Londra le sue doti di ballerina avrebbero
lasciato Dorothea Harriman senza parole. La terza telefonata giunse mentre
andavano alla stazione di polizia. Lynley, che era al volante, estrasse il
cellulare dal taschino e lo porse a Barbara.
«È Sua Altezza in persona» disse Barbara. «Vuole che gliela passi?»
No, grazie. Isabelle Ardery era l’ultima persona con la quale Lynley
desiderava parlare, non sapendo in che stato fosse. «Lasci scattare la
segreteria. Più tardi sentiamo il messaggio» disse.
«Ottima idea» approvò Barbara.
Avevano detto a Ruddock che avevano bisogno di vedere di nuovo la
stanza in cui si era impiccato Druitt. L’ausiliario era parso sorpreso da quella
richiesta, ma aveva dato loro appuntamento alla stazione prima del
quotidiano giro di ronda e, quando arrivarono, era già lì. Anziché aspettarli
nel parcheggio, però, era entrato lasciando la porta aperta. Lo trovarono
nell’ex cucina intento ad armeggiare intorno a un vecchio forno a microonde.
«State facendo passi avanti, mi pare di capire» furono le sue prime parole.
Poi posò una mano sul forno e aggiunse: «Magari riuscissi a farne anch’io
con quest’aggeggio. È un pezzo d’antiquariato, ma a volte funziona ancora».
Lynley disse che avrebbero dato una rapida occhiata alla stanza dove era
morto Druitt e se ne sarebbero andati.
«Conoscete la strada» replicò Ruddock. Evidentemente non riteneva
necessario accompagnarli.
La stanza era come la ricordavano, ma non come appariva nelle foto.
Anziché la seggiola di plastica della sera della morte di Druitt, c’era una sedia
da ufficio con le ruote. Tutto il resto era rimasto immutato.
Le bacheche non fornirono loro nuove informazioni, e neppure il cestino
della carta, né i buchi rimasti dove un tempo erano appese delle cornici. Sul
pavimento di linoleum videro i segni lasciati da mobili che, a giudicare dalla
forma, dovevano essere stati schedari e forse due librerie e una credenza. Per
il resto, l’usura del linoleum non era sorprendente, considerata l’età
dell’edificio. «Sembra quasi che anche qui qualcuno si sia allenato a ballare il
tip tap» osservò Barbara.
«Ah. Visto che non è la sola?»
«Questi la prima volta non li abbiamo visti» disse Barbara, mentre Lynley
stava esaminando le veneziane. Il tono non era molto speranzoso, però.
Lynley si voltò e vide che Barbara aveva spostato la sedia con le ruote ed
era accucciata a guardare sotto la scrivania. La raggiunse e notò numerosi
segni scuri nel linoleum che potevano essere stati lasciati a furia di spingere
indietro la sedia da qualcuno che portava scarpe con la suola di gomma.
Lynley alzò gli occhi e la guardò.
«Sì, lo so. Potrebbe essere stato uno che aveva smesso di fumare e per il
nervoso pestava compulsivamente i piedi per terra. A lei è successo?» disse
Barbara.
«Quando ho smesso di fumare?» replicò Lynley. «No, ma mi sono
mangiato le unghie per due anni.»
«Vede? È per questo che non smetto. Perché non voglio rovinarmi la
manicure.»
Barbara si rialzò. Andarono a esaminare la maniglia dell’armadio a cui si
era impiccato il diacono. Era robusta e poteva aver retto il peso di un uomo.
Poi osservarono un’ultima volta la stanza nel suo insieme.
«I morti non parlano» sentenziò Barbara con un sospiro.
«Purtroppo» commentò Lynley.
Tornarono nella cucina. Ruddock aveva smontato il pannello posteriore del
forno. Alzò gli occhi ed evidentemente notò qualcosa nella loro espressione,
perché domandò: «Trovato qualcosa di nuovo?»
«Non siamo sicuri» rispose Lynley. «Una cosa che forse è un po’ strana
c’è.»
Ruddock posò il cacciavite. «Che cosa?»
Lynley gli mostrò le foto scattate dalla Scientifica subito dopo la morte del
diacono. «Che cosa ci sa dire della sedia?» chiese. Poi si mise a spiegare: la
seggiola rovesciata era di plastica e non da ufficio e, a ben pensarci, non era
dell’altezza giusta per lavorare alla scrivania.
Ruddock rifletté un momento, poi scosse la testa. «Non saprei, non ci ho
mai pensato. L’ho trovata già lì, quando ho portato dentro Druitt. Voglio dire,
in piedi non potevo lasciarlo e l’unica sedia a disposizione era quella. Non ce
n’erano altre. Quello che so è come mai si è rovesciata: per rianimarlo l’ho
dovuto stendere per terra, ho spinto da una parte la scrivania e la sedia
dev’essere caduta. Ero... Be’, ero nel panico.»
Non era sorprendente che Ruddock fosse stato preso dal panico, visto che
aveva ammesso di essersi assentato, e per quale motivo. Certo, occorreva
chiarire con chi si fosse appartato nel parcheggio.
«Gary, un testimone ha dichiarato di averla vista nottetempo con diverse
ragazze del college. A bordo dell’auto di servizio. Cosa ci può dire al
riguardo?» gli chiese Lynley.
L’ausiliario ebbe un attimo di esitazione. «Saranno state sbronze. Trovo
pericoloso che le ragazze vadano in giro ubriache da sole, per cui le carico in
macchina e le accompagno a casa. Non sempre, ma a volte quando c’è
un’abbuffata alcolica succede. Quindi non mi stupisco che qualcuno mi abbia
visto con delle ragazze a bordo.»
«In questo caso era una sola» puntualizzò Barbara.
«Be’, li riaccompagno a casa uno per uno. Anche i maschi» rispose
Ruddock. «E siccome da queste parti gli studenti non abitano tutti assieme
ma stanno a casa dei genitori o in camere in affitto, per forza di cose alla fine
del giro mi ritrovo con uno soltanto.»
«Fa parte delle sue mansioni?» domandò Lynley. «Le è stato chiesto
ufficialmente di svolgere anche questo servizio?»
«Lo faccio perché mi sembra giusto farlo. Serve a evitare problemi più
grossi in futuro. È un deterrente. Riguardo al bere, intendo. Non mi piace
vedere i ragazzi finire nel baratro dell’alcolismo, non so se mi spiego. A
quell’età è facile cascarci e, secondo me, se i genitori li vedono tornare
sbronzi, dopo un po’ prendono provvedimenti. Chiaramente, non fa parte
delle mie mansioni, no.»
«Fra le studentesse che bevono troppo c’è anche Dena Donaldson?» chiese
Lynley.
«Oh, sì, altroché. Si fa chiamare Ding ed è una di quelle che non vivono
con i genitori, ma con altri studenti. Ha un vero problema di alcolismo,
secondo me, e l’ultima cosa che vuole è che io vada a parlarne ai suoi. La
tengo in riga proprio perché sa che, se sgarra, la porto immediatamente da
loro.»
«Siete stati visti nel parcheggio insieme» lo informò Lynley. «Di notte.»
«Non mi stupisco. L’ho portata qui più di una volta per darle una lavata di
capo. In realtà non ho granché voglia di riaccompagnarla dai suoi, un po’
perché abitano lontano, fuori Ludlow, e un po’ perché non mi piace fare il
poliziotto cattivo. Così l’ho portata qui più di una volta per spiegarle che cosa
le succederà se non la smette, che rischia di lasciarci la pelle, non so se rendo
l’idea. E la situazione un po’ è migliorata – voglio dire, adesso beve un po’
meno – ma ogni tanto ci ricasca e siamo daccapo.»
«Lei si prodiga in maniera veramente encomiabile» commentò Barbara.
«Quando sono ubriachi i giovani danno fastidio. La gente protesta, telefona
per gli schiamazzi. Voglio fare quello che posso per risolvere il problema,
anche se è poco.»
«Come il signor Druitt.»
Ruddock inclinò la testa, incerto su come interpretare quell’affermazione.
«Voleva creare un’organizzazione di Street Pastors, un gruppo di volontari
per togliere dalla strada i ragazzi ubriachi e offrire loro caffè, minestra, o non
so che. Ma non ha potuto realizzare il suo progetto, purtroppo» esplicitò
Barbara.
«È uno dei tanti motivi per cui sentiamo la sua mancanza» dichiarò
Ruddock.
Church Stretton
Shropshire
Insieme al vasto altopiano brullo di Long Mynd, le alture di origine vulcanica
delle Stretton Hills formavano la vallata in cui si trovava Church Stretton,
una cittadina di epoca vittoriana. Un tempo meta di villeggianti che andavano
a curarsi con le acque minerali della zona, Church Stretton aveva conservato
il suo aspetto ottocentesco, ma si era trasformata da località termale per
anziani con problemi di salute in centro frequentato da gente assai più arzilla.
Con gli zaini in spalla e i bastoncini da trekking, gli escursionisti partivano a
frotte per salire sull’altopiano di Long Mynd, da dove la vista spaziava fino al
Galles.
Barbara li vide, numerosi ed entusiasti per le strade della cittadina.
«Camminino pure, ’sti salutisti. Ma cosa è preso alla gente? Dove sono i bei
tempi di una volta?» disse stizzita.
«Eh, già» disse Lynley con un sarcasmo che non le sfuggì. «I bei tempi
della gotta e della tubercolosi...»
«Veda di non cominciare» replicò Barbara in tono ammonitore. «Come si
chiama il posto che devo cercare?»
«La forbice magica.»
«Detesto anche i nomi furbetti, oltre agli escursionisti. Gliel’ho detto?»
«Vuole accendersi una sigaretta? È questo che la mette così di cattivo
umore?»
«È lui che mi fa venire il nervoso. Io li ho visti insieme, ispettore. Lui e
quella Dena, o Ding, o come si chiama.»
«Ruddock non lo ha negato, sergente. E ci ha pure spiegato il perché.
Ammesso che sia vero.»
«Quindi avrebbe mentito riguardo all’altra? Quella sposata, quella di cui
non vuole dire il nome?»
«Può darsi. Dev’essere parecchio agitato, comunque.»
«Sa di tutte quelle telefonate a Trevor Freeman? Non è che magari aveva
una relazione con la moglie e chiamava il telefono di lui per fissare gli
appuntamenti? Chi andrebbe mai a controllare se sul suo cellulare sono
arrivate telefonate cui ha risposto qualcun altro? A lei verrebbe mai in mente?
A me no. Certo, lei ha Denton, che magari usa il suo cellulare per telefonare a
New York, a Broadway, oppure a Hollywood.»
«Hollywood va sempre tenuta presente» convenne Lynley. «Ah, siamo
arrivati. È là.»
«Cosa? La forbice magica? Scusi. Mi ero distratta.»
Quando entrarono Barbara si rese conto che chiamarlo salone di
parrucchiere era decisamente esagerato. Era dotato di due poltrone per taglio
e colore, ma per riuscire a lavorarci in due sarebbe stato necessario sgomitare
tutto il tempo: c’era a malapena posto sufficiente per una cliente e una
parrucchiera.
Nancy Scannell aveva dato loro appuntamento lì. Lynley le aveva fatto
notare che non gli sembrava il posto più adatto per un colloquio riservato, ma
la dottoressa aveva risposto che o se lo facevano andar bene, o avrebbero
dovuto aspettare la fine dell’udienza in tribunale cui doveva partecipare quel
giorno. Per ottenere quell’appuntamento dalla parrucchiera aveva
praticamente dovuto vendere il figlio primogenito: per un taglio da Dusty a
volte si aspettavano settimane, era l’unica che sapeva tagliare capelli ricci
come i suoi ed era giunto il momento del look estivo.
Look che, quando arrivarono, era in piena lavorazione: l’anatomopatologa
era sulla poltrona, Dusty le saltellava intorno con due paia di forbici e un
pettine fra i denti come una ballerina di flamenco con una rosa in bocca, e i
ciuffi di capelli volavano a destra e a manca. A quanto pareva, Nancy
Scannell aveva scelto un taglio molto corto e Dusty era felicissima di
accontentarla. Voleva farle anche la tinta, appresero quando si tolse il pettine
dalla bocca, ma Nancy Scannell aveva detto di no e Dusty stava cercando di
arrivare a un compromesso con «un piccolo ciuffo color magenta. Niente di
vistoso. Vedrà che le piacerà. La ringiovanirà quel tanto che basta». La
dottoressa non ne voleva sapere, però. I capelli grigi le piacevano, disse. Se li
era conquistati in anni di matrimonio, e stendiamo un velo pietoso
sull’argomento.
Dusty guardò Barbara e Lynley, ma soprattutto i capelli di Barbara. «Cos’è
successo? È andata a sbattere contro un tosaerba?» chiese.
«No, me li sono tagliati con le forbici da unghie» rispose Barbara.
«Non posso farci niente, temo. Sono troppo corti. Dovrà tornare quando
saranno un po’ cresciuti.»
«Me lo segno sull’agenda» promise Barbara. Poi, si rivolse
all’anatomopatologa. «Dottoressa Scannell, le presento l’ispettore Lynley.»
«Lo immaginavo» replicò la donna. «Allora, sentiamo.»
«Qui?» Lynley aveva dato per scontato che la dottoressa avesse dato loro
appuntamento dal parrucchiere per poi andare a parlare altrove.
«È l’unico modo, se volete parlarmi oggi» rispose Nancy Scannell. «Ha le
cuffiette?» chiese a Dusty.
«Eh? Oh, sì. Un momento.» Dusty frugò in un cassetto, tirò fuori un paio
di auricolari, se li mise e cominciò ad ascoltare musica dal cellulare per non
sentire quello che dicevano. Muovendo la testa a tempo, si rimise all’opera
con la massima disinvoltura, una sforbiciata qui, un’aggiustatina là,
allontanandosi ogni tanto per osservare il risultato, mentre loro tre parlavano.
«Siamo passati dalla stazione di polizia di Ludlow, abbiamo visto la stanza
dove è morto Ian Druitt» cominciò Lynley. «Abbiamo letto il suo referto e
abbiamo studiato le foto dell’autopsia. È sicura al cento per cento che Druitt
si sia suicidato?»
L’anatomopatologa gli chiese di mostrarle le foto. «Sono passati un bel po’
di mesi» disse. Barbara vide Dusty, incuriosita, sbirciare le foto da dietro le
spalle della dottoressa e subito dopo distogliere lo sguardo e rimettersi al
lavoro.
«Il cappio di stoffa ha reso tutto più difficile» dichiarò Nancy Scannell.
Indicò la stola rossa per terra vicino al corpo. «Il tessuto non lascia sulla pelle
i segni caratteristici dei cappi più comuni, tipo cinture di pelle o di tela,
cintole di accappatoio, cavi elettrici. Quel paramento... come si chiama più?
Lo sapevo, ma non ho più la memoria di una volta.»
«Stola» suggerì Lynley.
«Ah. Grazie. Dicevo, ha lasciato segni... ecco, nelle foto dell’autopsia si
vede... Le petecchie sono appena visibili. L’ecchimosi è lieve, ma risale sul
collo con un’angolazione che è tipica dei suicidi. L’ho detto al sergente,
quando è stata qui l’altra volta. All’aeroclub, non qui dal parrucchiere.»
«Il corpo era ancora appeso quando lei è arrivata sul posto?»
«L’intervento dell’agente aveva contaminato molte delle prove materiali.
Per tentare di rianimare il diacono – giustamente – l’aveva tirato giù e gli
aveva tolto la stola dal collo. Ma anche se non avesse spostato nulla, la
conclusione sarebbe stata la stessa. Il suicidio simulato si rivela quasi sempre
per quello che è.» Alzò la testa per guardarli. «E immagino che sia quello che
state cercando di dimostrare voi. Vi auguro di riuscirci, ma confermo il
referto e la diagnosi di suicidio. C’erano segni sufficienti: la smorfia del
volto, gli occhi protrusi e, come dicevo, le petecchie. Non c’erano tutti i segni
tipici, questo è vero, ma come sicuramente sapete è raro che ci siano proprio
tutti.»
«Abbiamo letto il suo referto» disse Lynley. «Siamo d’accordo che il volto
e il collo fanno pensare a un suicidio per impiccagione e che le abrasioni ai
polsi sono compatibili con le manette di plastica che l’agente ausiliario ha
dichiarato di aver usato al momento del fermo. L’agente ha spiegato inoltre
per quale motivo gliele ha tolte quando sono arrivati alla stazione di polizia.
Ma cosa intende quando dice che non erano presenti tutti i segni tipici,
dottoressa? Quali sono quelli che non ha riscontrato?»
Nancy Scannell restituì le foto e i documenti. Toccò il braccio di Dusty per
attirare la sua attenzione e indicarle un ciuffo di capelli che non la
convinceva, poi si rivolse a Lynley: «In un suicidio di questo genere – per
impiccagione, cioè – si verificano spesso movimenti convulsi delle gambe. In
questo caso, non c’erano segni sul pavimento. È possibile che il soggetto non
abbia scalciato, oppure che avesse un paio di scarpe che non lasciavano
segni, scarpe da ginnastica, per esempio. Ma è una lacuna poco significativa,
in un quadro generale per il resto esaustivo».
Barbara ebbe un guizzo. «Ispettore...?»
Lynley, che aveva pensato la stessa cosa, domandò all’anatomopatologa:
«Si riferisce all’assenza di righe lasciate dalle suole sul pavimento?»
«Sì. Ci sarebbero potute essere ma, come dicevo, le convulsioni non sono
garantite al cento per cento – scusate l’espressione – e potrebbero anche
essere avvenute senza che ne sia rimasta traccia.»
Barbara guardò Lynley. Lynley guardò Barbara. Nancy Scannell, che li
vedeva allo specchio, se ne accorse. «Cosa c’è?» domandò.
«Supponiamo che il diacono fosse seduto su una sedia: secondo lei, una
persona in piedi alle sue spalle potrebbe averlo strangolato inscenando poi un
suicidio per impiccagione?» replicò Lynley.
Nancy Scannell rifletté. «In quel caso, effettivamente, la stola potrebbe
aver lasciato sul collo segni analoghi. Ma ci sarebbero i segni sul pavimento:
nessuno si lascia strangolare senza opporre resistenza. Anche se avesse avuto
le manette ai polsi, il pover’uomo avrebbe sicuramente scalciato e tentato di
divincolarsi» rispose lentamente.
«Lasciando segni sul pavimento» concluse Lynley.
«Graffi sul linoleum» puntualizzò Barbara.
«Segni, graffi, righe, quello che volete.» Nancy Scannell annuì, poi chiese
scusa a Dusty che le aveva dato un colpetto sulla spalla per ricordarle di stare
ferma. «Sì, direi che in uno scenario del genere il linoleum dovrebbe essere
graffiato.»
Tombola, eureka, hurrà, eccetera eccetera, pensò Barbara. Quella sì che era
una svolta.
Worcester
Herefordshire
Era stato un gioco da ragazzi scambiare il cellulare con Clover. Tutti e due li
lasciavano in carica durante la notte e, siccome i telefoni erano identici e
avevano lo stesso codice pin nel caso dovessero usarli per un’emergenza, gli
era bastato prendere quello di Clover e lasciare che lei prendesse il suo, dopo
aver avuto l’accortezza di cambiare lo sfondo in modo che fosse uguale a
quello di lei. Anche questo era stato facile perché Clover non si era mai presa
la briga di scegliere una foto personale o di un bambino, un cane o un gatto
da usare come sfondo alle poche app che le servivano. In meno di un minuto
Trevor aveva trovato tra le immagini proposte dal proprio smartphone lo
stesso panorama marino usato da Clover e l’aveva selezionato.
Nel corso della giornata Clover si sarebbe sicuramente accorta della
sostituzione, ma nel frattempo lui avrebbe avuto il tempo di controllare ciò
che la conversazione avuta con Gaz il giorno prima gli aveva fatto venir
voglia di controllare. Perché Gaz era molto meno bravo a mentire di quanto
pensasse.
Subito dopo l’incontro con l’ausiliario, Trevor aveva esaminato
attentamente il proprio registro delle chiamate in entrata e in uscita, che
restava in memoria per due mesi, e aveva scoperto così che dal 22 marzo al
16 maggio c’era stato uno scambio costante di telefonate con Gaz Ruddock.
Come già aveva avuto modo di constatare nel corso del primo, rapido esame,
le chiamate da e verso il numero di Gaz Ruddock risultavano effettuate
prevalentemente la sera tardi oppure la mattina presto. Certi giorni ce n’era
una sola, altri addirittura quattro.
A quel punto aveva deciso di approfondire e risalire agli antefatti. Era vero
che sia Clover sia Gaz gli avevano assicurato che le telefonate riguardavano il
loro piano segreto per tenere d’occhio Finn a Ludlow, ma era davvero una
questione per cui c’era bisogno di parlarsi così spesso? Trevor esigeva delle
risposte e, per procurarsele, aveva cominciato con una chiamata al suo
provider. Aveva fornito tutti i codici e le password del caso e aveva spiegato
alla voce anonima dell’operatore che voleva controllare se quello scapestrato
di suo figlio avesse usato il suo telefono di nascosto. Poi aveva aspettato che
gli mandassero le informazioni richieste.
Appena le aveva avute davanti agli occhi, aveva notato una cosa
interessante: il fitto scambio di telefonate tra Clover e Gaz era iniziato il
primo marzo. Prima di quella data, per quanto indietro si tornasse, non
risultavano chiamate.
Era molto strano che Gaz, incaricato di tenere d’occhio Finn a Ludlow,
avesse cominciato a riferire regolarmente a Clover solo dal primo marzo. Le
spiegazioni possibili erano due: o nelle settimane precedenti la chiamava
direttamente sul suo cellulare, oppure non aveva ancora cominciato a tenere
d’occhio Finn.
A quel punto Trevor aveva deciso che doveva vederci chiaro ed era stato
allora che aveva scambiato il telefono con quello della moglie. Dopo aver
esaminato il registro delle chiamate in entrata e in uscita negli ultimi due
mesi, e dopo aver ripetuto la sceneggiata con il suo provider in modo da
accedere ai dati del periodo precedente, si rese conto di aver bisogno di
parlare con la moglie subito: non poteva aspettare fino alla sera. Fece perciò
il proprio numero di cellulare e, quando Clover rispose, cercò di parlare nel
tono più naturale che gli riuscì: «Scusa. Ci siamo scambiati i telefoni, amore.
Dev’essere stato quando li abbiamo staccati dal caricabatteria».
«Ah, ecco perché nessuno mi chiamava» replicò Clover. «Pensavo che
finalmente mi fosse capitato un giorno senza rotture di scatole. Di solito
cominciano alle sette e mezzo e non la finiscono più. A proposito, il mio
telefono ha suonato?»
«Appena mi sono accorto che era il tuo, ho lasciato scattare la segreteria.
Ma visto che sono arrivate parecchie telefonate, ho pensato che fosse meglio
avvertirti. Vuoi che li ascolti? I messaggi, intendo.»
«No, no.»
Trevor ebbe l’impressione che quella risposta fosse stata un po’ troppo
precipitosa. «Vuoi che te lo porti? In palestra per ora non ho impegni. Oppure
possiamo incontrarci a metà strada, se puoi» le propose.
«Ho una riunione dietro l’altra.»
«Allora te lo porto io.»
«Non vorrei darti troppo disturbo, Trev.»
«Nessun problema. Parto subito.»
Clover lo ringraziò molto della gentilezza e disse che gli sarebbe andata
incontro all’ingresso per risparmiargli la lunga trafila. «Va bene» disse
Trevor, pur sapendo che quella della moglie non era solo cortesia: nel caso
avessero avuto una discussione, i colleghi non avrebbero visto né sentito
nulla.
Quando Trevor arrivò, Clover era già lì ad aspettarlo e uscì dall’edificio
della reception agitando un braccio. In mano aveva il cellulare da restituirgli.
Trevor parcheggiò e aprì il finestrino dal lato del passeggero. «Sali» disse a
Clover quando si avvicinò.
Il tono non era sgarbato, ma Clover trasalì. «Ho solo pochi minuti, Trev»
gli disse.
«Sono più che sufficienti» replicò lui.
Clover si sedette in macchina e gli porse lo smartphone. Lui continuò a
tenere in mano quello di lei, che lo guardò con aria interrogativa.
«Questo scambio di telefoni...» disse Trevor. «Sono stato io. Ho fatto
apposta a prendere il tuo» continuò vedendo che non reagiva.
La guardò. Clover rimase impassibile e assolutamente immobile. «Ah.»
«Non mi chiedi perché?»
«Immagino che tu sia venuto qui apposta per dirmelo. Anche se,
sinceramente, non vedo il perché di tanta urgenza.»
Che faccia tosta! Trevor si chiese come avesse fatto a non accorgersi prima
della grande capacità di dissimulazione della moglie. Avrebbe dovuto
rendersene conto. Erano anni che gli proponeva i suoi giochetti erotici, resi
ancora più eccitanti dal fatto che in qualunque ruolo risultava sempre
credibilissima: scolaretta, suora, puttana, bigliettaia delle ferrovie, postina,
insegnante di yoga, cameriera d’albergo... Clover non fingeva, si
immedesimava completamente nel personaggio. Trevor doveva osservarla
con la massima attenzione, come se studiasse un vetrino sotto la lente di un
microscopio.
«Ho mentito alla Met come mi hai ordinato» le disse. «Però mi è venuta la
curiosità di scoprire qualcosa di più su tutte queste telefonate fra te e Gaz.
Penso che tu lo possa capire. Se devo mentire alla polizia, meglio che abbia
un’idea sia pur incompleta della verità, altrimenti diventa difficile mantenere
la coerenza. Non occorre che te lo dica, visto il mestiere che fai.»
«Non ne abbiamo già parlato?»
«Sì, in parte. Ma sai come funziona la curiosità. Sarà perché ho sposato
una poliziotta, fatto sta che il mio cervello ha cominciato a rimuginare su
quelle telefonate e mi è parso che l’unico modo per superare quest’ossessione
fosse appurare com’erano andate le cose. Voglio dire, Clover, era come se
avessi una macchina in moto perpetuo che mi martellava dentro la testa...»
Clover strizzò gli occhi. Come previsto, il tono disinvolto di Trevor non
l’aveva ingannata. «Sì, hai ragione. Ti ho chiesto molto» ammise.
«Mi fa piacere sentirtelo dire. Quindi ti sembra ragionevole che io abbia
cercato di capire il perché di tutte le telefonate tra il mio cellulare e il numero
di Gaz.»
«Quando Finnegan...»
«Oh, quello l’ho capito. A proposito, ho dato un taglio a questa buffonata
di ’tener d’occhio Finn’ che avete messo su tu e Gaz.» Trevor mimò le
virgolette con le dita.
Clover non mancò di notarlo. «Quindi ricominciamo con l’altra buffonata?
Quella in cui io non vedo l’ora di allargare le gambe e Gaz non vede l’ora di
infilarcisi in mezzo? E per darci appuntamento usiamo il tuo telefono?»
«Non sto dicendo questo, Clover, ma sto cominciando a pensare che tu
voglia spingermi a dirlo.»
«Io non voglio spingerti a dire niente, se non quello che pensi.»
«Ma allora, se non hai una storia con Gaz, vuol dire che Finn ha fatto
qualcosa che vuoi tenermi nascosto. Cos’è?»
Clover distolse lo sguardo. Davanti all’ingresso della sede si era fermata
una macchina. Clover la esaminò come se cercasse un dettaglio che le era
stato ordinato di trovare a tutti i costi. Dall’auto scese una donna di mezza età
con una borsa enorme, che meritava una perquisizione approfondita. Se si
fosse trattato di una prigione, in quella borsa ci sarebbe stata sicuramente una
torta con una lima nascosta dentro.
Clover fece un gran sospiro. «Non so cos’altro dirti, Trev. Continuiamo a
girarci intorno, ma io non ho nient’altro da aggiungere.»
«Prova a ripensare ai primi di marzo.»
Clover si voltò a guardarlo con aria sinceramente perplessa. «Le prime
telefonate fra te e Gaz con il mio cellulare risalgono a quel periodo.
Dall’inizio di marzo in poi c’è almeno una chiamata ogni sera, tardi. Ora, se
parlavate di Finn e se avevate bisogno di parlarvi così spesso, voglio sapere
che cosa ha combinato mio figlio, e voglio saperlo subito» continuò Trevor.
Clover allungò il braccio per aprire la portiera. «Non so di cosa mi stai
accusando o per chi mi prendi, ma mi sembra che abbiamo parlato
abbastanza, Trevor» disse.
«No. Non abbiamo ancora parlato del tuo telefono.»
«Non vedo a cosa possa servire.»
«Ah, sì? Te lo chiedo perché fra il 26 e il 27 febbraio ci sono otto chiamate
fra te e Gaz sul tuo cellulare, Clover. Otto chiamate in due giorni. Poi più
nulla, e il primo marzo le chiamate ricominciano sul mio telefono. Secondo
me, vuol dire che il 26 febbraio è successo qualcosa, oppure che a quel punto
tu e Gaz avete deciso che non vi sareste più sentiti tranne nei momenti in cui
tu potevi usare il mio cellulare.»
Clover scosse la testa con un’espressione disgustata. «E va bene. Te la sei
voluta. Gaz e io ci diamo dentro come ricci. Ho bisogno di un uomo più
giovane perché tu non mi basti più. È questo che vuoi sentirti dire?»
«Voglio sentirmi dire la verità. Se Finn ha fatto qualcosa, voglio sapere di
cosa si tratta.»
«Cosa potrà mai aver fatto, secondo te?»
«Druitt era preoccupato, no? Droga, alcol, bambini o chissà cos’altro. È di
questo che si tratta?»
«Santo cielo, Trev, per quel che ne sappiamo io e te sono tutte balle. C’è
bisogno che ti ricordi che abbiamo soltanto la parola di Gaz sul fatto che Ian
Druitt volesse parlarci?»
«Stai dicendo che Gaz vuole far ricadere su Finn la colpa di non so che
cosa?»
«Non ne ho idea! So solo che Finn a Ludlow sta meno bene di quello che
cerca di farci credere. Beve troppo, si fa le canne e ha saltato un sacco di
lezioni al college. È possibile che abbia provato anche droghe più pesanti.
Gaz mi ha tenuto al corrente. Poi, quando è morto Ian Druitt, gli è venuto in
mente che... Non so cosa gli sia venuto in mente, perché non gliel’ho lasciato
nemmeno dire, chiaro? Ma quando mi chiamava dovevo rispondere, per
Finnegan. Adesso capisci in che posizione mi sono trovata?»
Trevor non le aveva ancora rivelato l’ultima informazione perché lo
turbava anche solo pensarci, figuriamoci parlarne. Ma a quel punto fu
costretto a farlo. «Vi siete telefonati tre volte la sera in cui è morto il diacono,
Clover. Ho controllato la data.»
«Cosa?»
«Una volta hai chiamato tu e due volte Gaz. La sera in cui è morto Druitt.»
Clover lo fissò, poi aprì la portiera. Trevor pensò che stesse per scendere
senza dire altro, ma si sbagliava.
«Quindi, se ho ben capito, stai insinuando che Ian Druitt non si è suicidato,
ma che l’ho ammazzato io, direttamente o per interposta persona. Giusto?»
Clover aspettò, poi vedendo che suo marito taceva riprese: «Per chi mi hai
preso, Trev?»
La risposta gli sorse spontanea. «Non lo so. Il casino è proprio questo,
Clover.»
Ludlow
Shropshire
«Lo sapevo! Ha la coscienza sporca!» esclamò Barbara mentre Lynley
parcheggiava la Healey Elliott sul Temeside con due ruote sul marciapiede.
Aspettarono una pausa nel traffico prima di attraversare la strada.
«Non credo sia un’affermazione corretta, Barbara» replicò Lynley. «Non
sarà proprio immacolata, forse. Ma non possiamo ancora definirla sporca.»
«Su, ispettore. I segni sul linoleum, le sedie, le manette messe e poi tolte,
la telefonata anonima, la videocamera che si spegne per venti secondi e poi
risulta spostata, le studentesse caricate in macchina, le telefonate ai pub, le
amanti misteriose... Cos’altro vogliamo?»
«Tanto per cominciare vogliamo capire perché sono passati diciannove
giorni dalla denuncia al fermo e alla morte di Ian Druitt. Poi dobbiamo capire
cosa significa che a porre fine a quei diciannove giorni sia stata la madre di
Finnegan Freeman. Infine dobbiamo chiarire tutti i dettagli che lei ha appena
elencato.»
«D’accordo, ho capito dove vuole arrivare. Significa che c’è di mezzo
Finnegan. O sua madre. O suo padre. O Ruddock. In ogni caso, qualcuno che
fa parte del giro del vicecomandante.»
«Ed è per questo che dobbiamo scoprire chi c’era con Ruddock nel
parcheggio la sera dell’omicidio, sempre che ci fosse davvero qualcuno.»
«Sarà stato il colonnello Mustard con il candeliere» borbottò Barbara.
Lynley ridacchiò. «Sono contento che abbia capito dove volevo arrivare.»
Guardò l’orologio da tasca. Si stava facendo tardi. Hillier aveva fretta di
ottenere dei risultati. Se il caso fosse finito sulla scrivania del ministro degli
Interni, sarebbe stata una bella gatta da pelare. Quando gli suonò il cellulare,
il primo pensiero di Lynley fu che a Londra gli avessero letto nel pensiero.
Guardò lo schermo e vide che non aveva sbagliato di molto: era Isabelle
Ardery.
Non voleva parlarle in quel momento. Sapeva di dover rispondere, dopo il
resoconto che gli aveva fatto Dee Harriman, ma in quel momento aveva
bisogno di concentrarsi sull’indagine, che era già abbastanza complicata
senza le interferenze di Isabelle. Lasciò scattare la segreteria. Barbara se ne
accorse.
«È di nuovo il sovrintendente» disse Lynley.
«Purché non se la prenda con me» disse Barbara, e in quel momento stesso
partì la suoneria anche a lei. Guardò il cellulare e chiese: «Caspita, devo...?»
Non potevano ignorare entrambi le chiamate del sovrintendente. «Senta in
che stato è» disse Lynley.
«Cosa dico se mi chiede di lei?»
«Che sono andato dove sono andato e che mi riferirà il messaggio appena
mi vede.»
«E dov’è andato?»
«Sergente, non la credevo così priva di fantasia. Si faccia venire in mente
qualcosa. E se le chiede notizie sulle indagini, le dica che siamo alla stretta
finale.»
Tacque per ascoltare ciò che diceva Barbara al telefono:
«Sovrintendente?... Stavo proprio per... Eh? No, è uscito... Ha cominciato
presto, stamattina. Come dicevo, vogliamo andare sul Temeside per fare
quattro chiacchiere con Finn Freeman o con la sua coinquilina, quella
ragazza, Dena. Dovrebbero... Oh. No. Scusi. Forza dell’abitudine. Sì, sì, sono
sola... È andato a...» Si rese conto di quanto fosse difficile indicare un posto
preciso dove non ci fosse segnale e dove Lynley potesse non rispondere al
telefono, e prontamente cambiò scusa: «Sta cercando di contattare di nuovo
l’anatomopatologa per... Va bene, sì. Ma abbiamo già controllato due volte,
io e l’ispettore... Okay. Come non detto: guarderò di nuovo. Appena posso, e
poi la richiamo, va bene? ... A lei, sovrintendente.»
Chiuse la chiamata e lanciò a Lynley un’occhiata afflitta. «Dal tono sembra
che abbia bevuto quindici tazze di caffè. Vuole che ricontrolliamo le foto
della Scientifica. Che le telefoniamo quando le abbiamo davanti. Secondo
me, sta cercando di uscire da un mucchio di letame in punta di piedi per non
sporcarsi le suole delle scarpe.»
«Per quel che ci costa accontentarla... Più tardi le telefono.»
Barbara, imbronciata, sospirò e rimise il cellulare nella borsa. «Non si
stanca mai di comportarsi da gentiluomo?»
«Sono stato educato così fin dalla nascita, sergente. Oh. Siamo arrivati
giusto in tempo.» Indicò la casa: la ragazza di nome Ding stava uscendo.
Aveva uno zaino sulle spalle e andava verso una bici. Armeggiò con il
lucchetto, che non si voleva aprire. «Su, forza, apriti» lo sentirono borbottare,
quando si avvicinarono.
«Vuole una mano?» le chiese Lynley.
La ragazza si girò di scatto e, nel riconoscerli, indietreggiò di un passo.
«Finn non c’è» disse.
«Non importa» replicò Barbara. «È con lei che vogliamo parlare.»
La ragazza si insospettì all’istante e il suo sguardo cominciò a saltellare da
Barbara a Lynley e viceversa come un uccellino fra due rami.
«So che è stata Francie Adamucci a mettermi di mezzo, se siete qui per
quello» mise subito in chiaro. «Tenete presente che Francie la dà a tutti.»
«Le ruberemo solo pochi minuti» promise Lynley. «Comunque ha ragione:
Francie Adamucci ha fatto il suo nome, e l’agente ausiliario ha confermato
quanto da lei affermato. Ma noi vorremmo sentire anche la sua versione dei
fatti, Ding.»
«Sono due bugiardi e io non...»
«Non ha tempo, lo so. Come tutti» disse Barbara.
«Veramente stavo per dire che non sono tenuta a rispondere alle vostre
domande. Mi aspettano a casa.»
«A casa dei suoi genitori?» domandò Barbara. «La casa dove non vuole
farsi accompagnare da Gary Ruddock?»
«Chi ve l’ha detto?»
«Lui in persona. Dice che è per via del suo problema.»
«Quale problema?»
«Se ci concede qualche minuto, le spieghiamo tutto» intervenne Lynley.
La ragazza tornò al portone e lo aprì con una certa enfasi. Entrò in casa ma
diede chiaramente a intendere con la sua postura che non si sarebbe mossa di
un passo oltre l’ingresso. Che la trascinassero in salotto di peso, se volevano
dare una dimostrazione della brutalità di cui la polizia è capace. Con il peso
su una gamba e la mano sul fianco opposto, li guardò con aria di sfida.
«Più di un testimone l’ha vista con l’ausiliario Ruddock» cominciò Lynley.
Ding lo interruppe subito. «Più di una persona vi ha riempito di balle,
allora.»
«Non siamo venuti per chiederle i particolari» disse Lynley.
«In tutta confidenza preferiamo non saperli» si intromise Barbara. «Non ci
interessa sapere chi era sopra, chi sotto, e come. Massima riservatezza.»
«Io non ho mai...»
«Non è vero. Qualche volta sì.»
La ragazza parve sul punto di mettersi a piangere, reazione che contrastava
con l’atteggiamento ribelle che aveva tenuto fino a un attimo prima. C’è sotto
qualcosa, pensò Lynley. «Ding, non abbia paura: non ce l’abbiamo con lei.
Più di una persona, però, l’ha vista con l’ausiliario Ruddock, compreso il
sergente Havers qui presente, e ci serve sapere se era con lui sull’auto di
servizio la sera in cui il diacono Ian Druitt è morto all’interno della stazione
di polizia. Non ci interessa sapere in quali rapporti è con Gary Ruddock, ma
solo...» disse.
A Ding si riempirono gli occhi di lacrime. Si nascose la faccia con le mani
e cominciò a piangere come se niente al mondo potesse consolarla.
«Maledizione» mormorò Barbara mentre Lynley si avvicinava alla ragazza.
«Cos’è successo, Ding?» le domandò sottovoce Lynley. «È giunto il
momento di parlarne, direi.»
Barbara andò in cucina e un attimo dopo si sentì scorrere l’acqua e
riempire il bollitore. La risposta inglese a ogni problema, pensò Lynley.
Ding si lasciò scivolare con la schiena lungo il muro, ma Lynley la prese
per un braccio e la tirò su. Mentre singhiozzava, le tolse gentilmente lo zaino
e le mise un braccio sulle spalle. «Si calmi» le disse. «C’è qualcuno in casa?»
chiese e quando Ding, incapace di parlare, scosse la testa, aggiunse: «Era con
lui quella sera?»
«No...» gemette Ding.
Lynley la guidò verso la cucina. «Ding, abbiamo bisogno del suo aiuto per
capire...»
«Sì, ma no» balbettò lei fra le lacrime. «No.»
Come la volta precedente, Barbara aveva scostato una sedia dal tavolo e
aveva tirato fuori bustine di tè e tazze. Quella che per Lynley restava una
risposta sibillina, per lei evidentemente era chiara. «Intende sì, è stata con lui,
ma no, non la sera in cui è morto il diacono?» disse a Ding.
La ragazza annuì. Barbara le porse uno strofinaccio mentre Lynley tirava
fuori uno dei suoi fazzoletti candidi e perfettamente stirati. Ding prese lo
strofinaccio e vi nascose le faccia.
«Io... non... voglio...» Prese fiato e ricominciò: «Lui sa che non voglio...
andare a casa».
«Lo sappiamo. Ruddock ci ha detto che lei non vuole che lui la
riaccompagni a casa dai suoi» replicò Lynley. «E che il motivo è che non
vuole far sapere ai suoi che beve. Sostiene di averla beccata più di una volta
ubriaca. È così?»
Come la maggior parte delle persone, Dena Donaldson non era bella
quando piangeva. Era paonazza, aveva il naso rosso e le tremavano le labbra.
«C’è dell’altro. Certe se ne fregano di quello che dice, perché se lo possono
permettere, ma io no. È per questo che ci sto. Ha cominciato quando mi ha
beccato ubriaca e io gli ho detto di sì perché se mia mamma sapesse quanto
bevo mi farebbe tornare a casa, non mi lascerebbe continuare a stare qui, e io
a casa non ci potevo tornare, non me la sentivo, e adesso ho anche capito
perché. Lui lo sapeva e mi ha proposto questo patto: se fai quello che ti dico
io nel parcheggio della stazione di polizia, è come se non ti avessi mai
beccato. E io ci sono stata, perché voi non avete idea dell’orrore che mi
metteva l’idea di tornare dai miei. Se facevo quello che voleva, dopo lui mi
riportava qui sul Temeside invece che dai miei» riuscì a dire dopo un po’.
L’acqua era giunta a ebollizione. Barbara portò le tazze sul tavolo. Mentre
Lynley tentava di trovare un senso nelle parole di Ding, Barbara fece un salto
logico che forse solo una donna avrebbe potuto fare e riassunse lo sfogo della
ragazza. «Quando Ruddock la beccava in giro ubriaca, pretendeva da lei
favori sessuali in cambio del silenzio.»
Ding annuì e ricominciò a piangere.
«Lo fa solo con lei o anche con altre?» domandò Lynley.
«Forse anche con altre, non lo so. Con Francie no, perché a lei non gliene
frega niente. Può fare quello che le pare. La lasciano libera, sanno che non
possono... come dire?... legarle le mani o cose del genere.»
Lynley annuì. Nel vedere Ding con il mascara che le colava sulle guance e
qualche sbaffo nero sulla fronte provò l’impulso di pulirle la faccia, il
desiderio di proteggerla in qualche modo. «Ma lei ha continuato a
ubriacarsi?» le chiese.
Ding scosse la testa. «Quasi mai, ma... Ormai non fa differenza. Per lui,
cioè. Non mi viene a cercare solo se bevo: decide che ho bevuto e... Magari
sto tornando qui dalla biblioteca, me lo trovo davanti e non voglio che mi
porti dai miei e lui lo sa. Ero terrorizzata, quando è cominciata questa storia,
perché mi sembrava di essere finalmente riuscita a fuggire, solo che non
sapevo da cosa, e poi ho pensato, in fondo che importanza ha visto che agli
altri la do, ma tornare a stare da mia madre non posso, non posso proprio.»
«È in grado di dimostrare che non era con Ruddock la sera in cui è morto
Ian Druitt?» chiese Lynley. Come faceva Ding a sapere quando era stata con
l’ausiliario e quando no? A meno che non tenesse un diario... Lynley le disse
la data precisa.
«Quella sera no» disse Ding. «Se l’hanno visto con una ragazza quella
sera, non ero io.»
«Come fa a essere così sicura?» chiese Barbara.
«È il compleanno di mia madre» rispose Ding. «Ero a casa. A Much
Wenlock. Chiedete pure a Francie o a Chelsea, perché era prima che
Francie... Eravamo ancora amiche e le avevo invitate a Cardew Hall.»
Ironbridge
Shropshire
Yasmina non prese il carrello perché le bastava uno dei cestini disponibili
all’interno del supermercato. Quella sera sarebbero stati in tre a cena, ma non
aveva la forza di mettersi a cucinare e quindi aveva intenzione di prendere
piatti pronti, tirarli fuori dai contenitori e servirli a Tim e Sati come se li
avesse preparati lei.
Valutò le varie opzioni. La scelta non era facile perché non aveva appetito.
Ormai mangiava soltanto perché doveva nutrirsi, come se il cibo fosse una
medicina, oltre che per dare il buon esempio a Sati. Vedi, cara, la mamma
mangia e quindi devi mangiare anche tu.
Una quiche, pensò. Oppure lasagne al forno. Eglefino e piselli. Platessa e
patate fritte. Era difficile scegliere, quando non si sentiva più lo stimolo della
fame.
