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Riflessioni di un prete 5

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In copertina:

Casa Divin Maestro (particolare parco)

Ariccia (RM)


Riflessioni di un prete

“ La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano

con Gesù” ( EG 1).

E’ quello che accade puntualmente ogni domenica mattina a chi

legge l’ormai abituale “Riflessione” di don Fabrizio sul Vangelo del

giorno.

Un piccolo bozzetto, dove l’insegnamento di Gesù s’incrocia con

il vissuto di ciascuno di noi, aprendoci al confronto con la Parola

di Dio, con sempre maggiore consapevolezza, in un percorso di

“adultità” nella fede.

Anche quest’anno, il quinto, abbiamo pensato di raccogliere queste

“pillole” teologico-pastorali, intrise di umanità e di spiritualità, in

un libricino di facile lettura tutte le volte in cui si avverte il bisogno

di riflettere, di approfondire, di meditare su domande di senso o

semplicemente ascoltare e ascoltarsi, attingendo all’unica fonte che

disseta e rinfresca sempre: il Vangelo.

Ed ecco il quinto volumetto delle “ Riflessioni di un prete”, con

tutte le riflessioni domenicali di don Fabrizio Cotardo per l’anno

pastorale 2021/2022 , in versione digitale e cartacea, per soddisfare

le esigenze e le competenze di tutti.

Ancora una volta il Grazie riconoscente di tutti noi fedeli lettori a

don Fabrizio, il nostro parroco, instancabile dispensatore della Parola

di Dio, con il quale vogliamo condividere questo piccolo dono

in occasione del suo compleanno.

Auguri da tutti noi, carissimo Don !!!!!

Locri, 5 dicembre 2022

- PREMESSA -

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28/11/21

Riflessioni di un prete

AVVENTO. TEMPO D’ATTESA!

È

la Parola di Dio che ci rincuora, ripetendocelo

anche in questa prima Domenica

di Avvento, con gli stessi toni delle

ultime domeniche dell’anno liturgico che si è

appena concluso: la fine è sempre l’inizio di

un qualcosa di nuovo.

Germogli di novità che profumano di “presenza

di Dio”.

Avvento. Tempo d’attesa!

Parola bella, questa che mi ricorda il tempo,

per eccellenza, delle mamme, il tempo bello

di un fiorire della vita.

Ma richiama, anche, l’impazienza, bella anche

questa, di un innamorato che desidera incontrare la propria amata,

l’attesa stanca di chi non si rassegna e continua a rifiutarsi di soccombere

alla disoccupazione, di un ragazzo che ha fretta di crescere per gustare

appieno la libertà dell’età adulta.

Tempo di attesa per l’uomo, ma credo fermamente che sia tempo di attesa

anche per Dio che ci offre un ulteriore spazio propizio per ritornare

a Lui, per affinare i sensi dello spirito per accorgersi del Veniente che

incessantemente continua a visitarci.

È una certezza questa, una promessa che il Dio fedele non manca mai di

rinnovare.

E non deve temere il nostro cuore se il Vangelo di oggi ci parla di «segni

nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore

del mare e dei flutti» (Lc 21,25).

È proprio di fronte a queste realtà che siamo chiamati a «risollevarci e ad

alzare il capo» (Lc 21,28).

Dobbiamo risollevarci di fronte a tutte quelle situazioni che ci prostrano,

siamo incoraggiati a rimetterci in piedi in nome di quella dignità che già

appartiene ai risorti.

E poi, l’immagine bella, “l’alzare il capo” con gli occhi pieni di stupore,


Riflessioni di un prete

proprio come i bambini di fronte ad un palloncino che volteggia nell’aria

o ad una farfalla che si lascia accarezzare le ali dal vento.

Alziamo il capo con gli occhi, sempre, abitati dalla meraviglia per guardare

il Cielo affinché, con il cuore colmo di bene, possiamo riprendere il

cammino sulla terra.