«Dottoressa Lomax! È lei, vero?»
Yasmina alzò lo sguardo. Una bella donna con gli occhi azzurri, una giacca
scozzese e dei pantaloni attillati le sorrideva incerta. Yasmina aggrottò la
fronte perché non aveva idea di chi fosse.
«Sono Selina Osborne» si presentò la donna. «Missa è stata mia alunna in
quarta.»
«Oh, sì, certo. Sul momento non l’avevo riconosciuta» replicò Yasmina,
benché in verità non si ricordasse affatto di lei.
«Sono i capelli» disse l’insegnante. «Ho cambiato colore e taglio. Come
sta? Immagino sarà contenta per Missa e Justin.»
Yasmina non capì. Contenta era l’ultima parola che avrebbe usato per
descrivere il proprio stato d’animo. «Come, scusi...?»
Selina Osborne rise. «Oh, mi perdoni. Ho visto l’annuncio all’ufficio dello
stato civile quando sono andata con Toby a fare le pubblicazioni.»
Arrossendo, le mostrò l’anello. «In realtà non volevo l’anello di
fidanzamento perché è la seconda volta sia per me che per lui e non mi
sembrava il caso, ma lui ha tanto insistito. Faremo solo il rito civile, ma
immagino che per Missa e Justin abbiate in programma ben altra cerimonia!
Li ricordo bene entrambi, soprattutto Justin, un così bel ragazzo, con quella
faccia seria e il ciuffo che gli cadeva sempre sugli occhi. Si vedeva già allora
che per lui esisteva solo Missa, e adesso si sposano...» Fece un’altra risatina e
si mise una mano sul cuore. «Non le dico quanto mi fa sentire vecchia...»
aggiunse.
Yasmina annuì e rispose con un filo di voce: «Eh, già».
«Me li saluti tanto, per cortesia. Gli faccia gli auguri da parte della
professoressa Osborne, futura signora Joyce.»
«Non mancherò» disse Yasmina.
Appena Selina Osborne si allontanò spingendo il carrello tutta allegra,
Yasmina cominciò a prendere confezioni a caso dagli scaffali. Non era
possibile, doveva esserci un errore. Sapeva fin dal principio che con ogni
probabilità sarebbe andata a finire così, eppure non riusciva a farsene una
ragione. Timothy l’aveva previsto, a modo suo Rabiah aveva tentato di
metterla in guardia, ma lei non aveva voluto ascoltarli.
Non le restava che rivolgersi all’unica persona che, forse, poteva rendersi
conto dell’assurdità di un matrimonio così affrettato tra Justin e Missa,
l’unica che quasi sicuramente era preoccupata quanto lei. Portò alla cassa i
suoi acquisti, uscì dal supermercato e andò al Museum of the Gorge.
Il museo aveva sede in una ex fonderia sulla sponda del fiume Severn, un
imponente edificio in mattoni progettato in modo da mascherarne la funzione
grazie a una serie di abbaini e alla merlatura sui lati est e ovest del tetto e
sulle ciminiere, che facevano pensare più a un castello che a uno stabilimento
siderurgico. Sulla facciata rivolta verso Ironbridge c’era una grande finestra
in stile gotico con vetri romboidali che ricordava molto una chiesa, quasi
l’architetto fosse stato indeciso su cosa scegliere per convincere gli abitanti
del circondario che eventuali peggioramenti nella qualità dell’aria che
respiravano e dell’acqua che bevevano non erano dovuti alla vicinanza di una
fonderia. I binari che entravano direttamente nell’edificio rendevano meno
credibile il travestimento, come pure il fatto che la costruzione si trovasse
vicinissima al fiume. E non a caso il Severn l’aveva più volte allagata, tanto
che era quasi un miracolo che fosse ancora in piedi.
Mancavano pochi minuti alla chiusura e nel parcheggio c’erano solo tre
auto. Yasmina entrò e chiese di Linda Goodayle: la mamma di Justin, infatti,
era la direttrice del museo. Yasmina sapeva quanto il clan Goodayle andava
fiero del fatto che Linda, entrata come cassiera quando il museo era ancora
semisconosciuto, avesse fatto carriera fino ad arrivare al vertice di quella che
era ormai un’importante istituzione culturale. Lo stesso, del resto, aveva fatto
il marito nel parco a tema di Blists Hill. Pur non essendo né laureati né
diplomati, i Goodayle erano intraprendenti, capaci e grintosi.
La cassiera parlò brevemente al telefono e riferì a Yasmina che la direttrice
aveva un paio di cose da finire e poi sarebbe scesa da lei. Nel frattempo, se
voleva, poteva fare un giro per le sale. C’era un nuovo diorama molto
interessante. Yasmina disse che avrebbe aspettato fuori, visto che c’era un bel
sole. La cassiera alzò le spalle e tornò a guardare lo schermo del computer.
Yasmina uscì e andò verso il muro in fondo al parcheggio. Il fiume
scorreva tranquillo. Vicino alla riva c’erano giacinti fioriti e ciuffi di erba
milza; più in alto, sull’argine, occhieggiavano infiorescenze di aconito. Sulla
sponda opposta salici e ontani offrivano al sole le foglie ancora tenere.
Maggio era sempre stato il mese preferito di Yasmina, ma quell’anno avrebbe
preferito passarlo in coma.
«Dottoressa Lomax?»
Yasmina si voltò. Naturalmente riconobbe Linda Goodayle, perché si
conoscevano da anni, ma riconobbe anche i sottintesi del fatto che non
l’avesse chiamata per nome. «Mi chiami Yasmina, per favore. Ha un attimo
da dedicarmi, Linda? Vorrei parlarle di una questione urgente.»
Linda la osservò con grande distacco. «Sì. Lo credo che le sembra urgente.
A voialtri non piacciono le sorprese, eh?» replicò.
Yasmina non era così ingenua da credere che quel tono brusco e il forte
accento locale con cui le aveva risposto fossero involontari. Erano un modo
per dirle Apparteniamo a classi sociali diverse e so benissimo quanto sei
snob.
Yasmina si morse le labbra. Non era un buon inizio. Linda Goodayle era
riuscita a metterla subito in difficoltà.
«Ma la vita è piena di sorprese, neh?» Linda frugò nella borsa e tirò fuori
un pacchetto di chewing-gum alla nicotina, di quelli che la gente usa per
smettere di fumare. Yasmina li vide, si rese conto che non sapeva neppure
che Linda fumasse e si chiese se non fosse anche quello indice di snobismo
da parte sua.
«Allora, di cos’è che vuole parlare, Yasmina? Del mio Justin, scommetto.»
Linda si mise in bocca un chewing-gum, appallottolò la carta e la ficcò nella
tasca del lungo cardigan. «Cioè, del mio Justin e della sua Missa. Per questo è
venuta fin qui.»
Ti prego, ti prego, smetti di usare questo tono, avrebbe voluto dirle
Yasmina, perché era chiaro che Linda lo faceva apposta per metterla in
difficoltà. Ma se l’avesse sottolineato si sarebbero impantanate in una diatriba
sul diverso status sociale dei loro figli e sui pregiudizi che Linda sicuramente
le attribuiva. Non era una questione di differenza di classe, ma i Goodayle
probabilmente la vedevano solo in quei termini.
«Saprà che hanno fatto le pubblicazioni» disse Yasmina. «Sono già esposte
in municipio.»
L’espressione di Linda si indurì immediatamente. «Certo che lo so. Mica
vivo fuori dal mondo, io» ribatté. «Volevo proprio vedere quanto ci avrebbe
messo a scoprirlo, dato che lei non ha certo l’abitudine di star dietro a chi si
sposa e chi no. Ma vedo che non c’è voluto molto.»
«L’ho saputo da una loro ex insegnante, che mi ha fermato per
complimentarsi.»
«Anche questa sarà stata una sorpresa, neh? Si aspettava le condoglianze,
scommetto.»
«Per piacere, Linda! So benissimo che è quello che i nostri figli
desiderano. So che... Mi sembra sia quello che vogliono tutti.» Linda stava
già per ribattere, ma Yasmina non gliene diede il tempo. «E io non ho niente
in contrario.»
«Veramente, non mi risulta.»
«Preferirei solo che non si sposassero così giovani. Quando ci si sposa
troppo presto...»
«Ho capito! Mi prende per scema?» Linda fece un pallone con il chewinggum
e lo fece scoppiare tra i denti. Fu senza dubbio un gesto deliberato, così
come l’accento marcato. Quando riprese a parlare, però, abbandonò la posa
da colletto blu. «Probabilmente pensa che in famiglia siamo tutti un po’
ottusi. Ma le sue... remore, o paure, o come vogliamo chiamarle, non
c’entrano niente con l’età dei ragazzi. Se Justin avesse ventotto anni e Missa
ventisei sarebbe lo stesso. Il vero motivo è che Justin non le piace.»
«Non è vero. È un ragazzo meraviglioso, ed è sempre stato molto caro a
tutta la famiglia, oltre che a Missa. Le mie obiezioni...»
«Ah, finalmente le chiama con il loro nome: obiezioni. Sputi il rospo.
Sentiamo cos’ha in contrario.»
«Non ho mai nascosto che tengo molto al fatto che Missa vada
all’università» disse Yasmina. «Ha una bella testa...»
«E Justin no, secondo lei?»
«... e sarebbe sbagliato da parte mia non incoraggiarla a mettere a frutto le
sue doti. Così come sarebbe stato sbagliato da parte sua non incoraggiare
Justin. Me ne ha parlato, quando mi ha fatto vedere le... le casettine che
costruisce.»
«Sono unità abitative per il glamping» puntualizzò Linda. «E gli riescono
molto bene. Cosa che non mi sorprende, perché ho sempre pensato che la sua
forza fosse la manualità.»
«Sono d’accordissimo. Così come la forza di Missa è l’intelligenza.»
«Okay. Ma su tutto il resto la pensiamo diversamente.»
«Cosa? Perché? Non penserà che Missa...»
«Penso che i nostri figli debbano scoprire da soli quali sono i loro punti di
forza» ribatté Linda. «Non devono vederseli imporre da noi genitori. Sono
sicura che lei ha delle aspettative per Missa, che però sono aspettative sue,
progetti che ha fatto per lei senza consultarla. Scommetto che ha deciso
cos’avrebbe fatto da grande il giorno in cui è nata.»
«Non è vero. Missa ha sempre espresso il desiderio di andare
all’università. Voleva laurearsi in una materia scientifica. Lo ha deciso
autonomamente e poi, di colpo, non ne ha più voluto sapere. Ha buttato via il
suo futuro senza spiegarmi perché.»
Linda distolse lo sguardo come se volesse lasciar riecheggiare nell’aria per
un po’ quelle parole. Ha buttato via il suo futuro. Si mise a fissare un negozio
di fronte al museo che vendeva cristalli, minerali provenienti da tutto il
mondo e dozzinali gioielli in argento. La proprietaria si preparava a chiudere
ed era uscita per togliere da un tavolino accanto alla porta alcune candele e
una tovaglia di lamé dorato.
Yasmina annuì. «E adesso ha detto a Sati che può andare a vivere in casa
con loro, quando lei e Justin saranno sposati. Concorderà con me sul fatto che
è inammissibile.»
Linda le voltò le spalle, andò verso il muro e sputò il chewing-gum. «Nella
casa che lei ha promesso a Justin se avesse convinto Missa a finire il college
e iscriversi all’università? Intende quella casa, Yasmina? Justin ci ha creduto,
sa? Ci ha creduto non perché è ottuso, come pensa lei, ma perché è onesto e
sincero. Non ha filtri, non ha secondi fini e crede che anche gli altri siano
come lui. Solo che purtroppo non siamo tutti così, meno che mai la sua futura
suocera.»
«Linda, per piacere. Non può volere che si sposino così presto.»
«Quello che voglio io non conta. Ai miei figli ho insegnato a prendere le
loro decisioni da soli e affrontarne le conseguenze. Lei pensa che il mio
Justin non sia all’altezza di Missa...»
«Non sto dicendo questo. Non l’ho mai detto.»
«... e può darsi che abbia ragione. Forse la lezione che Justin deve imparare
è questa: che non è adatto a una come Missa, anche se la ama. Ma può anche
darsi che invece sia Missa a non essere all’altezza di Justin. Può darsi che, in
fondo, sia anche lei come sua madre: incapace di credere nel talento e nella
bontà d’animo di Justin. Forse anche Missa, sotto sotto, crede che avere una
laurea sia più importante che essere se stessi nella vita. Non lo so, e
nemmeno lei lo sa, Yasmina. Ma io sono convinta che prima o poi lo
scopriremo.»
Fece un breve cenno del capo e si avviò alla macchina, una Audi
antidiluviana parcheggiata nello spazio riservato al «Direttore». Yasmina,
senza parole, stava per andare anche lei alla propria auto quando Linda si
voltò. «Quindi non intercederò per lei. È questo che era venuta a chiedermi,
vero? Tutti gli altri tentativi sono falliti e quindi le restavamo solo noi, i
genitori di Justin. ’Mettete fine a questa follia, restituite Missa a sua madre,
perché è con lei che deve stare.’ Se lo scordi. Non lo farei mai a uno dei miei
figli e non intendo farlo a Missa» aggiunse.
Yasmina rimase dov’era mentre Linda usciva dal parcheggio e poi si
allontanava al volante della Audi. Era come paralizzata, incapace di
muoversi. Non riusciva a credere che una madre potesse permettere che al
figlio succedesse ciò che stava succedendo a Justin. Il futuro stava per
investirli come un treno lanciato a tutta velocità e nessuno muoveva un dito
per tentare di deviarne la traiettoria.
Uscì dal parcheggio anche lei e si immise sulla strada lungo il fiume senza
vedere nulla. Era come se la collina alla sua sinistra e le case del paese non
esistessero, come se le fabbriche dove un tempo si produceva ferro per tutta
l’Inghilterra fossero svanite nel nulla. Yasmina vedeva soltanto il futuro che
aveva immaginato e quello che invece si prefigurava ora.
La sua unica speranza era Sati. Arrivò a casa e vide che Timothy era già
rientrato. Pregò che non le si leggesse in faccia il turbamento. Timothy non
avrebbe approvato l’iniziativa di andare a parlare con Linda Goodayle, così
come non aveva approvato nessuna delle cose che aveva fatto per aiutare
Missa a superare quel momento difficile.
Sollevò il sacchetto della spesa, si mise a tracolla la borsa e, sforzandosi di
sorridere, entrò in casa. Vide subito che non era il caso di temere che
Timothy le leggesse nel pensiero: Sati era sola in cucina alle prese con i
compiti di matematica. Era andato a stendersi un attimo, la informò la figlia a
voce bassa. Era molto stanco e non voleva cenare. Si scusava molto, ma
aveva bisogno di riposo.
Yasmina sapeva cosa intendeva il marito per «riposo» e fu tentata di
correre di sopra. Ma di quante cose doveva farsi carico una sola donna?
Arrivava il momento in cui bisognava decidere di affrontare un problema per
volta e stabilire delle priorità.
«Bene, mangeremo io e te, allora.» Yasmina posò la borsa della spesa sul
bancone e sorrise alla figlia. «Che brava ragazza sei, Sati. Come va con la
matematica?»
Sati scosse la testa e si morse il labbro inferiore risucchiandolo fra i denti.
Era una brutta abitudine che doveva togliersi, pensò Yasmina, ma non disse
nulla. Andò al tavolo, si fermò alle spalle della figlia e guardò il quaderno.
«Ohi ohi» esclamò vedendo quanto era pasticciato: cancellature,
correzioni, e in un punto c’erano anche alcune macchie che dovevano essere
di lacrime cadute sulla pagina. «Non può essere così difficile. Hai una bella
testa: devi solo imparare a usarla.»
«Non ci capisco niente» replicò Sati. «Non imparerò mai. Ma intanto la
matematica non mi servirà, quindi non vedo perché...»
«Sì che ti servirà, Sati. È la base di tante altre materie: scienza, tecnologia,
economia.»
«Per la poesia, per l’arte, per scrivere, non serve.»
«Ma... Voglio dire, non vorrai fare della scrittura la tua professione, no? A
meno che tu non finisca a insegnare... Ma perché con una bella testa come la
tua dovresti andare a insegnare? Hai solo bisogno di qualche lezione privata.
Troveremo qualcuno che ti dia ripetizioni.»
Sati la guardò in silenzio. Aveva solo dodici anni, ma i suoi occhi
sembravano antichi.
Yasmina svuotò la borsa della spesa per vedere che cosa aveva comprato.
Chili con carne, rape con formaggio cheddar, tortini di pasta sfoglia ripieni di
carne, spaghetti alla carbonara. Annunciò ridendo che il menu era a sorpresa,
cosa che a Sati sarebbe sicuramente piaciuta un sacco.
«Può aiutarmi Missa» mormorò la bambina con gli occhi fissi sul
quaderno. «Ha detto che lo fa volentieri.»
«Certo» replicò Yasmina. «Ma quando tornerà al college le sarà difficile
aiutarti. Non ti preoccupare, cercheremo un insegnante e, nel frattempo, può
darti una mano la nonna. Ci pensiamo domani, va bene? Poco fa ho
incontrato la professoressa Osborne al supermercato. Te la ricordi? Chiederò
a lei se ha qualcuno da consigliarci. Perché non smetti di studiare e non mi
aiuti a preparare la cena? E dopo guardiamo un po’ di tv, che ne dici?»
Sati annuì. Chiuse libri e quaderni, li prese e li portò in camera sua, da
brava ragazzina ubbidiente.
Quando tornò, Yasmina aveva apparecchiato la tavola e stava leggendo le
istruzioni sulle scatole delle varie portate di quella bizzarra cena. Si mise a
chiacchierare con la figlia di quel che avrebbero mangiato, raccontandole
divertita che quando aveva scelto quelle cose aveva la mente altrove: stava
pensando alle notizie che aveva letto su una rivista di gossip durante la pausa
pranzo, un matrimonio fra due celebrità, un divorzio che aveva fatto scalpore,
e poi la storia di una stupida americana che era andata sulle Montagne
Rocciose e aveva spruzzato addosso ai figli lo spray anti-orsi pensando che
servisse per tenere lontani gli orsi, quando invece andava spruzzato addosso
all’orso nel caso si avvicinasse! I figli della donna erano finiti al pronto
soccorso, poveretti. Ti immagini in che condizioni erano? ...il prurito? ...il
bruciore?
Sati parve trovare avvincente la storia. Che sciocca quella donna! Come
aveva potuto pensare che lo spray anti-orsi fosse come quello antizanzare?
Nello stesso tempo, però, non le si potevano dare tutti i torti, no, mamma?
Be’, sì, tesoro, ma solo se sullo spray ci fosse stato scritto «repellente
antiorsi», che era una cosa ben diversa. A proposito, cosa aveva voglia di
guardare alla tv? Voleva dare un’occhiata a Radio Times per vedere cosa
c’era in programma quella sera? Poteva scegliere. Si sarebbero sedute sul
divano vicine vicine, magari con un bel gelato al cioccolato. Ti va, Sati?
Scaldate le varie portate, Yasmina trasferì tutto dai contenitori ai piatti da
portata e servì in tavola. Toccò la sedia di Sati per invitarla ad accomodarsi e
le mise nella fondina il chili con carne. In un piatto piano le servì rape e
spaghetti alla carbonara.
«Non ho fame, mamma» disse Sati immobile dietro la sedia, guardando i
due piatti.
«Ma sì che hai fame» ribatté Yasmina. «Dobbiamo mangiare, sia io che te.
Siediti, siediti, tesoro. E dopo...»
«Mamma...»
«No, no, siediti, ho detto. Mangia almeno un po’. Fallo per me, Sati, per
piacere.»
La bambina sospirò, scostò la sedia dal tavolo e si sedette. Prese un
cucchiaio e, dopo aver giocherellato a lungo con il chili, ne prese un boccone
piccolissimo. Yasmina non la sgridò e non insistette perché mangiasse di più.
Prese il cucchiaio e lo affondò nel piatto cercando di ignorare lo sgradevole
misto di aromi delle pietanze che aveva messo in tavola.
Riprese a chiacchierare con la figlia del più e del meno. Un reality, una
gaffe commessa da un membro della famiglia reale, il bullismo in aumento, il
bullismo in calo: qualsiasi cosa le venisse in mente. Alla fine si fece coraggio
e arrivò dove doveva arrivare.
«Sati, tesoro, devo dirti una cosa che ho saputo oggi dalla professoressa
Osborne.» Attese un segno di interesse, che non arrivò. «L’ho incontrata oggi
pomeriggio al supermercato. Io ora te lo racconto e poi devo chiederti un
favore.»
Sati la guardò con i suoi occhi antichi. Era bellissima, pensò Yasmina. In
lei si erano mescolati tutti i tratti migliori dei due genitori. Era come se Missa
e Janna fossero state due tentativi, la prova generale, e Sati fosse il prodotto
finito, completamente perfezionato. A dodici anni era una ragazzina
adorabile. A venti avrebbe fatto voltare la gente per strada. Le donne
l’avrebbero invidiata e gli uomini desiderata. E Yasmina aveva il compito di
farle capire quanto fosse effimero tutto questo: la bellezza passa, la saggezza
rimane.
«Cosa?» domandò Sati. «Quale favore, mamma?»
«Aspetta, prima ti dico cosa ho saputo dalla Osborne.» A quel punto
Yasmina rivelò ciò che le aveva raccontato la professoressa: l’ufficio dello
stato civile, le pubblicazioni, il matrimonio imminente di Missa con Justin
Goodayle. «Vedi, Selina Osborne era andata a fare le pubblicazioni per il suo
matrimonio e ha visto quelle di Missa e Justin. Capisci?»
Mentre Yasmina parlava, Sati aveva abbassato gli occhi sul chili, poi aveva
preso la forchetta e spostato le rape con il cheddar qua e là per il piatto. Ma a
quel punto sollevò la testa, guardò in faccia Yasmina e disse qualcosa di
totalmente inatteso: «Non sono stupida, mamma».
Yasmina rise. Una risata chiaramente forzata, ma meglio di così non riuscì
a fare. Nel tono di Sati aveva percepito qualcosa di nuovo: la bambina si era
offesa.
«Scusami, Sati» le disse. «Non volevo dire questo. Volevo dire che, se
sono andati a fare le pubblicazioni, succederà presto. È perfettamente legale,
sia chiaro. Sono entrambi maggiorenni. Ma secondo me dobbiamo chiederci
se è davvero la cosa migliore per loro.» Fece una pausa per riordinare le idee
e decidere quale piega dare al discorso, quindi riprese: «Sati, il fatto è questo.
Se ci si sposa troppo giovani, quasi inevitabilmente il matrimonio fallisce e io
non sopporto l’idea che Missa vada incontro a un’esperienza così brutta. Tu
cosa ne pensi? Io penso – anzi, ne sono proprio convinta – che a te Missa
darebbe ascolto, perché sa che senti la sua mancanza, che hai bisogno di lei.
Vorrei che le parlassi tu, capisci? Vorrei che andassi a trovarla a casa dei
Goodayle oppure a Blists Hill – ti ci accompagno in macchina – e le
chiedessi di tornare a casa. Dille la verità: che la mamma è molto dispiaciuta
per il pasticcio del West Mercia College e le chiede scusa con tutto il cuore e
che tu, Sati, hai bisogno che ti stia vicino e se si sposa non potrà...»
«Mi ha detto che posso andare a stare da loro» dichiarò Sati di punto in
bianco.
Yasmina prese il bicchiere e bevve un sorso d’acqua. «Tesoro, se prendono
il cottage a Jackfield...»
«Me lo ha detto prima, mamma. Mi ha detto che, se voglio, quando lei e
Justin saranno sposati posso andare a vivere con loro. Non abiteranno in un
cottage piccolino, ne cercheranno uno più grande. Ha detto che ci sarà una
stanza anche per me, non quella degli ospiti, una proprio per me, e che posso
stare da loro.»
Yasmina si accorse di avere la bocca asciutta e le labbra secche. Le
sembrava di avere persino i palmi delle mani inariditi. «Sati, bambina mia,
non sei abbastanza grande per stare lontano da tua madre e tuo padre» disse.
«Mi ha promesso che mi dirà la data precisa del matrimonio, così ci posso
andare. E dopo lei e Justin mi verranno a prendere e starò a vivere da loro.»
Mentre la figlia parlava, Yasmina si rese conto di un aspetto tutt’altro che
trascurabile che fino a quel momento le era sfuggito. «Sapevi già che sono
andati in municipio per le pubblicazioni?»
«Missa me l’aveva detto, che avevano intenzione di andarci. Me lo hanno
detto insieme. Mi hanno anche chiesto se volevo andare con loro, ma io ho
risposto che ti saresti arrabbiata. Allora hanno detto che, se ti arrabbiavi,
pazienza. E che se avevo paura di te, Justin poteva venirmi a prendere. Ho
detto che tu non mi fai paura, ma non volevo farti arrabbiare, che preferivo
aspettare. Ma quando avranno tutto pronto andrò a stare da loro.»
Yasmina si appoggiò allo schienale. «Perché non mi hai detto niente?»
«Perché sapevo che avresti detto di no.»
«Non parlo di andare a stare con loro. Quello te lo puoi tranquillamente
scordare. Parlo de... delle pubblicazioni, delle nozze, dei loro progetti...»
Yasmina prese per un braccio Sati e glielo strinse con tanta forza che la figlia
lanciò un grido. «Si tratta del futuro di Missa!» esclamò. «Non lo capisci?
Questo non è un gioco! Non è uno schiaffo che date a me: si tratta della vita
di tua sorella, capisci? E tu, stupida, lo sapevi! Lo sapevi dall’inizio...»
Sati si divincolò. «Mi fai male, mamma!»
«Questo è niente. Ma cosa ti è preso? Dove hai la testa? Mi sarei potuta
presentare all’anagrafe. Avrei potuto impedirglielo. Avrei potuto...»
«È proprio quello che ha detto lei.» Sati aveva gli occhi lucidi. «Lo sapeva,
che avresti fatto qualsiasi cosa. Dice che la odi. Che odi lei e Justin e tutti
quelli che non fanno quello che vuoi tu.»
«Io non...»
«Mi fai male! Le unghie... Smettila, mamma. Smettila.» Sati scoppiò a
piangere. «Non voglio più stare qui. Non voglio più stare con te. Janna se n’è
andata e ora anche Missa e io non ho nessuno perché non conto niente e
andrò a stare con Missa e Justin e tu non puoi impedirmelo perché se ci provi
io scappo e non mi troverai mai più. Piuttosto vado a Londra e dormo per
strada e...»
Yasmina la colpì con tanta forza che le girò la testa dall’altra parte. Le ci
volle un attimo per rendersi conto che non le aveva dato un ceffone, come era
sua intenzione, ma un pugno. «Oh Sati... Mio Dio... Sati, figlia mia...»
Parlando, allentò la stretta intorno al braccio. Sati balzò in piedi e corse
verso la porta. Yasmina la chiamò con una disperazione nata dal rimpianto,
dal dolore e dalla piena consapevolezza di ciò che era accaduto.
La violenza con cui Sati sbatté la porta le disse che ormai il danno era
fatto.
St. Julian’s Well
Ludlow
Shropshire
Quando sentì suonare alla porta, il primo pensiero di Rabiah Lomax fu che la
polizia fosse tornata a interrogarla. Se funzionava come alla tv, sapevano che
una visita inaspettata fuori orario – soprattutto dopo le dieci di sera – avrebbe
sicuramente prodotto risultati migliori di quelli che erano riusciti a ottenere
nei tentativi precedenti.
Quando aprì la porta, però, si trovò faccia a faccia con il figlio minore. Il
fatto che avesse in mano una borsa della spesa nella quale sembrava avesse
infilato alla rinfusa qualche vestito non prometteva bene. Altrettanto poteva
dirsi della sua espressione, talmente angosciata che Rabiah capì subito che
doveva essere successo qualcosa di grave.
Si fece da parte per lasciarlo entrare. Timothy, senza aprir bocca, andò nel
salotto, si buttò sul divano e lasciò cadere per terra la borsa.
«Anche Sati» disse dopo un po’, e Rabiah si sentì trapassare da una fitta di
terrore. Si sedette nel primo posto che le capitò a tiro, un’ottomana.
Timothy si sfregò la faccia con una mano e Rabiah, da dove era seduta,
sentì il rumore del palmo sulle basette. Notò che il figlio aveva gli occhi rossi
ed ebbe un altro momento di panico al pensiero che avesse bevuto. Ma era
arrivato in macchina da Ironbridge e non sembrava ubriaco. C’erano anche le
pasticche, certo, ma non sembrava neppure stordito dai farmaci.
«Ha fatto scappare anche Sati» continuò. «Le sono corso dietro, quando
sono sceso. Ero in camera a fare un riposino, niente di più, e lei deve aver
pensato che avessi preso qualcosa e che sarei rimasto lì disteso come un
cadavere. Invece sonnecchiavo soltanto e le ho sentite litigare, poi la porta ha
sbattuto così forte che ha fatto tremare le finestre della camera. Com’è
possibile? Le case sono meno robuste di una volta?»
«Cos’è successo, Tim?» chiese Rabiah. «Mi stai facendo paura.»
«Mi daresti un bicchier d’acqua, mamma? Va benissimo del rubinetto, ma
se la hai anche frizzante... Ma faccio schifo. Perché mi preoccupo del tipo di
acqua che preferisco?»
Perché sei un egoista, avrebbe potuto dirgli la madre, e pensi solo ed
esclusivamente a te stesso. Invece rispose «Certo» e andò a prendergli una
bottiglia già aperta di San Pellegrino. Timothy bevve a canna.
«Cos’è successo?» domandò nuovamente Rabiah.
«Ieri mattina Missa se n’è andata di casa e stasera verso l’ora di cena se n’è
andata anche Sati.»
«Come sarebbe a dire ’se n’è andata’?»
«Pensavo che fosse da un’amica e quindi per prima cosa l’ho cercata lì, ma
alla fine l’ho trovata da Justin. Era logico, dato che Missa sta a casa sua.
Temporaneamente, a quanto ho capito. Solo fino al matrimonio, poi Sati
vuole andare a vivere con loro. Con Missa e Justin, cioè.» Parlava in tono
spento e quando ebbe finito Rabiah capì perché aveva gli occhi così rossi:
aveva pianto. Avrebbe voluto poter prendere su di sé tutto il dolore del figlio,
ma si accorse che inaspettatamente non provava alcun dolore. Rabbia, caso
mai. Non solo nei confronti di Timothy, ma di tutti quanti.
«Non la sopporto più» le confidò Timothy. «Ho resistito finché... finché
c’è stata Janna, ma non ce la faccio più... Si è messa in testa... Anzi, no, non
se l’è messo in testa adesso, l’ha sempre pensato, ero io che non volevo
vedere. All’inizio ho provato a parlargliene, ho provato a spiegarle che
comportandosi in quel modo avrebbe rovinato la vita a tutti. Ma lei non lo
voleva capire. Era suo dovere, diceva. Esattamente la stessa cosa che
dicevano a lei i suoi genitori. Formare, plasmare le figlie, farle entrare a
martellate nell’imbuto che hai preparato per loro. Nonostante l’abbia vissuto
sulla sua pelle, non capisce che ha preso il ruolo di madre nella maniera
sbagliata. Anzi, proprio per via della sua esperienza si è incaponita a volere
che le figlie evitassero di commettere i suoi stessi errori. Perché così ci
considera: errori. Lei, me, la fretta con cui ci siamo sposati. Contenta lei... Io
ci ho provato. Ora basta.»
Rabiah si rese conto che l’unico modo per non alzarsi dall’ottomana,
afferrare il figlio per le spalle e scuoterlo finché non batteva i denti era farsi
raccontare tutto dall’inizio alla fine, benché dai suoi discorsi confusi si fosse
già fatta un’idea. «Aiutami a capire che cosa è successo. Cos’ha fatto
Yasmina per farvi scappare tutti di casa?» disse.
Timothy cominciò a raccontare che Yasmina aveva tentato di arruolare
Justin perché convincesse Missa a concludere il college e l’università, Missa
lo era venuta a sapere e se n’era andata di casa. A quel punto Missa e Justin
avevano deciso – o forse l’avevano deciso ancora prima, va’ a saperlo – di
fare le pubblicazioni e Yasmina lo aveva scoperto ed era andata a parlare con
Linda Goodayle, ma il colloquio aveva avuto l’esito che aveva avuto e
Yasmina aveva cercato di coinvolgere anche Sati in quel pasticcio.
«Era fuori di sé, quando sono sceso in cucina» raccontò Tim. «Missa che si
voleva sposare così in fretta e io, il padre, che non facevo niente per
impedirglielo mettendo lei, Yasmina, nella condizione di dover implorare
Linda Goodayle. E poi, dopo che nemmeno quello aveva funzionato – ma
perché mai avrebbe dovuto? – ci ha provato con Sati. A quel punto non le è
restato altro che prendersela con me. È tutta colpa mia: la morte di Janna, le
decisioni di Missa, Sati che scappa di casa perché sua madre le ha dato un
pugno in faccia.»
«Un pugno in faccia?»
«Così mi ha detto, ma a quel punto era in piena crisi isterica.»
«Sati? Sei riuscito a parlarle?»
«Yasmina, non Sati. E poi ha cominciato a dire: ’Vai a cercarla, sbrigati,
invece di stordirti di pasticche come un tossico sotto un ponte. Vai, vai’. E io
sono andato, mamma, altroché se sono andato. Ho preso un po’ di vestiti e il
rasoio e me ne sono andato, proprio come mi ha detto lei.»
«Stai dicendo che non hai cercato Sati? Mi avevi detto che...»
«Sì che l’ho cercata, te l’ho detto. Volevo portarla qui con me, ma non ha
voluto separarsi da Missa e Missa non voleva separarsi da Justin e Justin non
voleva mollare nessuna delle due, dopo aver visto la faccia di Sati. Tu non
hai idea di come l’ha ridotta, mamma.» Sollevò lo sguardo verso il soffitto,
poi lo abbassò di nuovo sulla madre. «Dio mio, sono così stufo di non poter
far niente per proteggere le mie figlie».
Ora basta, decise Rabiah. Scattò in piedi come un corridore ai blocchi di
partenza. «Stavolta abbiamo davvero passato il limite, in questa maledetta
famiglia.»
Timothy giunse le mani come in preghiera. «Oh, mamma, grazie a Dio
almeno tu capisci, perché non c’è modo di...»
«Non sto parlando di Yasmina» lo interruppe Rabiah. Si avvicinò al figlio
seduto sul divano e lo guardò dall’alto in basso. «Non sto parlando né di
Missa, né di Sati né della povera Janna, ma di te. Cos’hai in testa? Oh, lascia
perdere. Cosa te lo chiedo a fare? Hai la stessa tara che ha tuo fratello, la
stessa tara che ha ammazzato tuo nonno, quindi perché tu dovresti essere
diverso, no? Dal giorno in cui hai pensato di farlo senza preservativo, una
volta, una volta sola, figurati se resta incinta, e comunque mi tirerò fuori, no?
Da quel momento di totale stupidità in poi, non hai fatto altro che prendere la
strada più facile e io ti ho assecondato aiutandoti, agevolandoti ogni volta.
Ma ora basta. Questa volta non andrà così, chiaro? Hai capito cosa ti sto
dicendo? Tu avrai raggiunto il limite della sopportazione con Yasmina, ma io
l’ho raggiunto con te. Togliti dalla testa di trasferirti qui, e non dirmi che non
era questo il tuo piano. Piuttosto, ti trasferisci a Tahiti. Devi smetterla di
comportarti come un bambino, e in fretta, perché non ho intenzione di
caricarmi sulle spalle le tue responsabilità. Se Yasmina ha sbagliato con le
ragazze – ed è vero, ha commesso errori gravissimi – tu non sei stato da
meno. Ha dovuto tirarle su da sola. Questo non giustifica il suo
comportamento, ma se non altro lei ci ha provato, pur con tutti i guai in cui si
è cacciata quando ha fatto la scemenza di innamorarsi di te.»
Non c’era dubbio, la sua invettiva lo aveva sconvolto. Ma Rabiah era
convinta che suo figlio fosse sull’orlo di quel baratro in cui era caduto il
fratello prima di lui, e aveva paura che vi precipitasse perdendo tutto quello
che aveva perché si rifiutava di crescere. Oddio, stava cominciando a
ragionare come una psicologa da talk show! Timothy non si assumeva le
responsabilità della sua vita, gli era molto più facile convincersi che tutto
fosse dovuto: alcol, droga, cibo, sesso, tutto quanto. Si rifiutava di
rimboccarsi le maniche e agire. Troppa fatica! Ma la vita è fatica ed era
giunto il momento che Timothy se ne rendesse conto.
«Smettila di guardarmi così» gli disse. «Chiudi la bocca, mettiti dritto e
piantala di dare la colpa agli altri. Puoi fermarti a dormire qui stanotte,
Timothy, ma solo perché è tardi. Domani mattina affronterai la situazione
comportandoti da marito, da padre e da uomo, e se pensi che non lo farai,
perché intanto non serve a niente e hai già provato e riprovato ma Yasmina
non sente ragioni e tanto vale piangerti addosso, sappi che io sarò al tuo
fianco. Non per schierarmi dalla tua parte, bada, ma per assicurarmi che tu ti
assuma le tue responsabilità. Adesso vai nella camera degli ospiti e non farti
più vedere fino a domani mattina.»
Per un attimo temette di aver esagerato. Poi Timothy disse la cosa che
meno si aspettava da lui: «Grazie, mamma». Andò nella camera degli ospiti
con il suo sacchetto di vestiti e chiuse la porta.
23 MAGGIO
Ludlow
Shropshire
Per esperienza Lynley sapeva che quando uno gioca sporco in un campo di
solito gioca sporco anche in altri e dopo la conversazione con Dena
Donaldson si era convinto che Barbara Havers avesse ragione a pensare che
l’ausiliario giocasse sporco, perlomeno riguardo alle ragazze del college. Il
problema era che non avevano prove concrete. Era vero che Harry Rochester
aveva visto più di una volta Ruddock caricare in macchina giovani ubriachi
per riportarli a casa e in un’occasione l’aveva visto solo con Francie
Adamucci sull’auto di servizio, ma nessun magistrato al mondo avrebbe mai
preso provvedimenti sulla base di così poco.
Anche Barbara aveva visto Ruddock con Dena Donaldson nel parcheggio
della stazione di polizia di notte, ma neppure la sua testimonianza sarebbe
servita a molto. Né quell’episodio né quello riferito da Harry Rochester
avevano valore probatorio. Se Dena e Francie avessero dichiarato che
l’ausiliario le aveva costrette ad avere rapporti sessuali con lui, Ruddock
avrebbe potuto ribattere con altrettanta credibilità che si trattava di accuse
false, che le ragazze mentivano per vendicarsi perché quando si ubriacavano
troppo lui le raccattava per strada, com’era suo dovere. Ripercorrere le
numerose occasioni in cui era dovuto intervenire per casi di ubriachezza
molesta avrebbe rafforzato la sua posizione e indebolito la testimonianza
delle ragazze. Insomma, nonostante Thomas Lynley e Barbara Havers si
fossero chiariti le idee su Gary Ruddock e sul fatto che approfittasse della
propria posizione, continuavano a non avere nessuna prova contro di lui.
Quella mattina Lynley si alzò, fece la doccia, si vestì, si preparò una tazza
di tè in camera – il caffè solubile messo a disposizione dall’albergo era
imbevibile – e, come prima iniziativa della giornata, telefonò a Nkata. Si
sedette sul letto e compose il numero. «Scoperto qualcosa di utile? Perché
Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno» disse appena sentì la voce del
sergente.
«È già una giornata storta?» ribatté Nkata.
«Mi sto semplicemente preparando al peggio.»
Nkata cominciò dalla sede della West Mercia Police, dove Ruddock aveva
seguito i corsi di addestramento per diventare ausiliario. Tutti gli istruttori
che era riuscito a rintracciare avevano riferito che Ruddock «si dava da fare
ed era molto volenteroso». A quanto pareva, ambiva a entrare in polizia –
nonostante i tagli al bilancio – e riteneva che diventare ausiliario fosse un
primo passo in quella direzione. Era più sveglio della maggior parte dei
compagni di corso...»
«Un momento» lo interruppe Lynley. «A noi risulta che abbia dei problemi
di apprendimento. Non è così?»
«Intendevo ’sveglio’ in un altro senso, ispettore» rispose Nkata e gli
raccontò che al centro di addestramento Ruddock aveva imparato a
compensare le proprie difficoltà socializzando il più possibile con insegnanti
e ufficiali. In questo modo si era fatto conoscere, sia di nome che di faccia,
raccontò Nkata a Lynley. «A quanto ho capito, alla fine del corso in pratica
aveva il posto garantito. Un posto da ausiliario, naturalmente, perché le
assunzioni di agenti effettivi erano di fatto bloccate.»
Era una notizia interessante, ma se ne poteva dedurre soltanto che
Ruddock, saggiamente, aveva cercato e trovato un sistema per ovviare alle
proprie difficoltà. «Nient’altro?» domandò Lynley.
«L’ambiente di provenienza mi sembra degno d’interesse.»
«Si riferisce alla setta nel Donegal, immagino.» Lynley aveva preparato il
tè in una di quelle teiere di metallo che si trovano in tutti gli alberghi e se ne
versò una seconda tazza.
«Sì» rispose Nkata. «È qui che la storia si fa interessante. Ruddock ha
raccontato a Barbara dell’intervento della polizia irlandese, una decina di
anni fa?»
«Per quale motivo?»
«Abusi sessuali. I capi della setta sostenevano che era la volontà di Dio,
scritta nei libri sacri – ’Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra’ – e che
loro seguivano semplicemente il diktat di Nostro Signore. Solo che nessuno
poteva rifiutarsi, né i maschi né le femmine. Se un maschio sembrava
particolarmente fertile, lo portavano nel cosiddetto ’Palazzo della Volontà
Divina’ che, a quanto ho letto, non era un palazzo bensì un postaccio
infame.»
«Non stento a crederlo» commentò Lynley.
«Lì lo facevano accoppiare con una femmina scelta dai capi della setta,
senza badare all’età: i maschi cominciavano intorno ai dodici anni e le
femmine non appena potevano fare figli senza lasciarci la pelle. Quelle che si
sviluppavano tardi erano fortunate, ma le altre... Ce n’è stata una che ha
partorito a undici anni.»
«Cristo. Non ricordo di aver mai sentito nulla al riguardo, Winston.
All’epoca i giornali ne hanno parlato?»
«Probabilmente sì, ma la setta era nell’Eire, non nell’Irlanda del Nord, e di
conseguenza qui non sarà stata una notizia di primo piano. E, comunque,
dov’era lei e cosa faceva dieci anni fa? Io stavo cercando di uscire dalla gang
dei Bristol Warriors e di quello che succedeva fuori dall’Inghilterra non mi
importava più di tanto.»
«Che fine hanno fatto i bambini della setta?»
«I minorenni furono dati in affido. Quanti anni avrà avuto il vostro uomo?»
«Almeno sedici, penso. Ha detto a Barbara di essere fuggito dalla setta a
quindici anni.»
«In effetti per un periodo non si trova più niente su di lui, poi ricompare
come dal nulla a Belfast, nel settore edilizio, a diciott’anni. Da lì va nel
Galles, dove lavora come falegname, e poi in Inghilterra. Ma non ha mai
avuto problemi con la giustizia, ispettore. Forse a Barbara non ha raccontato
proprio tutto riguardo alla setta – tipo il Palazzo della Volontà Divina e simili
– ma grosso modo le cose che vi ha detto corrispondono alla verità.»
Non per questo si poteva escludere che fosse in qualche modo coinvolto,
pensò Lynley dopo aver messo giù il telefono. Ma dalle ricerche di Winston
Nkata non avevano appreso nulla che consentisse di mettere Ruddock con le
spalle al muro per quanto riguardava i suoi comportamenti con le ragazze di
Ludlow.
Quando sentì suonare il telefono della stanza, Lynley pensò che fosse
Nkata che aveva dimenticato qualcosa. «C’è altro?» disse senza chiedere chi
era, ma si sentì rispondere dalla voce burbera di Isabelle Ardery.
«Stai cercando di evitarmi, Tommy? Perché non mi hai richiamato?»
Il tono era assolutamente normale, e questo da una parte lo sollevò, ma
dall’altra lo preoccupò. «Scusa. Non abbiamo avuto un attimo di tregua, qui»
rispose.
«Quando ti telefono, esigo di essere richiamata. Sono la tua superiore
diretta. E se pensi che lo rimarrò ancora per poco, ti sbagli, Tommy.»
«Lungi da me» replicò Lynley.
«Mi fa piacere sentirtelo dire. Prendi le foto del suicidio, per favore.»
«In questo momento non le ho con me. Sono in camera del sergente
Hav...»
«Valle a prendere, allora, e quando le avrai in mano richiamami. Ti do
dieci minuti, non uno di più. E telefonami da un posto dove puoi parlare
senza che nessuno ti senta. Chiaro?»
«Nemmeno il sergente Havers?» chiese Lynley.
«Non essere ridicolo. Non vorrai farmi credere che non le riferiresti
comunque tutto quello che ci diciamo, vero? Adesso va’ a prendere quelle
foto e richiamami.»
Ironbridge
Shropshire
Rabiah aveva tirato giù dal letto il figlio all’alba. Non le sarebbe dispiaciuto
affatto dormire ancora un paio d’ore, ma era una delle tante cose che quel
giorno non erano destinate a succedere. Un’altra era che Yasmina e Timothy
andassero a lavorare: a costo di legarli alle sedie della cucina, Rabiah non
intendeva lasciarli uscire di casa. Per Timothy non sarebbe stato un problema,
perché senza dubbio in farmacia erano abituati ai suoi ritardi e alle assenze
ingiustificate. Per Yasmina il discorso era un po’ più complicato, perché
avrebbe dovuto annullare tutti gli appuntamenti della giornata. Ma non si
poteva fare diversamente. Bisognava fare un ultimo disperato tentativo,
Rabiah ne era convinta.
Si era preparata a battagliare fin dal momento in cui era andata a dare la
sveglia al figlio. Ciò che le aveva raccontato la sera prima l’aveva lasciata
talmente sbalordita che non gli aveva neppure frugato nelle tasche o nella
borsa per controllare che non avesse con sé droghe di qualche genere e, se si
era impasticcato, non sarebbe stato facile svegliarlo. Nel dubbio, Rabiah era
andata a chiamarlo con una brocca d’acqua, pronta a gettargliela in faccia. Lo
aveva trovato seduto sul letto con gli occhi chiusi, ma sveglio, tant’è vero che
li aveva aperti non appena l’aveva sentita entrare.
Timothy aveva visto la brocca. «Ho lasciato le pillole a casa. Nella fretta,
non le ho prese. Ma ho fatto male, perché non sono riuscito a dormire» aveva
detto.
«Nemmeno io. Alzati. Andiamo a Ironbridge.»
«Mamma...»
«Pensi che io abbia voglia di immischiarmi in queste cose? Credi che io
abbia una soluzione per i disastri che sei riuscito a combinare?»
«Se non hai soluzioni, cosa ti intrometti a fare?»
«Le soluzioni le hai tu, babbeo. Le avete tu e Yasmina, e oggi cercherete di
capire insieme quali sono.»
«Yasmina non vorrà nemmeno sentirne parlare.»
«E tu credi che a me interessi che cosa vuole o non vuole Yasmina? Alzati,
vestiti e sali in macchina. Andiamo a Ironbridge: tu vai avanti e io ti seguo
con la mia macchina.»
Timothy aveva detto che doveva fare la doccia. Rabiah gli aveva concesso
un quarto d’ora e, mentre lui era nel bagno, aveva raccolto i vestiti che
Timothy aveva buttato per terra, li aveva messi nella borsa e l’aveva piazzata
vicino alla porta di casa: un modo più che eloquente per chiarire che non
intendeva permettergli di sfuggire alle sue responsabilità trasferendosi da lei.
Timothy non aveva commentato, quando era tornato in camera già vestito.
Buon per lui che si era portato il ricambio in bagno, aveva pensato Rabiah,
perché se fosse dipeso da lei sarebbe tornato a Ironbridge in pigiama.
A quell’ora non c’era traffico. Avevano dovuto rallentare solo nei pressi di
Bridgnorth per un autoarticolato che stava facendo manovra per entrare nel
centro storico, ma per il resto la strada era deserta e bisognava solo stare
attenti a eventuali attraversamenti di animali.
Arrivati a Ironbridge, Rabiah disse a Timothy di aspettarla fuori ed entrò in
casa da sola. A giudicare dai rumori che provenivano dalla cucina, Yasmina
era già sveglia. Constatato che la nuora non si era accorta di niente, Rabiah
fece cenno a Timothy di avvicinarsi e gli ordinò sottovoce di aspettare
nell’ingresso finché non lo avesse chiamato.
Poi andò in cucina. Yasmina stava preparando un panino. Lo mise nello
zainetto di Hello Kitty di Sati, poi vi aggiunse una mela, alcuni biscotti con la
marmellata di fichi, un sacchetto di patatine e un succo di frutta con la
cannuccia.
«Non penserai che Sati mangi tutta quella roba dopo ieri sera, vero?» disse
Rabiah. Yasmina si girò di scatto ma si riprese prontamente dalla sorpresa di
vedersi comparire in cucina la suocera alle sei del mattino. Tornò a voltarsi
verso il tavolo. «Timothy ti ha raccontato tutto, quindi. Le porto lo zaino a
scuola. Voglio chiederle scusa.»
«Sei sicura che non sia prematuro?»
Yasmina si girò di nuovo a guardarla senza rispondere.
«Stai dando per scontato, primo, che dopo aver preso un pugno in faccia da
sua madre Sati oggi vada a scuola e, secondo, ammesso che ci vada, che
abbia voglia di parlarti» continuò Rabiah.
«Sia come sia, ci devo almeno provare, mamma» replicò Yasmina con aria
stranamente dignitosa, considerate le circostanze.
Rabiah si fece avanti, allungò un braccio e passandole davanti chiuse lo
zaino. «Te lo dico io cosa devi fare, visto il punto a cui siamo arrivati: devi
metterti seduta, qui o dove preferisci. E poi facciamo una bella chiacchierata
tutti e tre insieme.»
«Sati non c’è, lo sai.»
«Non sto parlando di Sati.» Rabiah gridò: «Timothy? Vieni qui».
Vedendo il figlio che arrivava dall’ingresso, Rabiah si ricordò di quando
era bambino e si rese conto di quanto poco fossero cambiate le cose. Timothy
aveva la stessa aria da cane bastonato di quando veniva sorpreso a fare una
marachella e sperava di farsi perdonare commuovendola. Era un trucco che in
passato aveva funzionato e Rabiah si pentì amaramente di esserci cascata
tante volte.
«Non sono venuta qui per risolvere i vostri problemi coniugali. Quelli, li
risolverete voi, se vorrete. Sono venuta per dirvi che non metterete piede
fuori da questa casa finché non ve lo dirò io. Penso al bene di Missa e Sati,
non al vostro. Ora vado a cercarle. Con un po’ di fortuna, riuscirò a riportarne
a casa almeno una. Se mi presento con voi, sapete benissimo che non
vorranno tornare» disse Rabiah appena Timothy fu in cucina.
«Mamma, lasciami venire con te» intervenne Timothy. «Io non ho fatto
niente...»
«Oddio, non crederai di non avere responsabilità in quello che è successo,
vero? Non mi interessa capire come siamo arrivati a questi livelli, e nemmeno
a te dovrebbe interessare. Sono qui per cercare di tenere unita la famiglia
finché siamo in tempo. Non ci sono alternative. Se non ve ne siete ancora
accorti, vi consiglio di aprire gli occhi. Non basta chiedere scusa per risolvere
il problema. Chiedere scusa non serve a niente, se poi non si cambia, e in
questa casa ci sono parecchie cose da cambiare. Mi sono spiegata? Non
importa che mi rispondiate. Datemi l’indirizzo dei Goodayle e rimanete qui
finché non ve lo dico io.»
Nessuno dei due si azzardò a controbattere. Yasmina le porse un foglietto
con l’indirizzo e Rabiah uscì.
Trovare la casa dei Goodayle non fu difficile: abitavano nella parte più alta
di Ironbridge, quasi a Woodside. Per arrivarci, Rabiah attraversò la zona in
cui durante la rivoluzione industriale vivevano i magnati proprietari delle
fabbriche locali che producevano gli oggetti più svariati, dai fermaporta in
ferro alle teiere di porcellana. Dopo un lungo periodo di declino, adesso le
grandi ville di mattoni dei ricchi del periodo georgiano venivano ristrutturate
e restituite all’antico splendore. Anche il quartiere dove vivevano i Goodayle,
che era più in alto, aveva visto tempi migliori ma era in lenta ripresa. La loro
casa, però, non rientrava fra quelle che erano state restaurate.
Come molte altre da quelle parti, era in mattoni e aveva un giardinetto sul
davanti. Rabiah parcheggiò, scese dalla macchina e, andando verso il
portone, vide che il giardino era stato trasformato in un campo di battaglia,
con gnomi di gesso vestiti con kilt scozzesi schierati di fronte a un
battaglione di altri gnomi, anch’essi di gesso, riconoscibili come soldati
britannici perché equipaggiati con bandiere del Regno Unito, moschetti di
plastica e spade di gomma. Molti dei soldati erano usciti malconci dallo
scontro con i guerrieri delle Highlands: due erano senza testa e a un altro
mancava un braccio.
Rabiah non poté fare a meno di sorridere. I Goodayle avevano cinque figli,
il maggiore dei quali aveva almeno dieci anni più di Justin: evidentemente il
giardino era teatro dei giochi dei nipotini, che dovevano avere una fantasia
piuttosto vivace.
Bussò con decisione alla porta e ad aprirle fu Sati. Aveva una ciotola di
cereali e un cucchiaio in mano e il mento sporco di latte. Quando vide
Rabiah, sgranò gli occhi. Evidentemente non sapeva cosa dire, perché
spalancò la bocca, la richiuse e, mordendosi il labbro, si voltò indietro a
guardare dentro la casa.
«Prima di tutto fai entrare la nonna e poi dalle un bacio, da brava» disse
Rabiah.
Sati indietreggiò, sempre con gli occhi sgranati. L’unico posto dove poteva
appoggiare la ciotola per ubbidire all’ordine della nonna era per terra, e così
fece. A Rabiah si strinse il cuore davanti a quel gesto di sottomissione. Le sue
nipoti erano troppo remissive. Come aveva potuto non accorgersene prima?
Abbracciò la bambina e le diede un bacio sulla testa. Poi le sollevò il
mento e le guardò i lividi sulla faccia. «La tua mamma è molto dispiaciuta
per quello che è successo. Vuole che torni a casa il tempo necessario per
chiederti scusa.»
A Sati vennero gli occhi lucidi, ma riuscì a trattenere le lacrime. «Missa
dice...»
«Stai tranquilla, Sati, non sono venuta per convincerti a tornare a casa. È
con Missa che voglio parlare. Tu sei libera di decidere se e quando tornare,
chiaro?»
Sati raccolse da terra la ciotola. «Sì» mormorò.
«Come va con la matematica? Continui ad avere difficoltà con i compiti?»
La bambina fece di sì con la testa.
«Vedremo di risolvere la questione. Nel frattempo, vai a chiamare Missa,
per piacere. Dille che le voglio parlare, ma non per convincerla a tornare da
vostra madre.»
«Okay» rispose Sati con un sorriso di una timidezza commovente. Poi si
avviò verso le scale e Rabiah entrò nel salotto.
Come il giardino, anche il salotto sembrava riservato ai nipotini: vide
decine di giocattoli divisi ordinatamente in scatole, ognuna con il nome del
proprietario, diversi giochi da tavolo su uno scaffale e, appesa alla porta di
comunicazione con la sala da pranzo, un’altalena da neonato. C’erano anche
tantissime foto: ritratti dei nipotini, matrimoni, battesimi, lauree. In una
vetrinetta piena di ninnoli Rabiah notò numerosi calchi di mani e piedi
infantili e scarpine da neonato conservate per ricordo.
«La signora Lomax, giusto?»
Rabiah si voltò di scatto. A rivolgerle la parola era stata una donna di
mezz’età in gonna scozzese, camicetta e gilet. Doveva essere Linda Goodayle
e aveva un’espressione tutt’altro che cordiale: era sicuramente convinta che la
nonna di Missa fosse lì in quanto portavoce della famiglia Lomax.
«Mi chiami Rabiah» le disse. «Chiedo perdono per l’intrusione. Sono
venuta per parlare con Missa. Di mia iniziativa, non per conto della madre. E
non si tratta di...» In cerca del modo migliore per spiegarsi, indicò con un
gesto la stanza. «Voglio parlarle solo di Ludlow» concluse.
«Missa a Ludlow non ci torna, se è questo che spera. Ha cercato di
spiegarlo ai suoi, ma non è servito a niente.»
«Capisco» replicò Rabiah. «Voglio dire, Missa è abbastanza grande per
decidere con la sua testa. Posso non essere d’accordo con le sue decisioni, ma
la vita è la sua.»
In quel momento si sentì rumore di passi per le scale e sulla soglia
comparve Justin. Rabiah rimase colpita dalla sua statura: nella bottega da
maniscalco vittoriano si notava meno. Come la madre, era vestito per andare
a lavorare, con i capelli raccolti.
«Se è venuta per cercare di farle cambiare idea, lasci perdere, signora
Lomax» disse Justin.
Rabiah lo guardò con aria interrogativa. «Quale idea? Quella di stare qui?
Non è per questo che sono venuta.»
«Mi riferivo al matrimonio» rispose Justin. «Ci sposiamo il mese
prossimo.»
Rabiah inorridì al pensiero che Missa si sposasse il mese dopo, con Justin
o con chiunque altro, tenuto conto della situazione disastrosa della sua
famiglia, e si chiese se fosse di quello che la nipote era andata a parlare con
Druitt. Trovò la voce per dire: «Congratulazioni. Non sapevo che aveste
deciso la data. Sapevo solo che avevate intenzione di sposarvi».
«La mamma non vuole» intervenne Missa, che li aveva raggiunti senza
fare rumore e si era fermata appena dietro Justin. A differenza del fidanzato e
della madre, doveva essersi appena alzata perché era in pantofole e vestaglia,
ancora tutta spettinata. «Se sei venuta per cercare di dissuadermi, puoi
andartene anche subito, nonna.»
Rabiah minimizzò con un gesto che sperava disarmasse non solo lei, ma
anche Justin e la madre. «Vieni a darmi un bacio, santo cielo» disse. «Per
quanto mi riguarda, puoi sposarti con chi vuoi e quando vuoi. Ma se non mi
inviti mi offendo.»
Missa, benché poco convinta, entrò nel salotto, si lasciò baciare e a sua
volta baciò la nonna. Il primo passo è fatto, pensò Rabiah. Il secondo era
liberarsi di Justin e della madre per poter parlare a quattr’occhi con la nipote.
«Posso avere una tazza di caffè, Justin?» disse, fregandosene di sembrare
arrogante o maleducata.
Il ragazzo e la madre si scambiarono un’occhiata carica di significato. Poi
Linda Goodayle fece lo sforzo di sembrare ospitale nonostante l’ora. «Ma
certo. Ci penso io. Si accomodi» disse.
Sistemata Linda, restava Justin, il quale non accennava ad andarsene.
Rabiah optò per la franchezza. «Justin, ho bisogno di parlare a tu per tu con
Missa. Non parleremo di voi due, quindi puoi stare tranquillo.»
Missa lo guardò e il ragazzo attese che fosse lei a decidere. «La nonna non
sta cercando di farmi cambiare idea, Justin, né di convincermi a fare niente»
gli assicurò Missa dopo averci pensato su per qualche istante. «Non
preoccuparti. Dillo anche a Sati, per favore.»
Justin se ne andò, ma a Rabiah parve evidente che lo faceva controvoglia.
Aspettò di sentirlo tornare al piano di sopra, poi cominciò velocemente: «Non
si tratta né di Sati, né di tua madre o di tuo padre. Non voglio parlare di come
sono, cos’hanno fatto, e via discorrendo. Sono qui per parlare di me e di te».
Missa la guardò comprensibilmente confusa: Rabiah e la nipote erano
sempre state molto legate e il solo fatto che ci fosse qualcosa da dire sul loro
rapporto era sconcertante.
Rabiah proseguì. «La polizia di Londra è venuta da me tre volte, Missa, e
per tre volte io ho mentito. Non c’è una sola persona nella nostra famiglia che
non dica bugie – tranne forse Sati, che è ancora troppo piccola per l’arte della
menzogna – ma è l’ora di finirla. Un momento, lasciami arrivare in fondo al
discorso. Ho voluto credere che hai chiesto sette colloqui a Ian Druitt perché
avevi bisogno di sostegno morale, visto che volevi abbandonare gli studi e
tutti ti imploravano di non farlo. Quello che non capisco è perché non hai
neppure cercato l’appoggio di tua nonna e, soprattutto, perché di colpo tu
abbia preso una decisione del genere. Non mi interrompere, ti prego. Non ho
ancora finito. Hai vissuto con me, in casa mia, e c’era una certa confidenza
tra noi. Ricordo benissimo che il college ti piaceva, prendevi ottimi voti,
andavi d’accordo con il tutor e frequentavi volentieri. Poi, di punto in bianco,
hai smesso.»
«Era diventato troppo difficile, nonna» disse Missa. «Ma nessuno...»
«Piantala, per favore. Una ragazza in gamba come te non passa da essere la
prima della classe a mollare tutto, quindi... dev’essere successo qualcosa tra
queste due fasi della tua vita. Ora, dai discorsi fumosi che mi ha fatto, ho
intuito che la tua amica Dena Donaldson sa di cosa si tratta. Ma è leale e non
me l’ha voluto dire. Quindi lo chiedo a te: che cosa è successo?»
Missa fece una risatina amara e distolse lo sguardo. «Dimmelo: lo voglio
sapere. I due ispettori di Scotland Yard sanno chi sei e dove trovarti»
insistette Rabiah.
«Non sanno che sono qui» ribatté Missa. «Qui non mi troveranno, a meno
che non glielo dica tu.»
«È quello che ho intenzione di fare, se non tiri fuori la verità. Non sto
scherzando, Missa. Stanno indagando su un suicidio che a quanto pare
suicidio non è stato e, se pensi che non interpellino tutti quelli che potrebbero
sapere qualcosa, sei veramente troppo ingenua. Il candore è sempre stato una
tua qualità, ma... Oh, Missa, cosa c’è?»
La nipote era scoppiata a piangere. Si nascondeva la bocca con le mani e si
premeva le unghie sulla faccia. Rabiah si alzò e andò ad abbracciarla. «Missa,
che succede? Ti prego, parla» le mormorò all’orecchio.
«È stato il sidro» disse la ragazza.
«Il sidro? Cosa diavolo...? Il sidro?»
«Ne avevo bevuto tantissimo. Non credevo che fosse così forte, invece mi
sono ubriacata e non potevo tornare a casa ubriaca, non potevo farmi vedere
da te nello stesso stato di papà e dello zio David. Non potevo, nonna!»
Ludlow
Shropshire
Dopo alcuni colpi secchi sulla porta, la voce baritonale e melliflua
dell’ispettore Lynley disse: «Barbara? Mi dispiace, ma devo svegliarla. Ha
telefonato Isabelle e...»
Isabelle, Isabelle, pensò Barbara sbuffando dentro di sé. «Va bene. Arrivo»
rispose e si alzò dal letto. Stava per aprire quando si rese conto di avere
indosso una delle T-shirt taglia XXXL che usava come camicie da notte.
Difficilmente il suo superiore diretto avrebbe trovato spiritoso lo slogan
stampato sul davanti: HAI ANCORA IL CORAGGIO DI PARLARE, CON LA
FACCIA CHE HO? «Un attimo. Devo vestirmi» gridò.
«Certo. Comunque il suo pigiama con Buddy Holly l’ho già visto. Si
ricorda? In Cornovaglia. A Casvelyn. Io ne avevo uno azzurro e lei uno con
Buddy Holly. Non le viene in mente nulla?» replicò Lynley.
«Secondo me lei aveva indosso solo un asciugamano bianco, dopo le
abluzioni mattutine.» Barbara si infilò velocemente un paio di pantaloni con
la coulisse.
«Sicura?» replicò Lynley. «Inorridisco alla sola idea di essere stato visto
con un asciugamano indosso in un bagno in comune. Meglio non pensarci.
Senta, Barbara, il sovrintendente vuole che la richiami con le foto della
Scientifica. Si è irritata perché ieri né io né lei le abbiamo risposto. Se vuole,
può anche passarmele da sotto la porta.»
Barbara non aveva nessuna intenzione di lasciare che Lynley parlasse con
il sovrintendente senza di lei: voleva sapere il motivo di tanta insistenza.
Decise di fregarsene della T-shirt, dal momento che frugando nel mucchio dei
vestiti ne aveva trovate soltanto due molto simili a quella che aveva indosso,
e andò ad aprire così com’era.
Lynley, naturalmente, era abbigliato in maniera inappuntabile. Lesse la
scritta sulla maglietta e il suo unico commento fu: «Ah, vedo che ha
abbandonato Buddy Holly».
«Scusi» replicò Barbara. «Non mi aspettavo che venisse a bussarmi alla
porta.»
«Non l’avrei fatto, se non fosse stata così perentoria. Mi riferisco al
sovrintendente, non a lei. Comunque non si preoccupi per la maglietta. Le ho
visto addosso anche di peggio.» Lynley aggrottò la fronte e cercò di
rimediare: «Scusi, mi sono espresso male. Posso...?» Le stava chiedendo il
permesso di entrare. Barbara, al suo posto, si sarebbe precipitata nella camera
senza tanti complimenti, ma Lynley era molto rispettoso.
Gli tenne la porta invitandolo ad accomodarsi. I dossier erano sul tavolo e
Lynley si sedette sul divano. Barbara pescò dal mucchio di vestiti una maglia
più adatta alle circostanze, andò in bagno, si tolse la T-shirt, si mise il
reggiseno che aveva lasciato appeso dietro la porta e quindi si infilò la
maglia. Uscendo dal bagno con quella mise più presentabile, vide che Lynley
aveva inforcato gli occhiali e stava parlando al cellulare, in modalità vivavoce
affinché anche lei potesse sentire tutto quello che diceva Isabelle Ardery.
Barbara arrivò a metà di una frase: «... solo le foto dove si vede il cadavere
e quel che c’è nelle vicinanze». Il sovrintendente aspettò che Lynley le
sfogliasse, tirasse fuori tutte quelle in cui si vedeva il corpo senza vita di Ian
Druitt dentro la stazione di polizia e le disponesse sul tavolino. «Le ho
davanti» disse.
«Ce n’è una dove si vede il laccio?»
«Non era un laccio. Era una...» puntualizzò Lynley.
«Una stola, lo so, Tommy. Chiamalo come ti pare, ma trovami una foto
dove si veda l’oggetto che aveva al collo e descrivimelo.»
Barbara si sedette accanto a Lynley. Si scambiarono un’occhiata, poi
Lynley eseguì e prese una foto in cui si vedevano sia il corpo di Druitt sia la
stola che aveva usato per impiccarsi: era sul pavimento, sinuosa come un
serpente che si scalda al sole.
«La ho davanti agli occhi» disse Lynley a Isabelle.
«Dimmi di che colore è» chiese lei.
«La stola? È rossa.»
«Come volevasi dimostrare» replicò Isabelle Ardery.
Mentre Barbara si chiedeva cosa diavolo pensasse di aver dimostrato,
Isabelle continuò. «Ieri sera sono entrata in una chiesa...»
Due paia di sopracciglia si inarcarono contemporaneamente.
«... vicino al Tamigi. Ero andata a fare una passeggiata, mi sono ritrovata
dalle parti del Putney Bridge e c’era una chiesa dove stavano celebrando la
preghiera della sera. Tutto molto formale, coro, prete, preghiere, canti...»
Barbara alzò gli occhi al cielo al pensiero di Isabelle Ardery che
improvvisamente trovava la fede, ma Lynley pareva interessatissimo.
«È stato il prete, Tommy» riprese Isabelle. «Il prete, o diacono, o cos’altro
era: l’ho visto e lì per lì non ci ho fatto caso, ma era vestito tutto di verde.»
Barbara non andava mai in chiesa, nemmeno a Natale, a Pasqua o in caso
di tragedie nazionali, e non era credente. Ma la cappella nella tenuta di
Lynley non si trovava lì per caso. Non solo vi erano sepolti gli antenati e i
parenti stretti dell’ispettore, ma vi si celebravano ancora le festività, e lui
faceva pur sempre parte della stirpe dei conti di Asherton, che da circa tre
secoli dava il buon esempio ai sottoposti.
Barbara perciò non si sorprese più di tanto quando gli sentì dire: «Oddio.
Era quaresima quando Druitt è morto e durante la quaresima si usano
paramenti viola».
«Non sapevo che il colore facesse differenza, ma mi sono incuriosita e
quando sono tornata a casa ho cercato in rete. Il rosso è il colore che si usa
più raramente di tutti, Tommy: a Pentecoste, nelle feste di alcuni santi, per i
sacramenti della cresima e dell’ordinazione. Ho controllato e non era il
giorno di nessun santo particolare» continuò il sovrintendente.
«Ed essendo prima di Pasqua, non era nemmeno Pentecoste» osservò
Lynley. «Avrei dovuto farci caso quando ho visto le foto.»
«Non importa» replicò Isabelle Ardery. «L’abbiamo smascherato, direi.»
«Sembra proprio di sì» disse Lynley.
Chiuse la chiamata e guardò Barbara con aria meditabonda. Ma Barbara
trovava che non fosse il caso di stare tanto a meditare. «È come diciamo
sempre, ispettore» disse.
«E cioè, sergente?»
«Nessuno pensa a tutto.»
Ironbridge
Shropshire
Yasmina lo sentì al piano di sopra che sbatteva porte, cassetti e sportelli come
un ladro in cerca di oggetti di valore. Quando lo raggiunse, era nel bagno. Le
parve strano, perché era il primo posto dove sarebbe dovuto andare a
guardare.
Yasmina sapeva che cosa stava cercando il marito, naturalmente. Timothy
invece ignorava che la sera prima, non vedendolo tornare a casa, Yasmina
aveva deciso di intervenire. Ma ormai, a giudicare dai gesti frenetici con cui
frugava disperato nel cassetto dove tenevano il necessario per il primo
soccorso, era sul punto di arrivarci. Yasmina si rese conto che doveva essere
già stato in bagno a cercare nell’armadietto dei medicinali, poi era passato
alle altre stanze e infine era tornato lì.
«Ho buttato via tutto» gli comunicò dalla soglia.
«Mi sembra ovvio! Avrei dovuto immaginarlo.»
Timothy la spinse da una parte e andò in camera. Si sedette sul letto a capo
chino, si mise le mani nei capelli e se li tirò con forza. Poi rialzò la testa.
«Possibile che tu non ti faccia mai gli affari tuoi?» disse.
«Mi dispiace per Sati» disse Yasmina. «Le ho dato quello schiaffo...»
«Quel pugno, vorrai dire. Non le hai dato uno schiaffo. La verità è un’altra,
Yasmina. Uno schiaffo perché si rifiutava di fare quello che volevi tu sarebbe
stato già abbastanza grave, ma un pugno? Hai idea delle conseguenze che può
avere? Credi forse che racconterà una frottola, quando il preside le chiederà
che cosa le è successo alla faccia? Perché glielo chiederà sicuramente. È suo
dovere. Pensi che gli racconterà che è andata a sbattere contro una porta
senza volerlo? La classica scusa che raccontano i bambini per paura di essere
dati in affido, vero?» Timothy fece una risata isterica, si alzò e andò alla
finestra. Sembrava volesse sfondare il vetro con un pugno, ma all’improvviso
si voltò verso Yasmina, che trasalì.
«Timothy, Sati non...»
«Chiudi quella bocca, una buona volta. Appena Sati racconterà come sono
andate veramente le cose, nessuno ti crederà più, qualsiasi balla tu ti inventi
per spiegare come mai nostra figlia ha un occhio nero.»
Yasmina fece un passo in avanti, ma continuò a tenersi al di fuori della sua
portata. «Non le ho fatto un occhio nero! Non volevo picchiarla!» protestò.
«La tua è coazione a ripetere. Sei come tuo padre. Con Sati hai reagito
esattamente come avrebbe reagito lui.»
C’era del vero nelle sue parole, ma non era tutta la verità. «Sto cercando...
Timothy, è tutta la vita che cerco di...» ribatté Yasmina.
«Non venirmi a dire che hai cercato di fare del tuo meglio. Risparmiami le
stronzate, e anch’io ti farò il favore di non accampare scuse per quello che è
successo. La realtà è questa, Yasmina: tu hai commesso un sacco di errori,
ma non posso giudicarti perché nemmeno io ho fatto il mio dovere. Avrei
dovuto fermarti, sgridarti, minacciarti, fare quello che dovrebbe fare un uomo
per riportare il buon senso nella propria famiglia. Invece tu mi hai permesso
di defilarmi e io mi sono disinteressato di tutto. E adesso non ho il coraggio
di guardarmi allo specchio.»
«Rivoglio le mie figlie» disse Yasmina. «Devo proteggerle.»
«Proteggerle da cosa, esattamente?»
«Voglio che non gli succeda niente di brutto» disse Yasmina cercando di
spiegare cosa desiderava per loro. «Che non si rovinino la vita, che non
commettano errori. Il mio compito è questo. Ma tu non lo vuoi capire. Perché
dovresti, del resto? È molto più comodo dare la colpa a me, che pure ho
voluto sempre e solo quello che era meglio per tutti noi.»
«E chi è che stabilisce qual è il meglio per tutti noi? Non occorre che tu mi
risponda. Lo so già. Anche Missa lo sa, e adesso pure Sati.» Andò verso la
porta della camera.
Yasmina gli sbarrò il passo. «Non puoi dire che io...»
Timothy la spinse da una parte. «Non mi sei stata a sentire, come al solito.
Ho ammesso che è anche colpa mia. Almeno tu hai fatto quello che era stato
fatto a te, mentre io non ho neppure quella scusa.»
Uscì dalla stanza, ma Yasmina lo seguì e scese le scale dietro di lui.
«Quello che è stato fatto a me, per usare le tue stesse parole, è darmi
un’istruzione, un indirizzo nella vita. Se volere la stessa cosa per le mie figlie
è una colpa, sono pronta ad assumermela» disse.
Arrivato in fondo alle scale, Timothy si voltò, con una mano sulla
ringhiera. «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, Yasmina. La tua
famiglia ti ha rinnegato, non ti rivolgono la parola da vent’anni. E perché?
Perché hai commesso un errore: rimanere incinta. Anzi, no, siamo giusti:
sono io che ti ho messa incinta. Un errore non significa avere la vita rovinata
per sempre, ma loro si sono rifiutati di vederlo.»
«Rovinata no, ma più difficile sì. E io non voglio che le mie figlie abbiano
una vita difficile.»
«Davvero?» esclamò Timothy. «E ti sembra di avergliela resa più facile?»
Yasmina non rispose. Non poteva rispondere, perché si rendeva conto che
giravano a vuoto e rischiavano di imbarcarsi in una discussione interminabile.
«Ti ritroverai a mani vuote, Yasmina» continuò Timothy. «Ma io non
voglio fare la tua stessa fine.»
Andò verso la porta mentre lei gli ricordava: «Tua madre ha detto di
non...»
«Smettila» la interruppe. «Smettila, cazzo!»
In quel momento la porta si aprì ed entrò Rabiah. Dietro di lei c’era Missa.
«Grazie a Dio!» esclamò Yasmina correndole incontro. Poi guardò meglio.
«Dov’è Sati? Perché non avete portato anche lei?»
«Sati non deve sentire.» Rabiah fece entrare Missa e chiuse la porta.
Yasmina ebbe un presentimento, una fitta di terrore intensa quanto quella
che l’aveva scossa poco prima che le comunicassero la diagnosi infausta di
Janna. Vide che Missa aveva pianto e lesse in faccia a Rabiah che ciò che Sati
non doveva sentire sarebbe uscito dalle labbra di Missa.
Si rese conto di non voler ascoltare ciò che la figlia aveva da dire. Si sentì
travolgere da una consapevolezza angosciante e chiarissima: ciò che da mesi
turbava Missa non aveva a che fare né con Ironbridge, né con Justin
Goodayle né con il matrimonio.
Rabiah guidò la nipote nel salotto, le si sedette accanto sul sofà e disse a
Yasmina e Timothy di mettersi a sedere anche loro. Yasmina scelse una delle
poltrone, mentre Timothy rimase in piedi.
«Mi sono ubriacata di sidro.» Missa cominciò a parlare a occhi bassi,
guardandosi le mani strette a pugno in grembo.
L’ansia di Yasmina si trasformò in sollievo. Era di una semplice sbronza
che Missa si rifiutava di parlare! Perché sapeva quanto sarebbero rimasti
male i suoi scoprendo che si era ubriacata, perché conosceva la storia di suo
zio, di suo padre e del suo bisnonno... Fin da piccola le avevano inculcato
quanto era pericoloso il vizio del bere. «Yasmina, tesoro, non è il caso di...»
«Lasciala parlare» intervenne Rabiah in tono così secco che Yasmina si
ritrasse istintivamente sulla poltrona.
Missa guardò la nonna, che con un cenno del capo la invitò a continuare.
Yasmina desiderava disperatamente rassicurare la figlia, dirle che lei e
Timothy le avrebbero sempre voluto bene, che ubriacarsi una volta nella vita
era normale, tutti i ragazzi crescendo facevano esperienze di quel genere e
non era nulla di grave.
«Non sapevo che il sidro fosse così alcolico e quando lui me ne offriva un
bicchiere lo bevevo perché era buono, mi piaceva. Ha cominciato a girarmi la
testa, ma ho pensato che era lo stesso perché... perché mi stavo divertendo,
mi sentivo diversa dal solito e avevo voglia di cambiare un po’, di provare
un’esperienza nuova, per una volta. Ma dopo un po’ ero completamente
ubriaca e da quel momento non mi ricordo più niente. Ero così ubriaca che
non mi ricordo praticamente nulla, tranne che...»
Anche da lontano, dalla poltrona su cui era seduta, Yasmina percepì tutta
l’angoscia di Missa. Rabiah le aggiustò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e
le mormorò qualcosa che Yasmina non sentì.
Missa prese fiato e chinò la testa. «Mi sono addormentata sul divano. Non
mi ricordo nemmeno come ho fatto ad arrivarci. Mi ricordo solo che quando
mi sono svegliata era completamente buio. E lui...» Alzò una mano e se la
premette sulla guancia destra. «... era sopra di me. Non potevo muovermi.
Non riuscivo nemmeno a respirare. E poi...» Le spalle di Missa furono scosse
da un tremito e Yasmina capì che piangeva e nello stesso tempo non voleva
piangere davanti a loro.
«Devi dirglielo, Missa» la incoraggiò Rabiah. «Devono saperlo anche loro
per capire.»
Timothy fece un passo avanti come per andare dalla figlia, ma Rabiah lo
fermò. «Siediti e non ti muovere.» Timothy ubbidì. Vicino alla poltrona di
Yasmina ce n’era un’altra uguale e vi si sedette, ma sul bordo, come per
essere pronto a scattare in caso di necessità.
«Parla, Missa, ti prego» disse in tono pacato.
La ragazza sollevò la testa. Yasmina trattenne il fiato nel leggerle in faccia
tutta la profonda sofferenza che nascondeva da mesi. Missa riprese a parlare.
«Mi sono svegliata e mi sono accorta che non avevo più i vestiti. Cioè, la
gonna, i collant, le... Lì per lì non ho capito, ma poi lui ha cominciato a...
Era... Volevo spingerlo via, ma ero sdraiata sulla pancia e mi ha tappato la
bocca con una mano e mi ha tirato per i capelli e poi mi ha... mi ha...»
«Oh mio Dio!» Yasmina si coprì la bocca con la mano.
«Lo sentivo ansimare e mi ha fatto così male, così male...»
Timothy si alzò di scatto. «Chi? Chi è stato? Voglio sapere chi è stato.»
«Mamma» disse Missa con il viso rigato da lacrime che sembrava non
accorgersi di versare. «Mamma, ho sentito un dolore terribile e volevo farlo
smettere, ma non potevo... Ti prego, nonna, non costringermi a raccontarlo.»
Rabiah la abbracciò. Yasmina sentì sapore di sangue, tanta era la forza con
cui si era morsa le dita mentre Missa parlava.
Timothy cominciò a camminare avanti e indietro. «Chi è stato? Dimmi chi
è stato» chiedeva.
«Non lo sa» rispose Rabiah spazientita. «Non l’ha mai scoperto.»
Timothy si voltò di scatto verso di lei. «E tu? Ha detto che era sul divano,
no? Ti è entrato qualcuno in casa, ha aggredito mia figlia e tu...? Ti rendi
conto? Non puoi non sapere chi è! Pensaci! Tira fuori il nome!» Si avvicinò
alla madre, le prese la faccia con una mano e strinse come se fosse un frutto
da spremere.
«No!» gridò Missa.
Rabiah respinse Timothy. «Sei tu che non ti rendi conto.»
«Non dite niente a Justin» implorò Missa. «Vi prego, non dite niente a
Justin. Ho sempre insistito per arrivare vergine al matrimonio, gli ho detto
che volevo aspettare per via di quello che è successo alla mamma, che è
rimasta incinta e ha avuto la vita così difficile perché non era pronta e
neanche tu eri pronto e...» Si rivolse alla madre. «Mamma, sono ancora
vergine, vero? Non è stato un rapporto completo, sono ancora vergine, no?»
Yasmina provò in ogni fibra del suo essere tutto l’orrore della violenza
subita dalla figlia. «Per questo volevi tornare a casa... Ma io credevo di
sapere cos’era giusto per te... E invece era per questo che volevi tornare. Mio
Dio!» Avrebbe voluto prendersi a schiaffi. Di colpo capì la tendenza delle
donne a tagliarsi i capelli in segno di lutto e coprirsi di cenere dalla testa ai
piedi. Se avesse potuto, in quel momento l’avrebbe fatto anche lei. «Oddio,
Missa!» esclamò. «Dimmi che cosa posso fare, ti prego!»
Fu Rabiah a rispondere. «Puoi stare a sentire il resto. E anche tu,
Timothy.»
Ludlow
Shropshire
Avrei dovuto notarlo, si ripeteva Lynley. Che non ci avesse fatto caso
Barbara Havers era comprensibile: non era credente, a quanto gli risultava, e
anche se il funerale di suo padre era stato celebrato in chiesa, non poteva
sapere che i colori dei paramenti avevano un significato. Nemmeno Isabelle
era religiosa. Ma lui? Non poteva dire di credere in una qualche entità divina,
ma era andato in chiesa fino a quando si era iscritto all’università. E dopo
aver posto fine a un lungo periodo di allontanamento, ogni volta che andava a
trovare la madre in Cornovaglia la accompagnava alle funzioni. Perciò
avrebbe dovuto non solo far caso alla stola per terra accanto al corpo di Ian
Druitt, ma anche sapere che era del colore sbagliato per quel periodo
dell’anno.
Lasciò a Barbara il tempo di ricomporsi e tornò nella sua stanza riflettendo
sul passo successivo da compiere. Dalla serie di bizzarri indizi e di mezze
prove che avevano raccolto si deduceva che quasi certamente Ian Druitt era
stato ucciso. Era sufficiente per assicurare a Clive Druitt che il figlio non si
era suicidato, ma non per giustificare un arresto o un processo e, meno che
mai, la condanna che Druitt senior e la giustizia esigevano. Se avessero
sottoposto ciò che avevano al Crown Prosecution Service, Lynley e Barbara
sarebbero stati accolti con il massimo scetticismo e sia la West Mercia Police
sia la Metropolitan Police avrebbero fatto una pessima figura. La prima
perché aveva permesso che succedesse una cosa simile, la seconda perché si
era precipitata nello Shropshire a calmare le acque smosse da un ricco signore
il quale aveva tutte le ragioni – a questo punto Lynley ne era sicuro – di
mobilitare i propri legali o di far scoppiare uno scandalo mediatico nazionale
da cui sarebbero usciti tutti umiliati. Già gli pareva di sentire la prima
domanda che gli avrebbero rivolto i procuratori del Crown Prosecution
Service se avesse presentato loro i materiali che avevano raccolto fino a quel
momento: «E una stola rossa per terra che cosa dimostra esattamente?» E poi:
«Per quel che ne sa, ispettore, Ian Druitt poteva essere daltonico. Torni
quando l’avrà verificato e quando sarà in grado di dirci perché qualcuno
avrebbe dovuto volerlo uccidere».
Lynley e Barbara potevano soltanto riesaminare i vari elementi, erano soli
e avevano poco tempo a disposizione: bisognava trovare una soluzione
illuminante. Lynley scese per la prima colazione stilando mentalmente un
elenco di possibili opzioni. Barbara lo aspettava alla reception con una faccia
da cui si capiva chiaramente che mangiare era l’ultimo dei suoi pensieri.
«Andiamo ad arrestarlo, ispettore?»
«Sarebbe prematuro» replicò Lynley e vide subito che quella risposta non
era stata affatto gradita.
«Ma mi faccia il piacere! Cosa vuole di più? Un pugnale insanguinato con
le sue impronte?»
«Non sarebbe male» rispose Lynley. «Prima dobbiamo parlare con il
vicario.»
«E per quale motivo, di grazia?»
«Per chiedergli di lasciarci entrare in sacrestia.»
«E cosa ci torniamo a fare?»
«Dobbiamo assicurarci che quel che pensiamo sia effettivamente possibile.
Al momento, abbiamo solo supposizioni.»
Presero accordi per un secondo sopralluogo in sacrestia con una semplice
telefonata. Il vicario disse che li avrebbe aspettati volentieri in chiesa all’ora
che preferivano e, dopo aver fatto colazione, Lynley e Barbara si
incamminarono lungo la leggera salita di Dinham Street diretti verso Castle
Square e St. Laurence.
Come promesso, Christopher Spencer li aspettava in chiesa, pronto a
collaborare. Quando Lynley gli chiese se poteva lasciarli soli in sacrestia,
rimase lievemente sorpreso, ma dopo averci pensato un attimo acconsentì, li
accompagnò e disse che li avrebbe aspettati nella St. John’s Chapel.
Prima che si allontanasse, Lynley gli chiese se Ian Druitt fosse daltonico.
Spencer rispose che non gli risultava: il diacono non si era mai messo i
paramenti sbagliati e questo voleva dire che distingueva i colori, no?
Il vicario era al corrente del fatto che per impiccarsi Druitt pareva aver
usato una stola rossa? chiese ancora Lynley.
Il vicario rispose di no e precisò di non essersi accorto che mancava la
stola rossa perché non ne aveva ancora avuto bisogno: fino a Pentecoste la
liturgia non prevedeva l’uso di quel colore. Dopodiché uscì dalla sacrestia.
«Sappiamo che Druitt aveva appena finito di celebrare una funzione
quando Ruddock è venuto a prelevarlo» disse Lynley sottovoce a Barbara.
«Sappiamo anche che, prima di andare, si è tolto i paramenti e li ha messi
via.»
«Per la preghiera della sera un diacono si mette in pompa magna?» chiese
Barbara. «O anche un vicario, ora che ci penso?»
«Non mi sembra il caso di concentrarci su questo punto, al momento»
replicò Lynley. «Dobbiamo solo tenere presente che, nella vestizione, la stola
è l’ultima cosa che si indossa.» Andò verso i grandi armadi della sacrestia e li
aprì: vi erano appese tonache nere e cotte bianche.
Barbara, come previsto, capì al volo. «Se è l’ultima che si indossa, è la
prima che si toglie» disse. «Quando uno apre gli armadi dove stanno i vestiti,
dà le spalle a questi cassetti qui, dove sono riposte le stole. Druitt si è tolto la
stola viola, giusto? Perché Ruddock o chi per lui non ha preso quella? O
un’altra stola dello stesso colore?» Aprì i cassetti per vedere quante stole
c’erano. «Viola ce n’era una soltanto. Ce n’è una per ogni colore. Perché,
mentre Druitt era girato di spalle, Ruddock non ha preso quella che si era
appena tolto?»
«Forse Druitt non se l’è tolta vicino ai cassetti dove si trovano le altre
stole, ma qui, davanti all’armadio. Se l’è levata, l’ha posata nell’armadio per
appendere la cotta, poi si è sfilato la tonaca, ha appeso anche quella e alla fine
si è voltato per andare a mettere la stola al suo posto nel cassetto.»
«E nel frattempo Ruddock ha avuto il tempo di aprire il cassetto...»
«O anche più di uno.»
«... e arraffare la prima stola che gli è capitata sotto mano. Ma come mai
non ha notato la differenza?»
«Se uno non va in chiesa, non si rende conto che c’è differenza. A parte il
fatto che non sapeva ancora in che modo eliminare Druitt. Sapeva solo che
doveva eliminarlo.»
«Ma questo vorrebbe dire...» Barbara pareva riluttante a trarre le
conclusioni ad alta voce, e quell’insolita ritrosia era indice di quanto le
dispiacesse scoprire che c’era del marcio anche in polizia.
«Sì. Druitt non è stato fermato per pedofilia. Non era alla stazione di
polizia in attesa di essere trasferito a Shrewsbury. Lo si capisce da quei
diciannove giorni, Barbara, come giustamente ha intuito lei nel momento in
cui ha notato la data della telefonata che ha messo in moto tutta questa
faccenda.»
«Ruddock ha preso ordini da qualcuno fin dal principio. Se è lui il nostro
uomo, non è il solo.» «Caspita, ispettore» esclamò Barbara dopo aver
riflettuto un attimo.