Allora l’attesa diventa, tempo gravido di preghiera e la preghiera ci educherà

alla vigilanza.

Attendere-vigilare-pregare. Verbi d’Avvento.

Ingredienti che ci dicono come abitare la vita.

Auguri, allora.

Ripartiamo con questo tempo d’Avvento che ci preparerà ancora a rivivere

la magia del mistero dell’Incarnazione.

Iniziamo questo nuovo anno liturgico dirigendoci nuovamente verso

Betlemme per imparare, da quel “Bimbo”, l’arte di guardare il mondo

con occhi puri, semplici, da innamorato.

Per apprendere un amore così profondo da… morirne.

05/12/21 IL VANGELO È COSA SERIA!

Il Vangelo è cosa seria!

Non è un racconto moralista

che narra avventure fantastiche

o una leggenda che tacita la coscienza

di fronte alle attese di

una manifestazione del divino.

È storia. È “storia” di Dio che

si intreccia con quella degli uomini.

E la storia ha sempre volti,

nomi, luoghi, date: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare,

mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e

Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene,

sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa» (Lc 3,1-2).

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Riflessioni di un prete

Una valanga di sette nomi che mettono insieme storia giudaica e storia

pagana, potere religioso e strapotere politico.

Nomi che, a loro volta, recano volti, storie personali, pensieri, progetti,

sotterfugi accomunati da un’unica voglia di avere sempre più potere.

Sette nomi che con oculatezza l’evangelista Luca ci presenta, per indicare

che tutta la storia (proprio tutta) sta per essere “toccata” dall’intervento

di Dio.

Ecco, quindi, che dopo secoli in cui il profetismo sembrava scomparso

nell’antico Israele, «la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel

deserto» (Lc 3,2). La “parola” è il modo che Dio utilizza per manifestarsi,

per entrare in relazione con l’uomo.

Una Parola che investe un piccolo uomo sconosciuto, mimetizzato nel

colore bruno della sabbia del deserto dove Giovanni ha scelto di vivere

sulle rive del Giordano, naturale confine tra terra sacra-promessa e terra

pagana.

Un Dio, il nostro, che rifugge i palazzi dove si rincorre il potere o distante

dal lusso di un tempio che ha le casse piene ma è ormai povero di umanità.

Un Dio, il nostro, che ama i “deserti” che gli lasciano spazio di parola

e che da sempre preferisce i confini, quelli che noi spesso delimitiamo,

Lui viene a cancellarli.

Una parola, quella di Giovanni che è intrisa della saggezza dei profeti:

«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi

sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie

tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate» (Lc 3,4-5).

“Preparare”, “raddrizzare”, verbi del “fare” che dicono la necessità di

essere facitori di bellezza.

Solo allora: «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3,6).

Un inciso caratteristico di Luca che ha valore rafforzativo: tutta la storia

deve essere pronta ad accogliere la Salvezza riempiendo i crateri delle

nostre mille fragilità e spianando le montagne del nostro io.

E Dio passerà, attraverserà le strade appianate e si fermerà a “casa mia”

per riempire la storia con la Sua presenza.

La mia storia.

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Riflessioni di un prete

12/12/21 “CHE COSA DOBBIAMO FARE?” (LC 3,10.12.14)

Mentre l’aria odora già

di Natale, continua il

nostro cammino d’avvento

in compagnia della figura

immensa, autorevole, austera

di quella Voce che prepara la

strada alla Parola.

Negli occhi e nel cuore riecheggiano

ancore le parole ricche di speranza del Vangelo della scorsa

domenica: la Parola del Signore scese su Giovanni il Battista.

Dopo secoli in cui il dono della profezia sembrava aver abbandonato il

popolo dell’alleanza, scende lo Spirito su colui “della cui nascita molti si

sarebbero rallegrati in Israele”.