«Eh, già» replicò Lynley.
Si voltò verso Barbara per decidere insieme la mossa successiva e proprio
in quel momento il cellulare del sergente squillò.
St. Julians’ Well
Ludlow
Shropshire
Conclusa la telefonata, Rabiah ripose il biglietto da visita del sergente Havers
nello stesso posto in cui l’aveva messo dopo il primo incontro con la
Metropolitan Police e tornò in salotto. Missa era rannicchiata in un angolo del
divano e stringeva fra le braccia un cuscino come fanno i bambini piccoli con
la loro coperta preferita. A Ironbridge aveva messo bene in chiaro che era
disposta a raccontare di nuovo tutto quanto, ma non in presenza dei genitori.
Ormai la polizia non poteva fare più niente, era passato troppo tempo, aveva
dichiarato. Rabiah aveva appoggiato la sua decisione di tornare a Ludlow
senza Yasmina. Timothy, infatti, nel frattempo si era dileguato.
Se ascoltarla raccontare quella storia in casa Goodayle era stato straziante,
la seconda volta era stato ancora peggio per via della reazione di Timothy.
Quando aveva capito che la violenza non era avvenuta a casa della nonna, si
era infuriato ancora di più e aveva cominciato a tempestare di domande
Missa.
«Chi è stato?» le chiedeva a voce alta, granitico, incurante delle sue
lacrime. «Chi? Pensaci! Non puoi non saperlo!»
«Smettila!» era intervenuta Yasmina, dopo essersi alzata in piedi per
cercare di allontanarlo dalla figlia.
«Non lo so! Era buio e non riuscivo...» aveva risposto Missa, piangendo.
«Allora dimmi chi ti ha offerto il sidro e perché diavolo ne hai bevuto così
tanto.»
«Non trattarla come se fosse colpa sua» gli aveva ordinato Rabiah.
«Eravamo usciti per festeggiare.» Missa aveva cercato di prendere fiato tra
un singhiozzo e l’altro. «Le vacanze di Natale. La fine degli esami.
Eravamo... Non dite niente a Justin. Per piacere, non ditelo a Justin.»
«Maledizione, dimmi...»
Rabiah era intervenuta, perché era chiaro che la nipote non ne poteva più.
«Era venuta a prenderla Ding. Erano d’accordo di uscire insieme e io l’avevo
incoraggiata a divertirsi, per una volta. Sono andata a dormire perché sapevo
che sarebbe rientrata tardi. Avevo già pagato al tassista anche il ritorno da
Quality Square e quindi pensavo che fosse tutto a posto» aveva spiegato.
«Ero troppo ubriaca» aveva detto Missa continuando a piangere.
«Perciò si è fermata da Ding, ed è là che è successo.»
«Papà, non potevo tornare a casa dalla nonna. Non potevo presentarmi da
lei in quello stato.»
«È crollata sul divano di Ding e qualcuno in quella casa l’ha sodomizzata
sperando che lei continuasse a dormire...»
«Oh, Missa!» aveva esclamato Yasmina.
«... e si accorgesse di essere stata violentata solo la mattina dopo, vedendo
il sangue, sentendo il dolore...»
«Perché non ci hai detto niente?» aveva piagnucolato Yasmina.
«Uno dei ragazzi che vivono in quella casa ti ha dato da bere sidro e tu
devi dirmi quale, perché voglio fargliela pagare. Chi è stato?» aveva detto
Timothy.
«Non avrei mai insistito perché tornassi a Ludlow, se l’avessi saputo.»
Questo l’aveva detto Yasmina tendendo le mani verso Missa, come per farsi
ammanettare. «Perché non mi hai mai detto niente?»
«È stata colpa mia.» Missa aveva alzato la voce. «Non lo capite? Il sidro
mi piaceva e ne ho bevuto troppo. Nessuno mi ha costretto a bere. Nessuno
mi ha drogata. Sono stata io e adesso voglio dimenticare tutto. Ho cercato di
dimenticare tutto fin dal primo momento e quindi non vi dirò altro, perché è
colpa mia e ho avuto quel che mi meritavo per essere stata così stupida ed
essermi ubriacata al punto da non poter tornare a casa.»
«No!» Yasmina le si era avvicinata, come Timothy poco prima, e Missa si
era tirata indietro. «Così punisci te stessa.»
«No!» aveva urlato Missa. «No! No!»
«Missa, amore mio, devi capire che...»
«Smettila!» aveva gridato la ragazza tappandosi le orecchie. «La nonna mi
ha portato qui per dirvelo e io ve l’ho detto e adesso non ne voglio più
parlare!»
«Cristo! Cristo!» aveva urlato Timothy uscendo di casa di corsa.
Adesso, a Ludlow, Rabiah e Missa aspettavano la polizia. «Veniamo
subito, il più in fretta possibile» aveva detto il sergente Havers al telefono.
Si presentarono venti minuti dopo. Rabiah non avrebbe mai immaginato di
poter essere contenta di rivedere i due ispettori, eppure lo era. Andò ad aprire
e li fece accomodare nel salotto, dove era rimasta Missa. Il sergente Havers
estrasse dalla borsa un bloc-notes e un portamine e si piazzò su una sedia
accanto al caminetto. L’ispettore Lynley si sedette sull’ottomana che fungeva
anche da tavolino. «Ah, Missa. Finalmente ci conosciamo. Abbiamo sentito
parlare di lei da Greta Yates e dalla sua amica Ding, e sappiamo che ha
iniziato l’anno accademico con risultati brillanti» disse con un bel sorriso.
Rabiah notò che Missa strinse più forte il cuscino. Forse se ne accorse
anche l’ispettore, perché disse: «Se la sente di parlare con noi? Possiamo
aspettare, se preferisce».
Rabiah vide che il sergente gli lanciava un’occhiataccia del tipo È
impazzito?
Lynley continuò: «Glielo chiedo perché a volte le persone, soprattutto se
molto giovani, hanno paura di parlare con la polizia. So che sua nonna ha un
avvocato di fiducia. Preferirebbe che ci fosse anche lui?»
Questa seconda proposta valse all’ispettore un’altra occhiataccia del
sergente, che questa volta parve chiedere: Le ha dato completamente di volta
il cervello?
«No! Nonna, io non...» rispose Missa.
«No, no, tranquilla» le disse Rabiah. «Sei libera di decidere, cara. È il mio
avvocato di fiducia, ma non devi per forza chiamarlo. Posso restare io con te,
se vuoi, oppure posso lasciarti sola con i signori della polizia.»
Missa preferiva che restasse e Rabiah le si sedette accanto sul divano,
come a Ironbridge, mentre raccontava tutto da capo. Il sergente Havers
prendeva appunti a una velocità tale da far pensare che stesse scrivendo tutto
parola per parola. Lynley si limitò ad ascoltare con la faccia seria.
Quando la ragazza ebbe finito, Lynley rimase in silenzio per un po’.
Sembrava riflettere sui vari aspetti della storia che aveva appena sentito. «Mi
dispiace moltissimo» le disse, e dopo un altro breve silenzio aggiunse:
«Immagino fosse di questo che parlava con Ian Druitt, dico bene?»
Missa scosse la testa e cominciò a giocherellare con la frangia del cuscino
che aveva fra le braccia. «Mi aveva telefonato lui, per via del mio tutor.»
Proseguì spiegando la catena di telefonate al termine della quale il diacono
l’aveva contattata. «Mi ha chiesto se volevo andare da lui per un colloquio,
visto che al college erano preoccupati per me. Io non volevo parlargli, ma ci
sono andata lo stesso perché...» Distolse lo sguardo e aggrottò la fronte come
per cercare di capire quale meccanismo della psiche l’avesse indotta ad
andare da Ian Druitt.
Rabiah le suggerì la risposta. «Perché fai fatica a dire di no.»
Missa emise un piccolo gemito e annuì. «Gli ho detto che volevo ritirarmi
dal college, gli ho raccontato che certe materie erano troppo difficili, ma lui
ha capito che c’era sotto qualcosa perché all’inizio dell’anno non avevo avuto
difficoltà. Mi ha fatto un sacco di domande, ha insistito. Era molto gentile.»
«Così lei gli ha confidato quel che ha appena raccontato a noi?» chiese
Lynley.
«Non tutto. Mi vergognavo troppo.»
«Non ha specificato le modalità dello stupro?»
«No. Quello non potevo raccontarglielo. È troppo orribile. E comunque
ormai non c’era più niente da fare, era tardi, erano passati mesi. L’unica cosa
che voglio è che Justin non lo venga mai a sapere.»
Lynley annuì. «Lo capisco, ma può spiegarmi perché dice che era ’troppo
tardi’?»
«Non c’erano prove.»
Rabiah vide che il sergente alzava di scatto la testa e guardava Lynley. «In
questi casi, ci sono sempre delle prove. Quando lei ha parlato con il diacono
sicuramente sul corpo non c’erano più tracce, le ferite erano guarite e il DNA
dello stupratore non c’era più, ma altri tipi di prove... Cos’ha fatto dei vestiti
che indossava quella sera?» disse Lynley.
«Appunto» rispose Missa. «Li avevo io.»
Con estrema prontezza il sergente Havers prese la parola. «Li ha ancora?»
«Li avevo infilati in un sacchetto» rispose Missa. «Le mutande e i collant.
Li avevo ficcati in fondo a un cassetto perché... non volevo dimenticare cosa
mi era successo quella sera per colpa della mia stupidità.»
«Lei non è stata e non è stupida» le disse Lynley, mentre il sergente
incalzava con le domande: «Sono qui? In questa casa? Li ha portati a
Ironbridge?»
Lynley zittì Barbara con un’occhiata e continuò, rivolto a Missa. «Ha
semplicemente commesso un errore, come milioni di ragazzi della sua età. E
ha subito conseguenze terribili...»
«Perché io...»
«Non c’è nessun perché. È qui che sbaglia. Lei vede un rapporto di causaeffetto
tra i due episodi: era ubriaca e quindi è stata violentata. In realtà è
soltanto una successione cronologica: le due cose non sono correlate.»
«Se non fossi stata ubriaca, non...»
«Non può saperlo.»
Nel silenzio che seguì, il sergente disse «Ispettore...» con un’urgenza che il
collega non pareva provare. Rabiah si sentì invadere dalla gratitudine per la
compassione che quell’uomo, con la sua calma, stava dimostrando alla
nipote. «Se lo dice lei...» replicò Missa.
«Lavoro in polizia da molti anni e posso assicurarle che è così» spiegò
Lynley. Guardò Rabiah, che approvò con la testa e senza emettere suono
sillabò: «Grazie».
«Mi parli degli indumenti. Ha nascosto la biancheria in fondo a un
cassetto, e poi?» continuò Lynley.
«È per questo che dico che è troppo tardi. L’ho data al signor Druitt.
Voleva consegnarla alla polizia per farla esaminare, così io non avrei più
avuto bisogno di parlarne con nessuno.»
«E cosa è emerso dai test?»
«Gli hanno detto che non risultava niente, che non c’erano tracce di... ha
capito?»
Rabiah vide che il sergente stava per intervenire ma si tratteneva, mentre
Lynley abbassava la testa riflettendo sulla risposta di Missa. «E gli altri
vestiti che aveva indosso quella sera, Missa? Di quelli cosa hanno detto?»
domandò poi l’ispettore.
La ragazza scosse la testa. «Io al diacono ho dato solo la biancheria. I
vestiti che avevo indosso quella sera non erano miei.»
Per Rabiah fu un’illuminazione. «È vero» mormorò. «I vestiti non erano
tuoi.»
Ludlow
Shropshire
Per andare da Francie Adamucci, Ding prese la bici perché Francie abitava a
Ludford poco dopo il vecchio ricovero dei senzatetto, non lontano dal ponte.
Era abbastanza presto e la trovò ancora a casa, come prevedibile. Anche
Francie stava per montare in sella alla sua bicicletta ma, quando vide Ding
imboccare il vialetto a semicerchio davanti al portone, si fermò, la guardò con
circospezione – sorprendente, tenuto conto che di solito prendeva tutto alla
leggera – e disse: «Ciao».
«Posso parlarti?» esordì Ding. «Mi hai messo in un bel casino con la
polizia, Francie.»
Francie si guardò alle spalle come se temesse che ci fosse qualcuno
affacciato alla finestra a origliare. Ma dietro di lei c’era solo un profondo
davanzale su cui erano in mostra alcuni oggetti di artigianato africano:
statuine, due cesti malridotti e una maschera veramente orribile. Ding
immaginò che fosse un modo per tenere lontani i ladri. Se i gusti dei padroni
di casa erano quelli, chi si sarebbe preso la briga di entrare a rubare?
«Lo so» disse Francie. «Scusami, Ding. Mi è sfuggito, non volevo. È stato
per via di quella brutta storia di Ruddock. Oddio, sembra il titolo di una
canzone, o di un libro: ’La brutta storia di Ruddock’.»
Tipico di Francie, pensò Ding: dopo dieci secondi, riusciva a dirottare
altrove qualsiasi conversazione. Non lo faceva apposta, era semplicemente il
modo di ragionare del suo cervello bislacco.
«Va be’. Possiamo parlare?» ripartì alla carica Ding.
Francie si strinse nelle spalle. «Ma sì, in fondo è solo geografia. Chi se ne
frega? Il mondo salterà in aria comunque perché qualche idiota sparerà un
missile nucleare contro qualche altro idiota. Non so cosa ci vado a fare, a
lezione. Vieni.»
Ding non pensava di entrare, ma Francie si diresse verso il portone. «Tua
madre e tuo padre...?» le chiese.
Francie rise. «Non penserai che siano qui il 23 maggio! Da qualche parte
c’è senz’altro un importantissimo evento etno-culturale cui non potevano
mancare.» Infilò la chiave nella serratura e aprì.
Ding lasciò la bici appoggiata a una delle colonne davanti alla casa. Non
era mai stata da Francie e non sapeva che abitasse in un palazzo che con ogni
probabilità era pure monumento nazionale. Seguì Francie in un atrio dal
soffitto altissimo. «Cos’era in passato questo posto?» le domandò.
Francie si guardò intorno come se lo vedesse per la prima volta. «Non ne
ho idea. È senza riscaldamento, senza doppi vetri, con le crepe nei muri e i
camini che non tirano. Non vedo l’ora di andare a stare in una casa qualsiasi,
purché sia stata costruita dopo il 1900. Appena posso, levo le tende.»
«Non lo sapevo.»
«Cosa?»
«Casa mia. Cioè, dove abito io... mia madre. Ci sei stata. Perché non hai
detto niente?»
«Almeno tua madre si sbatte per fare qualcosa. Qui invece crollerà tutto
prima che i miei si guardino intorno e lo rendano almeno vivibile. Vuoi
qualcosa?» Entrarono nella cucina, dove tutto risaliva come minimo al
dopoguerra. «Posso offrirti pane tostato e Marmite.»
Ding non aveva appetito. Al centro della stanza c’erano un tavolo
malridotto e alcuni sgabelli. Ne prese uno e si accomodò. Francie con un
salto si sedette sul bancone, trovò una banana nascosta in un mucchio di
carote e cipolle sul davanzale e gliela offrì. Ding scosse la testa e Francie la
sbucciò per sé.
«La polizia dice che qualcuno ti ha visto con Ruddock, come me»
cominciò Ding. «Perché non me l’hai mai detto?»
Francie masticò la banana e si grattò la testa. «È successo una volta sola –
che ci abbia provato, voglio dire – quindi non ci ho dato peso. E comunque
l’ho rimesso al suo posto. Non è andata come con te.»
«In che senso?»
«A me, non mi poteva ricattare.» Francie indicò con un gesto vago la
cucina, ma a Ding parve si riferisse a tutta la casa. «Pensi che mia madre e
mio padre facciano una piega se scoprono che mi sono presa una sbronza?
Impossibile. L’unica cosa che gli interessa sono le loro esperienze etnoculturali.
Quindi lui non poteva dirmi che, se non stavo al suo gioco, mi
riportava a casa a forza. A casa io ci sono già. Te lo giuro, Ding, non capisco
cosa si illudeva di ottenere da me» disse.
«Per questo ci ha provato quella sera lì e poi basta? Ti ha fatto salire in
macchina una sola volta?»
«Be’... veramente due, ma la seconda gli avevo dato appuntamento io. Sai,
la prima sera gli ho detto che, se avessi avuto voglia di prenderglielo in bocca
lo avrei fatto senza problemi, ma siccome non ne avevo voglia – ora proprio
non me la sento, agente – poteva pure riaccompagnarmi a casa.»
«E lui?»
«Mi ha riaccompagnato a casa. Non so cosa si aspettasse, ma i miei gli
hanno risposto qualcosa tipo: ’Non si azzardi a disturbarci mai più a
quest’ora, agente’. E quando se n’è andato mi hanno detto: ’Francie, per amor
del cielo, non bere troppo, che ti fa male’, e la cosa è finita lì. In certi casi fa
comodo avere dei genitori che se ne fregano altamente. Comunque, io ho
smesso di aspettarmi qualcosa da loro a dieci anni, dopo che si sono
dimenticati il mio compleanno.»
Francie rise amaramente. «Mi dispiace, Francie. Non lo sapevo» le disse
Ding.
«Tanto non mi importa niente di loro.» Francie scese con un salto dal
bancone, lanciò la buccia di banana nel lavandino e si stiracchiò.
«Comunque, la prima volta che Ruddock ha provato a ricattarmi e gli è
andata buca, gli ho detto che se mi dava il numero di cellulare gli facevo un
fischio, caso mai me ne fosse venuta voglia. E dentro di me ho pensato
’scordatelo’. Poi però, una sera che ero completamente brilla, ho detto
vediamo un po’ com’è farsi un poliziotto e gli ho telefonato. Magari mi
hanno visto con lui quella volta lì.»
«Dove siete andati? Cioè, dove ti ha portato?»
«Nel parcheggio dietro il college. E a te?»
«Alla stazione di polizia.»
«Dentro?!»
«Di solito nel parcheggio, ma dipendeva da quello che voleva fare.»
«Che porco. Dovresti denunciarlo.»
«L’ho detto a quelli di Scotland Yard. Praticamente sono stata costretta a
dirglielo.»
«Lo sistemeranno loro, Ding.» Francie girava per la cucina come se non
potesse rilassarsi nemmeno per un istante, ma a quel punto si fermò.
«Scusami tanto» disse.
«Non lo sapevi. Non sapevi quanto era grave, voglio dire.»
«Ah. Veramente intendevo per Brutus. Ti ho già chiesto scusa, ma adesso
mi dispiace ancora di più.»
«Ah.» Ding non era sicura di voler parlare di Brutus, soprattutto da quando
aveva capito che le cose erano andate diversamente da come pensava, ma
Francie pareva così mortificata che decise di chiudere anche quell’argomento.
«Non devi scusarti. Non ti avevo mica detto che era così importante per me.»
«Sì, ma... Insomma, che tu eri importante per lui lo vedevo e ci sono stata
lo stesso.»
«Credimi, Francie, a Brutus non importa niente di me.»
«Allora non lo conosci. Gli importa eccome. Deve ancora capire un sacco
di cose, per esempio per quale motivo deve farsi tutte quelle che incontra.
Forse non lo capirà mai, perché è difficile che i maschi si pongano queste
domande, eh? Ma tu sei speciale per lui, sei la più importante di tutte.»
«Dovrei accontentarmi di essere la prediletta del suo harem?»
«Oh, mica dicevo che devi restarci insieme. Volevo dire che un conto è
come si comporta e un conto è quello che pensa di te. Poi, se vuoi proprio
sapere cosa farei io nei tuoi panni, lo prenderei a calci in culo. È un bel
ragazzo, ma perché sprecarci del tempo?»
«Hai ragione.» Ding si accorse che a Francie veniva da sorridere, cosa che
mai avrebbe immaginato quella mattina quando aveva deciso di attraversare il
fiume per andare a parlarle. Adesso la capiva meglio di quanto si sarebbe mai
aspettata e questo le fece venire in mente che forse le sarebbe convenuto
guardare meglio chi aveva davanti, anziché cercare informazioni su Google
come aveva sempre fatto.
Dopo quella conversazione, rappacificate, Ding e Francie presero la bici e
attraversarono insieme il Ludford Bridge. Si salutarono in fondo a Broad
Street dandosi appuntamento due giorni dopo per andare a mangiare al
cinese, poi Ding ripartì verso il Temeside e Francie cambiò rapporto per
affrontare la salita.
Arrivata davanti a casa, Ding rimase perplessa nel vedere che la porta era
aperta. Era sicura di averla chiusa, quando era uscita, anche se non a chiave
perché erano mesi che avevano perso le chiavi e comunque in casa non c’era
nulla da rubare, a parte i computer. Ma lei aveva il suo nello zaino e i ragazzi,
se erano usciti, sicuramente si erano portati dietro il loro. Che avessero
lasciato la porta spalancata, però, le pareva un po’ eccessivo. Pazienza essere
sbadati, ma quello era un vero e proprio invito ai malintenzionati.
Entrò in casa e, di nuovo, esitò perché dopo aver chiuso la porta sentì dei
colpi al piano di sopra, poi uno schianto, un grido, gemiti e urla. Poi altri
colpi e una voce alterata che gridava: «Come hai osato metterle le mani
addosso?»
Brutus, pensò Ding, e salì le scale di corsa. Doveva essere stato colto in
flagrante dal fidanzato dell’ennesima ragazza.
Ding lo trovò sulla soglia della camera: per terra, sdraiato a pancia in giù,
con un braccio piegato in una posizione terribile rispetto al resto del corpo. Si
inginocchiò e lo chiamò. Brutus non rispose, ma appena lo toccò emise un
grido da animale ferito. «È stato Finn? Avete litigato?» gli disse.
Poi si rese conto che il rumore di colpi non era cessato. «È andato da Finn»
mormorò Brutus. Ding corse verso la camera. «Chi? Cosa succede? Finn!»
gridò.
La porta era socchiusa e all’improvviso era sceso il silenzio. Ding non
trovava il coraggio di guardare dentro. Quando finalmente si decise, dalla
camera uscì di corsa un uomo. Ding pensò a un tossico entrato in casa per
rubare e indietreggiò riparandosi la testa con le mani. Ma anziché aggredirla
l’uomo si precipitò giù per le scale.
Fu allora che Ding vide Finn. Era ridotto ancora peggio di Brutus: aveva
una ferita alla testa che sanguinava orribilmente e la faccia piena di tagli,
come se qualcuno avesse cercato di strappargli una guancia. Non si capiva se
fosse vivo o morto.
Anche Ding imboccò le scale di corsa, ma non perché sapesse dove andare.
Al contrario, non sapeva proprio cosa fare.
Ludlow
Shropshire
Lynley si preoccupò, quando scoprì che Missa aveva confidato ai genitori ciò
che le era successo soltanto quella mattina, e si preoccupò ancora di più
quando apprese che il padre alla fine del racconto era uscito di casa furibondo
e non aveva più dato notizie di sé. Quando poi arrivò con Barbara Havers sul
Temeside e vide un’ambulanza e un’auto della polizia davanti alla casa dove
abitava Dena Donaldson, temette di essere arrivato troppo tardi, che fosse
successo il peggio e che alle tragedie già avvenute se ne fosse aggiunta una
nuova.
Accostando al marciapiede, vide il ragazzo che chiamavano Brutus uscire
dal portone scortato da un agente, con il braccio destro legato sul petto con
una fasciatura temporanea. Avrebbe potuto pensare che l’agente lo stesse
arrestando, se non avesse notato che si fermava ad aspettare un paramedico,
saliva in macchina e accendeva le luci di emergenza. Il paramedico aiutò
Brutus a sistemarsi sul sedile, gli disse qualcosa, gli allacciò la cintura e tornò
in casa di corsa. L’auto partì a sirene spiegate e girò in Old Street: dal
momento che non era quella la strada per la stazione di polizia di Ludlow,
Lynley immaginò che l’agente stesse portando Brutus al più vicino pronto
soccorso.
L’ambulanza rimase dov’era. «La vedo brutta, ispettore» disse Barbara
Harvers.
«Anch’io, sergente» rispose Lynley.
Entrarono nella casa e vennero subito fermati da un altro agente di guardia
sulla porta del salotto, con un blocco con la spirale in mano. «Altolà. Dove
credete di andare? Siete sulla scena di un crimine» sbraitò.
Lynley e Barbara Havers mostrarono entrambi il tesserino. Le parole «New
Scotland Yard» non sortirono alcun effetto miracoloso, ma li salvarono dal
rischio di essere cacciati via in malo modo. «Abbiamo già chiesto rinforzi. Se
pensavate di offrire assistenza, non occorre» disse l’agente.
«Non sappiamo cosa sia successo e non vogliamo interferire» ribatté
Lynley. «Ma dobbiamo parlare al più presto con Dena Donaldson. È qui?»
«Finn! Se l’è presa con Finn!» Lynley vide che Ding era nel salotto, dove
evidentemente l’agente stava raccogliendo la sua deposizione. La ragazza
andò loro incontro torcendosi le mani.
«Ha visto chi è stato?» le domandò Lynley.
«Ehi, voi due, non vi ho appena...»
Ding interruppe l’agente. «Io parlo solo con loro» disse.
«Lei parla con chi le diciamo di parlare» ribatté secco l’agente.
«Mi sembra un approccio poco costruttivo» osservò Lynley.
«A voler usare un eufemismo» borbottò Barbara.
«Voi due, volete che vi butti fuori...?»
«Oddio! Non è morto, vero?» Ding guardò oltre le loro spalle e si coprì la
bocca con una mano.
Lynley e Barbara si voltarono e videro due soccorritori che scendevano le
scale trasportando una barella con le ruote ripiegate. Una sacca da flebo
dondolava appesa sopra il ferito. Un terzo operatore li seguiva con un
borsone in spalla. Il fatto che il ragazzo avesse la flebo e fosse avvolto in una
coperta e non in un sacco mortuario era rassicurante. Aveva un collare
cervicale e la testa fasciata, più cinque o sei cerotti a farfalla sul volto ferito.
Lynley si rivolse sottovoce a Barbara. «Segua l’ambulanza. Immagino
prenderà la stessa strada dell’autopattuglia. Cerchi di interrogare il ragazzo.
Non Finn, l’altro. Dubito che Finn sia in grado di parlare per un po’.»
Barbara annuì e prese le chiavi. Quando se ne fu andata, Lynley parlò con
Ding. «Tranquilla, è vivo. E Brutus è andato con l’altro agente sull’auto di
servizio.»
«Brutus non ha fatto niente! È entrato un uomo! L’ho visto!»
«No, no» si affrettò a rassicurarla Lynley. «Non volevo dire che è stato
arrestato. Immagino lo stesse portando all’ospedale perché sull’ambulanza
non c’è abbastanza posto. Avranno bisogno di spazio per assistere Finn.»
«Non chiedetemi di dirlo a sua madre!» implorò Ding. «Vi prego, non
voglio dirglielo io!»
«Non si preoccupi. C’è una procedura apposita. Non tocca a lei avvertire i
genitori.»
«Quando avete finito...» intervenne l’agente, spazientito.
Lynley, tuttavia, non aveva nessuna intenzione di andarsene. «Come le ho
già accennato, ho assolutamente bisogno di parlare con Dena. È urgente. Si
tratta di un’altra faccenda, ma ritengo probabile che sia legata a ciò che è
successo qui» ribatté. «Il sergente Havers e io abbiamo appena parlato con
Missa. Ci ha raccontato dell’aggressione» disse rivolto a Ding.
«Qualcuno è già al corrente di quello che è successo qui?» saltò su
l’agente. «Esigo spiegazioni!»
«Sto parlando di una violenza carnale avvenuta in questa casa nel dicembre
scorso» gli spiegò Lynley. E poi tornò a parlare con Ding. «Pare che si sia
confidata con la nonna, che è riuscita a convincerla a raccontarlo anche ai
genitori. Ho una domanda da farle, Ding. Ha visto cosa è successo qui oggi?»
«Non ero in casa. Brutus... L’ho trovato per terra e dalla stanza di Finn
venivano dei rumori spaventosi. Sono andata a vedere e...» raccontò la
ragazza piagnucolando e con voce tremante. Le si riempirono gli occhi di
lacrime. «Ero uscita per andare da Francie. Non pensavo che... Cioè, noi non
chiudiamo mai a chiave, anche perché le chiavi le abbiamo perse. Di solito
quando usciamo ognuno chiude a chiave la sua stanza, ma la porta di casa... E
infatti siete entrati anche voi quella mattina. Finn poi ha dato di matto e suo
padre ha promesso che ci pensava lui e noi abbiamo creduto, o almeno io ho
creduto...» Si interruppe, come colpita da un fulmine a ciel sereno. Poi si
mise le mani sulla faccia e sugli occhi e cominciò a gridare: «È colpa mia! È
colpa mia! Solo che non lo sapevo, non avevo capito, io sono scappata, ce
l’ho fatta, e lei invece no, ma non immaginavo e non è colpa mia se non mi è
venuto in mente, anche se invece avrei dovuto...»
«Ma cosa cazzo blatera questa adesso?» sbottò l’agente. «Toglietevi di
mezzo e lasciatemi lavorare, così mi faccio raccontare come sono andate le
cose.»
Lynley si voltò verso di lui, stupito dall’intensità della rabbia che gli
suscitava. Lo guardò bene in faccia e si rese conto di quanto era giovane,
inesperto, totalmente e imperdonabilmente male informato. «Venga con me,
agente» gli disse.
«Chi si crede di essere? Io non prendo ordini da...»
«Le ho detto di venire con me» ripeté Lynley. Lo disse a voce più alta di
quanto intendesse, e con un tono severo. Per la prima volta in vita sua, si
ritrovò ad assomigliare a suo padre, l’ultima persona al mondo che voleva
diventare. Portò l’agente fuori, parlando più piano ma sempre con severità.
«Abbiamo un omicidio, una violenza carnale e ora un’aggressione e un
tentato omicidio» gli spiegò guardandolo negli occhi. «E tutti questi reati
vedono coinvolte, in un modo o nell’altro, le stesse persone. Ora, se lei ha
intenzione di intralciare un’indagine in corso della Metropolitan Police
perché pensa che io sia fuori della mia giurisdizione, faccia pure, ma le
consiglio di pensarci bene. Non c’è il tempo per risolvere un conflitto di
competenza territoriale: sono in gioco delle vite umane. Mi creda, sarò ben
contento di prendere le sue generalità e fare in modo che la sua carriera
finisca nel giro di una settimana. Sono stato chiaro? Ha delle domande? Se sì,
le faccia subito perché, se vuole rientrare in questa casa, d’ora in poi dovrà
tacere.»
L’agente aprì la bocca e subito la richiuse. «Sì? Cosa voleva dire?» chiese
Lynley.
Nulla, a quanto pareva: l’agente tornò nel salotto in silenzio, si mise in
piedi vicino al televisore, non proprio sull’attenti, ma quasi, e lasciò che
Lynley riprendesse la conversazione con Ding.
La ragazza non gli diede il tempo di cominciare. «Non posso dirlo a sua
madre. La prego, non mi faccia raccontare tutto a sua madre» ripeté.
«Sia i genitori di Finn sia quelli di Brutus verranno informati dalla polizia
o dal pronto soccorso. Non è necessario che lo faccia lei.» Lynley indicò il
vecchio divano pieno di macchie e, quando Ding si sedette, le si mise vicino,
anche perché l’unica alternativa erano varie poltrone sacco da cui non voleva
doversi rialzare una volta concluso il colloquio. «Ha visto chi è stato a
picchiare Finn?» chiese.
Ding annuì fra le lacrime. «L’ho visto di schiena. Aveva in mano un
attizzatoio.»
Indicò il trespolo di ferro battuto cui erano appesi gli attrezzi per il
caminetto. L’attizzatoio non c’era: probabilmente l’aggressore l’aveva
portato con sé quando era fuggito. «Aveva già pestato Brutus e se la stava
prendendo con Finn.» A quel punto spalancò gli occhi. «Ma Finn fa karate!
Si vanta sempre che le sue mani sono due armi micidiali. Perché non si è
difeso?» aggiunse, stupita.
«Forse non è poi così bravo» suggerì Lynley. «Oppure non ne ha avuto il
tempo. Magari dormiva ed è stato sorpreso nel sonno. Ha riconosciuto
l’aggressore? Era un uomo? Un ragazzo? Magari un compagno di studi di
Finn?»
Ding guardò lontano, come fanno le persone quando cercano di ricordare
che cosa hanno visto esattamente. «Era un uomo, non un ragazzo. Era più
vecchio di noi» rispose.
«Potrebbe essere il padre di Missa Lomax?»
«Non conosco nessuno della sua famiglia a parte la nonna, perché Missa
sta... stava da sua nonna qui a Ludlow quando frequentava il college. Il padre
non l’ho mai visto.»
«Pensa di essere in grado di riconoscere il colpevole da una fotografia?»
Ding non era sicura. Forse l’uomo l’aveva sentita correre da Brutus, o
forse aveva pensato che Finn fosse morto: fatto sta che si era precipitato giù
per le scale e... Finn era lì, in un lago di sangue, e lei era corsa via e aveva
chiamato il 999 con il cellulare. Aveva troppa paura di restare in casa, perché
magari erano in tanti e lei non era in grado di difendersi. «La prego, non lo
dica a nessuno» aggiunse sottovoce. «Avrei dovuto soccorrerlo, cercare di
aiutarlo, ma avevo troppa paura, e pensavo che fosse entrato un tossico per
rubare, a parte il fatto che qui non c’è niente da rubare.»
«Non credo si trattasse di un tossicodipendente» ribatté Lynley. «Non
cercava né droga, né oggetti da rivendere per comprarsi una dose. Cercava
esattamente quello che ha trovato: Brutus e Finn.» Indicò il poliziotto ancora
in piedi accanto al televisore, che aveva preso appunti. «L’agente andrà
gentilmente a chiedere alla signora Lomax qualche foto da mostrarle. Nel
frattempo, io telefonerò a sua madre.»
Ding lo guardò inorridita. «A mia madre? Perché?»
«Stanno per arrivare i tecnici della Scientifica per il sopralluogo: questa
casa adesso è una scena del crimine. E in ogni caso non potrei lasciarla qui da
sola dopo quello che è successo» rispose Lynley. Tirò fuori il cellulare e le
chiese il numero della madre. Ding tentò di protestare: «Ma mia madre mi
farà...»
«Le spiegherò tutto io. Non si arrabbierà. Stia tranquilla, Ding, nessuno si
arrabbierà con lei» tagliò corto Lynley.
«Non voglio tornare a casa. La prego, non mi faccia tornare a casa.»
«Solo temporaneamente, finché la Scientifica non avrà finito il suo lavoro.
Le assicuro che sua madre capirà.» Digitò il numero e, mentre aspettava, fece
una promessa alla ragazza: «Spiegherò a sua madre che lei è totalmente
estranea ai fatti di oggi». Quando dall’altra parte si udì una voce di donna,
coprì il microfono con la mano e aggiunse: «Ma siccome si tratta di una
bugia – vero, Ding? – quello che io dirò a sua madre quando verrà a
prenderla dipende da quello che lei mi dirà appena avrò chiuso questa
telefonata». Era scorretto contrattare con la ragazza mentre era così
sconvolta, ma per il momento il fair play era stato messo in panchina e ci
sarebbe rimasto finché Lynley non fosse riuscito a far luce su tutto ciò che era
accaduto a Ludlow da dicembre in poi.
Lynley assicurò alla madre di Ding – che non si presentò come Donaldson,
ma come Welsby – che la figlia stava benone, ma che la sua casa di Ludlow
era temporaneamente inagibile ed era necessario che Ding trascorresse un
paio di giorni in famiglia. La signora poteva venirla a prendere al più presto?
No, non poteva passarle la figlia perché al momento era in un’altra stanza.
Ma la signora l’avrebbe trovata lì ad aspettarla.
«Adesso mi parli di quella serata al pub per festeggiare l’inizio delle
vacanze di Natale e mi spieghi che cosa è successo dopo che siete uscite dal
pub» disse a Ding subito dopo aver chiuso la chiamata.
Royal Shrewsbury Hospital
Shelton
Shropshire
Arrivarono al Royal Shrewsbury Hospital in tempo record grazie
all’autopattuglia messa a disposizione da Clover. Aveva dato l’ordine di
portarli all’ospedale a un agente esperto di guida veloce, che aveva percorso
il tragitto come se avesse il diavolo alle calcagna, sirene spiegate e
lampeggianti accesi, e aveva toccato il freno solo davanti all’ingresso del
pronto soccorso. Scesero dall’auto e corsero dentro.
«Mio figlio» disse Trevor all’impiegata all’accettazione e, siccome la
donna non alzò subito la testa, batté sul bancone e chiese: «Dov’è mio
figlio?»
Clover lo raggiunse e Trevor con la coda dell’occhio vide che mostrava il
proprio tesserino all’impiegata. Gli parve superfluo, visto che era in divisa,
ma in realtà spianò loro la strada, soprattutto dopo che Clover ebbe
specificato: «Sono il vicecomandante Freeman. Nostro figlio ha subito un
pestaggio a Ludlow».
L’impiegata prese il telefono. «George, la polizia è ancora lì? Ci sono i
genitori di un ragazzo.» Poi chiese a Clover: «Mi dice il suo nome, per
cortesia?»
Clover era sul punto di ribattere che gliel’aveva già detto, ma si trattenne.
«Clover Freeman. Lui è mio marito Trevor e nostro figlio si chiama
Finnegan» ripeté.
«Freeman» disse la donna al telefono. «Va bene, riferisco.» Poi si rivolse a
Clover. «Sta arrivando qualcuno della polizia per parlare con voi.»
«Perché non possiamo vedere nostro figlio? È grave?»
Trevor comprendeva il timore della moglie. Per comunicare una tragica
notizia ai genitori di un ragazzo ferito di norma si ricorre a un funzionario di
polizia, e questo Clover lo sapeva benissimo.
L’attesa durò all’incirca due minuti, ma il tempo parve rallentare come nei
peggiori incubi. Poi dalle viscere dell’ospedale spuntò l’ultima persona che
Trevor si aspettava di vedere lì: il sergente investigativo di New Scotland
Yard, Barbara Havers. Brandiva un taccuino come se avesse intenzione di
interrogarli e Trevor intuì che, se ci avesse anche solo provato, Clover le
avrebbe mangiato la faccia.
«È vivo» disse Barbara Havers. Trevor provò un moto di sollievo tale che
temette che gli cedessero le ginocchia.
«Che cosa è successo?» domandò Clover. «È grave?»
«Non sono al corrente della prognosi esatta» rispose il sergente, come se si
sforzasse di esprimersi in maniera corretta. «Sembra che gli siano entrati i
ladri in casa, ma il mio capo sta parlando con la ragazza che ha chiamato la
polizia. C’è anche un altro agente sul posto.»
«Gaz Ruddock?» chiese Clover.
Barbara Havers corrugò la fronte, come se trovasse la domanda non solo
sorprendente ma anche rivelatrice. «No, non Ruddock. Quello mandato dal
Pronto Intervento. Ho parlato con il coinquilino di vostro figlio. Lo
conoscete, vero? Dice che lo ha aggredito un uomo con un oggetto
contundente, forse un attizzatoio, oppure un cric. Pare sia entrato dalla porta,
che non era chiusa a chiave» rispose.
«Cristo santo. Perché non la chiudono?» esclamò Trevor.
«Sono ragazzi. Comunque. Vuol dire che non c’è stata effrazione. Il
coinquilino...» Guardò velocemente il bloc-notes. «Bruce Castle. È uscito da
camera sua per andare al gabinetto e si è trovato di fronte l’uomo, che ha
preso lo slancio per colpirlo con l’attrezzo. Lui ha sollevato il braccio per
parare il colpo e quello gliel’ha fratturato. Bruce ha urlato a vostro figlio di
chiamare il 999, ma non c’è stato il tempo, perché l’uomo è entrato in camera
e si è avventato anche contro vostro figlio.» Il sergente Havers alzò la testa e
per un attimo Trevor pensò che avesse concluso il racconto, invece lei li fissò
con intenzione. «Secondo il racconto di Bruce, l’uomo gridava che qualcuno
aveva fatto bere sua figlia, l’aveva fatta ubriacare, e poi l’aveva spogliata,
stuprata e...»
Trevor da lì in poi non sentì altro. Guardò Clover frastornato, mentre
frammenti sporadici e disparati si univano a formare un quadro sconcertante:
ecco cosa gli aveva tenuto nascosto Clover! Doveva averlo scoperto il 26
febbraio, perché le conversazioni telefoniche fra lei e Gaz Ruddock partivano
da quella data.
Riprese ad ascoltare. Clover stava dicendo: «... sua figlia? Quindi non era
un ragazzo. Bruce vi ha fornito una descrizione?»
«Piuttosto accurata, sì. Penso sia in grado di riconoscerlo.»
«Dunque sapete chi è» dichiarò tagliente Clover.
Barbara aspettò un momento prima di rispondere, forse soppesando il tono
di Clover. «Dal momento che ha parlato di una figlia violentata, una volta che
avremo scoperto chi è la figlia, avremo anche l’aggressore.»
Trevor si ricompose. «Sta dicendo che mio figlio... che nostro figlio...»
«Avete già raccolto la deposizione di Finnegan?»
«I medici gli stanno prestando le prime cure.»
«E la ragazza che ha chiamato il 999?»
«Come dicevo, è con l’ispettore Lynley. Anche lei abita con Bruce e vostro
figlio.»
«È stata...?»
«Grazie, sergente.» Clover lo interruppe e Trevor sentì montare la rabbia,
non soltanto perché sua moglie lo aveva zittito in pubblico, ma anche contro
se stesso per essersi fatto mettere tante volte i piedi in testa: era anche per
colpa sua, se si trovavano in quella situazione. «Posso chiederle come mai è
intervenuta lei sul luogo dell’aggressione?» aggiunse Clover.
Altra pausa irritante, durante la quale il sergente batté la matita contro il
bloc-notes. Trevor tornò a rendersi conto del movimento intorno a lui: una
lettiga spinta lungo il corridoio, una donna indiana in camice bianco che si
affacciava alla porta di una sala visite per chiedere una serie di farmaci e di
procedure mediche.
«L’ispettore Lynley e io abbiamo parlato con la ragazza. Dena,
soprannominata Ding. La conoscete?» disse alla fine Barbara Havers.
«A proposito dello stupro?» chiese Trevor.
«Sì, l’abbiamo vista, ma non la conosciamo bene» rispose Clover. «Non è
stata aggredita anche lei, vero?»
«All’inizio non era a casa. È arrivata mentre il pestaggio era in corso.»
«Grazie, sergente.» Poi Clover si voltò verso Trevor. «Andiamo a
scambiare due parole con i medici, tesoro.»
Prese il marito sottobraccio e tornò con lui verso l’accettazione.
«’Scambiare due parole’? Ti sembra il modo di esprimersi?» le disse Trevor.
Clover lo guidò da una parte, vicino al muro, e usò un tono sommesso, ma
rabbioso: «Senti, non voglio entrare nei dettagli in questa sede, e anche tu
dovresti evitare, per adesso. Cerchiamo solo di capire che cosa è successo,
senza addentrarci...»
«Sappiamo già che cosa è successo: in casa di Finnegan è entrato un uomo
convinto che qualcuno gli avesse violentato la figlia. O ti è sfuggito questo
particolare?» Clover si voltò dall’altra parte e a lui venne voglia di
costringerla con la forza a guardarlo in faccia. «È da questo che cercavate di
proteggerlo, vero? Tu e Gaz, sono mesi ormai che tramate. Tu pensi che
Finnegan abbia fatto ubriacare una ragazza per poi violentarla. Tu pensi
veramente che nostro figlio possa...» si limitò a dire.
Clover si voltò di scatto. «Smettila! Per favore, smettila. Hai idea di quanto
siano frequenti queste cose? Te ne stai chiuso nella tua bella palestra e non ti
rendi nemmeno conto di come vanno le cose qua fuori. Io invece lo so.
Succede continuamente. È pieno il mondo di femmine senza cervello che
bevono troppo e di maschi senza cervello che ne approfittano. A volte le
fanno bere, a volte le drogano, versano sonniferi nei drink... Lo capisci?»
«Io capisco che consideri nostro figlio capace di queste cose.»
«Perché queste cose succedono!» Era arrabbiatissima, si vedeva
chiaramente che l’avrebbe preso volentieri a botte. «E sono ’bravi’ ragazzi
che si mettono d’accordo con altri ’bravi’ ragazzi, oppure leggono una storia
del genere su Internet e pensano: perché non ci provo anch’io? E lo fanno,
senza pensare alle conseguenze perché a quell’età alle conseguenze non si
pensa mai. Poi però, se la cosa diventa di pubblico dominio, la loro vita è
rovinata. Io sto parlando di Finnegan, Trevor. Della vita di nostro figlio. Lo
capisci, adesso? Noi, i suoi genitori, non potremo fare nulla proteggerlo, se
dovesse essere accusato di una cosa del genere. Certo, gli troveremo un
avvocato e cercheremo di fargli entrare nella zucca che non deve più dire una
parola se non in sua presenza, sempre che ci dia retta, visto che, qualsiasi
cosa gli diciamo, Finnegan fa l’opposto. Ma più di così non potremo fare. E
qualora ci fossero le prove dello stupro – perché, credimi, non c’è ragazza al
mondo che chiede di farsi sodomizzare e quindi le prove ci saranno –
neanche l’avvocato potrà più fare niente, perché di fronte al DNA non c’è
niente da fare.»
Trevor la stava ascoltando senza sentire, perché per lui tutto si era fermato
dopo la parola «sodomizzare». Clover se ne accorse, evidentemente, perché
disse: «Sì, è andata così. Sei contento, adesso che lo sai?»
«Ma come diavolo...?» Trevor si inumidì le labbra, asciutte come pietra.
«Come fai tu a saperlo, Clover? Te l’ha detto Finn?»
Clover guardò il muro. «Ian Druitt ha consegnato le prove a Gaz» rispose.
«Ian Druitt?»
«Esatto. Capisci adesso?»
Ludlow
Shropshire
Dopo che l’agente fu uscito per andare a farsi dare le fotografie dalla signora
Lomax, Lynley accompagnò Ding al piano di sopra perché raccogliesse le
cose che le servivano per stare via qualche giorno. Di sicuro sua madre era
già partita per venire a prenderla e portarla a Much Wenlock e Ding si
rendeva conto che, se voleva evitare di ritrovarsi confinata in via definitiva a
Cardew Hall, le conveniva mostrarsi collaborativa. Perciò era pronta a
guardare le fotografie della nonna di Missa per indicare alla polizia il signor
Lomax e dire se era effettivamente lui l’uomo che aveva spaccato un braccio
a Brutus e la testa a Finn. Quanto a Cardew Hall, l’aver sviscerato i motivi
per cui detestava mettervi piede non cambiava nulla. La realtà continuava a
essere che da bambina aveva scoperto il cadavere di suo padre nudo, appeso a
una colonnina del letto, e che per anni aveva rimosso quel ricordo
comportandosi come si era comportata. Già era terribile dover stare qualche
giorno con la madre e suo marito finché la situazione a Ludlow non si fosse
sbrogliata, ma se il soggiorno avesse dovuto prolungarsi fino all’università...
no, non ce l’avrebbe fatta.
Mentre salivano le scale, Lynley le raccomandò di stare attenta a non
toccare nulla, perché su ogni superficie potevano esserci prove e tracce
materiali. Le chiese inoltre di controllare se fosse stato spostato o rimosso
qualcosa. Ding gli rispose che le pareva tutto uguale a prima e lui le porse un
paio di guanti di lattice e le concesse di prendere tre cambi di vestiti. Ding
prese una sacca e vi infilò più in fretta che poté tutto ciò di cui le sembrava di
aver bisogno. Per tutto il tempo Lynley rimase ad aspettarla in silenzio e lei si
sentì osservata in ogni minimo gesto. A un certo punto gli lanciò un’occhiata
e dalla sua espressione capì che, benché gentile, non lo si poteva certo
definire un amico.
Preparato il bagaglio, uscirono e si fermarono un attimo davanti alla casa,
in quello che chiamavano il giardinetto, ma che in realtà era solo lo spiazzo
asfaltato dove Brutus e Ding tenevano le biciclette. Le faceva piacere essere
fuori di casa, ma non si aspettava di trovare una piccola folla assembrata sul
marciapiede di fronte.
C’era anche il vicino di casa che, non appena li vide, si staccò dal gruppo
per andare loro incontro. Non era stato teso il nastro giallo – nessuno ne
aveva ancora avuto il tempo o forse i poliziotti non lo avevano con sé – e
quindi non c’erano barriere a trattenerlo. A Ding venne in mente che si
chiamava Keegan.
«Non può passare: siamo sulla scena di un crimine. Per favore, torni
dall’altra parte della strada» gli disse Lynley.
Il signor Keegan disse che aveva informazioni da dare alla polizia. Stava
concimando le rose proprio lì, spiegò indicando il giardinetto adiacente, e
aveva visto un uomo correre verso Old Street. Impugnava un bastone o
qualcosa del genere. Keegan non l’aveva visto benissimo in quanto era a una
certa distanza e lui non aveva gli occhiali, ma senza ombra di dubbio aveva
buttato il bastone o cos’era oltre il muretto, nel fiume. Se fossero andati a
controllare, magari l’avrebbero trovato sulla riva, o nell’acqua. «Sono
appassionato di polizieschi, capisce? Insomma, pensavo che potreste ordinare
un sopralluogo alla Scientifica» aggiunse.
Lynley lo ringraziò educatamente. Aveva fornito un utile contributo,
grazie. Avrebbero mandato qualcuno a perlustrare tutta la zona.
Keegan assunse un’espressione soddisfatta, da bravo cittadino che
collabora con le forze dell’ordine per risolvere un caso.
«Come sta Finn? Se la caverà?» chiese Ding, non appena l’uomo fu tornato
sul marciapiede di fronte, probabilmente ad aspettare sviluppi nelle indagini.
Lynley aspettò che Keegan fosse di nuovo in mezzo al gruppo, prima di
voltarsi verso la ragazza. «La mia collega ha promesso di chiamarmi appena
avrà notizie. Mi parli di quello che è successo prima di Natale. Senza
tralasciare nulla.»
«Ma ha detto che Missa...?»
«Dobbiamo raccogliere le diverse versioni dei fatti, Ding. Il sergente
Havers parlerà con Bruce – Brutus – all’ospedale. E con Finn, non appena
sarà in grado di rispondere.»
«Per capire se diciamo la verità?»
«Per avere la maggior quantità possibile di informazioni.»
Ding raccontò quello che ricordava: gli studenti del college erano andati in
massa allo Hart and Hind. Nevicava, faceva un freddo boia, ma Jack
Korhonen – «il proprietario del pub» – aveva acceso le stufe da esterno per
quelli che volevano uscire a fumare e per chi non trovava posto dentro, visto
che non voleva mandare via i clienti. Loro erano arrivati abbastanza presto
per accaparrarsi un tavolo – «Brutus è andato lì un po’ prima» – e Finn li
aveva raggiunti tre quarti d’ora dopo.
«Come siete andati?»
La nonna di Missa aveva chiamato un taxi per via del tempaccio e perché
non avessero problemi a tornare, nel caso fossero stati un filo... alticci.
Voleva che Missa passasse una bella serata, perché studiava un sacco, era
sempre tutta perfettina ed era l’ora che si divertisse un po’. Cioè, Ding la
pensava così, ma anche la signora Lomax era d’accordo.
«Credo che Missa non avesse mai messo piede in un pub» riferì. «Suo
padre è alcolista, mi sa. Lei non ne parla, ma mi sono fatta quest’idea. E una
volta ha detto che anche lo zio ha lo stesso problema. Missa ha paura di finire
come loro e quindi non beve. Nel senso che non tocca alcol.»
«E cos’aveva di diverso quella sera?»
«Volevamo... Cioè, io e Brutus volevamo che si lasciasse un po’ andare.
Era uno scherzo, non pensavamo di... Anche sua nonna pensava che Missa
dovesse mollare un po’ gli ormeggi. Le ha persino detto qualcosa tipo ’e datti
un po’ alla pazza gioia!’ Perché, vede, Missa non faceva altro che studiare e
naturalmente aveva una media stellare. Forse era anche per via del suo
ragazzo, suppongo.»
«Un compagno di college?»
«No, non studia. Sta a Ironbridge. Missa voleva prendersi una pausa,
mentre era qui a Ludlow, ma lui non la lasciava in pace, le telefonava tutti i
giorni, la riempiva di messaggi... Gliene mandava – non so – sei al giorno?»
«E Missa come la prendeva? Glielo ha mai confidato?»
«No, veramente no. So solo che la nonna non era granché contenta che
stessero insieme. Me lo ha detto Missa, una volta che lui l’ha chiamata.
’Meno male che non ero da mia nonna’, mi ha detto. Avevo l’impressione
che i suoi sperassero che incontrasse qualcuno qui, non so. Pensavano che
non avrebbe mai trovato nessun altro, se non si allontanava un po’ da lui,
capisce?» Ding continuava a stringere fra le mani la sacca con i vestiti. A un
certo punto la posò per terra, ma poi la riprese perché aveva bisogno di tenere
le mani occupate. «Comunque, era per questo che io e Brutus volevamo farla
sperimentare un po’. Volevamo che vedesse che ci si può anche divertire, se
ci si lascia andare. Abbiamo deciso che le avremmo fatto assaggiare il sidro.
Le è piaciuto e ci stavamo divertendo, ma Brutus come al solito ha
esagerato.»
«Ovvero?»
«Ovvero continuava a farla bere. Appena finiva un bicchiere gliene
metteva sotto il naso un altro. Quando Finn ci ha raggiunto, si è messo a bere
anche lui – lui però ha preso Guinness, non sidro – e ci siamo stonati come
biglie. È così che ci ha trovato Gaz Ruddock.» Nel ricordare quella sera, Ding
torceva i manici di stoffa della sacca, pensando a come era andata a finire e
alle responsabilità che lei aveva e che avrebbe preferito non avere. «Penso
fosse venuto a controllare Finn perché appena l’ha visto Finn s’è imbestialito.
Poi però Gaz ha visto me e ha notato in che stato ero e mi ha preso per un
braccio dicendo che mi portava a casa da mia madre, così lo vedeva con i
suoi occhi come mi comportavo a Ludlow.»
«Aveva davvero intenzione di accompagnarla a casa o era il suo solito
ricatto, come ci spiegava ieri?»
«A me è sembrato peggio del solito, perché era la prima volta che tirava in
ballo mia madre. Solo che non poteva portare a casa solo me, perché eravamo
in tanti ed eravamo tutti ubriachi marci, e così ci ha caricati in macchina dal
primo all’ultimo. Siccome sul sedile posteriore tutti non ci stavamo, mi ha
fatto sedere davanti e io ne ho approfittato per scappare, appena arrivati sul
Temeside. Gli altri li ha fatti entrare in casa a calci...»
«Anche Missa?»
«Non credo che volesse farsi vedere da sua nonna in quello stato.
Comunque io non lo sapevo, perché sono scappata di corsa più lontano che
potevo. Non volevo che mi costringesse a... capisce?»
«Dove si è rifugiata?»
«C’era la neve e si scivolava, e io mi sono resa conto che se mi avesse
rincorso mi avrebbe raggiunto senza problemi, perciò mi sono nascosta. Ha
presente il negozio di tappeti che c’è lungo la strada?» Indicò la direzione.
«Mi sono nascosta dietro i cassonetti, ma faceva un freddo cane e aveva
ricominciato a nevicare. Ci sarò rimasta, non so, un quarto d’ora? Venti
minuti? Poi non ce l’ho più fatta, non resistevo: sono uscita fuori, ho sbirciato
da dietro l’angolo, ho visto che l’auto di servizio di Ruddock era scomparsa e
sono tornata a casa.»
«E Missa era là, sul divano in salotto.»
«Non lo sapevo!» replicò Ding. «Non ho nemmeno guardato, pensavo che
avesse telefonato al tipo che ci aveva portato a Quality Square all’andata, si
erano già messi d’accordo, le aveva dato il biglietto da visita. Ero convinta
che fosse tornata a casa sua. Perciò sono salita in camera senza neppure
guardare.»
«L’ha vista la mattina dopo, quindi?» domandò Lynley.
«Neanche» rispose Ding. «Non c’era più. Era... A un certo punto doveva
aver telefonato al tassista, penso, perché la mattina quando sono scesa non
c’era.»
Lynley spostò lo sguardo. Fino a quel momento l’aveva fissata con tanta
intensità che Ding aveva avuto l’impressione che le scrutasse nel cervello per
accertare la verità. Mentre Ding aspettava la domanda successiva, davanti alla
casa si fermò un furgone bianco dal quale scesero tre uomini che aprirono il
portellone, tirarono fuori degli indumenti protettivi e li indossarono. Ding
aveva visto abbastanza telefilm per sapere che erano i tecnici della
Scientifica. L’ispettore le chiese di aspettare un momento, andò a parlare con
loro e tornò subito dopo. Subito dopo due operatori in tuta bianca entrarono
in casa con ingombranti cassette di attrezzi, mentre il terzo svolse un rotolo di
nastro giallo, proprio come alla tv.
Poi, quando tutti quelli della Scientifica furono scomparsi dentro la casa,
Lynley riprese il discorso. «Quando è che Missa le ha raccontato che cos’era
successo?» chiese a Ding.
«Qualche giorno dopo. Vedevo che stava male e quando mi ha confessato
di cosa si trattava lì per lì ho pensato che fosse stato Brutus. Era lui che
l’aveva fatta bere così tanto, capisce? Lo sapeva, che si sarebbe ridotta così
eppure... E poi Brutus è uno che ci prova con tutte.»
«A parte questo, cos’altro l’ha indotta a pensare che fosse stato lui?»
Ding abbassò gli occhi. Lo sguardo dell’ispettore era troppo penetrante.
Era un bell’uomo e aveva due occhi che... Non sapeva neanche lei come
descriverli: castani, persuasivi. Cercavano la verità. Rialzò lo sguardo ed
erano ancora lì che la fissavano. «Quando sono salita in camera, era nel mio
letto» disse.
«Brutus?»
«Dormivamo assieme quasi tutte le notti, in quel periodo, era normale.
Appena sono entrata, si è svegliato e voleva fare sesso come al solito. Io non
ci sono stata e lui si è irritato ma poi ci siamo addormentati. Quando dopo un
po’ mi sono svegliata, però... non c’era più. Così, quando Missa mi ha
raccontato, ho pensato che fosse stato lui, ma poi Brutus mi ha spiegato che
era in bagno, che si era sentito male e si era addormentato abbracciato alla
tazza del water e che dopo un po’ l’aveva svegliato Finn urinandogli addosso.
Finn non ha una gran mira, da questo punto di vista. Dice che Finn si era
sganasciato dalle risate. Io però di questo all’epoca non sapevo niente.
Sapevo solo che Brutus non era nel mio letto.»
«Non l’ha cercato?»
«Non mi è nemmeno venuto in mente. Perché avrei dovuto? Ho messo
insieme i pezzi solo dopo che Missa mi ha raccontato tutta la storia. O,
perlomeno, credevo di aver messo insieme i pezzi. In realtà non avevo
nessuna certezza. Missa non sapeva chi era stato.»
«Missa ci ha riferito di averne parlato con il signor Druitt. Si era accorto
che era turbata e l’aveva convinta a confidarsi. In realtà lei non voleva che lo
sapesse nessuno, si sente in colpa. Come mai a lei invece lo ha raccontato?»
«Oh, be’... anch’io, come il signor Druitt, mi sono accorta che era strana. E
poi si sentiva in colpa per il top che le avevo prestato, perché sapeva che mi
era costato una cifra e che ci tengo, ai miei vestiti.»
«Il top che le aveva prestato?» Lynley aveva l’aria confusa.
Ding gli spiegò che aveva prestato a Missa dei vestiti per la serata e che le
aveva dato in anticipo il suo regalo di Natale, un reggiseno di pizzo. Le
mutandine e i collant erano di Missa, ma gonna e maglia erano di Ding. «Non
aveva niente di carino da mettersi, nel senso che non lo possedeva proprio. E
così le ho prestato qualcosa io. Lei sa che compro i vestiti con i miei soldi da
quando ho undici anni e che ci sto attenta e li tratto con cura. Quando me li
ha restituiti piangeva, perché il top era strappato.»
«E le ha spiegato come mai.»
«Era così... Non lo so. Era troppo disperata, capisce? Non poteva essere
solo per una maglia che si poteva comunque rammendare. Io gliel’ho detto,
che si poteva riparare, ma lei continuava a piangere, a singhiozzare, e così le
ho chiesto cos’aveva. Gliel’ho chiesto talmente tante volte che alla fine me
l’ha detto. Ma mi ha supplicato in ginocchio di non dire niente a nessuno
perché... Si sentiva umiliata. La capivo, mi sarei sentita così anch’io. Gliel’ho
promesso e ho nascosto i vestiti nell’armadio chiedendomi se era stato Brutus
a... capisce? Poi Missa è andata a parlare con il diacono e lui le ha chiesto i
vestiti perché voleva farli analizzare e io... mi dispiace: ho mentito. Perché
non... cioè, se era stato Brutus, ci sarei rimasta malissimo. Preferivo non
saperlo. E così le ho raccontato una palla e lo so, ho sbagliato, però ormai
l’ho fatto. Le ho detto che avevo buttato via il top e che la gonna l’avevo
macchiata e portata in lavanderia.»
«E non era vero.»
«No. Avevo tenuto tutt’e due: sia la gonna sia il top. E un giorno che ho
litigato con Brutus, glieli ho tirati addosso.»
«E lui che cosa ne ha fatto? Li ha tenuti, che lei sappia?»
«Non lo so. Quando glieli ho tirati, eravamo in camera sua.» Non aveva
voglia di raccontare il resto, perché si vergognava di come erano stati per
molto tempo i rapporti fra lei e Brutus, ma se lo impose. «Vede, Brutus si era
portato a casa una che si è fermata a dormire in camera sua. Era la prima
volta che lo faceva. Io lo stavo proteggendo, benché temessi che fosse stato
lui, e lui si scopava... pardon... si portava a casa un’altra, sotto i miei occhi?
Ero indignata e così ho preso i vestiti, ho bussato alla sua porta e glieli ho
lanciati, gridandogli che l’avevo protetto, che non l’avevo denunciato e lui in
cambio... Non so cosa ne ha fatto. Li avrà buttati via.»
Lynley annuì. Guardò la casa, poi controllò l’ora su una cipolla vecchia
come il cucco. «Mi porti in camera di Brutus, per favore» disse.
Ding lo accompagnò.
Royal Shrewsbury Hospital
Shelton
Shropshire
Finn venne trasferito in reparto dal pronto soccorso e Trevor informò la
moglie che avrebbe trascorso la notte al capezzale del figlio. Erano le dieci di
sera. Disse a Clover che uno dei due doveva riposare ed essere lucido nel
caso il mattino dopo i medici li avessero messi davanti a scelte terapeutiche
importanti. L’avrebbe avvertita al minimo cambiamento delle condizioni di
Finn. E le avrebbe telefonato non appena avesse ripreso conoscenza. Secondo
i dottori, tuttavia, era improbabile che ciò avvenisse in tempi brevi. Quanto
alla prognosi a lungo termine, era possibile che Finn avesse dei vuoti di
memoria, ma avrebbero valutato meglio una volta che si fosse svegliato e
comunque sarebbe stata probabilmente una cosa temporanea.
Clover all’inizio non voleva andarsene, ma Trevor pian piano la persuase
che era meglio così. Lei però chiese che la stanza fosse piantonata, nel caso
l’aggressore ci avesse riprovato e Trevor acconsentì, benché non gli
sembrasse necessario. C’era poi il rischio che la poliziotta londinese fosse
ancora in giro per l’ospedale, e Trevor non voleva che disturbasse Finn.
Clover se ne andò in preda a un’ansia esagerata, ma Trevor si disse che era
comprensibile. In quel momento non poteva prendere in considerazione
eventuali altri motivi per lo stato di angoscia della moglie perché non voleva
che dalla sua espressione emergesse altro che premura per la stanchezza che
la opprimeva e la necessità che almeno uno di loro fosse in condizioni di
prendere eventuali decisioni cruciali. In realtà il suo scopo era rimanere solo
con Finn, nel caso avesse riacquistato conoscenza. Stava ancora cercando di
fare i conti con un concetto di cui Clover sembrava apparentemente convinta:
che Finn fosse capace di violentare una ragazza.
Prima che avessero il permesso di vedere Finn, Trevor le aveva chiesto di
spiegargli nel dettaglio tutto ciò che sapeva a proposito del presunto stupro e
quindi aveva appreso che i tre ragazzi che dividevano la casa erano andati a
bere in un pub del centro, quella sera fatidica di dicembre, dopo gli esami, ed
erano stati riaccompagnati da Gaz Ruddock perché erano ubriachi fradici.
Una di loro, Dena Donaldson, era scappata a piedi e più tardi un’altra ragazza
era stata aggredita mentre dormiva sul divano. «Capisci perché sono
preoccupata, adesso?» aveva ribadito Clover al termine del racconto.
Le aveva risposto che sì, capiva, ma a suo parere Finn non era tipo da fare
una cosa del genere. Allora Clover aveva alzato le mani in segno di resa e si
era rifiutata di aggiungere altro.
Trevor guardava Finn nel silenzio della stanza. Le ore passavano lente
senza che succedesse nulla. Ogni tanto entrava un infermiere a controllare i
segni vitali del ragazzo e a un certo punto arrivò il piantone, una donna che si
affacciò sulla soglia per dirgli che era tutto a posto e poi si mise di guardia
fuori della porta. Trevor non capì a cosa si riferisse, ma non chiese
chiarimenti. Solo con i propri pensieri, rifletté su eventuali indizi del fatto che
Finn avesse lati a lui del tutto sconosciuti.
Il ragazzo riprese conoscenza poco dopo le quattro del mattino. Trevor
sonnecchiava sulla sedia accanto al letto, nella stanza buia, ma si svegliò di
colpo sentendo il figlio che mormorava: «Mamma?» Balzò in piedi, accese la
luce e prese il bicchiere sul comodino.
«Ciao, Finn» disse. «La mamma è andata a casa a riposare. Hai sete?»
«Sì.» Finn prese la cannuccia e svuotò il bicchiere. «Grazie» sussurrò.
Dopo un momento, con una voce stanca e impastata che a Trevor ricordò il
figlio bambino, Finn chiese: «Chi era quel tipo, pa’?»
«L’uomo che ti ha aggredito? Non lo sappiamo.»
«Ho sentito... un casino...» Finn aveva le labbra secche e screpolate e
Trevor si ripromise di comprargli del burro di cacao. Chissà se c’era un
negozio dentro l’ospedale. «Sul momento ho pensato che fosse il padre di
qualche ragazza... che ce l’avesse con Brutus perché...» Si interruppe. «Mi
dai dell’altra acqua?»
«Vado subito a prendertela. Prima finisci quello che stavi per dire.»
«Credevo... magari Brutus alla fine si era fatto la tipa sbagliata e adesso il
padre si stava rifacendo su di lui... su Brutus.»
«Brutus è uno così?»
«È uno che scopa in giro. Oh, scusa, pa’. Comunque sì, per lui basta che
respirino.»
«Consenzienti o...?»
Finn aggrottò la fronte. Aveva un occhio chiuso e la testa bendata. Oltre al
trauma cranico, aveva una clavicola fratturata per la quale non si poteva fare
nulla a parte aspettare che si saldasse, una frattura alla spalla e una al polso.
Mosse la testa e fece una smorfia. «Che io sappia, non ha mai... cioè, sì,
consenzienti. Non so cos’ha, ma gli ronzano tutte attorno. Mi dai l’acqua?»
Trevor andò a riempire il bicchiere. Lasciò scorrere l’acqua nel lavabo in
preda a mille pensieri, verità, menzogne, azioni e reazioni. Rifletté anche
sulle proprie riflessioni, poi tornò dal figlio e lo aiutò a bere.
«Finn, prima delle vacanze di Natale è successo qualcosa a casa vostra» gli
disse.
Finn appoggiò la testa sul guanciale e chiuse gli occhi. «Cosa?» Sembrava
assonnato.
«È stata violentata una ragazza mentre dormiva ubriaca sul divano di casa
vostra.»
«Ding?»
«No, una sua amica. Eravate usciti insieme e lei non voleva tornare a casa
nello stato in cui era. Ti ricordi?»
Finn parve cercare nella memoria. «Non poteva essere Ding. A quanto ne
so, le scale di casa riesce sempre a farle. E quando era troppo ubriaca, la
aiutava Brutus» osservò poi. Rimase un istante zitto. «Dormivano insieme, in
quel periodo. Prima che Brutus ricominciasse ad andare con le altre. Non
resiste. Ed è irresistibile» aggiunse.
«Hai capito a quale sera mi riferisco? Ti ricordi di una ragazza che si è
fermata a dormire sul vostro divano?»
Finn non riaprì gli occhi, benché Trevor lo esortasse mentalmente a farlo.
La stanza era immersa nella penombra, ma era convinto che, se fosse riuscito
a guardare il figlio negli occhi, avrebbe capito la verità. E comunque già la
sapeva, no? Finn non avrebbe mai... non era capace di... non era il tipo,
qualunque cosa ne pensasse sua madre.
«Quale sera?» sussurrò Finn.
«Quella sera di dicembre in cui siete usciti, avete bevuto troppo, siete stati
accompagnati a casa in macchina, Ding è scappata a piedi e una sua amica si
è fermata a dormire da voi. Sei tornato a casa con lei. Ding non c’era, ma la
sua amica era con te.»
«Forse» rispose Finn con un filo di voce. Si stava addormentando.
Trevor gli toccò la spalla sana. «Prima delle vacanze di Natale, Finn. Ti
ricordi?»
Il ragazzo annuì. Disse «Natale» e nient’altro.
24 MAGGIO
Ironbridge
Shropshire
Yasmina aprì gli occhi alle cinque, due ore prima della sveglia, e si ritrovò
sola in casa come la sera precedente. Verso le otto e mezzo aveva appreso da
Rabiah che Missa sarebbe rimasta a dormire da lei a Ludlow e non si
aspettava che Sati tornasse da sola, senza che la sorella andasse a riprenderla.
Pensava che Timothy a una certa ora rientrasse, magari anche molto tardi, ma
non era stato così.
Chiamò Rabiah nonostante l’ora. Forse anche Timothy era andato a
dormire da lei. Ma Timothy non era da sua madre e Rabiah, scoprendo che la
nuora non aveva più sue notizie, rispose con un tono dal quale si capiva che
stava pensando agli scenari peggiori: guida in stato di ebbrezza, incidente
mortale, overdose di oppiacei e quant’altro.
«E Missa? Come sta Missa?» chiese Yasmina. «La polizia l’ha trattata
bene? Era molto provata?»
«Sono stati abbastanza gentili. È stato meno traumatico rispetto a quando
l’ha raccontato a te e a Tim.»
«Le dici che ho chiamato, per favore? Mi dispiace così tanto per... Non so,
mamma. L’ho messa in una situazione difficile con il mio...»
«L’unico colpevole è l’uomo che l’ha violentata, Yasmina. Ma ci
dobbiamo preparare a...»
Dall’esitazione della suocera Yasmina dedusse che il giorno prima era
successo qualcos’altro di cui era riluttante a parlare, perciò insistette. «Se ci
sono novità, mamma, me lo devi dire. Mi sembra di capire che ci sono stati
degli sviluppi. Sono così preoccupata per Timothy! Se è qualcosa che ha a
che vedere con lui, per favore, dimmelo.»
Rabiah ammise che era passato un agente a chiedere una foto di famiglia, e
in particolare una foto in cui si vedesse bene la faccia di Tim. Lei aveva
domandato a cosa gli servisse e l’agente le aveva risposto che lo ignorava,
che stava semplicemente eseguendo gli ordini.
«Non potevo non dargliela» disse. «Ma ho preteso di sapere dove la
portava e mi sono accorta che nicchiava. Yasmina, mia cara...» Non proseguì
la frase, ma Yasmina ebbe la netta sensazione che Rabiah sapesse per quale
motivo la polizia aveva voluto una foto di Timothy.
«Deve aver combinato qualcosa» disse.
Dopo la telefonata, si vestì per andare a lavorare, perché non sapeva
cos’altro fare. Aveva le mani legate. Se fosse andata da Sati, la figlia le
avrebbe chiesto di Missa e Yasmina non aveva né le energie né la fantasia per
inventarsi una scusa. Finché lei non fosse riuscita a scoprire qualcosa di più,
la sua figlia minore avrebbe dovuto fare appello alle proprie risorse interiori e
affrontare la giornata da sola.
Era giunta da poco a questa conclusione, quando arrivò Justin per rivelarle
ciò che Yasmina già sapeva, ovvero che Missa il giorno prima non si era
presentata al lavoro e non era tornata a dormire a casa.
«È venuta su a vestirsi» riferì a Yasmina. «Sua nonna pretendeva che
venisse a parlare con lei, signora Lomax, e Missa ha pensato di non poter
rifiutare. Dopo di che non è più tornata a casa.»
«È a Ludlow» gli disse Yasmina.
«Perché? Aveva gli occhi rossi, quando è salita a cambiarsi, aveva pianto...
Gliel’ho chiesto, ma lei non mi ha voluto dire perché e io vorrei sapere che
cosa le avete fatto, perché a me ha detto che doveva parlare con lei, signora
Lomax, e guardi, lo so che lei è contraria al matrimonio. Sono stato un
cretino anche solo a pensare che... Voglio sapere dov’è Missa.»
«Da sua nonna.»
«State cercando di separarci, vero? Missa lo dice sempre, che lei farebbe
qualsiasi cosa per impedirle di sposarmi, che sarebbe capace persino di
mandarla in India.»
«Non è vero.»
«Le ho telefonato una marea di volte, quando ho visto che non si è
presentata al lavoro, ma non mi risponde. Le avete sequestrato il cellulare?»
Yasmina percepì una sensazione di pericolo davanti a quel ragazzo grande
e grosso, animato da una collera che lei sapeva legittima. «Ti do il numero di
Rabiah. Chiamala e vedrai che...» gli disse.
«Non mi basta. Voglio sapere che cosa è successo.»
«Te lo dirà Missa. Io non posso: ho già commesso fin troppi errori. Mi
sento responsabile e mi scuso. Ti chiedo perdono, Justin.»
Justin si placò immediatamente. «Io la amo! Tornerà?» disse in tono
sommesso.
«Penso proprio di sì.»
«Non ne è sicura?»
«Non sono sicura di nulla. Ti do la mia parola, e posso capire che non ti
basti, ma è il massimo che posso fare.»
Per il momento era sufficiente. Justin si accontentò della parola di Yasmina
e andò a Blists Hill a lavorare dicendo che avrebbe provato a chiamare
Rabiah e che avrebbe insistito finché lei non avesse risposto.
Quaranta minuti dopo, Yasmina sentì un’auto fermarsi di fronte a casa e
corse alla finestra in tempo per vedere Timothy che scendeva ed esitava un
istante, appoggiando la testa sul tetto.
Yasmina andò alla porta e la aprì contemporaneamente a lui. Si ritrovarono
di fronte, uno sullo scalino, l’altra nel silenzio dell’ingresso. Pur desiderando
con tutta se stessa di non trovarle, Yasmina cercò delle tracce di sangue, e le
notò sulla spalla sinistra e sulla manica destra della camicia.
«La polizia è andata da tua madre» gli disse. «Volevano una tua foto.»
Timothy aveva l’aria distrutta. «Ho sistemato la faccenda.» Si diresse verso
le scale.
Lei gli si parò di fronte. «Che cos’hai fatto?» chiese.
«Te l’ho appena detto.»
«Dimmi la verità, Tim: hai fatto del male a qualcuno?»
Lui le rivolse uno sguardo così sprezzante che Yasmina arretrò di un passo.
«Non quanto ne hanno fatto loro a Missa» fu la sua risposta. La spinse da
parte e salì di sopra.
Yasmina chiuse la porta d’ingresso. Sentì Tim entrare in bagno e poi
l’acqua scrosciare nel lavabo per un tempo troppo breve perché avesse fatto
nulla di più che riempire il bicchiere che teneva sempre accanto al rubinetto
dell’acqua fredda. Salì di corsa: sapeva perfettamente che cosa aveva in
mente di fare suo marito e giurò a se stessa di impedirglielo. Dovevano a tutti
i costi parlare.
Arrivò troppo tardi: Timothy era riuscito a procurarsi altre pasticche e ne
aveva due nel palmo. Lei gliele fece cadere di mano. «Parlami!» gridò.
Per tutta risposta, Tim se ne fece scivolare nel palmo altre due e strinse il
pugno in maniera che Yasmina non riuscisse a togliergliele.
«Abbiamo già parlato abbastanza» le disse. E si cacciò in bocca le
pasticche. Le mandò giù e se ne andò.
Yasmina lo seguì in camera da letto. «Perché lo fai, Tim? Ci è morta una
figlia, un’altra è stata violentata, la terza ha paura a tornare a casa e tu? È
questo che fai? Ti prego, ti scongiuro. Ho bisogno di te. Abbiamo tutte
bisogno di te e tu... È questa la tua risposta?» urlò.
Timothy rimase zitto. Lasciò che il silenzio si prolungasse nella speranza
che lei si rendesse conto di ciò che aveva appena detto. Ma Yasmina non
poteva riascoltare le proprie parole: una volta pronunciate, non esistevano
più. Il problema del parlare era questo.
«Tu pensi che tutto quanto sia iniziato con Janna.» Timothy fece un gesto
in direzione del bagno e Yasmina capì che si riferiva alle pasticche. «Ti illudi
che fino alla sua malattia andasse tutto liscio. Secondo te, non l’abbiamo
gestita bene. E ancor meno la sua morte, vero?»
«Tu hai fatto di tutto per ottundere i tuoi sentimenti. Continui a far di tutto
per non sentire niente.»
«No, Yasmina» ribatté lui. «Non ho fatto di tutto. Non ho fatto un bel
niente. Ma tu ne sei convinta, perché secondo te c’è un unico modo per
gestire il lutto, cioè il tuo. Tutto quello che non va nella nostra famiglia, tra
te, me e le ragazze, deriva dal fatto che tu sei convinta di poter controllare
misticamente ogni aspetto della tua vita, compresi noi e le cose che ci
succedono.»
«Quello che dici è terribile, tenuto conto che ho dedicato la mia vita solo
ed esclusivamente a...»
«A manipolare il prossimo. Tu non ci consideri persone, Yasmina. Per te
siamo pezzi da muovere sulla scacchiera della tua vita. E tu non puoi
prenderne coscienza, perché allora ti toccherebbe fare quello che predichi a
me, e che mi accusi di non fare, ovvero affrontare la sofferenza, il lutto e...
non so cosa... forse ululare alla luna per protestare contro il destino crudele.»
«Dai pure la colpa a me. Usami come capro espiatorio. Se la colpa è mia,
per te è più facile abbandonarci senza rimorsi.»
Timothy si accigliò, si passò una mano sulla fronte e vi batté le dita.
«Yasmina, non stavo cercando di attribuire colpe all’uno o all’altra: stavo
dicendo le cose come stanno.» Andò verso il letto e si sdraiò, dandole la
schiena. Un minuto dopo dormiva.
E così Yasmina si ritrovò sola, con le recriminazioni, le accuse e i sensi di
colpa come unica compagnia.
Ludlow
Shropshire
Quella mattina, quando Lynley gli telefonò, Ruddock chiese subito dei
ragazzi. «Ieri è passato alla stazione di Ludlow un collega di Shrewsbury che
aveva bisogno di usare un computer» spiegò. «E mi ha raccontato cos’è
successo. Ho provato a contattare i Freeman una miriade di volte, ma non
rispondono. Come stanno i due ragazzi? Finn?»
«Il sergente Havers è stata in ospedale con i genitori tutto il pomeriggio»
rispose Lynley. «I genitori di Finn. Vorremmo parlare con lei.»
«Oddio! Non penserete che li abbia pestati io, vero?»
«L’aggressore è stato riconosciuto, e aveva un movente. O almeno,
riteniamo che fosse convinto di avere validi motivi.»
«E cioè?»
«Proprio di questo le vorremmo parlare. Veniamo da lei? Non è un
problema.»
No, no. Ruddock diede loro appuntamento alla stazione di polizia come le
altre volte. Se potevano concedergli una mezz’oretta...
Un quarto d’ora, replicò Lynley. Altrimenti sarebbero andati a casa sua.
Poteva dargli l’indirizzo?
Un quarto d’ora andava bene, rispose Ruddock. Al telefono si era
comportato normalmente, rifletté Lynley: aveva ammesso di aver provato a
contattare i Freeman, aveva parlato con disinvoltura dei ragazzi, era stato
disponibile.
Il giorno prima, quando gli operatori della Scientifica avevano dato loro il
via libera, Lynley e Dena Donaldson erano entrati in camera di Bruce Castle
a cercare la gonna e la maglia che lei gli aveva lanciato. Bruce si era limitato
a spostarle con un calcio sotto il letto. Purtroppo era un posto pieno di
polvere e di sporcizia. Ma la cosa peggiore era che erano passati mesi da
quando Missa Lomax le aveva indossate e nel frattempo erano rimaste
nell’armadio di Ding senza alcuna protezione ed erano state toccate sia da
Ding sia da Brutus, anche se solo con i piedi. Lynley però aveva comunque la
sensazione che potessero tornare utili, perciò le aveva infilate in una busta
gentilmente fornitagli dalla Scientifica.
Intanto era tornato l’agente con la foto di famiglia recuperata a casa di
Rabiah Lomax e Lynley l’aveva mostrata a Ding, la quale aveva riconosciuto
nel padre di Missa l’aggressore di Finn e Brutus. «Devo dire che l’ho visto...
non so... cinque secondi?» aveva precisato. Le avevano spiegato che l’uomo
sarebbe stato comunque identificato attraverso le impronte digitali che aveva
lasciato sull’attizzatoio e sulla porta d’ingresso in modo che non si sentisse
responsabile in prima persona dell’arresto e lei aveva annuito. «Mi dispiace,
capite» aveva detto.
Poi era venuta a prenderla sua madre per riportarla a Much Wenlock.
«Ding! Oh, Ding! Se penso che anche tu potevi essere...» era entrata
gridando. L’aveva abbracciata e baciata e accompagnata alla macchina
rivolgendo a Lynley un «Grazie!» sentito, come se avesse salvato la vita di
sua figlia, quando in realtà era stata proprio Ding a evitare tragedie peggiori.
Se non fosse rincasata all’ora in cui era rincasata, uno dei due ragazzi molto
probabilmente sarebbe morto.
Lynley a quel punto era tornato in albergo ad aspettare Barbara. Aveva
bisogno di riflettere con calma. Sicuramente le valutazioni di Barbara erano
corrette, ma in assenza di prove concrete sarebbe stato difficile inchiodare
Ruddock alle proprie responsabilità.
Quando Barbara era tornata da Shrewsbury, gli aveva riferito le
informazioni raccolte in ospedale. Non erano molte, visto che Finnegan
Freeman non aveva ancora ripreso conoscenza. Brutus era riuscito a
descrivere l’uomo che aveva incrociato uscendo da camera sua per andare nel
bagno. «Corrisponde a Timothy Lomax» aveva commentato Lynley.
Le aveva spiegato che Ding aveva riconosciuto Lomax in una foto e che,
grazie a un vicino, un buon osservatore, di nome Keegan, avevano recuperato
l’attizzatoio con cui erano stati picchiati i due ragazzi. Era stato buttato oltre
l’argine del Teme, vicino al Ludford Bridge. La Scientifica stava rilevando le
impronte.
Aveva deciso con Barbara di dormirci su e di riparlarne il mattino dopo. Il
programma era andare alla stazione di polizia per capire come mai dai test
sulla biancheria della ragazza violentata non era risultato nulla.
Lynley e Barbara si presentarono perciò all’appuntamento che Lynley
aveva fissato con Ruddock per telefono. L’ausiliario arrivò pochi minuti dopo
di loro. Era elegante e curato come al solito e aveva l’aria riposata.
Lynley prese dalla macchina la busta della Scientifica e notò che Ruddock
la adocchiava curioso, ma non diceva nulla. Li salutò con un cenno del capo e
aprì la porta della stazione di polizia. «Un caffè?» chiese.
Accettarono entrambi. Sarebbe stata l’occasione per osservare l’ausiliario.
Se non l’avesse offerto lui, glielo avrebbero chiesto.
Andarono nella vecchia cucina, dove c’erano due sedie soltanto. Lynley
posò su una la busta con le prove e Barbara appese la borsa allo schienale
dell’altra. «Vado a cercare una sedia» disse, e si diresse verso la stanza in cui
era morto Druitt per recuperare la poltroncina con le rotelle. Tornò
spingendola con i guanti di lattice, come le aveva raccomandato l’ispettore.
Ruddock era intento a versare il caffè in polvere nei mug e a sistemare le
bustine di zucchero e di latte liofilizzato. «Latte fresco purtroppo non ne ho»
disse con un sorriso. Si voltò e, vedendo Barbara con i guanti, tornò subito
serio.
«Non è il caso di strafare, sergente» ammonì Lynley in tono severo.
«Impronte digitali, DNA, prove materiali...» replicò Barbara risoluta. «Se è
stato seduto qui, qualche prova ci sarà per forza, no?»
«Si riferisce a Ian Druitt? Non è mai stato seduto lì. Era sulla sedia di
plastica nell’ufficio. Ve l’ho detto, quando mi avete chiesto spiegazioni sulle
fotografie scattate dalla Scientifica» chiese Ruddock.
«Non ora» disse Lynley a Barbara.
«E quando?» protestò Barbara. «Ora che abbiamo visto i graffi sul
linoleum e abbiamo acquisito nuove informazioni non ha più senso aspettare,
ispettore.»
«Posso chiedervi di cosa state parlando?» Ruddock sembrava turbato.
«Si sieda, per cortesia» disse Lynley a Barbara. «Una cosa per volta.»
Lei sbuffò. «Come al solito.» E si sedette sulla seggiola di plastica, non
sulla poltroncina. Prima, però, prese dalla borsa taccuino e matita. Lynley
spostò la busta dalla sedia al tavolo. Ruddock vi posò gli occhi un istante, poi
distolse lo sguardo.
«È successo qualcosa? Se volete che vi aiuti, dovete spiegarmi cosa. Io so
solo che ieri Finn Freeman e il suo amico...» disse.
«Brutus» intervenne Barbara. «Un tizio gli è entrato in casa urlando che gli
aveva stuprato la figlia e gli ha spezzato il braccio. Era convinto che fosse
stato uno dei due ragazzi, o lui o Finn.»
«E perché lo pensava?»
«Perché sua figlia è stata stuprata nel loro salotto.»
«Oggesù! E quando?»
«A dicembre, dopo gli esami. Quality Square era piena di ragazzi ubriachi
fradici e i residenti avevano protestato per via degli schiamazzi. Lei è
intervenuto e ha accompagnato a casa Finn e i suoi amici. Non se lo ricorda?»
«Sa quante volte avrò accompagnato a casa quei ragazzi, dall’autunno
scorso? Almeno dieci. Se dicono che li ho riportati a casa anche una sera di
dicembre, sarà vero» disse Ruddock.
«Ma quella sera le cose sono andate diversamente» disse Lynley. «Ding è
scesa dalla macchina ed è scappata a piedi. Dena Donaldson. E sull’auto di
servizio sono rimasti Finn, Brutus e una loro amica che non abitava lì sul
Temeside, ma non voleva presentarsi a casa in quello stato. È lei che è stata
violentata quella sera. Lo ha confidato soltanto a Ding, almeno all’inizio.
Prego, si sieda, agente Ruddock.»
«E il caffè?»
«Posso farne a meno, grazie. Lei, Barbara?»
«Anch’io.» Batté la matita sul taccuino aperto a una pagina bianca.
Ruddock non versò il caffè nemmeno per sé. Forse gli tremavano le mani e
non voleva che lo notassero. «Mi siedo anch’io, allora» e si accomodò sulla
poltroncina, che si mosse sul pavimento. Per fermarla, puntò i piedi per terra.
«Ecco perché era meglio quella di plastica» disse Barbara a Lynley,
indicando i piedi di Ruddock. «Ma questo l’avevamo già capito, vero?»
«Vero» rispose Lynley.
Ruddock rimase zitto. Batteva un piede per terra, ma quando si rese conto
che Barbara lo stava fissando, smise subito. «Avrei da fare. Per che cosa siete
venuti, esattamente?» disse.
Che faccia tosta! pensò Lynley, ma disse: «Oltre che con Ding, la ragazza
ha parlato dello stupro subito anche con Ian Druitt. Lo ha incontrato un certo
numero di volte».
«Sette» precisò Barbara.
«Il diacono ha impiegato un po’ prima di capire che cosa era successo,
perché la ragazza lo vedeva per un’altra questione. Dopo la violenza, aveva
deciso di abbandonare gli studi. Non voleva più tornare a Ludlow per la
sessione primaverile. I genitori hanno cercato di dissuaderla, ma il suo
profitto stava calando vertiginosamente e per una serie di circostanze che non
sto qui a riferirle la ragazza è finita a parlare con Druitt.»
Ruddock annuì. «Capisco: era un’ottima guida spirituale, a quanto
dicono.»
«Mmm. Già.» Lynley prese la busta e la posò per terra.
Intervenne Barbara. «Abbiamo parlato con la ragazza, Gary. Le abbiamo
parlato ieri. È stata dura per lei, ma alla fine si è decisa a raccontare tutto ai
genitori e ciò le ha reso meno difficile parlare anche con noi. Da quando è
stata stuprata a quando si è confidata con Druitt sono passati dei mesi e ormai
pensavano tutti che le prove fossero andate a farsi benedire, addosso a lei non
era rimasto niente e se fosse rimasto qualcosa di compromettente nel
frattempo si sarebbe contaminato. Solo che, vede, quella ragazza non aveva
mai bevuto in vita sua e si vergognava, pensava di essersela andata a cercare.