Troppo tardi per essere profeta, troppo presto per essere apostolo.

Resta “Voce”. Forte. Chiara. Autorevole.

E poi, ancora, ammaliante, capace di stregarti, in grado di conquistarti.

Per questo le folle, i pubblicàni, i soldati, a più riprese si recano da lui con

la stessa domanda “che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10.12.14).

In fin dei conti celata in questa richiesta, vi è una recondita ricerca di

senso, un desiderio di felicità, l’ebrezza di aver la certezza di vivere pienamente.

È la richiesta di una boccata d’aria a pieni polmoni che mentre t’allarga

il torace, ti normalizza i battiti, t’invade col senso di benessere che ti fa

sentire vivo. E Giovanni che conosce le parole di questo canto dell’anima,

fornisce gli ingredienti del ben vivere: condividere pane e vestiario,

evitare la sopraffazione, l’accumulo e il ladrocinio e, soprattutto, vivere

nell’ottica di quella giustizia che mi porta a riconoscere la grandezza

dell’altro.

Nessun accenno alle liturgie, ai sacrifici e alle penitenze.

È iniziato il tempo in cui la vita, tutta, odora di sacro, la quotidianità diventa

luogo della manifestazione del divino e, al contempo, il luogo in cui

l’Altro mi raggiunge nel volto del prossimo.

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Riflessioni di un prete

Parole semplici come quel Pane che un giorno profumando la vita degli

innamorati di Dio, sarà in grado di creare comunione, attenzione per gli

ultimi, condivisione. Cose apparentemente piccole, straordinariamente

quotidiane, chiaramente evidenti ma che necessitano, da Giovanni in poi,

di essere costantemente ricordate.

Roba da poco, si potrebbe pensare.

Ma che appare davvero tanto ogniqualvolta ci sforziamo di realizzarle.

Per questo l’avvento, ogni anno, è l’occasione per “aggiustare” le nostre

relazioni con gli altri, con le cose, con il creato.

E mentre saremo intenti a soddisfare le mille attese di una vita, nostra,

pienamente vera, comprenderemo che “amare” si declina con “dare”.

Il Vangelo, la vita, la gioia, la testimonianza, l’appartenere a Lui è questione

di…enormi piccolezze.

È

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19/12/22

L’INCONTRO DI DUE GREMBI

con gli occhi della ferialità

che voglio rileggere la gioia

bella che trasuda dal brano evangelico

di questa domenica.

Le immagino, le vedo queste due

donne toccate dalla mano di Dio

che si parlano guardandosi negli

occhi, cuore a cuore, con la voce bassa di chi vuole confidare un segreto,

talmente bello da non sembrare vero.

E ogni versetto è un canto alla gioia, ogni gesto è una pennellata di esultanza.

La immagino, la vedo Ain-karim, la piccola città di Giuda, con le

strade polverose, le anguste case ambrate, dello stesso colore della sabbia,

colorate dalle tende che fungono da porte, mentre le galline scorazzano

festose sull’uscio tra ciuffi di erbe aromatiche piantate a ridosso delle

stesse abitazioni.

Scorre normale la vita, in un vociare di uomini che abitano tra strada e


Riflessioni di un prete

case, in una vita comune dove tutti sanno tutto di tutti.

E la immagino Maria, raggiante come il sole, nel pieno di quella bellezza

matura, vera, che trapela dal volto delle donne che sanno che il loro

grembo è scrigno per una nuova vita.

«Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.

Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta» (Lc 1,39-40).

Quant’è bella quell’annotazione di Luca: “in fretta”. Sembra che Maria

abbia chiesto le ali a Gabriele, ha voglia di correre, sembra vederla danzare

tra le braccia del vento, del tempo, per raccontare e condividere, in

una confidenza, intima, la gioia che le ha fecondato la vita. Maria sembra

sapere che la gioia vera si moltiplica condividendola. E non perde tempo.