E così ha voluto conservare un souvenir di quella sera, anche se forse più che
un souvenir per lei era uno di quei cosi con cui si lacerano le carni i fanatici
religiosi, come si chiama?»
«Un flagello?» replicò Lynley, senza smettere di fissare Ruddock. «Un
cilicio?»
«Esatto» rispose Barbara. «In senso metaforico, ovviamente. Anche
perché, se ti flagelli la schiena come fa certa gente e vai in giro con la
maglietta macchiata di sangue prima o poi qualcuno se ne accorge.
Comunque. Questa ragazza ha conservato la biancheria intima così com’era,
senza lavarla. L’ha messa in un cassetto e, anche se non l’ha detto
esplicitamente, secondo me ogni tanto la tirava fuori per ricordarsi di quanto
era stata puttana, sgualdrina o quello che è. Ci sono ragazze che lo fanno, sa?
E questa ragazza aveva ricevuto un’educazione assai severa.»
«Ha consegnato la biancheria a Ian Druitt per farla analizzare» continuò
Lynley. «Ma lui le ha riferito che non era emerso nulla.»
«In questo modo si spiegherebbero le telefonate intercorse fra voi» disse
Barbara. «Dato che Druitt era un uomo retto, di certo voleva impedire allo
stupratore di farla franca e così le telefonava per sapere l’esito dei test. Lei lì
per lì gli avrà risposto che non era ancora arrivato, che ci voleva tempo, ma
lui non mollava l’osso, vero Gary? E così a un certo punto gli ha dovuto dire
che sì, i test erano stati effettuati, ma purtroppo non c’era nulla. E siccome lei
è un esponente delle forze dell’ordine – un poliziotto a tutti gli effetti – Ian
Druitt si è fidato, le ha creduto. Questo voleva dire che o la ragazza si era
inventata tutto per chissà quale ragione, oppure lo stupro c’era stato ma non
ne restava traccia. Sia in un caso che nell’altro, se la faccenda fosse diventata
di dominio pubblico, sarebbe stata la parola della ragazza contro quella dello
stupratore. Se non c’erano le prove, come dice giustamente lei...»
«A Ian Druitt, però, questa ragazza ha taciuto una cosa» proseguì Lynley.
«E cioè che la biancheria che indossava quella sera era sua, ma i vestiti no. E
la persona che glieli aveva prestati li ha conservati religiosamente per tutti
questi mesi e ieri ce li ha consegnati.» Toccò la busta con la punta delle dita.
«Siamo certi che ci sia ancora il DNA dello stupratore» disse Barbara. «Lei
che cosa ne pensa, Gary? Ci piacerebbe sentire la sua opinione. Abbiamo
capito alcune cose interessanti riguardo alla morte di Ian Druitt, a proposito.
Lascio a lei la parola, ispettore.»
Lynley lesse a Ruddock i suoi diritti in tono formale. L’agente non reagì,
salvo stringere un po’ di più i braccioli della poltroncina girevole.
«Ian Druitt sapeva dello stupro e sapeva che gli indumenti erano stati
conservati. Li ha consegnati a lei, agente, contando sul fatto che lei svolgesse
il proprio dovere» spiegò Lynley.
«Che consisteva nel protocollare il materiale probatorio e mandarlo ai
laboratori perché venisse sottoposto agli esami del caso» chiosò Barbara.
«Esami che avrebbero dimostrato...»
«Dovevo proteggerlo» la interruppe Ruddock. «Mi era stato chiesto di
proteggerlo. Avrei perso il lavoro, altrimenti.»
«Sta parlando di Finnegan Freeman?» domandò Lynley.
«Lei me l’aveva chiesto espressamente, quando Finn è venuto a stare a
Ludlow: voleva che lo tenessi d’occhio. Cosa potevo fare? Dire di no al
vicecomandante? Cosa avreste fatto voi al mio posto? Vi sareste rifiutati?
Non credo. E così, quando ho scoperto che... quando Druitt mi ha raccontato
cos’era successo in quella casa... Ho fatto quello che ho potuto.»
«E cioè?» chiese Lynley.
«L’ho detto al vice. Le ho riportato quello che mi era stato riferito,
specificando che, per quanto ne sapevamo, non era vero niente, la ragazza si
era inventata tutto. L’ho fatto presente anche a Druitt, la prima volta che me
ne ha parlato. Gli ho detto che quei ragazzi io li conoscevo, che mi sembrava
impossibile che fosse vero. Magari la ragazza si era arrabbiata per qualche
motivo e voleva vendicarsi. Gli ho consigliato di parlarne con lei e quando la
volta dopo il diacono mi ha consegnato mutandine e collant, ho capito dove
voleva andare a parare.»
«E quindi l’ha messo a tacere per sempre?»
«Ma no, figuratevi! Non mi è nemmeno venuto in mente! Ho pensato che
bastava far sparire le prove, e infatti le ho consegnate ed è finita lì. Lei però
credeva che non fosse sufficiente. Voleva evitare che si scoprisse che cosa
aveva fatto Finn a quella ragazza ubriaca. Peccato che Druitt lo sapesse già,
però. E quindi...»
«E quindi lei, Ruddock, l’ha tolto di mezzo» concluse Lynley.
«No! Giuro su Dio! Non gli ho torto un capello! Mi sono limitato ad
andare a prelevarlo alla chiesa di St. Laurence e portarlo qui in stazione. Poi
però sono uscito a telefonare e quando sono tornato l’ho trovato morto.»
«Dimentica la sacrestia» rimarcò Barbara.
Ruddock si passò la lingua sulle labbra e cominciò a battere nervosamente
il piede destro. Come prima, appena se ne rese conto, smise. «La sacrestia?»
«Ian Druitt si è levato i paramenti davanti a lei, giusto?» disse Lynley.
«Non è colpa mia se lui ne ha approfittato per infilarsi in tasca...»
«È lei che si è infilato in tasca la stola, Gary» intervenne Barbara. «E forse,
se fosse andato in chiesa un po’ più spesso, non avrebbe fatto questa figura da
perfetto idiota.»
«Va bene così, sergente» la riprese con garbo Lynley. Poi si rivolse a
Ruddock. «Ha preso la stola sbagliata. I colori hanno un significato ben
preciso. Ian Druitt non si è portato via la stola che indossava quel giorno,
perché era Quaresima e la stola sarebbe stata viola. La stola con cui è stato
strangolato, invece, è rossa.»
Silenzio assoluto. A quel punto Ruddock avrebbe potuto comportarsi come
un animale in trappola, invece rimase impassibile. Evidentemente aveva altre
carte da giocare. Ignorava però che anche Lynley aveva un asso nella manica.
La porta che dava sul parcheggio si aprì e Lynley fece un cenno a Barbara,
che si alzò e andò a vedere.
«È lei che ha insistito» spiegò Ruddock mentre Barbara era fuori. «Non
sentiva ragioni. Dopo che le ho detto che Druitt aveva scoperto quello che era
successo quella sera, che glielo aveva riferito la ragazza stessa... È stata lei a
tirare in ballo le prove e così ho detto al diacono che senza le prove non si
poteva fare niente. Lui allora è tornato dalla ragazza e me le ha portate. Non
potevo non dirlo al vice, a quel punto. Se fossi stato zitto, Finn sarebbe stato
arrestato e processato e condannato e avrebbe avuto la vita rovinata per un
errore di gioventù. Grave, certo, però... La ragazza avrebbe dimenticato, no?
Certo, era stata una brutta esperienza, ma dopo un po’ l’avrebbe superata e, se
fosse stata zitta, nessuno... Insomma, a me dispiaceva che Finn finisse in
galera, bollato a vita come stupratore. Perché lo sapevo, che sarebbe andata a
finire così, e lo sapeva anche Clover. Si sarebbe sparsa la voce, qualcuno ne
avrebbe di sicuro approfittato, e anche in carcere gliene avrebbero fatte
passare di tutti i colori. Sapendo che, in assenza di prove, si poteva evitare
tutto quanto...»
«Certo» disse Lynley accigliato. «Giusto per essere sicuri che io abbia
capito: la biancheria non doveva essere mandata ai laboratori perché non era
più stata indossata dopo la sera fatidica e quindi conservava il DNA dello
stupratore. L’ha tenuta lei o l’ha data al vicecomandante per dimostrarle che
aveva eseguito i suoi ordini?»
«L’ho data a lei, come ho già detto. Il problema però era che Druitt sapeva
e quindi il vice non poteva far finta di niente. Io non ce l’avevo con il
diacono, poveraccio: faceva soltanto il suo dovere. Il vice però non voleva
correre il rischio.»
«Quale rischio?»
«Che uno dei due – Druitt o la ragazza – non si bevesse la storia che sulla
biancheria non c’era DNA. Potevano rivolgersi alla polizia di Shrewsbury,
per esempio, raccontare tutto e chiedere come mai dalle analisi di laboratorio
non era risultato nulla, se la ragazza era stata sodomizzata.»
«Ah.» Lynley rimase un attimo zitto. Aveva un’espressione concentrata,
quasi stesse riprendendo in esame ogni cosa che si erano detti, soppesandola
attentamente. «Vede, Ruddock, il problema è proprio questo» disse, alla fine.
«Quale?»
«Che lei sa che la ragazza è stata sodomizzata.»
«Druitt...»
«No. Non lo sapeva né Druitt né nessun altro. La ragazza ha ammesso di
essere stata sodomizzata soltanto ieri. Si vergognava troppo.»
«Così vi ha detto, ma non sarà vero.»
«No, guardi, non l’ha detto a nessuno. Nella sua cultura – o, meglio, in
quella di sua madre – la verginità ha ancora un grandissimo valore.
Tecnicamente la ragazza è ancora vergine, ma per lei era infamante rivelare i
particolari della violenza subita. Temeva di essere considerata impura.»
«È stato Finn, ve lo giuro. È stato Finn.»
«Questo è ciò che ha fatto credere al vicecomandante Freeman, giusto?
Aveva bisogno che la madre del ragazzo andasse nel panico per poter
organizzare tutto: spostare la videocamera fuori della stazione, chiamare la
centrale operativa con una denuncia troppo vaga perché la polizia prendesse
subito provvedimenti, telefonare da qui per far sembrare che qualcuno
volesse incastrarla e, infine, allertare il sergente Gunderson in un momento in
cui i colleghi di Shrewsbury fossero in altre faccende affaccendati in modo
che, appena il vicecomandante avesse dato ordine di fermarlo, a prelevare
Druitt dovesse andare lei personalmente.»
«Vi dico che non...»
«La capisco. Ma quando siamo riusciti a mettere le mani sul cellulare di
Druitt la sua posizione si è fatta traballante, Ruddock, e lei non ha potuto far
altro che tirare in ballo Finnegan. Ci ha raccontato che Druitt aveva delle
perplessità sul suo conto, ma non era il ragazzo a preoccupare il diacono, che
conosceva la verità dei fatti e aveva le prove per dimostrarla. Prove che poi
ha incautamente consegnato a lei, agente.»
«Ho eseguito gli ordini, tutto qui. Me l’ha ordinato lei, il vicecomandante
Freeman.»
«Non posso escluderlo. Ma dubito che le abbia ordinato anche di
sodomizzare la ragazza. Sergente?» Si voltò verso il corridoio.
Barbara rientrò nella stanza accompagnata da due colleghi in divisa.
«Adesso lei va a Shrewsbury con loro, Gary» disse a Ruddock. «Dove
l’aspetta una magnifica camera di sicurezza.»
Royal Shrewsbury Hospital
Shelton
Shropshire
Clover si presentò nella stanza del figlio verso le nove e mezzo. Non era in
tenuta da lavoro. «Ti do il cambio. Vai a dormire» disse al marito.
Prima che Trevor potesse replicare, Finn si svegliò. «Mamma?» disse.
Clover si voltò verso il letto. «Sono qui, tesoro. Papà adesso va a casa a
riposare un po’, ma uno di noi resterà con te finché non avremo arrestato
quell’uomo.»
L’arrivo della moglie aveva messo Trevor a disagio. Non voleva
andarsene. «Resto ancora un po’» disse.
«Non c’è bisogno» ribatté Clover. «Se vengono a interrogarlo, è meglio
che ci sia io.»
«La polizia?» chiese Finn, con voce assonnata.
Clover si sedette sulla sedia che aveva occupato Trevor fino a poco prima e
si protese verso il ragazzo. «Ti chiederanno di rilasciare una dichiarazione,
Finnegan» spiegò. «A meno che tu non l’abbia già fatto. Sono già venuti a
parlarti di quello che è successo ieri, o di qualcos’altro?»
Finn aveva lo sguardo rivolto al soffitto, ma in quel momento si voltò
verso la madre, che poté così rendersi conto di come era ridotto: aveva la
faccia tumefatta e piena di lividi e punti di sutura, come un pugile dopo un
incontro. «Cosa?» le chiese.
«Potrebbero chiederti chiarimenti su una cosa che è successa a dicembre»
spiegò Clover. «Nel caso... se tirano fuori anche questo argomento, be’, sarò
qui con te, quindi non ti preoccupare. A meno che tu non abbia già parlato
con la polizia. Quando te l’ho chiesto, non mi hai risposto.» Si voltò verso
Trevor. «Non ha parlato con nessuno, vero? Non è che durante la notte quella
tipa di Scotland Yard si è rifatta viva, vero?»
«Scotland Yard?» chiese Finn.
Trevor spiegò: «La mamma è preoccupata che tu dica qualcosa che non va,
alla polizia o a qualcun altro» spiegò Trevor.
«Ma se prima...? Non vogliono una mia dichiarazione?»
«Non riguardo a ieri, Finn» precisò Trevor. «Intendevo quell’altra cosa,
quello di cui parlavamo stanotte.»
«Stanotte?» Finn strizzò gli occhi come se gli desse fastidio la luce che
entrava dalla finestra.
«Ti ricordi che abbiamo parlato di quella ragazza che è stata violentata a
casa vostra, sul Temeside?» disse Trevor. Si accorse dell’occhiataccia di
Clover ma non si scompose.
«Che ragazza, pa’? Ding non c’era, quando il tipo mi ha picchiato. Non
penso che...»
«Hai problemi di memoria, Finn. Fai confusione per via delle botte, ma i
medici dicono che è una cosa temporanea.»
«E se adesso non ricorda nulla...?» sussurrò Clover. Trevor ebbe
l’impressione che la moglie fosse sollevata. Troppo sollevata.
Si rivolse al figlio. «I due ispettori di Scotland Yard ti faranno qualche
domanda su una ragazza che si è fermata a dormire da voi prima di Natale
perché avevate bevuto troppo. La mamma vorrebbe evitarlo perché pare che
quella ragazza sia stata sodomizzata.»
Clover drizzò la schiena. «Per favore, Trevor, non...» disse, impettita.
Lui continuò imperterrito. «La mamma preferirebbe che tu non parlassi di
quella sera con nessuno, perché ha paura di ciò che potrebbe accadere se tu
rispondessi alle domande della polizia. E immagino preferisca che tu non dica
nulla nemmeno sulla persona che ha cercato di ucciderti.»
Clover si allontanò dal letto. «Ti posso parlare un attimo, Trevor?»
Prima che riuscisse a trascinare il marito nel corridoio per dirgli quello che
gli doveva dire, però, Finn chiese: «Ma... chi... sodomizzato? Mamma?»
Clover guardò il marito, inviperita. «Sei una carogna» gli disse, sottovoce.
«Fai uno sforzo di memoria, Finn. Cerca di ricordare quella sera di
dicembre» disse Trevor al figlio.
«Non può» sibilò Clover. «Il medico ha detto che per un po’ avrà problemi
di memoria.»
«Ci deve almeno provare, no?»
«Quello che deve fare è tacere. Non dire niente a nessuno. Mi sono
spiegata, Trevor?»
«Papà? Mamma?»
Trevor si rese conto che Finn era regredito, e non solo per il modo in cui
parlava: in quel letto di ospedale, con la testa bendata e gli occhi lucidi,
sembrava un bambino. Ma si sforzava di non piangere di fronte ai genitori.
«La mamma non ti lascerà parlare con la polizia, a meno che tu non la
convinca che non hai l’abitudine di approfittare delle ragazze ubriache sul
divano di casa.»
«Ma con che faccia tosta...?» ribatté Clover, a denti stretti.
«Che cosa avevi intenzione di fare? Prima o poi la polizia gli dovrà ben
parlare, no? Non puoi schivarli in eterno. Se vuoi essere presente al
colloquio, bene, ma non puoi rispondere al posto suo» sbottò Trevor.
«Lo faranno cadere in contraddizione. Sono specialisti in certe tecniche. Lo
saprò bene come lavora la polizia, no?»
«Basta che dica la verità...»
«Dio mio, quanto sei ingenuo! Dire la verità non significa nulla. La verità
non basta. Quando sono in ballo innocenza e colpevolezza, la verità va a farsi
benedire. Al primo passo falso, sei...»
«Tu pensi...» A Finn si incrinò la voce, come quand’era adolescente. Si
voltarono entrambi a guardarlo. «Tu pensi che sia stato io. Che io...» Alzò il
braccio sano e si coprì gli occhi.
A Clover suonò il cellulare. «Non rispondere» disse Trevor. Lei guardò il
display. «Non posso non rispondere. È la sede della West Mercia Police»
replicò.
Ciò detto, uscì dalla stanza.
Coventry
Warwickshire
Quando i genitori di Yasmina avevano scoperto che aveva sposato di
nascosto un ragazzo inglese al secondo anno di università, l’avevano
praticamente diseredata. Forse si sarebbero anche potuti rassegnare all’idea
che avesse scelto un uomo di religione, etnia e cultura diversa, ma che la
figlia fosse rimasta incinta prima delle nozze era inaccettabile. Perché la
gravidanza significava che aveva infranto un principio sacrosanto nella loro
religione e nella loro cultura, che voleva che le donne arrivassero illibate alle
nozze. A farli infuriare era anche il fatto che, dovendosi occupare di un
bambino alla sua giovane età, avrebbe inevitabilmente trascurato gli studi in
medicina. Essendo la maggiore di cinque femmine, avrebbe dovuto dare il
buon esempio alle sorelle, anziché traviarle. Perché il loro dovere di figlie era
prima di tutto studiare, poi costruirsi una carriera e quindi sposare un uomo
adatto e di pari cultura. A seguire tutto il resto: casa, figli, successi di vario
genere e soddisfazioni in grado di rendere orgogliosi i genitori.
Il padre e la madre di Yasmina erano convinti che lei si fosse giocata tutto
questo, violando il divieto di avere rapporti prematrimoniali, e quindi
l’avevano cacciata di casa. Da allora, Yasmina li aveva incontrati soltanto in
due occasioni: la prima quando aveva cercato di presentare loro la prima
nipotina e la seconda quando si era specializzata in pediatria. In entrambi i
casi, non le era stato concesso di mettere piede in casa. Ma quel giorno
Yasmina si era messa in viaggio perché doveva fare pace con i fantasmi del
passato.
Quando Timothy aveva ingoiato le pasticche e si era addormentato,
Yasmina era salita in soffitta e aveva aperto il vecchio baule pieno di vestiti.
Aveva stirato un sari e lo aveva indossato per andare a Coventry.
Aveva scelto il meno sgargiante fra quelli che aveva conservato sperando
di indossarlo in qualche occasione tipo il matrimonio delle sorelle o le feste
per la nascita dei loro bambini, ma non era mai stata invitata. Se lo sarebbe
dovuto aspettare, invece aveva continuato a sperare che con il tempo tutto
sarebbe stato dimenticato e sarebbe stata di nuovo la benvenuta in famiglia.
Il sari era verde scuro e Yasmina lo aveva indossato secondo lo stile Nivi,
drappeggiandolo come le sue mani ricordavano senza problemi,
avvolgendolo in vita per poi lasciare l’estremità libera – la pallu – appoggiata
sopra la spalla sinistra. Ai piedi indossava sandali, al polso sinistro alcuni
cerchietti d’oro e al braccio destro una fascia dorata. Aveva messo anche un
paio di grossi orecchini pendenti con tormaline verdi. Quando si era guardata
nello specchio, aveva visto un’indiana che non aveva dimenticato la propria
cultura: era quella la donna che voleva mostrare ai suoi genitori.
Si avvicinò alla porta con il sole che le batteva sulla nuca: si preannunciava
una bellissima giornata. Suonò il campanello. Dovette suonare un’altra volta,
prima che le aprissero. Si ritrovò di fronte la madre in tuta da ginnastica e
scarpe da corsa slacciate.
Dall’ultima volta che l’aveva vista, era ingrigita e aveva i capelli meno
folti. Squadrò Yasmina strizzando gli occhi, tanto che lei pensò che le desse
fastidio la luce e si spostò all’ombra. Aprirono bocca contemporaneamente.
«Madhur?» chiese la madre.
«Mamma» disse Yasmina.
«Madhur, non abbiamo dolci in casa. Ho tè, ma non latte e la casa non è
esattamente...» continuò la madre, come se non l’avesse sentita.
«Sono Yasmina, mamma.» Si chiese chi fosse Madhur.
«... in ordine. Sei venuta di nuovo a parlare di Rajni?»
«Mamma, sono Yasmina, la tua figlia maggiore. Yasmina. Mi fai entrare?»
«Non posso» rispose la madre. «Perdonami, ma Palash dice che non posso
lasciar entrare... E Rajni... non sapevi che si è sposata, Madhur? È parecchio
tempo, ormai. Non è più disponibile, anche se noi non la vediamo. Palash non
ha approvato la scelta del marito perché non l’avevi fatta tu e si è molto
arrabbiato per la mancanza di rispetto.» Di punto in bianco, cambiò discorso.
«Rajni, sei tu? Ma no, impossibile. Non è permesso. Rajni aspetta un
bambino, a meno che non l’abbia perso nel frattempo. Rajni, hai perso il
bambino? Ti sei dimenticata di prenderlo l’ultima volta che sei stata qui? Ma
non sei più stata qui, vero? È Bina che è stata qui?»
Yasmina cominciò a capire. «Palash c’è? Mamma, è in casa papà?» Non
era possibile che suo padre avesse lasciato la moglie a casa da sola in quello
stato.
«Rajni se l’è cavata bene» disse la madre di Yasmina. «Non è la vita che
avremmo voluto per lei, però il matrimonio... Ambika dice che le ha portato
ricchezza. Ambika non se la passa altrettanto bene, nonostante nutrissi grandi
speranze per lei. Palash sostiene che le è saltata qualche rotella.»
«Che cosa le è capitato?» domandò Yasmina. «Mamma, papà è in casa?
Per favore, fammi entrare.»
«Mi dispiace enormemente» disse la madre, cominciando a richiudere la
porta. «Palash non vuole.»
«Mamma!» Yasmina spinse leggermente per impedire alla madre di
chiuderle la porta in faccia.
«Madhur, Rajni, non dovete! Ambika non c’è. Palash dice sempre che...»
«Fammi entrare, mamma!»
La donna non aveva la forza di tenerla fuori e Yasmina riuscì a infilarsi in
casa anche se, non appena fu all’interno, se ne pentì. Pile di giornali, sacchetti
accartocciati, fotografie sparse sui tavoli e per terra, mobili macchiati, posta
intonsa, riviste cadute per terra e calpestate, piatti, tazze e bicchieri sporchi
ovunque.
«Non devi, non devi!» gridava la madre. «Palash! Palash! Madhur vuole
Rajni e Ambika si farà del male se tu non vieni subito! Palash!»
Udirono passi pesanti sopra di loro e sulle scale comparve un omone in
vestaglia. «Sì, Vedas, sì. Palash è qui, ma Madhur è morta. In India, Vedas,
tanto tempo fa. Ti sei dimenticata? Rajni e Ambika non ci sono più, mia cara.
E chi è questa signora che hai fatto entrare in casa, nonostante ti abbia
raccomandato di non...»
Non appena vide meglio Yasmina, ammutolì. Poi disse semplicemente:
«Tu».
Yasmina non gli lasciò il tempo di dire altro. «Che cosa è successo? La
mamma è... Papà, ti occupi di lei da solo? Da quanto è...?»
«Vattene» intimò il vecchio. «Hai visto cos’hai combinato? Ti sono venute
tutte dietro, come pecore che seguono il pastore.»
«Palash» disse la madre. «A che ora arriva Ambika, Palash? E Sevti?
Perché non vediamo più Sevti? Non è andata al mercato a fare la spesa per
noi?»
«Vedas, riposa la mente. Va’ in cucina e aspettami lì» disse Palash alla
moglie.
«Non vogliamo offrire un tè a Madhur?»
«Certo. Va’ a riempire il bollitore, Vedas. Mettici l’acqua e non fare altro.
Arrivo subito.»
La donna parve arrovellarsi sulla questione dell’acqua da mettere nel
bollitore e si allontanò verso la cucina borbottando: «Acqua, acqua». Urtò
una pila di giornali nel salotto e questo bastò a farle dimenticare il tè: si
inginocchiò e si mise a rimetterli a posto secondo un ordine che solo lei
conosceva.
Yasmina la guardò con un senso di crescente disperazione. «Posso fare
qualcosa? Dimmi che cosa posso fare. Dove sono le mie sorelle?» chiese.
Il padre arricciò il naso, come se avesse sentito un cattivo odore. «Lasciaci
soli» disse. «Siete morte per noi. I fantasmi delle mie figlie non possono
entrare in questa casa.»
Yasmina notò il plurale e rifletté sui possibili sottintesi. «Hai cacciato di
casa tutte noi sorelle?»
«Sei stata tu» dichiarò il vecchio. «Se sono come morte per noi, è perché
l’hai voluto tu. A me hai piantato un paletto nel cuore, a tua madre hai
distrutto la mente e quello che vedi è ciò che resta di noi. Lasciaci soli con il
nostro dolore e con la nostra vergogna.» La fece voltare a forza e la spinse
verso la porta.
Yasmina oppose resistenza. «Non sta scritto da nessuna parte che debba
finire così. Non capisci?»
«Fuori!» Palash alzò la voce, e anche un pugno. Le si avvicinò minaccioso
come faceva un tempo e come aveva senza dubbio continuato a fare con le
altre figlie.
Yasmina arretrò. «Dove sono le altre? Che ne è stato di loro? Dimmelo,
papà. Dimmi dove sono le mie sorelle» disse.
«Sono morte per noi!» gridò rabbioso. «Vattene per la tua strada e lasciaci
in pace! Qui nulla è cambiato e nulla cambierà.»
Royal Shrewsbury Hospital
Shelton
Shropshire
Barbara Havers era dispiaciuta di essersi persa il Grande Momento ma,
quando Lynley le aveva esposto il piano che aveva messo a punto per
costringere Ruddock ad autoincriminarsi, aveva capito all’istante che era il
modo migliore per arrivare alla verità sulla morte di Druitt e lo stupro di
Missa Lomax. Era rimasta nel corridoio della stazione di polizia di Ludlow
assieme agli agenti di pattuglia e, appena si era sentita chiamare da Lynley,
aveva capito che l’ispettore aveva ottenuto i risultati sperati.
Il resto del colloquio con l’agente ausiliario era stato forma, più che
sostanza. Lo avevano ammanettato come lui aveva ammanettato Ian Druitt, lo
avevano fatto salire sull’auto di pattuglia e lo avevano portato via a sirene
spiegate. Lei e Lynley avrebbero avuto modo di interrogarlo nella stazione di
polizia di Shrewsbury, ma prima dovevano occuparsi di Clover Freeman.
Lynley telefonò al comandante Wyatt dal posteggio della stazione e
Barbara sentì soltanto quello che diceva l’ispettore. Dopo un’attesa
interminabile – ma perché il comandante Wyatt doveva sempre farsi
desiderare? – Lynley gli disse semplicemente che lui e il sergente Havers
erano in procinto di partire da Ludlow per andare alla sede della West Mercia
Police in quanto avevano bisogno di parlare con il vicecomandante della
morte di Ian Druitt. Poteva per piacere fare in modo che Clover Freeman non
si allontanasse dal suo ufficio?
Lynley rimase un momento ad ascoltare la risposta di Wyatt mentre
Barbara scalpitava per la curiosità. Quando chiuse la comunicazione, la sentì
che borbottava: «Eddai! Eddai!» La informò che Clover Freeman quel giorno
non era andata a lavorare.
«Ossignore! Si è data alla fuga?»
«Non credo. Ha telefonato per dire che sarebbe rimasta con il figlio al
Royal Shrewsbury Hospital, che il marito aveva fatto la notte e voleva dargli
il cambio.»
«Dunque secondo lei se ne sta lì ad aspettare che andiamo a prenderla?»
«Immagino sia all’oscuro degli ultimi sviluppi. Se ci sbrighiamo, è
possibile che la troviamo al capezzale del ragazzo.»
Partirono immediatamente. L’ospedale non era distante, ma la strada era a
due corsie soltanto e i camion li rallentarono parecchio. Senza luci e sirena,
dovevano aspettare come tutti di riuscire a sorpassarli. Barbara era in preda a
un’ansia crescente, che il self-control di Lynley non faceva che aumentare.
Secondo lei, Clover Freeman aveva distrutto le prove già da tempo,
ammesso che Ruddock gliele avesse davvero consegnate. Rischiavano di
trovarsi in una situazione in cui era la parola di lui contro la parola di lei,
visto che sui vestiti recuperati sotto il letto di Brutus avrebbero senza dubbio
trovato il DNA di più persone. E poiché Ding aveva fornito prestazioni
sessuali a Ruddock affinché lui non la riportasse dalla madre quand’era
ubriaca, la presenza del DNA di Ruddock su quegli indumenti si sarebbe
potuta spiegare anche così.
Lynley la pensava diversamente. Se c’era qualcosa che avevano capito su
Clover Freeman, era che si ingegnava in ogni modo per mantenere il figlio
sotto il proprio controllo: l’aveva mandato a fare volontariato presso il
doposcuola di Ian Druitt e aveva chiesto a Ruddock di sorvegliarlo di
nascosto. Più il ragazzo cresceva, però, più per la madre diventava difficile
trattenerlo nella propria sfera di influenza: da questo punto di vista,
conservare le prove di uno stupro ai danni di una ragazza priva di sensi era
per lei fondamentale.
«Quindi è convinta che sia stato Finn» commentò Barbara al termine della
spiegazione di Lynley.
«Ruddock avrà fatto di tutto per convincerla.»
«Perché non buttare via tutto, allora?»
«Perché avere le prove le dà potere sul ragazzo» rispose Lynley,
spostandosi sulla destra per superare un trattore e due auto. La Healey Elliott
era vecchiotta, ma aveva un’ottima ripresa. Barbara guardò l’ispettore mentre
gli alberi lungo la strada si trasformavano in una verde macchia sfuocata. Le
parve di notare una certa soddisfazione sul suo volto per la performance della
vettura.
«Lo trovo come minimo azzardato» osservò Barbara. Non stava parlando
del sorpasso.
«Lo è, ma i possibili vantaggi sono enormi. Io credo che lei sia convinta di
aver agito per il bene del figlio. Se non altro, attenua il peso delle sue
responsabilità.»
«Mi fa specie, però» disse Barbara meditabonda. «Nel senso: al di là di
quello che le avrà raccontato Ruddock, Clover Freeman doveva avere un
motivo per pensare che sia stato Finn a violentare Missa Lomax?»
«Il ragazzo le prova tutte pur di far ammattire sua madre» replicò Lynley.
«Non mi sembra un cattivo ragazzo, ma il fatto che abbia adottato quel look,
per esempio, suggerisce un’indole ribelle. Chissà cos’altro ha combinato in
questi anni.»
Quando giunsero al Royal Shrewsbury Hospital, Lynley mostrò il tesserino
all’accettazione. Venne avvertito telefonicamente un agente che li raggiunse
subito. Lynley gli assicurò che desideravano parlare non con Finnegan, ma
con sua madre, e lui replicò che in quel momento con il ragazzo c’era
soltanto il padre.
«Sapevamo che la signora Freeman era venuta a dargli il cambio» obiettò
Lynley. «Non è così?»
«È stata qui un po’, ma poi se n’è andata» rispose l’uomo. «Forse il papà è
voluto restare a tutti i costi.»
«Parleremo con lui, allora» disse Lynley. «È una questione di una certa
urgenza.»
L’agente ci pensò su un momento, muovendo le labbra come se volesse
pulirsi i denti da eventuali rimasugli della colazione.
«Ci vorranno meno di cinque minuti» gli disse Lynley.
«Va bene. È che ho l’ordine di non lasciare entrare nessuno.»
«Se non possiamo entrare in camera, parleremo nel corridoio» ribatté
Lynley. «O sul tetto, nel parcheggio, in ascensore, vicino ai bidoni dei
rifiuti...» aggiunse Barbara, spazientita.
L’agente fece cenno di seguirlo. La camera di Finnegan Freeman aveva la
porta chiusa. L’agente pregò i due colleghi di Scotland Yard di aspettare ed
entrò. Dopo un attimo uscì con Trevor Freeman.
Il padre del ragazzo aveva l’aria distrutta. «Non potete parlare con Finn.
Non si è ancora ripreso, ha vuoti di memoria e se...» li prevenne.
«Non vogliamo parlare con lui, ma con sua moglie» lo interruppe Lynley.
«Sta meglio, comunque?»
«Sì, guarirà. Avete catturato il bastardo che lo ha ridotto così?»
«Un teste potrebbe averlo identificato e abbiamo mandato in laboratorio
l’oggetto contundente per rilevare le impronte digitali. Signor Freeman, ci
risulta che sua moglie sia stata qui. Sa dirci dov’è andata?»
«Ha ricevuto una telefonata» rispose Freeman. «Dalla sede della West
Mercia Police. È uscita in corridoio per parlare. Ho dato per scontato che
fosse Wyatt. Probabilmente aveva bisogno di lei a Hindlip.»
«Perché lo pensa?» domandò Barbara.
«Perché subito dopo è andata via. Non è neanche rientrata nella stanza,
intendo.» Guardò prima Barbara e poi Lynley, con un’espressione sempre più
turbata. «Cosa siete venuti a fare? Sono al corrente della situazione, a
proposito. Tengo a precisare che mio figlio non ha violentato né sodomizzato
nessuno. Non sapeva nemmeno che la ragazza si era fermata a dormire sul
Temeside. Dev’essere entrato qualcuno, perché non...»
«Lo sappiamo» lo interruppe Lynley. «Il presunto colpevole è stato
arrestato.»
«Chi è?»
«Non glielo posso ancora dire. Lo stanno interrogando e prima dobbiamo
avvisare la vittima e i suoi famigliari. Abbiamo bisogno di parlare con sua
moglie, però.»
«Volete che la chiami sul cellulare? O al telefono dell’ufficio?»
Lynley rifletté un istante e rifiutò l’offerta. Barbara sapeva che, vista la
situazione, preferiva non mettere la pulce nell’orecchio al vicecomandante.
Lynley dubitava che Clover Freeman fosse stata convocata a Hindlip e
preferiva accertarsene senza interpellarla direttamente.
Ringraziò Freeman e gli augurò in bocca al lupo per Finn. Sperava che il
ragazzo si rimettesse completamente e in fretta. Promise di farsi vivo.
Barbara lo seguì e tornarono insieme agli ascensori. Aveva un brutto
presentimento. Non rimase sorpresa, perciò, quando uscendo dall’ospedale
Lynley chiamò la stazione di polizia di Shrewsbury e chiese del sergente di
turno. Con lampeggianti e sirena accesi, infatti, l’auto che trasportava
Ruddock doveva essere arrivata prima di loro, nonostante la Healey Elliott
fosse una macchina da corsa e Lynley un discreto pilota, e prima di venire
chiusi in camera di sicurezza gli arrestati avevano diritto a una telefonata. Era
assai probabile che Gary Ruddock avesse scelto di chiamare Clover Freeman.
Dall’ospedale alla stazione di polizia la strada era breve.
«Se ha conservato le prove, è sicuramente andata a recuperarle» disse
Barbara mentre Lynley attendeva che gli passassero il sergente di turno.
«Non può fare altro che distruggerle, a questo punto.»
«È una possibilità» ammise Lynley.
«Quali sono le altre?»
Lynley non ebbe il tempo di risponderle perché cominciò a parlare al
telefono. Gary Ruddock era arrivato? Sì. La procedura di registrazione era
stata espletata? Bene. Ruddock aveva per caso chiesto di effettuare una
telefonata? Sì. Lynley rimase in ascolto per un tempo che a Barbara parve
spropositato. Al termine di quella risposta lunghissima da parte del sergente
di turno, Lynley chiese se Ruddock avesse ricevuto visite. Sì. E di nuovo
tacque per ascoltare. Barbara avrebbe voluto strappargli il telefono di mano
per sentire anche lei e stava per gridargli di mettere il vivavoce, ma si
trattenne. Lynley dopo un po’ ringraziò il sergente e chiuse la comunicazione.
«È andata a trovarlo» le disse.
«Hanno lasciato che Clover Freeman vedesse Ruddock?»
«Un sergente di turno non può certo opporsi se il vicecomandante chiede
di parlare con un arrestato.»
«Quindi Ruddock ha telefonato a lei.»
«Il sergente non me l’ha detto esplicitamente, ma pare che Ruddock abbia
spiegato alla persona che ha chiamato che era stato arrestato e che aveva
bisogno di parlarle. Il sergente ha dato per scontato che fosse il suo avvocato,
ma penso che lei concordi con me, Barbara, che l’ipotesi più probabile è che
Gary Ruddock abbia chiamato il vicecomandante e le abbia chiesto di
raggiungerlo. Lei si è precipitata subito alla stazione di polizia e ha chiesto di
vederlo, e lui le ha riferito tutto. Stando attento a omettere certe
informazioni.»
«Non le avrà certo raccontato di essere stato lui ad aggredire la povera
Missa Lomax, per esempio.»
«Be’, di sicuro gli conviene che Clover Freeman continui a pensare che sia
stato il figlio. Le avrà detto che stiamo per incastrare Finn per indurla a
distruggere le prove, ammesso che lei le abbia conservate per mantenere il
controllo sul figlio. A questo punto il rischio di tenerle è superiore agli
eventuali vantaggi.»
«Non può sbarazzarsene vicino a casa» osservò Barbara. «Sa benissimo
che, se necessario, controlleremo tutti i cestini della spazzatura e i cassonetti
di Worcester.»
«E neppure vicino all’ufficio» concordò Lynley. «Per le stesse ragioni.
Cosa resta, dunque?»
Barbara pensò ai luoghi in cui Clover Freeman avrebbe potuto liberarsi
delle prove. Non la conoscevano. Magari le aveva in macchina e stava per
lanciarle da un dirupo, oppure aveva acceso il barbecue in giardino per
bruciarle, stava cercando un centro commerciale per infilarle in uno dei
cassonetti all’esterno o era in partenza per Timbuctù. Per quel che ne
sapevano, Clover Freeman aveva prenotato un volo per...
«L’aeroclub, ispettore» disse Barbara. «È socia, no? Insieme con Rabiah
Lomax e Nancy Scannell. Ricorda la foto? Potrebbe prendere l’aliante e
lanciarle in un lago o in un pantano. Ovunque, in realtà. Basta che sorvoli un
posto inaccessibile o comunque difficile da raggiungere. Non le troveremmo
mai.»
«Dov’è l’aeroclub?» domandò Lynley.
«Sull’altipiano, oltre Church Stretton, nel bel mezzo del niente. Ci sono
andata con il sovrintendente per parlare con Nancy Scannell.»
«Si ricorda la strada?»
«Ci posso provare. Seguiamo le indicazioni per Long Mynd.»
«Come si chiama l’aeroclub?»
Barbara cercò di farselo venire in mente. Midlands qualcosa. Ebbe
un’illuminazione. «West Midlands Gliding Club» disse.
«Provi a telefonare. Nel caso il vicecomandante Freeman fosse lì, chieda
che le impediscano di prendere l’aliante.»
Barbara fece schioccare le dita soddisfatta: le era venuta in mente una cosa
di vitale importanza. «L’aliante del consorzio è danneggiato» disse. «Si
ricorda che Rabiah Lomax ce ne ha parlato, quando siamo andati a casa sua?
Stavano discutendo della riparazione del velivolo. Forse il vicecomandante
Clover non ne è al corrente e pensa di poterlo usare.»
«Magari non è l’unico aliante disponibile. Ne avranno uno per i voli
scuola, per esempio. O per chi vuole volare accompagnato da un pilota
esperto. Dobbiamo impedire a Clover Freeman di salire a bordo. Telefoni
all’aeroclub, sergente. E mi spieghi come arrivarci.»
Ironbridge
Shropshire
Quando Yasmina tornò a casa, scoprì che Timothy non soltanto era sveglio,
ma stava camminando lungo la salita che dal Wharfage portava a casa loro, in
New Road. Accostò e abbassò il finestrino. «Ti do un passaggio?»
Timothy la guardò e scosse la testa, facendole segno di proseguire da sola.
Yasmina per una volta riuscì a posteggiare nel garage e quando scese
dall’auto vide il marito poco lontano e lo aspettò. Timothy non fece caso a
come era vestita, o comunque non fece commenti sul sari. Entrò in casa e le
lasciò la porta aperta.
Yasmina vide che andava in cucina e salì di sopra a cambiarsi. Piegò il sari
per riportarlo in soffitta con i vari accessori e si vestì come al solito.
Quando scese in cucina vide che il marito si stava preparando un panino.
Sentendola arrivare, si voltò verso di lei. «Ne vuoi uno anche tu? Già che ci
sono... Ci metto formaggio, pomodoro, cipolla e pickle. Ero uscito per andare
al mercato, ma poi... non so. Mi è sembrato troppo lontano» le disse.
Yasmina accettò volentieri e Timothy preparò i panini in silenzio. Yasmina
avrebbe voluto chiedergli come mai era alzato, ma si trattenne. Riempì il
bollitore e lo accese. Poi prese il tè – Earl Grey per lui, Darjeeling per sé – e
due teiere da uno, che scaldò facendovi scorrere acqua calda dal rubinetto.
«È stata la mamma. Ha telefonato a un vicino» disse Timothy dopo un po’.
«Come hai detto, scusa?»
«La mamma ha telefonato qui tre, quattro volte, non so. Io però dormivo e
non ho sentito niente. Allora si è preoccupata e ha chiamato in ambulatorio.
A quel punto dev’essere andata nel panico... Per quanto possa andare nel
panico mia madre. In ogni caso, ha telefonato a Reg Douglas e gli ha chiesto
se poteva fare un salto a controllare che io non... Insomma, Reg Douglas mi
ha svegliato e mi ha raccomandato di chiamarla subito.»
«È successo qualcosa a Missa?» domandò subito Yasmina.
«Reg non lo sapeva. Non mi ha detto niente. Ma se mia madre aveva
telefonato a lui...» Timothy agitò in aria il coltellino con cui stava sistemando
sul pane il pickle... «Insomma Reg Douglas è venuto di corsa.» Guardò la
moglie. «Non avevo idea di dove fossi. Quando in ambulatorio mi hanno
detto che non c’eri, intendo. Non sei andata a lavorare.»
«Che cosa voleva Rabiah, Timothy? Perché ha telefonato a Reg Douglas?»
«Ha saputo dalla polizia che è stata arrestata una persona.»
Yasmina aveva troppa paura per chiederlo, ma si fece forza. «Chi hanno
arrestato? E per cosa?»
«Per Missa.»
«È stato uno dei ragazzi che...?»
«No, non sono stati loro. Rabiah mi ha detto che non gliel’hanno voluto
dire. L’agente che l’ha contattata aveva ordine di comunicarle semplicemente
che il presunto colpevole era stato arrestato e trasferito alla stazione di polizia
di Shrewsbury. Non farà più del male a nostra figlia.»
Il bollitore scattò e Yasmina versò l’acqua nelle teiere mentre Timothy
tagliava i panini in quattro parti e li sistemava su un piatto, per poi prendere
un piattino per sé e uno per la moglie. Yasmina recuperò tazze, tovaglioli,
latte e zucchero e si sedettero a consumare il tè pomeridiano. Stettero zitti un
momento, poi Yasmina gli raccontò dov’era stata.
«Il sari» notò lui.
«Credevo potesse servire.»
«Invece no?» Le versò il tè, poi si riempì la tazza ed entrambi presero un
quarto di panino.
«Ho pensato che si sarebbero ammorbiditi, se mi avessero visto con
l’abbigliamento tradizionale. Invece mia madre è andata in confusione e mio
padre forse non se n’è nemmeno accorto. Le hanno cacciate tutte. Hanno
riservato lo stesso trattamento anche a loro.»
«Le tue sorelle?»
«Tutte quante.»
«Non perché sono rimaste incinte, però. Non credo che abbiano commesso
il tuo stesso errore, vedendo quanto ti era costato.»
«Non lo so» replicò Yasmina. «Ma mio padre ha tagliato i ponti con loro, e
lui e la mamma sono completamente soli. In una casa che... roba che si vede
solo nei film, Timothy. Sono accumulatori compulsivi, non buttano nulla.»
Timothy fissò il panino per un tempo che a lei parve infinito, ma
probabilmente fu meno di trenta secondi, poi alzò la testa e la guardò
altrettanto a lungo. «Mi dispiace. Dev’essere stato molto brutto, per te,
Yasmina. Dove sono le tue sorelle? Che fine hanno fatto?»
«Non lo so. Le cercherò.» Prese un pezzo di panino, ma aveva la gola
troppo secca. Gli doveva dire una cosa. Posò il panino sul piatto e bevve un
sorso di tè. Un altro. «Avevi ragione su tutto» disse infine.
«Non ho più ragione su niente da anni.»
«Non è vero. Riguardo alle nostre figlie, hai sempre avuto ragione tu.»
Yasmina cercò le parole giuste per esprimere i sentimenti che le aveva
scatenato la visita a casa dei genitori, vedere cosa aveva riservato la vita a
loro e alle sue sorelle. «Timothy... rivederli mi ha fatto... Credo di aver capito
per la prima volta... Non so come descriverlo» disse.
«Non ce n’è bisogno. Me lo posso immaginare.»
«Volevo dirti che...» Sentendola esitare, Timothy la guardò e cambiò
espressione. Yasmina si chiese cosa avesse provocato quel mutamento:
compassione, speranza, inquietudine o solo rassegnazione di fronte al fatto
che era tutto perduto? Si fece coraggio. «Voglio che tu sappia che questa
frattura dentro di me, fra chi vorrei essere e chi sono stata... be’, è una cosa
contro cui dovrò combattere tutta la vita.»
«Non capisco.»
«Voglio imparare a essere compatibile anche con te e le ragazze, oltre che
con me stessa: è questo che sto dicendo. E mi dispiace di aver trascinato la
nostra famiglia in questa crisi.»
«Non è colpa solo tua.»
«Ma in parte sì e se ci penso, se analizzo quello che è successo, sto male da
morire.»
Tacque in attesa di qualcosa, non sapeva neppure lei cosa. In fondo, non si
aspettava niente. Doveva soltanto assumersi la responsabilità delle azioni che
aveva compiuto, delle scelte che aveva fatto, dei paraocchi che aveva deciso
di indossare. E Timothy doveva fare quello che sentiva di dover o voler fare.
«Rabiah la sta riaccompagnando a casa. Telefonava anche per quello.
Missa vuole tornare qui» le disse.
«A Ironbridge, vuoi dire?»
«No, qui. A casa.»
Yasmina meditò su quella novità. «Non so che sentimenti mi provochi
questa cosa. Più che altro, mi spaventa. Ho paura della mia stessa figlia?»
Poiché Timothy non diceva nulla, aggiunse: «Vorrà qualcosa da me e io non
so se sono in grado di darle ciò di cui ha bisogno».
«Prima di tutto potresti chiederle se ha bisogno» suggerì Timothy. «Glielo
dovremmo chiedere tutti e due.»
Long Mynd
Shropshire
Barbara Havers stava tentando di contattare l’aeroclub da quando era riuscita
a trovare il numero. Brontolò che le rispondeva sempre una «maledetta
vocina registrata» e poi sbottò: «Ma non ci lavora nessuno, in ’sto cacchio di
posto? A me sembrava che un ufficio ci fosse. Non hanno una segretaria?
Dov’è finita?»
«Insista» consigliò Lynley.
Viaggiavano a velocità sostenuta, ma Clover Freeman aveva un notevole
vantaggio. Dopo aver parlato con Gary Ruddock, doveva aver capito di
essere in grave pericolo, avendo orchestrato la morte del diacono, occultato
prove e ostacolato non solo l’inchiesta della commissione per i reclami contro
la polizia, ma anche i due supplementi di indagine da parte di New Scotland
Yard. La aspettava un lungo soggiorno nelle carceri di Sua Maestà, a meno
che non fosse riuscita a sbarazzarsi delle prove che suo figlio era uno
stupratore: perché di questo era convinta. A parte le telefonate con Gary
Ruddock usando il cellulare del marito, Lynley e Barbara non avevano nulla
di incriminante contro di lei, solo l’ipotesi che Clover Freeman avesse
aspettato diciannove giorni prima di procedere al fermo del diacono perché
voleva che fosse l’ausiliario Ruddock e non uno degli agenti titolari a
mettergli le manette ai polsi e portarlo in centrale. Ma se l’avessero sorpresa
con la biancheria che Missa Lomax aveva consegnato al morto sarebbe stato
molto difficile per lei giustificare in tribunale perché fosse in possesso di
quegli indumenti. E di sicuro li aveva con sé. Era troppo furba per non capire
che il cerchio si stava stringendo. Senza dubbio da quando Ruddock glieli
aveva consegnati il vicecomandante li aveva tenuti a portata di mano perché
non erano soltanto una prova schiacciante, ma anche un’arma infallibile con
la quale mantenere il rapporto morboso con suo figlio.
Corsero lungo la A49 fra campi di frumento. Furono fortunati e trovarono
meno traffico rispetto al tragitto da Ludlow e dopo un quarto d’ora soltanto
svoltarono sulla provinciale. Superarono velocemente il villaggio di All
Stretton ed erano quasi a Church Stretton quando Barbara gridò: «Giri qui,
ispettore. Qui!»
Lynley vide la deviazione solo all’ultimo, nascosta com’era fra gli alberi.
Era una strada stretta e dopo un po’ si restrinse ulteriormente. «Ahia! Scusi,
ispettore» disse il sergente.
Lynley capì che le dispiaceva per la Healey Elliott. Trovò tutt’altro che
rassicurante l’avvertimento successivo di Barbara: «Fra poco diventa ancora
peggio».
E in effetti fu così. «Ecco, dopo la cabina telefonica giri a destra» disse
Barbara. Erano in quella manciata di fattorie che andava sotto il nome di
Asterton. Lynley vide la ripida salita e si chiese se la Healey Elliott ce la
potesse fare. Scalò marcia, ma dovette frenare di colpo perché gli tagliarono
la strada una pecora e un agnellino. Imprecò. Barbara lo avvertì che la zona
era popolata anche da germani reali e scese per allontanare gli ovini a suon di
«Sciò sciò». Lynley riuscì a passare oltre, anche se non fu facile.
Barbara risalì in macchina e riprovò a chiamare l’aeroclub. Finalmente
qualcuno le rispose. Si presentò, spiegò che stava arrivando e chiese se
Clover Freeman fosse lì.
Rimase un momento a sentire. «Non può andare a vedere? Come sarebbe?
No, lei non era alla reception: ho provato a chiamare cento volte e non mi
ha...» disse poi.
Lynley le lanciò un’occhiata. Era paonazza. Dopo un po’ riprese a parlare.
«Mi stia a sentire, imbecille che non è altro. Questa è...»
«Sergente» la riprese sottovoce Lynley.
«... un’indagine per omicidio e la Freeman è coinvolta, per cui il suo
ostruzionismo è quantomeno... Va bene. Subito, però.» Mise la chiamata in
attesa e si rivolse a Lynley. «Ha mandato uno a vedere se c’è».
«È un posto grande?»
«Ci sono un certo numero di hangar e di baracche, casotti, costruzioni
varie e un cacchio di parcheggio per i caravan.» Imprecò. «Qui, ispettore.
Ecco: questo è l’ultimo tratto» disse in fretta.
A Lynley non dispiacque affatto, perché la strada era ridotta ormai a due
solchi paralleli in mezzo alla campagna. L’altopiano era una distesa enorme e
senz’alberi, che in quel periodo dell’anno era un tappeto giallo di ginestre con
qualche macchia verde di felci e strisce di erica che d’estate si sarebbero tinte
di viola. Era il posto ideale per volare con l’aliante. A ovest il panorama
digradava in morbide colline, alcune quarzitiche, altre vulcaniche. L’unica
vetta rocciosa era Stiperstones. Con le correnti giuste si poteva arrivare in
volo libero fino in Galles.
«A destra, ispettore!» gridò Barbara. In quel momento Lynley vide il
cartello e il cancello. Fece appena in tempo a frenare che Barbara scese dalla
macchina, spalancò il cancello e risalì di corsa indicando l’edificio principale
dietro lo spiazzo di ghiaia che fungeva da parcheggio.
Di fronte, a circa trecento metri di distanza, c’era la pista di lancio. Barbara
la indicò a Lynley. C’erano due alianti pronti al decollo, uno dietro l’altro, e
un terzo tenuto in equilibrio da un uomo che reggeva l’ala mentre un altro
munito di una cartellina rigida girava intorno al velivolo impegnato in quella
che sembrava un’ispezione.
«Vado?» disse Barbara, indicando la zona di lancio.
«Sì. Io controllo all’interno» rispose Lynley. E si avviò verso l’edificio
principale.
Cercò la reception e scoprì che le ricerche di Clover Freeman non avevano
prodotto risultati: non risultavano alianti prenotati a suo nome, non era stata
vista in giro e non aveva risposto agli annunci fatti agli altoparlanti sia esterni
sia interni.
Lynley imprecò fra sé. Eppure sembrava l’ipotesi più plausibile... Era una
pilota di alianti, era socia di quell’aeroclub, che peraltro era l’unico in tutto lo
Shropshire...
Socia dell’aeroclub, pensò. Chiese se Nancy Scannell fosse presente, se
avesse prenotato lei un volo.
Il segretario, un signore dalla carnagione bruna che sulla targhetta
identificativa aveva scritto «Kingsley» e che pareva aver trascorso gran parte
della sua vita a camminare all’aria aperta sulle colline dello Shropshire,
controllò i registri e i moduli che occorreva compilare per prendere gli alianti.
Scosse la testa. Nancy Scannell non compariva, purtroppo. Spiacente, disse.
L’unico aliante prenotato in quel momento era a nome Lomax. Non riusciva a
leggere il nome di battesimo perché era uno scarabocchio. Rachel, forse?
«Rabiah Lomax?» chiese Lynley. E, senza lasciargli il tempo di
rispondere, disse: «È già in volo? Può fare in modo che non decolli?»
Kingsley disse che il massimo che poteva fare era chiamare il verricellista.
«Quindi Clover Freeman non vi interessa più?» domandò.
«A bordo di quell’aliante c’è Clover Freeman» spiegò Lynley. «Sì.
Contatti il verricellista via radio. Gli dica che sto arrivando.»
Lynley partì di corsa. Vide Barbara in lontananza: correva verso i due
alianti ancora a terra. L’altro era già stato lanciato e stava prendendo quota
virando verso il Galles. Il velivolo successivo era in fase di ispezione, ma il
pilota era già ai comandi. Barbara era diretta verso quello.
Il problema più urgente, tuttavia, non era l’aliante, ma il verricello.
Dovevano fermarlo. Chiamò Barbara sul cellulare e si accorse di aver
commesso un errore vedendo che lei si fermava a cercare il telefono. Imprecò
e chiuse la chiamata. Barbara interruppe la ricerca del telefono, ma guardò
nella sua direzione. Vedendolo correre, ebbe un attimo di esitazione, ma lui le
fece segno di proseguire. Gridò. Se Clover Freeman era pronta al decollo,
non poteva comunque prendere il volo senza il verricellista e Barbara ne era
certamente consapevole. Non poteva non saperlo. Doveva fermare non
Clover Freeman, ma l’operatore prima che eseguisse le manovre necessarie al
lancio.
Barbara tuttavia fraintese il gesto di Lynley e continuò a correre verso gli
alianti. A quel punto dipendeva tutto da Kingsley, alla reception, che doveva
contattare via radio il verricellista giusto. Ce n’erano infatti due, uno a ogni
estremità della pista.
Barbara raggiunse l’aliante in coda per il lancio e batté con il pugno sulla
calotta di plexiglass, che dopo un attimo si sollevò. Barbara parlò brevemente
con il pilota e partì di corsa verso l’aliante davanti, ma proprio in quel
momento il verricellista dalla sua parte lampeggiò al collega dalla parte
opposta e l’aliante cominciò a muoversi. Barbara lo raggiunse. Scattò un
allarme. Barbara si lanciò sulla cabina di pilotaggio per cercare di aprirla e
riuscì ad afferrare il bordo della calotta di plexiglass, ma non ebbe il tempo di
sollevarla perché l’aliante si mosse in avanti e cominciò a prendere velocità:
troppo tardi. Barbara cadde e l’aliante si staccò da terra, trainato dal verricello
più distante. L’aerodinamica fece il resto. Nel giro di pochi secondi il
velivolo si librò in aria e prese quota. Lynley sapeva che si sarebbe sganciato
dal verricello non appena...
Si sganciò, ma a soli cinquecento piedi da terra, prima di aver preso
sufficiente quota, e precipitò.
Lynley sentì le grida alzarsi da ogni direzione. Le persone nel parcheggio,
che stavano osservando il decollo, si misero a correre verso il luogo
dell’incidente. Barbara si rialzò in piedi e partì a razzo verso l’aliante. «Ha
sganciato troppo presto! È stata lei!» urlò il verricellista mentre saltava giù
dalla macchina. Il pilota a bordo dell’aliante in attesa scese e corse a vedere
coprendosi la bocca con la mano. Altre persone nei paraggi si precipitarono
verso il punto dello schianto mentre da uno dei verricelli suonava un allarme,
forse per avvertire le persone all’interno dell’edificio.
Lynley e Barbara arrivarono contemporaneamente. Era già intervenuto
qualcuno dal parcheggio, che aveva rimosso la calotta. Il pilota era accasciato
da una parte, ancora legato all’imbracatura. Intanto la gente continuava ad
accorrere da tutte le direzioni, urlando e strepitando.
«Chi cazzo ha fatto l’ispezione pre-decollo?» chiese uno. «Io. Ma era tutto
a posto. Non...» rispose un altro.
«Come sta?»
«Come vuoi che stia, Franklin?»
«Dev’essere stato il gancio di traino.»
«Ti dico che ho controllato! È arrivata all’improvviso quella donna e di
colpo...»
«Tiriamola fuori.»
«No! Non toccarla! Potrebbe essere...»
«E che cazzo, Steve!»
«Quale donna? Dov’è?»
«Non capisci? È stata lei a sganciarsi. Non c’era niente che non andava, era
tutto...»
«Cosa le è saltato in mente di sganciarsi a quella quota, cazzo?»
«Magari non sapeva che...»
«Chi è?»
«È la prima volta che vola in solitaria...»
«Non ha fermato il lancio? Gliel’ho comunicato via radio, perdio! Gli ho
detto... C’è la polizia. Non so dove siano in questo momento, ma... Ah,
eccoli.»
«La polizia?»
All’improvviso scese il silenzio e tutti si guardarono in giro in cerca di
qualcuno da additare come responsabile dell’incidente. La polizia era un
ottimo candidato.
«Si è sganciata troppo presto» mormorò Barbara mortificata. «Mi dispiace,
credevo di riuscire a fermarla. Invece, appena mi ha visto...»
«Sapeva che per lei era la fine» disse Lynley. «Era consapevole di quello
che l’aspettava.»
Ironbridge
Shropshire
L’idea era fermarsi a prendere Sati, ma dopo un’attenta riflessione Rabiah
aveva deciso che, se avere in casa la sorellina avrebbe senza dubbio
rassicurato Missa, la sua presenza avrebbe reso più difficile il chiarimento
che la ragazza doveva assolutamente avere con i suoi genitori. Perciò, andò
direttamente a casa di Timothy e disse a Missa che Sati sarebbe rimasta dai
Goodayle finché lei non avesse chiesto a Justin di riportarla a casa. Justin era
al corrente che Missa stava tornando a Ironbridge con la nonna e voleva farle
sapere che era preoccupato, che aveva già parlato con Yasmina e che
aspettava notizie perché doveva dare qualche spiegazione a Sati. Non si erano
promessi di dirsi sempre e comunque la verità, loro due e Sati, qualsiasi cosa
fosse successa?
Missa ascoltò e tacque. «Grazie, nonna, di non averglielo detto» replicò.
«Perché avrei dovuto? Che opinione hai di tua nonna, se mi ritieni capace
anche solo di prenderlo in considerazione?»
«È che se lo sapesse... Voglio dire, tu pensi che a quel punto non mi
sposerebbe più, no?»
«Perché dovrei pensare una cosa simile? È assurdo.»
«La mamma lo pensa.»
«È assurdo, ti ripeto. Se c’è una cosa di cui siamo certi al cento per cento è
che Justin ti ama. Ti ha sempre voluto bene e sempre te ne vorrà. Anche tua
madre ne è consapevole, Missa, per quanto tu pensi che abbia sbagliato
riguardo a te, Justin, il vostro matrimonio, l’università e quant’altro. Nessuno
ha mai messo in dubbio il fatto che vi vogliate bene. Tu, forse, ma noi no.»
Rabiah si accorse che Missa continuò a riflettere su quelle parole per tutto
il tragitto da Ludlow. Era una sua caratteristica, ed era un difetto, oltre che
una virtù: Missa dava grande peso alle opinioni altrui, anche quando avrebbe
dovuto fregarsene altamente di ciò che gli altri pensavano di lei.
Conoscendo la nuora, Rabiah si aspettava che Yasmina corresse subito
incontro alla figlia, sentendole arrivare. La immaginava intenta a sbirciare
dalla finestra e mentre posteggiava credette di scorgerla dietro un vetro. Non
la vide comparire di corsa, però, e quando suonò il campanello fu Timothy ad
aprire la porta.
Abbracciò Missa, che per un attimo rimase impalata come una statua, ma
poi ricambiò l’abbraccio del padre. Timothy la accompagnò in casa
cingendole le spalle. «Grazie, mamma» disse, e Rabiah li seguì.
Yasmina era in salotto, più vicina alla cucina che all’ingresso. Tese la
mano verso la figlia ma la lasciò ricadere subito, attenta a non dare
l’impressione sbagliata.
Rabiah conosceva bene la nipote e quindi non si sorprese sentendole dire:
«Mi dispiace per il trambusto che ho causato».
Fu abbastanza per spingere Yasmina a fare un passo avanti, benché
titubante. «In tutto questo tu non hai nessuna colpa. Voglio che ti sia chiaro»
disse.
Missa non replicò. Sembrava confusa dalle parole di sua madre. Guardò
prima il padre e poi la nonna.
Nel silenzio, partì la suoneria del cellulare di Rabiah che guardò il display
e, non riconoscendo il numero, aggrottò le sopracciglia. «Pronto?» rispose in
tono pacato. E sentì la voce dell’ispettore di New Scotland Yard che la
informava della morte del vicecomandante di polizia Clover Freeman e
dell’arresto dell’ausiliario di Ludlow per la violenza subita da Missa. Rabiah
avrebbe voluto chiedere all’ispettore una serie di chiarimenti, ma non fece
domande. «Grazie. Ho accompagnato Missa a Ironbridge. Ha bisogno di lei?»
si limitò a replicare. Lynley le rispose che no, forse in un secondo momento,
si sarebbe fatto vivo.
Quando Rabiah rimise in borsa il cellulare, si accorse che la guardavano
tutti. «Scotland Yard ha arrestato l’agente ausiliario di Ludlow. È stato lui,
tesoro». Non guardò Timothy: avrebbero parlato dopo di ciò che aveva
combinato il giorno prima. Sentendo dell’arresto dell’ausiliario, però,
Timothy abbassò il braccio che teneva sulle spalle della figlia e andò a
sedersi sul divano con le mani penzoloni fra le ginocchia.
«Quella sera ci ha portati a casa lui, perché eravamo tutti ubriachi. Ma poi
è uscito, nonna. Credevo fosse andato a cercare Ding, che lo aveva fatto
arrabbiare. Lui voleva qualcosa e lei gli aveva detto di no. Quindi credevo
che fosse andato a cercare lei» disse Missa alla nonna.
«È possibile, ma evidentemente non l’ha trovata e così è tornato indietro.»
«Non dovevo fermarmi lì. Non dovevo bere.»
«Ti stai dando responsabilità che non hai, Missa» intervenne Yasmina.
«Lo sapevo, che non bisognava...»
«Avevi appena finito gli esami e volevi divertirti, per una sera.»
Missa chinò il capo, come se non potesse credere a ciò che le stava dicendo
sua madre, né tanto meno accettarlo.
Yasmina si avvicinò alla figlia. «Guardami negli occhi, Missa, se riesci. Se
non riesci, pazienza. L’importante è che tu ascolti quello che ti voglio dire.»
Non aspettò che la figlia replicasse e proseguì. «D’ora in poi voglio lasciare
che tu faccia la tua vita, Missa. Te lo dico con il cuore. In cambio ti chiedo
solo di perdonarmi, se mai sarai in grado. Non ora. Nemmeno lo voglio, ora,
è troppo presto e tu lo faresti solo perché ti senti in dovere di far contenta me,
non ti senti libera di compiere liberamente le tue scelte, come hai provato a
dirmi in più di un’occasione. Ho sbagliato nei tuoi confronti, Missa, lo so.
L’ho fatto a fin di bene, però, e spero che un giorno tu te ne renda conto. Non
mi fraintendere: non voglio con questo sminuire i miei errori. Non avrei
dovuto fare e dire certe cose e non avrei dovuto insistere. Ho sbagliato.»
«Mamma, io non ho mai voluto...»
«Con una madre come la tua, Missa?» la interruppe Yasmina. «Hai fatto
quello che potevi, credimi.»
Yasmina tese le mani verso la figlia. Rabiah esortò mentalmente Missa a
prenderle, a compiere un passo per dimostrare a Yasmina che il rapporto
madre-figlia che non avevano mai avuto si poteva almeno in parte ricucire.
Missa però restò immobile. «Posso chiamare Justin?» chiese.
Yasmina abbassò le braccia, ma la sua espressione rimase aperta,
disponibile, affettuosa. «Sarà contento di sentirti. Se ti fa piacere, digli pure
che ti raggiunga qui» rispose.
Missa la guardò come in attesa di ulteriori autorizzazioni. Poi guardò il
padre, che assentì. Infine si voltò verso Rabiah. «Aspetta con ansia una tua
telefonata, tesoro» disse la nonna.
«Gli propongo di venire con Sati, allora? Cosa ne pensi, nonna?»
Fu Yasmina a rispondere, però. «Solo se Sati desidera tornare» precisò.
Missa uscì dalla stanza e Rabiah attese di sentire i passi sulle scale e la
porta della camera che si chiudeva. Non disse nulla al figlio e alla nuora,
preparandosi all’inevitabile conversazione, pregando che la sua famiglia
avesse abbastanza coraggio per affrontarla.
Timothy si alzò dal divano. «Ti hanno dato il biglietto da visita, quando
sono venuti a parlarti?» chiese alla madre.
«La donna, sì» rispose Rabiah. «Il sergente investigativo.»
Timothy annuì e tese la mano per farselo dare. «La chiamo, allora.»
«Quando sono venuti a chiedermi una foto, non ho potuto...»
«Non ti preoccupare, mamma. Ho fatto tutto io» replicò Timothy. «Chi è
causa del suo mal... come dicono. Perciò tocca a me compiere i passi
necessari, adesso.»
Worcester
Herefordshire
Appena quelli di Scotland Yard se n’erano andati dall’ospedale, Trevor aveva
provato e riprovato a chiamare la moglie sul cellulare, ma lei non gli aveva
mai risposto. Aveva allora tentato di mettersi in contatto con Gaz Ruddock
ma anche con lui non aveva avuto successo.
A Finn non aveva detto nulla. Da quando i due ispettori si erano presentati
sulla porta della camera, Trevor aveva deciso di non abbandonare neanche
per un attimo il figlio: doveva capire che cosa stava succedendo e doveva
proteggere Finn in tutti i modi, tra cui risparmiargli un interrogatorio della
polizia. Con il passare delle ore, tuttavia, la sua ansia crebbe. Doveva essere
successo qualcosa, altrimenti Clover si sarebbe fatta sentire, vedendo che
aveva provato a chiamarla mille volte. Il suo silenzio scatenò in lui una ridda
di supposizioni. Quando finalmente, verso sera, gli squillò il cellulare, lo
prese e andò a rispondere nel corridoio. Finn sonnecchiava e non lo voleva
disturbare.
Era l’ispettore di Londra che era passato al Royal Shrewsbury Hospital per
cercare Clover. Chiese a Trevor dove si trovasse e gli diede appuntamento a
Worcester. Trevor rispose che era ancora a Shrewsbury con Finn, ma l’uomo
insistette: era indispensabile che si vedessero presso la sua abitazione di
Worcester. La camera di Finn non era piantonata? Trevor rispose che sì, il
piantone c’era ancora, e l’ispettore ribatté che allora poteva stare tranquillo, il
figlio non correva pericoli.
«Non riesco a contattare mia moglie» lo informò Trevor.
Era proprio di quello che desiderava parlargli a Worcester, replicò
l’ispettore. Al momento si trovava alla sede della West Mercia Police, a
Hindlip, insieme con il sergente Havers. Avevano appena finito di parlare con
il comandante Wyatt. A proposito, sua moglie non era andata in ufficio. Da
Shrewsbury si era diretta verso il Long Mynd.
«Come sarebbe a dire?» esclamò Trevor. «È andata all’aeroclub?»
Non riuscì a cavargli altro: Lynley insisteva per vedersi a Worcester. A che
ora pensava di riuscire a esserci?
Se voleva raccogliere altre informazioni, l’unica soluzione era accettare.
Trovò ad aspettarlo i due di Scotland Yard. Erano venuti con l’ultima
automobile a bordo della quale si aspettava di vedere due poliziotti. Avrebbe
sicuramente fatto un commento sull’auto d’epoca, se non avesse visto la loro
espressione cupa.
Si voltò dall’altra parte, come se cercasse di non guardare in faccia la
realtà. Li fece entrare in casa, accese la luce nell’ingresso e poi in salotto.
Quindi andò al mobile bar, lo aprì ed esaminò il contenuto alla ricerca di
qualcosa che attutisse la mazzata che stavano per dargli.
I due ispettori aspettarono che finisse e si voltasse. Lesse loro negli occhi
che la situazione era talmente grave da non poter essere attenuata da nulla, né
da un drink, né da una domanda, né da un resoconto dei miglioramenti di
Finn. Aveva capito cosa l’aspettava. «Come?» si limitò a chiedere.
«L’aliante è precipitato subito dopo il lancio» rispose Lynley.
«Era stato sabotato?»
«Si è sganciata troppo presto» replicò Barbara. «Mi ha visto, signor
Freeman, e ha capito.»
«Condoglianze» disse Lynley.
«Ha...?»
«È sopravvissuta per pochi istanti all’impatto e non ha ripreso conoscenza.
Non vuole sedersi?»
«Finn. Devo...» Improvvisamente si rese conto di essere arrabbiato. «E mi
avete fatto tornare a casa per questo? Non avevate voglia di scomodarvi per
venire fino a Shrewsbury e così mi avete costretto a lasciare mio figlio da
solo? Era così importante dirmelo qua? Per quale motivo? Cosa mi state
dicendo di mia moglie?»
Gli diedero un momento per ricomporsi e lui ne approfittò. Gli girava la
testa e a un certo punto, mentre guardava la parete con le foto di famiglia,
vide tutto nero. Corsero a sorreggerlo. Quando si riprese, vide che era stato
Lynley a impedirgli di cadere. Lo stava invitando a sedersi.
Poi cominciò a parlare e Trevor non poté fare altro che ascoltare. Si diceva
che lui non ne sapeva niente, che era all’oscuro di tutto, ma una parte di lui
era consapevole: l’aveva intuito fin dall’inizio e aveva avuto paura di
chiedere chiarimenti a Clover.
Non gli risparmiarono alcun dettaglio. Quando Lynley prendeva fiato,
attaccava il sergente Havers. E così Trevor venne a sapere cosa aveva fatto a
dicembre Gaz Ruddock alla ragazza ospite a casa di Finn, cosa era era
riuscito a far credere a Clover sull’autore della violenza e come tutto questo
era collegato con Ian Druitt, con le prove del reato, con un fermo fasullo e un
suicidio fasullo, e tutto perché Clover non poteva credere che suo figlio
potesse essere non soltanto innocente, ma addirittura ignaro del crimine
avvenuto dopo una sbronza colossale con gli amici.
Dopo avergli esposto con dovizia di particolari quella storia orripilante,
conclusero con uno sviluppo inaspettato. «Abbiamo perquisito l’aliante e
l’auto con cui si è recata sul Long Mynd» spiegò Lynley. «Abbiamo guardato
in ogni angolo di ogni edificio dell’aeroclub. Alla sede della West Mercia
Police il comandante Wyatt ci ha indicato l’ufficio di sua moglie e abbiamo
perquisito anche quello. Resta da controllare solo casa vostra. Speriamo di
trovare qui ciò che cerchiamo.»
Vent’anni di vita con Clover gli avevano aguzzato l’ingegno. «Perché mai
avrebbe dovuto nascondere qui delle prove? È insensato. Se pensava che
Finn...» Ma non finì la frase, perché comprese che per Clover avrebbe invece
avuto un senso nascondere in casa delle prove, se avesse considerato Finn
colpevole.
«Con il suo permesso, vorremmo dare un’occhiata» disse Lynley.
Impiegarono più di tre ore. Trevor non immaginava che per perquisire una
casa ci volesse così tanto tempo, ma fu un controllo puntuale e meticoloso.
Alla fine trovarono quel che cercavano in soffitta. Clover aveva conservato i
collant e la biancheria nella busta per le prove in cui li aveva riposti Ruddock,
nascosti in mezzo ai vestiti di Finn bambino, dentro una scatola di cartone.
Trevor trovò significativo che Clover avesse scelto proprio quel nascondiglio.
«Avevamo sempre sperato...» disse, scoraggiato. Ma non aveva senso
concludere la frase. «Cosa ne farete? Data la situazione, intendo.»
Lynley comprese la sua richiesta. «Le prove non sono state raccolte e
conservate correttamente e pertanto hanno un valore relativo. Sua moglie e
Ruddock lo sapevano. Ma il DNA dovrebbe chiarire le responsabilità. Se non
altro, escluderà suo figlio.»
Il sergente Havers indicò la busta. «Quando saprà che abbiamo questi, con
il DNA suo, e non di Finn, non so che spiegazioni potrà fornire Ruddock.
Tanto più che non aveva mai avuto a che fare con la ragazza, prima di quella
sera. Non beveva, non era mai stata trovata per strada ubriaca e quindi non
era fra quelle da cui Ruddock pretendeva favori sessuali in cambio del
silenzio. Altrimenti avrebbe potuto usare quegli incontri per giustificare la
presenza del suo DNA.»
«Quindi Ruddock non conosceva la ragazza che ha violentato?»
«Riteniamo di no, esatto.»
«Era incavolato con Dena Donaldson che gli era sfuggita e così è tornato
sul Temeside, ha visto la ragazza che dormiva sul divano e forse ha pensato
che fosse Ding, perché era buio, e ha deciso di punirla per la fuga, oppure
aveva solo bisogno di sfogare le sue voglie sulla prima che gli capitava»
spiegò il sergente Havers.
Trevor assorbì quelle informazioni. Sapeva che a quel punto avrebbe
dovuto provare qualcosa, qualunque cosa, ma era sopraffatto. Riusciva a
malapena a sentire il proprio corpo quando si muoveva, sentire delle
emozioni era al di là delle sue forze.
«Non so come lo dirò a Finn. Devo spiegargli che sua madre è morta
pensando che lui fosse uno stupratore? E che voleva tenerlo in pugno?»
Lynley parve riflettere sulle varie opzioni prima di rispondere: «Gli spieghi
che sua madre era un essere umano come tutti e che si è lasciata ingannare da
Ruddock. E che tutto ha avuto origine da quell’errore di giudizio».
«Perché ha creduto a lui, invece che a suo figlio?» chiese Trevor. Era una
domanda rivolta a se stesso, più che a loro, e infatti si diede la risposta da
solo. «Aveva paura di chiederglielo esplicitamente, di scoprire che suo figlio
non era come lei pensava, come lei avrebbe voluto che fosse... E poiché
temeva di non conoscerlo, si è lasciata convincere da Ruddock. Ossignore!»
Gli si incrinò la voce.
«Se la sente di rimanere da solo, signor Freeman?» Era stata la donna a
chiederglielo.
Trevor si ricompose. «Non rimango da solo, grazie. Torno in ospedale da
Finn.»
Ironbridge
Shropshire
Yasmina era contenta che la suocera si fosse trattenuta. Timothy aveva
telefonato a quelli di Scotland Yard, i quali lo avevano informato che
avrebbero mandato un’autopattuglia a prenderlo. Quando erano arrivati e lo
avevano portato via, Rabiah aveva perso il suo proverbiale autocontrollo ed
era crollata. Il dolore accumulato in anni di patemi e preoccupazioni aveva
dato la stura a una miriade di domande cui Yasmina non era in grado di dare
risposta.
Quando Sati e Justin erano tornati, Timothy non c’era più. Per fortuna, così
Sati si risparmiò la scena del padre arrestato dalla polizia. Era già abbastanza
diffidente e guardinga, quasi sentisse incombere la catastrofe su tutti i fronti,
e a Yasmina si strinse il cuore vedendo la sua faccina impaurita, il suo farsi
piccola piccola dietro a Justin.
Il ragazzo, dal canto suo, pareva invece intenzionato a fare chiarezza. «È
ora che la famiglia Lomax scopra finalmente le carte» esordì. Con il tono di
chi ha raggiunto il limite della sopportazione.
Yasmina comprendeva il suo disagio, ma restò zitta. Rabiah in quel
momento non c’era, ma Missa sì. «Ti devo delle spiegazioni, Justin. Andiamo
a fare due passi?»
Yasmina così rimase con Sati. Si guardarono a lungo, separate da un abisso
che solo una di loro poteva cercare di superare. «Mi dispiace, Sati. Ti
prometto che non succederà mai più» disse Yasmina.
Sati la guardò attonita. Dal modo in cui muoveva gli occhi, quasi cercasse
una via di fuga, Yasmina si accorse che era confusa. Era colpa sua, se sua
figlia reagiva a quel modo, pensò. «Ascoltami, Sati. Voglio restituirti la tua
vita» disse.
Sati si morse un labbro.
«Ti ho dato un ceffone...» Yasmina si corresse: «No, non è vero. Ti ho dato
un pugno. In un istante di rabbia. Mi dispiace, ma l’ho fatto apposta. In quel
momento, ero così arrabbiata che avevo voglia di farti male. Mi sembrava
l’unico modo per farti capire... Non so neanch’io cosa. Che avevo ragione io?
Che tu avevi torto? Non lo so più. Ma so che ho sbagliato e che non ho
giustificazioni per quello che ho fatto. Ti prometto che non cercherò scusanti.
Dovessi mai rinfacciarmelo in futuro, sappi che non negherò di averlo fatto e
non accamperò scuse. Mai, Sati. A meno che io non perda le mie facoltà
mentali.»
Yasmina sapeva che era un discorso troppo difficile per una ragazzina di
dodici anni, specie se reduce da un periodo duro come erano stati per Sati gli
ultimi due anni. Ma erano cose che sentiva di dover dire, che era
indispensabile chiarire per poter ricominciare.
Concluso il discorso, Yasmina aspettò che Sati replicasse. E, buona
com’era, Sati non la fece aspettare.
«Mamma!» esclamò, correndo ad abbracciarla. Yasmina la strinse a sé.
«Grazie» sussurrò.
Quando Missa tornò, Yasmina era di sopra con Sati e Rabiah. Erano
distese sul letto in cui Timothy non avrebbe più dormito per un bel po’ di
tempo. Completamente immobili, sfinite.
Missa rimase un istante sulla porta a osservarle. La luce era fioca: era
accesa soltanto l’abat-jour sul comodino. Yasmina vide la figlia perplessa.
«Abbiamo esaurito le risorse» spiegò.
«Ma la nonna...?» chiese Missa ansiosa.
Rabiah si mosse. Aveva un braccio sugli occhi, ma sentendo la voce di
Missa lo abbassò. «La nonna ne ha passate di peggiori, nella vita» disse alla
nipote. «O forse la peggiore è questa, ma ce la farò ugualmente. E tu?» Si
spostò e le fece segno di andarsi a sedere accanto a lei.
Con il fiato sospeso, aspettarono che Missa si decidesse a muovere il primo
passo verso di loro. Rabiah le prese una mano e se la accostò alla guancia.
Poi prese la mano di Sati e fece lo stesso. Sati si guardò intorno per accertarsi
di poterlo fare e prese la mano di Yasmina.
Rimasero lì a respirare insieme. Erano un unico organismo, in quel
momento: avevano l’energia per essere un organismo solo. Forse, con il
tempo, sarebbero tornate a essere individui.
Trascorsero una decina di minuti prima che Missa aprisse bocca. «Justin
vuole che aspettiamo. Mi ha assicurato che capisce. Il suo sogno resta sempre
lo stesso, ma dobbiamo aspettare a realizzarlo, dice. Lui prima deve far
crescere la sua impresa e io...»
«E tu cosa gli hai detto?» chiese Yasmina.
«Che ci volevo pensa...»
«No» la interruppe Yasmina. «Non volevo sapere che cosa gli hai risposto,
ma se gli hai parlato di quello che è successo a Ludlow prima di Natale.»
«La verità» rispose Missa.
«È per quello che vuole aspettare?» chiese Rabiah.
«No. Vuole aspettare perché pensa sia più giusto. Per tutti e due.»
«E tu sei d’accordo?» domandò Rabiah.
«Non so più neanche io che cosa penso, nonna.»
«Be’, siamo in due» replicò Rabiah.
«Tre» disse Yasmina.
Con Sati, erano quattro.
26 MAGGIO
Victoria
Londra
Dopo il suicidio di Clover Freeman e la confessione di Gary Ruddock,
occorse un’intera giornata per portare a termine il lavoro, dividendosi i
compiti. Barbara ebbe l’incarico di aggiornare tutti gli interessati sugli ultimi
sviluppi, se non altro per restituire loro un po’ di tranquillità. Si recò perciò
dal vicario della chiesa di St. Laurence per rassicurarlo sulla totale innocenza
di Ian Druitt e si accordò con Flora Bevans per incontrarla non a casa, bensì
in un giardino dove stava sistemando una serie di magnifiche fioriere, per
comunicarle che non aveva convissuto con un pedofilo. Andò a trovare
Brutus Castle e Ding Donaldson a casa loro, sul Temeside, e a Much
Wenlock per informare il sergente Gerry Gunderson della colpevolezza di
Ruddock. Lynley invece andò a Birmingham a riportare a Clive Druitt gli
effetti personali del figlio e riferirgli che Ian era stato scagionato da ogni
sospetto; da lì si recò alla sede della West Mercia Police a parlare con il
comandante e restituirgli il materiale che aveva messo a disposizione per le
indagini.
Il comandante Wyatt era comprensibilmente sotto shock. Doveva gestire
uno scandalo che l’opinione pubblica avrebbe faticato a dimenticare. Il danno
d’immagine era enorme e si profilava un processo che sarebbe stato un vero e
proprio incubo.
Lynley e Barbara incontrarono brevemente anche i Lomax e Lynley
telefonò a Rabiah per riferirle che il figlio Timothy aveva spiegato nel
dettaglio ai colleghi di Shrewsbury come si era svolta l’aggressione nel
Temeside. Lei reagì in modo pacato e non rivolse accuse a nessuno, tanto
meno alla polizia che «aveva fatto solo il suo dovere». Quando Lynley le
chiese come andavano le cose in famiglia, rispose: «Insomma».
La mattina seguente Lynley e Barbara partirono. Lynley spiegò a Peace on
Earth che Clive Druitt sarebbe andato a Ludlow a ritirare l’auto del figlio e si
misero in viaggio alla volta di Londra.
Andarono direttamente in Victoria Street. Erano in ufficio da meno di
cinque minuti, quando arrivò la telefonata, sgradita ma inevitabile, da Judi
MacIntosh, la quale li informava che il vicecommissario desiderava vederli.
«Vi aspetta» annunciò loro non appena si presentarono. «Non c’è da
preoccuparsi. Pare che al ministero degli Interni siano tutti soddisfatti»
aggiunse.
Lynley non vedeva come potessero essere soddisfatti, con tutti gli illeciti
che erano emersi, dal tentativo di insabbiamento all’omicidio. Per Clive
Druitt, tuttavia, era fondamentale dimostrare che il figlio era innocente, un
uomo di Chiesa per bene, e questa missione era stata portata a termine:
l’assassino era stato arrestato e sarebbe stato processato e la figura del
diacono era stata completamente riabilitata. Il padre della vittima era dunque
stato accontentato. Come avrebbero reagito i media e come avrebbero gestito
lo scandalo New Scotland Yard, il ministero degli Interni e la West Mercia
Police era tutto da vedere, ma non dipendeva da Hillier e questo all’onorevole
era stato fatto presente.
«La prima testa a cadere sarà quella di Wyatt» disse Hillier a Lynley e
Barbara. «È stato lui a nominare Clover Freeman sua vice e tocca a lui pagare
le conseguenze di una decisione così incauta. Complimenti: avete entrambi
svolto un ottimo lavoro. Quentin Walker vi ringrazia sentitamente. Mi ha
pregato di dirvelo.»
Erano stati convocati per questo, sembrava, perché subito dopo vennero
congedati. Lynley, perlomeno. Quando stavano per uscire dall’ufficio, infatti,
Hillier disse a Barbara di restare.
Barbara lanciò un’occhiata preoccupata a Lynley, che però non poteva
intervenire in suo soccorso.
Uscendo, sentì che Hillier le diceva: «Io e lei dobbiamo fare anche un altro
discorso, sergente».
Li lasciò turbato: non sapeva che direzione avrebbe potuto prendere la loro
conversazione, ma non poteva fare altro che tornare nel proprio ufficio e
attendere aggiornamenti.
Non riuscì ad arrivarci, tuttavia, perché Dorothea Harriman, vedendolo
passare davanti alla stanza di Isabelle Ardery, lo bloccò. «Il sovrintendente
desidera conferire con lei» gli annunciò. «Ha appena telefonato Judi-con-la-i
per avvertire Sua Eccellenza numero due che Sua Eccellenza numero uno
l’aveva appena congedata». Abbassò la voce. «Davvero ha lasciato andare
solo lei e trattenuto il sergente investigativo Havers?»
«Ho sentito che le doveva ’fare un discorso’» confermò Lynley.
«Ahi ahi ahi» esclamò Dorothea. «Non ha sentito altro?»
«Non sono bravo come lei, Dee» replicò Lynley. «Vado?» chiese poi,
indicando l’ufficio di Isabelle.
«Prego, prego, si accomodi» disse Dorothea. «Se permette, però, la avverto
che non è rimasta contentissima del fatto che abbia parlato prima con Hillier
che con lei».
Victoria
Londra
Isabelle si aspettava che venisse rispettata la gerarchia: Thomas Lynley e
Barbara Havers dovevano fare rapporto a lei, e lei doveva riferire a Hillier,
che a sua volta doveva rispondere al parlamentare di riferimento di Clive
Druitt. Non le piaceva essere bypassata.
Già questo era irritante, ma che Hillier avesse trattenuto Barbara e
congedato Lynley era intollerabile.
«Sovrintendente.» Lynley si rivolse a Isabelle con il massimo rispetto.
«Come mai siete andati da Hillier senza prima parlare con me?» Si rese
conto di essere stata troppo brusca, ma era tardi per fare marcia indietro.
«Eravamo arrivati da meno di cinque minuti, quando siamo stati
convocati» rispose Lynley, con quella sua cortesia esasperante.
«E il sergente Havers è ancora da Hillier?»
«Il vicecommissario le ha chiesto di restare.»
«È soddisfatto che il caso sia stato risolto?»
«Non ha stappato lo champagne. Abbiamo evitato che gli avvocati di Clive
Druitt ci facessero causa, sì, ma la quantità di pasticci e sotterfugi avvenuti da
marzo a ora ha scatenato l’indignazione dei media e dell’opinione pubblica.»
«Ti riferisci a me, vero?»
«Veramente, no. Le responsabilità sono condivise fra molti. Quello messo
peggio è il comandante della West Mercia Police, Patrick Wyatt. È successo
tutto nella sua giurisdizione e quindi...»
Isabelle lo interruppe. «Hillier le voleva parlare del fatto che bevo, vero? È
per questo che le ha chiesto di rimanere nel suo ufficio, lo sappiamo tutti e
due. Mi ha telefonato una sera in cui non ero molto in forma. Ho risposto solo
perché credevo che fosse Bob.»
Lynley non fece commenti, ma andò a chiudere la porta e Isabelle capì che
le voleva fare la predica. Non aveva voglia di sentirsi sgridare né da lui né da
nessun altro, però. Non avrebbe sopportato che Lynley le sottolineasse la
similitudine fra la situazione di Isabelle e quella del «minatore incenerito
dalla esplosione ch’egli stesso aveva preparato».
«Va bene, grazie. Puoi andare. Mi avevi avvertito, Tommy, così come mi
aveva avvertito Bob. Ho provato anch’io ad avvertire me stessa, ma non ci
sono riuscita» disse.