Si mette in viaggio. Accorcia le distanze. Celebra un incontro. “In fretta”.

E contemplo quel saluto, quello “shalom” benedicente, da batticuore

che vuol comunicare che Dio (pensate: Dio!) s’è innamorato di lei.

Lui, che di bellezza se ne intende. E dall’incontro di due grembi, quello

vergine e quello sterile, abitati, però, dalla vita che ormai pulsa, inevitabilmente

sgorga come la grazia, quella stessa portata dall’Angelo, la più

bella danza.

Veramente nulla è impossibile a Dio.

E mentre tutto scorre intorno nella routine della vita, Dio, l’Eterno, ha

cominciato a muovere i primi passi nella carne degli uomini.

E solo Giovanni, nel grembo di Elisabetta, sembra accorgersi che lo straordinario

è diventato ordinario mentre l’ordinario si veste di straordinario.

Le vedo le mani di queste due donne che si carezzano i grembi, quelle

mani che si intrecciano nell’’intimità di confidenze che parlano di Dio,

quelle mani che sbocciano in un abbraccio che coinvolge non due, ma

quattro vite. Sì quattro.

Perché nel loro incontro, Giovanni, per la prima volta riconosce Gesù.

E sussultando nel grembo di Elisabetta assume da subito il ruolo di precursore,

da subito indica il Messia presente nel mondo.

Mentre Dio, in punta di piedi, entra nella storia che, da quel momento

in poi, non sarà più “solo umana”.

Da allora la storia è unta di divino. Da allora la storia è colorata di eternità.

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Riflessioni di un prete

02/01/22

ASCOLTARE PER VEDERE

l Verbo si fece carne” (Gv 1,14).

“IÈ con gli orecchi ben disposti

ad accogliere questo lieto annuncio

e con gli occhi colmi di stupore che

si può comprendere tutta la bellezza

di questa affermazione.

Dio diventa uomo.

L’Eterno entra nel tempo.

Il Forte si fa debole.

Il Cielo si “sporca” di terra.

È l’inaudito del Natale che la Liturgia di questi giorni continua a cantare.

«In principio era il Verbo» (Gv 1,1). In principio.

Giovanni comincia il suo Vangelo con lo stesso tono solenne con cui si

apre il libro della Genesi. In principio.

Siamo ricollocati nel “tempo” dell’Eterno perché nell’incarnazione, l’immensa

carità di Dio, origina una nuova creazione.

Ritorniamo “in principio” per scoprire che la sorgente di tutto è il Logos,

la Parola, il Verbo di Dio.

E la Parola dice relazione, la Parola esprime, racconta le profondità del

cuore, la Parola crea comunione.

Questa Parola viene a raccontarci l’intimità del cuore di Dio.

Una Parola che, con libertà, va ascoltata, accolta.

«...la luce splende nelle tenebre» (Gv 1,5).

Un Verbo che si fa luce per rischiarare le tenebre che velano gli occhi

dell’uomo. Verbo da ascoltare, luce da vedere.

Ascoltare per vedere.

Due verbi che sono sintesi del Vangelo.

Due verbi che raccontano la magia del Natale.

Due verbi che hanno una forza dirompente: «A quanti però lo hanno accolto

ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12).

Vedendo quel Dio-Bambino che pone la sua tenda in mezzo a noi, contempliamo

la gloria di Dio, saziando l’ancestrale nostalgia di sacro, la sete


Riflessioni di un prete

di divino che da sempre, abita le profondità dell’animo umano.

A chi ascolterà questo Verbo vedrà la vita rifiorire mentre si attua il prodigio

di una vita buia e infruttuosa che si spalanca all’alba di una pesca

miracolosa.

Su questa Parola, la tua, Signore, vogliamo gettare le nostre reti!

06/01/22 GUIDATI DALLE “SIDERA”, LE STELLE

d ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si

«Efermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9).

Uomini dal fascino straordinario questi “magoi” che hanno il naso puntato

all’insù per meglio discernere le realtà della terra.

Scrutano il cielo e comprendono che la vita è un pellegrinaggio da intraprendere

con coraggio, un lungo viaggio che conduce verso l’Inaspettato.

Sbagliano strada, arrivano alla coorte del re assassino di bambini, ma non

si arrendono.

Chi fa può anche sbagliare ma se a guidare le scelte è il de-siderio (se

sono le “sidera”, le stelle che ci guidano) allora, si riprende la ricerca, si

ricalcola il percorso e l’errore diventa esperienza, si trasforma in saggezza

che ci dice le cose da evitare.

E loro, fedeli al desiderio che li abita, si fidano del fragile segno di una

stella. Le vie di Dio sono segni fragili che velano realtà immense.

Camminatori mai paghi di sapienza, sollecitati dal vibrare del cuore, agganciano

i loro cammelli alla coda di

una stella nella ricerca dell’Essenziale.

Piccoli bagagli, i loro, che hanno

posto per l’oro, l’incenso e la mirra,

il necessario per celebrare la prima

liturgia di fronte al Dio-bambino.

Ad attenderli, la normalità di una

famiglia. Da sempre, infatti, Dio si

nasconde nelle pieghe dell’ordinaria

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Riflessioni di un prete

quotidianità.

Prostrati di fronte ad un Bambino, paradosso assoluto dei sapienti, lo

adorano con la stessa gioia degli ultimi, gli uomini delle periferie, quei

pastori che, per primi, avevano dato credito alle voci degli angeli.

Con i bagagli più leggeri, ma col cuore riempito dall’Essenziale, «per un’altra

strada fecero ritorno al loro paese» (Mt 2,12).

09/01/22 FIGLIO, AMATO, “IN CUI MI COMPIACCIO”.

icevuto anche lui il battesimo,

«Rstava in preghiera, il cielo si

aprì e discese sopra di lui lo Spirito

Santo in forma corporea, come una colomba,

e venne una voce dal cielo: “Tu

sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto

il mio compiacimento”» (Lc 3,21-22).

Scende nel letto del Giordano, più

in giù non poteva andare, per insegnarci

che è “nell’abbassarsi” che si toccano le vette altissime dei cieli.

E mentre le acque, lambendolo, si stringono, si chiudono attorno a quel

corpo immacolato, i cieli si spalancano davanti a tanta bellezza.

La preghiera sale, bussa al cuore del Padre.

Il miracolo si compie: scende la voce di Dio che accompagna lo Spirito:

“Figlio, amato, in cui mi compiaccio”.

“Figlio” è parola che dice somiglianza, identità.

“Figlio” esprime l’appartenenza ad un Padre.

“Amato” è il vestito con cui Dio lo ricopre. Amore già donato, preveniente,

assoluto, totalizzante, brillante, pulsante.

Da sempre.

Per sempre.

“In cui mi compiaccio”. Parole, queste, che esprimono il sorriso tenero di

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Riflessioni di un prete

Dio, ne esprimono il cuore “umano” che vibra di paternità, denunciano

l’animo divino di un Dio felice di essere Padre.

Non c’è cosa più bella che il Padre possa dire ad un figlio.

Parole che Dio rivolge a ciascuno di noi.

Provate a sentirne l’eco in fondo al cuore.

E dopo, se ci riuscite, provate a sottrarvi da questo amore immenso.

16/01/22

CANA DI GALILEA. UNA FESTA DI NOZZE.

Cana di Galilea. Una festa di nozze. La presenza della Madre.

Secondo il racconto dell’evangelista Giovanni è proprio Lei ad accendere

in Gesù l’attività di quei sette segni che il quarto Vangelo ci racconterà

per dirci che è giunto il tempo di Dio.