Lynley fu così cortese da guardarsi le scarpe per lasciarle il tempo di
ricomporsi. Isabelle si innervosì, perché non aveva nessun bisogno di
ricomporsi, era già composta, in perfetta forma fisica e mentale, lucida e tutto
il resto. Lynley le chiese se poteva sedersi.
«Non c’è granché da dire, Tommy. Volevo semplicemente conferma del
fatto che Hillier ha chiesto a Barbara di fermarsi nel suo ufficio perché le
doveva parlare a tu per tu. Sappiamo che cosa significa. Non c’è molto da
aggiungere.»
«Isabelle, vorrei che mi stessi a sentire, per una volta. Tu non mi hai mai
voluto...»
«Lo so. Non c’è bisogno che tu me lo ricordi. Mi sono cacciata nei guai da
sola, l’ho capito il giorno in cui mi sono trovata sulla porta di casa Dee
Harriman armata di minestra e sandwich, maledetta lei. Si è resa conto della
situazione e senza dubbio è andata a spifferarlo in giro.»
«Dee Harriman è una persona leale e devota, Isabelle» ribatté Lynley. «E
non è...»
«Fa i suoi interessi come tutti, qui dentro.»
«Sei ingiusta. Ha dato ampia dimostrazione di lealtà e non è...»
«Piantala, per favore. Non la difendere.»
«... non è l’unica. Se ancora non hai capito che...»
«La pianti di farmi la predica?»
«E tu la pianti di interrompermi?»
Erano vicinissimi, faccia a faccia. Isabelle provò un moto di imbarazzo e
andò a sedersi dietro la scrivania, facendogli sgarbatamente segno di
accomodarsi dall’altra parte. «Sei insopportabile, lo sei sempre stato. Lo so,
ho mandato in vacca la mia vita, la mia carriera, il mio futuro, il rapporto con
i miei figli. Credi che non lo sappia? Che abbia bisogno che me lo spieghi
tu?»
«No, ma vorrei comunque che tu ti rendessi conto che...»
«Quando dico che non voglio prediche, non voglio prediche!»
«Neanch’io voglio interruzioni.»
Lynley aveva alzato la voce. Perdeva la calma talmente di rado che per
Isabelle era quasi un piacere spingerlo ad alterarsi. Purtroppo, però, avevano
ricominciato a tremarle le mani e aveva troppi pensieri per la testa per potersi
godere quel momento.
Lynley trasse un respiro profondo. «Sto solo cercando di dirti che hai
frainteso Barbara Havers sin dal principio. Non hai mai voluto vedere
l’enorme contributo che Barbara dà a questo dipartimento, Isabelle, ma penso
che tu...»
«Smettila di chiamarmi...»
«Isabelle» ripeté lui con più enfasi di quanto fosse strettamente necessario.
«Barbara Havers sa tenere la bocca chiusa. Non è e non è mai stata una
spiona. Quanto al fatto che bevi, è solo ed esclusivamente un tuo problema.
Non mettere in mezzo né Barbara né Dee.» Si alzò e si diresse verso la porta.
«Ti ho forse dato il permesso di andartene?» si alterò Isabelle. Lui fece un
cenno come a dire che non gli interessava, prese la porta e uscì senza
richiuderla.
Le mani di Isabelle erano scosse da un tremito irrefrenabile. Le allacciò e
le posò sulla scrivania. Strinse i denti. Aveva un bisogno folle di... Sì, dopo
quel colloquio così antipatico, non poteva proprio farne a meno.
Spinse indietro la sedia e si allontanò dalla scrivania e dall’ultimo cassetto
a destra, in cui teneva la sua scorta. Andò alla finestra. Il cielo che si stava
rapidamente coprendo, l’asfalto, il marciapiede, gli uccellini. Non avrebbe
ceduto. Era padrona di sé e della propria vita, come sempre, si disse. Solo che
adesso era un po’ diverso. Un po’ tanto diverso. Aveva detto basta a una serie
di cattive abitudini. Non ci sarebbe ricascata. Assolutamente. Ce la poteva
fare. Bastava tenere a bada il cervello. Era il cervello che l’aveva tratta in
inganno con segnali fasulli, con l’idea che bere le serviva per rilassarsi, per
dormire, per eliminare le difficoltà e alleviare la tensione. Si era convinta che
fosse indispensabile, ma non era vero. Poteva farne a meno.
Peccato che si fosse spinta ben oltre quel limite. Lo testimoniava il tremito
alle mani, che si placava solo dopo che la vodka era entrata in circolo. Non
tremava perché si era messa in testa delle idee sbagliate su quello di cui aveva
bisogno per rilassarsi, dormire, eliminare le difficoltà e alleviare la tensione.
Ormai tremava perché l’alcol era diventato un’esigenza fisica. Quella che
prima era una scelta, adesso era una necessità.
Non poteva tollerarlo.
Doveva farlo.
Si avvicinò alla scrivania.
Victoria Street
Londra
Barbara rimase spiazzata, quando Hillier cominciò il loro colloquio privato
complimentandosi per il suo aspetto. Le sarebbe piaciuto credere che il
vicecommissario, sfidando il rischio di essere accusato di molestie, avesse
deciso di esprimere un apprezzamento sul suo fisico scattante, risultato di
severi allenamenti di tip tap, ma bisognava considerare che il suo
abbigliamento non evidenziava affatto il suo fisico scattante, sempre che lo si
potesse definire così. Indossava pantaloni larghi, una camicetta stropicciata e
scarpe con i lacci. Era comunque un passo avanti rispetto alle mise di una
volta, per cui ringraziò Hillier e, guardinga, attese di vedere che piega
avrebbe preso la conversazione.
«A quanto ho capito, lei ha cambiato radicalmente atteggiamento, in questi
ultimi tempi» continuò Hillier.
Barbara cercò di assumere un’espressione aperta e disponibile, ma
rimpianse di non avere al proprio fianco Lynley, l’unico in grado di salvarla,
grazie al suo genetico savoir faire, in caso di eventuali richieste di spiegazioni
da parte di Hillier su presunti errori da lei commessi.
«Sono contento che la seconda trasferta a Ludlow abbia prodotto risultati
migliori della prima» continuò Hillier. «Secondo lei, che cosa era andato
storto durante la prima visita?»
A Barbara venne la pelle d’oca. Rifletté sulle varie impostazioni che
poteva dare alla sua risposta e sulle relative conseguenze. «Era un caso
complesso, in cui determinati elementi, che prima davano una certa
impressione, sono poi risultati completamente diversi» disse. Si augurò che
fosse una spiegazione sufficiente.
Non lo era. «Può essere più precisa, per cortesia? Avendo partecipato sia
alla prima sia alla seconda trasferta, è l’unica che...»
«Ah, in quel senso? Be’, il sovrintendente e io non ci siamo sempre trovate
d’accordo. Succede. Forse io sono stata un po’ troppo... Un po’ poco...»
Hillier la fissava con sguardo da avvoltoio. «Parli pure liberamente,
sergente Havers.»
«Volevo fare un lavoro come si deve, capisce? Volevo essere sicura di aver
unito tutti i puntini, non so se mi spiego. Forse è per questo che sono stata più
ligia del solito.»
«Cosa mi dice del sovrintendente?»
«In che senso?»
«Univa i puntini? Non li univa?»
Barbara aveva paura di avventurarsi in quelle sabbie mobili. «Non credo di
capire, mi scusi. Il sovrintendente Ardery lavora bene, a quanto mi risulta»
rispose.
«Davvero?»
«Sissignore. Certo. Senza dubbio.» Barbara deglutì. Si era lasciata
prendere la mano: tre affermative erano troppe.
Hillier continuava a fissarla. Sembrava una sfida a chi abbassava prima lo
sguardo. «So che i rapporti fra lei e il sovrintendente Ardery sono tesi,
sergente, e non voglio che nascano problemi.»
«Ma no, assolutamente! Non so cosa le sia stato riferito e neanche glielo
chiedo, ma a parte qualche piccolo... Vede, l’agente ausiliario di Ludlow mi
ha mandato la registrazione di una telefonata, che io avevo richiesto
nonostante il sovrintendente mi avesse detto che bastava la trascrizione, che
già avevamo, e io nel mio rapporto ho scritto che...»
«Non è su questo che le chiedevo delucidazioni.»
«Mi scusi.»
Hillier si protese verso di lei e Barbara si agitò ulteriormente: era un gesto
confidenziale che confliggeva con la natura tutt’altro che confidenziale dei
suoi rapporti con il vicecommissario. «Adesso le faccio una domanda e vorrei
che mi rispondesse in tutta franchezza. Va bene?» le disse.
Ossignore! Barbara annuì.
«Perfetto. Ho l’impressione che il sovrintendente abbia ecceduto con il
bere durante la trasferta a Ludlow e che in talune occasioni sia arrivata al
punto di ubriacarsi. Tenuto conto di ciò che è successo al suo ritorno dallo
Shropshire, vorrei che lei mi desse una conferma riguardo alla sua condotta a
Ludlow, prima di prendere provvedimenti.»
Barbara non prevedeva che le venisse spianata la strada fino a quel punto.
Se l’avesse imboccata, non avrebbe fatto soltanto i propri interessi, ma quelli
di tutto il dipartimento. L’avrebbero ringraziata in molti, se avesse vuotato il
sacco.
Aggrottò la fronte, annuì e si augurò di avere un’espressione
ragionevolmente pensierosa. «Io non l’ho vista bere, commissario.»
Hillier la guardò di nuovo con occhi da rapace. «Sicura?»
Barbara si rese conto che quella domanda aveva più di un significato, ma
la risposta che poteva dare era una sola.
«Sicurissima.»
Victoria Street
Londra
Barbara ebbe appena il tempo di tornare alla sua scrivania che le squillò il
telefono. Non aveva voglia di parlare con nessuno, ma non poteva fare a
meno di rispondere. Era Dorothea Harriman. Quando riconobbe la voce, si
rese conto che avrebbe dovuto aspettarsi una sua telefonata. Quella sera
avevano lezione di ballo e Dee voleva certamente mettersi d’accordo.
Si scambiarono un paio di convenevoli, poi Barbara cercò di anticiparla:
«Io stasera non vengo, Dee. Sono stanca e devo riposare».
«Stasera?» fu la replica inattesa di Dee. «Ah, intende a Southall! Non
importa, vengo io da lei domani sera. Basta spostare il tavolo della cucina per
fare spazio. Umaymah è uscita dal gruppo, tra l’altro. Ha proprio lasciato il
corso. È incinta. Ma non si preoccupi, ho modificato la coreografia.»
«Dee...»
«Comunque non era per questo che la chiamavo. È convocata.»
«Di nuovo?»
«Stavolta è il sovrintendente a volerle parlare.» Abbassò la voce. «Le
consiglio di venire subito. È sconvolta dopo un colloquio a porte chiuse con
l’ispettore investigativo Lynley che non sembra essersi concluso bene.»
Barbara seguì il consiglio. Non parlava a tu per tu con Isabelle Ardery da
quando erano tornate insieme da Ludlow e avrebbe preferito evitare, ma non
vedeva come.
Isabelle Ardery era seduta alla scrivania, quando Barbara entrò. Le chiese
di chiudere la porta e accomodarsi e Barbara non lo trovò un segnale
incoraggiante, ma ubbidì. Si sistemò di fronte a quella piazza d’armi che era
la scrivania del sovrintendente e notò che era particolarmente in ordine. Quasi
del tutto sgombra, a dire il vero. La seconda cosa che notò fu che Isabelle era
immobile come una statua, dita intrecciate e faccia serissima.
«L’ispettore Lynley mi ha informato che avete risolto brillantemente il
caso» disse. «E che il signor Druitt è rimasto contento.»
Barbara percepì l’ostilità di Isabelle. «Una volta capita la storia della stola,
dei colori liturgici e tutto il resto... Voglio dire, appena lei ha telefonato
all’ispettore per dirglielo...» replicò, per non correre rischi.
«Non cerchi di indorare la pillola, Barbara. Sono consapevole di aver
intralciato le indagini. Mi è stato riferito che ha parlato a tu per tu con il
vicecommissario, a proposito.»
Barbara rispose in fretta. «Sì, mi ha chiesto di rimanere dopo che abbiamo
finito di far rapporto perché voleva sapere se...»
«Basta così. Non aggiunga altro.»
Barbara deglutì e iniziò a sudare.
Isabelle aprì un cassetto e tirò fuori un oggetto che Barbara riconobbe
immediatamente: era la sua pratica di trasferimento.
«Senta, capo, io... Per favore, non...» disse.
«Le ho chiesto di stare zitta, mi pare.» Isabelle usò un tono stizzito e aprì la
cartellina per prendere il foglio e spingerlo verso Barbara.
«Ma io ho fatto tutto quello che... Non mi sembra di... Per favore.»
«La prenda» disse Isabelle.
«Però...»
«La prenda, ho detto! Non le sto chiedendo di firmarla, sergente. Le sto
restituendo la sua domanda di trasferimento. Ha capito? È sua. Ne faccia
quello che vuole.»
«Che cosa? Vuol dire che...?»
«Prenda quella domanda, sergente.»
Barbara guardò il foglio, poi guardò Isabelle. «Non... Senta, non vuole che
le racconti cosa ci siamo detti con Hillier?»
«No.»
«Quindi io questa domanda di trasferimento la posso...?»
«Barbara, non sto parlando a vanvera. Io non parlo mai a vanvera. Se le
dico che può farne quello che vuole, può farne quello che vuole.»
Barbara prese il foglio con un gesto lento e misurato. Temeva che da un
momento all’altro Isabelle scoppiasse a ridere ed esclamasse che era tutto uno
scherzo, ma si sbagliava. Si mise in grembo la domanda di trasferimento e
aspettò che Isabelle aggiungesse qualcosa. Siccome taceva, dopo un po’ si
alzò.
«Grazie, sovrintendente» disse. Isabelle fece un cenno con il capo e
Barbara si avviò verso la porta. Prima di uscire, però, si fermò. «Se posso,
l’ispettore le ha per caso...?»
«L’ispettore Lynley non c’entra nulla» la interruppe Isabelle. «Questa è
una cosa fra noi due, Barbara.»
Victoria Street
Londra
Quando arrivò la telefonata del vicecommissario, Isabelle era pronta. Aveva
preso i provvedimenti necessari e aveva parlato con Bob, il quale le aveva
fornito rassicurazioni e le aveva dato ufficialmente la sua benedizione. Non
avendo nulla di scritto, a Isabelle non restava che prenderlo in parola.
Sistemato quel che c’era da sistemare, non era rimasto che aspettare di essere
convocata da Hillier tramite Judi-con-la-i.
Aveva raccolto mortificata le poche cose di sua proprietà: una foto dei
gemelli, una di lei e i gemelli, una tazza e dieci mignon di vodka. Era stato
tutto nella ventiquattrore, dove fino a quel momento Isabelle aveva riposto i
verbali redatti dai suoi sottoposti. Prese anche la borsa a spalla e si avviò
verso la porta. Sulla soglia, si fermò a dare un’ultima occhiata.
Che strano, pensò. Era soltanto una delle tante stanze di quel palazzo, no?
Per troppi anni aveva dato troppo peso a quell’ufficio, e a molti altri.
Spense le luci e chiuse. Si rallegrò che fosse tardi e non ci fosse nessuno in
giro. Preferiva non dover dare spiegazioni a nessuno.
Andò diretta da Hillier. La porta era aperta: il vicecommissario la
aspettava. Judi MacIntosh era già andata a casa e Hillier era seduto alla
scrivania. Isabelle rimase colpita dalla somiglianza fra la sua posizione e
quella che aveva assunto lei per ricevere Barbara Havers. Come lei, Hillier
teneva le mani giunte sopra la scrivania. A differenza di lei, giocherellava con
una matita.
Entrò e Hillier le disse di sedersi. Rispose che preferiva stare in piedi.
Hillier annuì e restò seduto.
Isabelle cominciò a parlare. «Mi piacerebbe poterle dire che frequenterò un
gruppo di auto-aiuto e che basterà quello. Ci andrei tutti i giorni, se pensassi
che fosse utile. Due volte al giorno, se necessario. Non ne ho mai frequentato
uno, anche se più di una volta ho pensato di farlo, ma temo di aver superato il
livello di guardia. Credo di aver sviluppato una dipendenza tale da richiedere
supervisione medica. Ho trovato una clinica che offre programmi di sei
settimane. Posso ricoverarmi subito.»
«Dov’è?» le chiese.
«Sull’isola di Wight. Il programma è diviso in due fasi: disintossicazione e
riabilitazione. Per la prima hanno ipotizzato una settimana.»
«E per la seconda?»
«Tutta la vita. Nel senso che nessuno recupera al cento per cento. Si
impara a conviverci.»
«A convivere con cosa?»
«Con la voglia di bere e con ciò che scatena la voglia di bere. Perciò, dopo
la disintossicazione, una volta che il bisogno fisico sparisce, ci sono cinque
settimane di colloqui, analisi e quant’altro per il bisogno psicologico,
dopodiché c’è la fase degli incontri quotidiani. Ne organizzano in tutta
Londra, al mattino, al pomeriggio, alla sera... Li si può frequentare a
volontà.»
Hillier annuì e posò la matita, ma vi appoggiò le mani sopra e cominciò a
farla rotolare sotto le dita.
«Vorrei avere la certezza di farcela, giurarle che non succederà più, ma in
tutta onestà non credo di poterlo promettere» riprese Isabelle.
«E questo dovrebbe tranquillizzarmi?»
«Glielo sto dicendo perché è così che mi sento in questo momento.» Si
sedette, posò la ventiquattrore per terra e tenne la borsa sulle gambe. «Mi
sono ripetuta tante volte che potevo smettere, e l’ho anche fatto. Ci sono
riuscita per un mese, due, giusto il tempo per convincermi di non esserne
schiava. In realtà, sono dipendente da anni.»
Hillier annuì. Isabelle non si aspettava lodi sperticate, sapeva di non
meritarle, ma avrebbe voluto qualcosa da lui, un briciolo di umanità. Ed era
ridicolo, visto che lei non era capace di dimostrare umanità a nessuno da
anni. Aveva bisogno di comprensione, compassione, perdono: qualsiasi cosa,
ma non quel silenzio prolungato.
«Vorrei che mi concedesse un periodo di aspettativa» disse. «Se potessi
mantenere il posto di lavoro, vedrei una luce alla fine del tunnel, mi
renderebbe più facile guardare avanti. Non sarà una passeggiata comunque,
ma almeno avrei... un obiettivo.»
Hillier si alzò e si avvicinò alle finestre. Stava arrivando giugno, con il suo
proverbiale tempo incerto, e piovigginava. In quel momento le gocce
punteggiavano soltanto i vetri, ma nel giro di pochissimo si sarebbero aperte
le cateratte.
«Non avrei dato a lei la carica di sovrintendente, se Lynley avesse
accettato la promozione. Lo sa, Isabelle, vero?» disse Hillier, senza voltarsi.
«Sì, sir David.»
«Ma non l’avrei promossa, se non l’avessi creduta all’altezza. La credo
ancora all’altezza, Isabelle, non per come è adesso, ma per come potrebbe
essere.»
Isabelle non parlò. Era gratificata, ma sapeva che Hillier non aveva ancora
finito.
Infatti il vicecommissario si voltò verso di lei e la squadrò da capo a piedi,
poi tornò lentamente a sedersi e giunse di nuovo le mani.
«Le concedo l’aspettativa» disse alla fine. «Vinca i suoi demoni e torni: ne
riparleremo.»
«Grazie, sir David.»
«Quando pensa di partire?»
«Subito.»
«Vento in poppa, allora.»
Isabelle si sforzò di sorridere senza riuscirci granché bene, raccolse la
ventiquattrore, salutò Hillier e si avviò. Il vicecommissario la bloccò. «A
proposito, il sergente Havers non mi ha detto nulla. Sappia che gliel’ho
chiesto espressamente e ha negato. Si è rifiutata di gettarla in pasto alle
belve.»
«Tommy me l’aveva preannunciato» replicò Isabelle. Poi, siccome era la
verità ed era giusto dirlo, aggiunse: «È brava nel suo lavoro, sir David. Fa
ammattire tutti quanti, ma è un’ottima professionista».
Hillier sospirò. «Mi faciliterebbe la vita, sa?»
«Che cosa?»
«Se fosse un’inetta totale. Ma non lo è, lo so. E neanche Lynley, che mi fa
ammattire quasi quanto la Havers.»
A quel punto sorridere le venne più facile. «Non posso che essere
d’accordo, sir David. Ma bisogna ammettere che sanno fare il loro lavoro»
disse a Hillier.
6 LUGLIO
Southall
Londra
«Barbara non ti perdonerà mai: ne sei consapevole, vero?» chiese Daidre.
«Ha detto chiaro e tondo che non voleva conoscenti fra il pubblico.»
«Col tempo mi ringrazierà. Lì per lì si arrabbierà moltissimo, ma poi le
passerà.»
«Tu sei pazzo» fu la replica di Daidre.
«’Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest;
quando vien da mezzodì, so distinguere un falco da un airone’.» Lynley
strinse il volante della Healey Elliott e la guardò di traverso. «Sono contento
che tu sia tornata a Londra, Daidre.»
L’ultima assenza era stata relativamente breve, ma da un mese e mezzo a
quella parte le continue trasferte in Cornovaglia avevano assorbito
praticamente tutto il tempo libero di Daidre. Lynley avrebbe voluto
accompagnarla, ma lei preferiva di no. Erano la sua famiglia, problemi suoi,
non era il caso che lui se li accollasse.
La madre biologica era morta, tradita come tanti dalle cure miracolose in
cui aveva riposto ogni speranza. Era stata una lunga agonia, resa ancora più
dolorosa dalle sue credenze e dalle condizioni di vita sue, del marito e degli
altri due figli adulti. Aveva rifiutato fino all’ultimo il ricovero in ospedale e
persino le cure palliative perché Dio le avrebbe indicato la strada da
percorrere con i suoi rimedi miracolosi.
Dopo che era morta, Daidre si era posta il problema di come comportarsi
con il padre e con i fratelli e, anche in quel caso, aveva rifiutato l’aiuto che
Lynley le aveva gentilmente offerto. «Che cosa siamo l’uno per l’altra,
allora?» le aveva chiesto lui. «Quello che devo fare non ha nulla a che vedere
con il nostro rapporto» aveva risposto Daidre. «Come io non metto becco nei
tuoi affari di famiglia, Tommy, ti pregherei di non intrometterti nei miei.»
Lynley avrebbe voluto che Daidre si intromettesse un po’ di più, per la
verità. Le aveva espresso il desiderio di portarla a Howenstow e presentarla a
sua madre, suo fratello, sua sorella e sua nipote, ma Daidre per il momento
aveva sempre svicolato.
Lynley dava per scontato che prima o poi Daidre avrebbe capitolato, anche
perché aveva ceduto il cottage di Polcare Cove ai fratelli, Goron e Gwynder
Udy, i quali avevano accettato di lasciare il caravan che invece il padre si
rifiutava di abbandonare, convinto contro ogni evidenza di poter diventare
ricco trovando stagno nei fiumi. I due gemelli si stavano trasferendo nel
rifugio in campagna della sorella maggiore, un villino isolato dove Daidre
trascorreva i weekend all’epoca in cui lavorava allo zoo di Bristol. Era
abbastanza spaziosa, aveva spiegato a Lynley: i suoi fratelli avrebbero avuto
una camera per uno e diviso il bagno.
Quando Lynley le aveva fatto notare «E tu, Daidre? Sei così affezionata a
quel posto!» aveva risposto: «Posso continuare ad andarci: basta che dorma
sul divano...»
«Così smetterà di essere un buen retiro.»
«Per certi versi, sì. Ma non posso lasciarli in quel caravan e questa è
l’unica soluzione praticabile. Non verrebbero mai a stare in città.»
«Sono disposti a trasferirsi, però.»
«Sono terrorizzati e li si può capire: hanno vissuto in quel posto orrendo da
quando, a diciott’anni, sono tornati dai nostri genitori dopo un affido
disastroso. Meritano di più, poveracci. Offrire loro la mia seconda casa era il
minimo che potessi fare.»
«Mi dispiace vederti così...»
«Tommy, io e te abbiamo fatto vite talmente diverse che non penso tu
possa capire.»
«Sei ingiusta.»
«Davvero? Pensa se ti avessero allontanato dai tuoi genitori e fossi finito a
Falmouth in una casa bellissima, presso una famiglia meravigliosa in grado di
darti cose che fino a quel momento non ti saresti mai sognato di avere, e poi
ti fossi reso conto che i tuoi fratelli erano stati molto più sfortunati e non
avevano ricevuto le cose che avevi ricevuto tu. Come ti sentiresti?»
«Capisco.»
«No, non credo. Non ci sei passato. Goron e Gwynder sono stati defraudati
dalla possibilità di condurre una vita normale e io voglio fare il possibile per
restituirgliela. Chiamali sensi di colpa o come vuoi: il fatto è che non voglio
abbandonarli a un destino orribile come il loro passato.»
Lynley detestava quel genere di discorsi, che lo condannavano senza
appello al ruolo di chi non può capire. Se ribatteva, la discussione andava
avanti per ore. A un certo punto, era meglio lasciar perdere. Ma sebbene
fosse bravo a tacere, si rendeva conto di essere molto meno bravo a
dimenticare.
Alla fine, però, si era detto che poteva essere una soluzione vantaggiosa:
Daidre non aveva fatto una piega a dormire su un materasso per terra durante
i lavori di ristrutturazione della casa di Londra, ma con ogni probabilità non
le sarebbe particolarmente piaciuto riposare sul divano ogni volta che
decideva di andare in Cornovaglia e, tutto sommato, avrebbe preferito stare
con lui nella tenuta di famiglia nei pressi di Lamorna Cove.
Barbara gli aveva fatto notare che l’ipotesi che Daidre acconsentisse a un
soggiorno nell’enorme villa in Cornovaglia dell’ispettore era remota. «Non ci
scommetterei neanche un centesimo.» Andava detto, però, che Barbara
Havers non era propriamente l’epitome dell’ottimismo.
«Potrebbe offendersi a morte, sai?» disse Daidre, come leggendogli nel
pensiero.
Lynley capì che voleva cambiare discorso e mentì a cuor leggero. «Sì, lo
so.» In realtà, lo riteneva improbabile. Era sicuro che il suo piano si sarebbe
concluso brillantemente e Barbara alla fine lo avrebbe ringraziato.
«Mi conforta che tu ti renda conto del rischio che corri, Tommy. Dovevi
proprio coinvolgere tutti?»
«Mi è sembrato più semplice così» rispose Lynley. «La presenza di
Winston era imprescindibile.»
«Va bene. Ma quella dei suoi genitori?»
«Non potevo impedirgli di portare anche loro. Winston non ha segreti per i
suoi genitori e pare che tengano moltissimo a vedere Barbara Havers in
versione tippettara. Quasi quanto a vedere Barbara Havers prendere lezioni di
cucina da Alice Nkata.»
«E tutti gli altri a cui l’hai detto?»
«Quali altri? Denton, intendi?»
«Non fare il finto tonto: Denton, Simon, Deborah, Philip Hale e signora...
Chi altro hai coinvolto, Tommy?»
«La famiglia di Dorothea ci sarà senz’altro, ma li ha invitati lei.»
«Sei un uomo impossibile» concluse Daidre. «Non immaginavo avessi una
vena così maligna.»
Il saggio di tip tap si teneva vicino a dove si era tenuto il corso durante
l’anno, all’interno di un centro culturale di quartiere. Barbara, ovviamente,
non ne aveva fatto parola con nessuno, ma Dorothea era stata lieta di indicare
all’ispettore investigativo una pagina web dove erano riportati luogo, data e
orario dell’evento, con tanto di programma.
Si preannunciava una serata indimenticabile, pensò Lynley: non stava nella
pelle all’idea di vedere Barbara e Dorothea conquistare imperitura fama come
ballerine di tip tap.
Southall
Londra
Barbara era fuori di sé. Non soltanto il loro numero era stato relegato in
quello che veniva chiamato con un eufemismo «Secondo Atto», ma era
addirittura il penultimo della serata. Questo significava che il suo piano –
fuggire dal centro culturale entro un’ora dall’arrivo – andava a farsi friggere.
Ma la cosa più preoccupante era che, quando aveva sbirciato il pubblico da
dietro le quinte, aveva intravisto Winston Nkata. Non passava facilmente
inosservato, essendo alto due metri come i suoi genitori, pure loro in sala ad
assistere alla sua pubblica umiliazione.
Che Winston fosse presente al suo saggio di danza era inquietante – anzi,
no: era irritante oltre ogni limite – ma che fra il pubblico ci fossero anche
Simon St. James e sua moglie Deborah – vecchi amici di Lynley – e... Era
Charlie Denton quello che stava prendendo posto vicino a...? Era il padre di
Deborah, quello seminascosto fra tre donne con il burqa? Vedendo quelle
persone, Barbara passò dalla rabbia nei confronti di Lynley all’invidia per
l’abbigliamento delle tre signore in nero: quanto avrebbe voluto anche lei
sparire sotto un lenzuolo di qualsiasi colore, anziché essere costretta a
indossare i costumi disegnati da Dorothea!
Era partita con un’idea stile Anni Ruggenti. A sentir lei, ci si era buttata
anima e corpo ed era rimasta estremamente delusa nell’apprendere che la
musica di Cole Porter era posteriore. «Meglio anni Trenta» aveva suggerito
Kaz. «Art Deco e cose del genere.»
Perciò Dorothea aveva rinunciato a frange, perle e piumaggi per
concentrarsi sui costumi da marinaretta. Barbara non lo riteneva un gran
miglioramento, ma era contenta di non dover mostrare le gambe.
Avevano fatto prove su prove, da quando Barbara era tornata dallo
Shropshire. Dorothea sosteneva occorresse memorizzare i passi e sviluppare
automatismi tali per cui i muscoli reagivano istintivamente alla musica. «È la
memoria muscolare» aveva dichiarato. «Quella per cui non ci si scorda mai
come si va in bicicletta.»
«Altra attività in cui non intendo esibirmi di fronte a un pubblico più o
meno pagante» aveva risposto Barbara. Invece era proprio sul punto di
esibirsi. Dopo il primo atto e l’intervallo, anche il secondo atto volgeva al
termine.
Stava per salire sul palco un gruppetto di tippettari imbranati come quelli
che li avevano preceduti, dopo i quali sarebbe toccato a Barbara e Dorothea
presentare il loro numero. Erano pronte: vestite alla marinara con tanto di
berrettino e bastone da passeggio. Barbara aveva tentato in tutti i modi di
convincere Dorothea a rinunciare al bastone con la scusa che le sembrava
poco marinaresco. Da quando in qua lo si usa a bordo delle navi? Dorothea
ribatteva che «dava un tocco particolare all’insieme». «Non vede, Barbara?»
Veramente no, Barbara non vedeva. Ma non era il caso di litigare per un
bastone, no?
Perlomeno, si disse cercando di consolarsi, non era fra gli otto ballerini
vestiti da frutti che stavano danzando in quel momento intorno a un oggetto
che sembrava una zattera gonfiabile ma sarebbe dovuta essere una fruttiera. A
qualcuno era venuta la brillante idea di imbastire una coreografia sulle note di
Hooray for Hollywood a base di frutti che prendevano vita. Barbara avrebbe
provato pena per l’ananas, se avesse avuto le energie psicofisiche per
compatire qualcun altro a parte se stessa.
Quando il pubblico applaudì entusiasta il numero della fruttiera,
nonostante la banana e il melone a un certo punto si fossero urtati ruzzolando
per terra, Dorothea si mise a battere le mani tutta emozionata. «Ci siamo! È
arrivato il momento per cui ci siamo impegnate tanto!» gridò. Barbara
avrebbe voluto ribattere che lei, più che per quel momento, si era impegnata a
cercare di rompersi una caviglia, ma non era riuscita a infortunarsi abbastanza
gravemente. Aveva solo un’unghia incarnita. «Faremo faville!» esclamò
Dorothea.
«È stata lei a dirlo a Winston?» chiese Barbara truce.
Dorothea si batté una mano sul petto. «Che cosa? Il sergente investigativo
Nkata è venuto a vederci? Perché avrei dovuto dire a lui o chiunque altro...?»
«Per avere una claque, suppongo.»
«Sergente investigativo Havers, non abbiamo alcun bisogno di portarci la
claque. Saremo sensazionali!»
«Prendo nota del fatto che non ha risposto alla mia domanda, Dee.»
«Quale domanda?»
«Se è stata lei a informare Winston di questo evento straordinario.»
Dorothea, che si era chinata per allacciarsi le scarpe da tip tap, si tirò su.
«L’avrà saputo dall’ispettore investigativo» rispose.
«Che cosa?»
Dorothea si coprì la bocca con una mano. «Non potevo non dargli neanche
un piccolo indizio! Ha insistito tanto... E poi ha promesso di portarle una
sorpresa. Non le piacciono le sorprese, Barbara?» farfugliò.
«Se la sorpresa consiste nel sergente Nkata e famiglia, più tutti gli amici e
conoscenti di Lynley, ne avrei fatto volentieri a meno. È fortunata che non le
lancio le claquette, Dee.»
«Non gliel’ho detto io! Mi sono limitata a dirgli l’indirizzo del sito web.
L’avrà scoperto lì, giuro. Ho messo bene in chiaro che più di questo non avrei
rivelato.»
«A quel punto era in grado di trovare da solo tutto ciò che gli serviva.»
«Su, su, non faccia così!» disse Dorothea. «Attenzione: sta partendo la
musica. E vai col Cincinnati!»
Entrarono in scena danzando e Barbara si disse che tutto sommato non
sarebbe stata la fine del mondo, se anche i suoi colleghi l’avessero vista fare
una brutta figura. Non sarebbe stata la prima volta, no? Che problema c’era?
Quando comparvero sul palco accompagnate dalle note di Cole Porter,
dalla platea partì un coro di incoraggiamento. Il brano non aveva nulla a che
fare con i costumi scelti, ma nessuno ci fece caso. Qualcuno intonò un «Barba-ra!
Bar-ba-ra!» Non era il caso di interpretarla come un’ovazione, ma
Barbara si disse che i suoi colleghi non avevano alcuna nozione di tip tap: se
anche lei e Dee avessero commesso qualche errore, nessuno se ne sarebbe
accorto. L’importante era non cadere rovinosamente per terra e fingere che
fosse tutto sotto controllo.
Andò come doveva andare: non fu un’esecuzione impeccabile ma neppure
disastrosa. Barbara riuscì a ricordare la sequenza iniziale e confuse il riffle
con lo scuffle soltanto una volta. Sorridere durante tutta la performance
mormorando sottovoce «riff, jump, shim sham, cramp roll» si rivelò
un’impresa e non sempre ci riuscì. Dorothea non smise un istante il sorriso a
trentadue denti, ma lei compensò lanciando qualche occhiata in direzione del
pubblico.
A un certo punto, però, rischiò di perdere completamente la
determinazione e la qualità della sua performance registrò un calo: la persona
seduta vicino a Charlie Denton non era il padre di Deborah St. James.
A ritmo di tip tap, Barbara guadagnò le quinte.
Southall
Londra
Non c’erano camerini e Barbara era dovuta andare al centro culturale vestita
da marinaretta. Gli unici a non arrivare già vestiti erano stati i ballerini con il
costume da frutta, che poteva essere indossato sopra gli abiti normali. Gli altri
non avevano la possibilità di uscire dal centro in incognito.
A Barbara quindi non restava che scappare via al più presto. Non si fermò
a riflettere sul perché sentiva di doversi rendere irreperibile: l’impulso della
fuga aveva preso il sopravvento.
Una volta raggiunte le quinte, sgomitò per farsi largo fra una coppia Frede-Ginger
e un gruppo di bambini in frac e cappello a cilindro. Sentì che Kaz
la chiamava: «Cosa c’è, Barbara?» Non si fermò: che pensasse pure a un
attacco di panico post-entrata in scena o a una vendetta premeditata nei
confronti di Dorothea, che l’aveva coinvolta contro la sua volontà. In fondo
Barbara poteva essersi storta una caviglia, oppure essere stata colta da una
colica improvvisa o dalla peste bubbonica: chissenefrega di cosa avrebbe
pensato Kaz. E chissenefrega di cosa avrebbe pensato Dorothea ritrovandosi
sola sul palco a terminare il numero come se l’uscita di scena di Barbara a
metà pezzo fosse stata deliberata. Quando al termine Barbara non si fosse
presentata a ricevere gli applausi, qualcuno forse l’avrebbe trovato strano, ma
chissenefrega anche di quello. Barbara voleva scappare il più lontano
possibile da lì: l’unica cosa che le importava era quella.
Il peggio era che... Non aveva idea del motivo per cui voleva scomparire. Il
peggio era che... Non aveva idea di cosa potesse voler dire la presenza fra il
pubblico dell’ispettore Salvatore Lo Bianco. Doveva averlo contattato
Lynley, e la cosa peggiore in assoluto era... Ma perché l’ispettore aveva
deciso di umiliarla in quel modo?
Si sentì chiamare, mentre si avvicinava alla Mini. Lynley non era uno
sciocco e, pur non intendendosi di tip tap, doveva aver capito al volo la
situazione. Aveva visto l’espressione di Barbara e poi quella di Dorothea e
aveva fatto due più due.
Si voltò di scatto: «Perché, ispettore? Perché?» gli urlò. «Credeva forse di
farmi piacere? Pensava che sarei stata contenta? Le avevo detto
esplicitamente di non venire. Gliel’avevo chiesto per favore. E lei invece, non
solo si presenta impunemente, ma si porta appresso anche Salvatore e il resto
della banda: Simon, Deborah, Charlie... Winston. Tutta la famiglia Nkata.
Già che c’era, poteva invitare anche i miei vicini di casa.»
Lynley alzò le mani in segno di resa. «Barbara, per cortesia, mi ascolti.»
«No!» urlò lei. «Non la ascolto, va bene? Chi si crede di essere per pensare
di sapere cosa mi fa piacere e cosa no? Lei non sa proprio niente! Mi ha
messo in ridicolo davanti ai miei colleghi, ai miei amici, davanti a...» Non
riuscì a finire. Era talmente furibonda che non sapeva trovare le parole per
esprimere la propria sacra indignazione.
«Non ho invitato io Salvatore» replicò Lynley. Poi, si girò a guardare il
centro culturale. «No, non è vero. L’ho invitato, sì, ma non dall’Italia.
Sarebbe venuto a Londra comunque. Si è iscritto a un corso di inglese»
precisò.
«Un corso di inglese? E perché?»
«Non ne ho idea. Glielo chieda. È ospite a casa mia e, quando abbiamo
capito che oggi sarebbe stato qui...»
«Ha pensato bene di farmi fare una figuraccia anche davanti a lui, oltre che
davanti a tutti gli altri.»
«Non capisco perché si ostini a trarre questa conclusione. Perché mai avrei
dovuto farle fare una figuraccia?»
«Perché... perché io faccio sempre figuracce!» urlò Barbara, di colpo
consapevole di una verità che aveva cercato di rimuovere per tutta la vita.
«Sono una buona a nulla, ecco cosa sono.»
«Non lo pensa veramente, Barbara.»
«Mi guardi! Sa che cosa significa essere come sono io, con i miei umili
natali, senza la possibilità di... di...» Si impose di non aggiungere altro,
perché sapeva che se avesse continuato sarebbe scoppiata a piangere e non
stava né in cielo né in terra che scoppiasse a piangere di fronte a Lynley, nel
parcheggio di un centro culturale di Southall, vestita da marinaretta.
«Venga con me, Barbara» disse Lynley in tono imperioso. Non era
propriamente la Voce con la V maiuscola, ma era comunque una voce
autorevole. Barbara restò dov’era e lui insistette: «Su, Barbara, faccia come
ho detto. Esegua gli ordini».
«E se non li eseguissi?» lo provocò lei.
«Le sconsiglio anche solo di provarci.»
Ciò detto, si voltò e se ne andò, senza neppure controllare che lei lo
seguisse. Barbara prese in considerazione di disubbidire, ma dal tono che
Lynley aveva usato intuiva che era meglio assecondarlo. E così gli andò
dietro.
Quando rientrò nel centro culturale, erano in corso i ringraziamenti dei
ballerini. Uno per uno, i partecipanti al saggio salivano sul palco a prendere
gli applausi di familiari, amici e sostenitori. Barbara ebbe un presentimento e
le parole di Lynley le confermarono che aveva visto giusto. «Quando sarà il
turno di Dorothea, salirà sul palco con lei, Barbara. Non per se stessa, ma per
Dee, che le è sinceramente affezionata. Come tutti noi, peraltro. Le vogliamo
tutti bene, Barbara, ma capisco che non è il momento per farglielo presente.»
«Non posso...»
«Sì che può, Barbara. Non solo può: deve» obiettò Lynley. «Passi dal
corridoio centrale e si comporti come se fosse una scelta intenzionale,
altrimenti dovrà risponderne a me. Sono stato chiaro, sergente?»
Barbara era sbigottita. Avrebbe voluto ribattere che Lynley non si poteva
permettere di trattarla in quel modo, che aveva torto marcio, che era scorretto
da parte sua far pesare il proprio status sociale. Aveva voglia di apostrofarlo
dicendogli: Lei non mi conosce, non sa niente di me, non sa cos’ho nella
testa e mai lo saprà.
Solo che non era vero. Non era mai stato vero. Thomas Lynley sapeva
molte più cose di quanto la gente credesse e soprattutto comprendeva la lotta
interiore di Barbara e lei questo lo sapeva proprio perché lui non vi aveva mai
fatto cenno e non ne parlava neanche in quel momento. Lo evitava per lei, per
rispetto nei suoi confronti.
Dorothea comparve sul palco e il pubblico la applaudì. Sorrideva, ma c’era
qualcosa di un po’ forzato nella sua espressione, che non era da lei.
«Vada!» disse Lynley, e Barbara capì che non poteva indugiare.
Corse lungo il corridoio centrale e saltò sul palco con tanta foga che perse
l’equilibrio e cadde ai piedi di Dorothea. Ma, come le aveva raccomandato
Lynley, finse di averlo fatto di proposito.
RINGRAZIAMENTI
Ogni volta che mi appresto a scrivere un romanzo della serie di Lynley,
scelgo in quale regione d’Inghilterra ambientarlo. Mi informo, la visito e
raccolgo dati e notizie nella speranza che mi aiutino nell’elaborazione dei
personaggi, della trama e delle sottotrame.
Per questo romanzo devo ringraziare il comandante della West Mercia
Police, Anthony Bangham, che si è lasciato intervistare e mi ha spiegato gli
effetti che la riduzione dei fondi ha avuto sul lavoro delle forze di polizia in
quella parte del Paese e ha risposto alle mie email ogni volta che ho avuto
bisogno del suo aiuto per risolvere un problema.
Jon Hall, presidente del Midland Gliding Club sull’altipiano di Long Mynd
è stato gentilissimo a farmi visitare l’aeroclub e mostrarmi come viene
assemblato un aliante, i vari modi in cui viene lanciato e altre particolarità del
volo a vela. Mi dispiace non aver accettato la sua offerta di portarmi a fare un
giro.
Il sindaco di Ludlow, Paul Draper, mi ha ricevuto nella sede del consiglio
comunale e mi ha spiegato le ripercussioni che i tagli ai finanziamenti per
l’ordine pubblico hanno avuto sulla vita delle piccole città in generale e su
Ludlow in particolare.
Swati Gambler della Hodder & Stoughton è stata come al solito bravissima
ad andare a scovare le informazioni di cui avevo bisogno, mentre Nick Sayers
mi ha aiutato a usare correttamente l’inglese britannico.
Negli Stati Uniti, la collega scrittrice Patricia Smiley, ballerina di tip tap,
mi ha aiutato nei passi di danza, la mia assistente Charlene Coe è stata
straordinaria nello svolgere le ricerche necessarie sui tanti argomenti toccati
dal romanzo, e il mio editor, Brian Tart, è stato la pazienza personificata
nell’attendere che io completassi l’opera. Un grazie a mio marito, Tom
McCabe, che non sarebbe potuto essere più comprensivo e mi ha sostenuto
durante il lungo periodo della stesura.
Sono stata sostenuta anche dalle mie «Sistahs»: Karen Joy Fowler, Gail
Tsukiyama, Nancy Horan e Jane Hamilton. Siete mitiche!
Mi assumo interamente la responsabilità degli errori che sono sicuramente
rimasti.
Elizabeth George
Whidbey Island, Washington
27 agosto 2017
Indice
L’autrice
Frontespizio
Pagina di copyright
Parte prima
15 Dicembre
4 Maggio
5 Maggio
6 Maggio
7 Maggio
8 Maggio
Parte seconda
15 Maggio
16 Maggio
17 Maggio
18 Maggio
19 Maggio
20 Maggio
21 Maggio
22 Maggio
23 Maggio
24 Maggio
26 Maggio
6 Luglio
Ringraziamenti
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