Lei, la Madre che gli ha insegnato a muovere i primi passi da Uomo, ora

lo sprona, lo spintona quasi, affinché “cammini” da Dio per le strade

della Palestina. Sei anfore di pietra vuote, richiamo alle osservanze di

una religiosità stantia, di sacrestia, stanno a testimoniare che le norme, i

precetti di una legge scritta su tavole anch’esse di pietra, non destano più

lo stupore, la bellezza di quella festa nuziale che, costantemente, deve celebrarsi

tra l’uomo e Dio. Il “matrimonio” tra Dio e il suo popolo langue,

annacquato e impietrito.

Un’alleanza spenta, in cui la gioia s’è persa. Ed è l’occhio attento della

Madre (sempre le mamme!), la prima

Discepola del Figlio che sa intra-vedere,

guardare dentro le cose,

che s’accorge che un problema rischia

di tramutarsi in tragedia.

Perché se manca il vino, la gioia nel

linguaggio biblico, si sopravvive ma

la vita non è più umana.

Persino il “maestro di tavola”, im-

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Riflessioni di un prete

magine dei sacerdoti del tempio, custodi di questa alleanza, di questa gioia,

non s’accorgono delle giare, ormai vuote, distratti dai mille interessi

che abitano la loro vita. «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5).

Maria ci insegna lo stile: vigilare, denunciare, provvedere, intercedere.

Vigilare come sentinelle affinché la festa della vita sia sempre abitata dallo

stupore. Denunciare l’assenza di quel qualcosa che può svuotare il nostro

rapporto con Dio. Provvedere alle soluzioni e intercedere presso Colui

che è “fons et culmen” della nostra felicità, Alfa e Omega della nostra

esistenza. “Fate!”

È la bellezza del cristianesimo, un qualcosa da fare perché noi siamo collaboratori

di Dio nella realizzazione di questa gioia.

“Quello che vi dirà”

Il nostro fare, mai vuoto, sempre attento, deve nascere dall’ascolto.

Non un fare vuoto, appunto, ma abitato, riempito dalla sua Parola.

E il “vino nuovo” della letizia trasformerà il nostro sopravvivere-pietrificato

in esultanza di Vita autentica.

23/01/22 QUEL GIORNO A NAZARETH

enne a Nàzareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò

«Vnella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì

il rotolo e trovò il passo dove era scritto:

Lo Spirito del Signore è sopra di me» (Lc 4,16-18).

Le parole di Luca sono pennellate vibranti, intrise di colore materico

che lasciano segni vivi sulla tela della vita, pulsanti, che non si limitano a

raccontare ma disvelano la scena che, come un sipario, si apre dinanzi ai

nostri occhi.

Immensa la potenza dei verbi utilizzati: venne, entrò, si alzò, aprí il rotolo,

trovò il passo.

Una forza evocativa bella, al pari del più grande regista che riesce a catturare

le immagini, i gesti, i particolari.

Sembra di vederlo Lui, il Conoscitore di Dio che ritorna nella periferia

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Riflessioni di un prete

che l’aveva visto crescere.

Una borgata, quella di Nazareth, periferia dell’impero ma ultima tra gli

ultimi, relegata finanche non nella nobile Giudea ma nella Galilea, distretto

dei “gentili”, dei pagani, dove le razze si mischiano all’insegna di

una convivenza forzata.

Veramente Dio aveva deciso di farsi ultimo tra gli ultimi ed era necessario,

quindi, che la predicazione del Cantore di buone novelle iniziasse

proprio da lì. Aveva lasciato Nazareth per iniziare la sua missione ma ora

vi ritornava, bello, riempito di Spirito e con l’audacia di chi, armato della

Parola, vuole il giungere del tempo di Dio. Era giusto iniziare la “sua”

predicazione dalla “sua” Nazareth.

Era doveroso che quella terra che per

trent’anni l’aveva visto crescere come

uomo, ora sapesse che Lui era anche

Dio e che se è vero che Nazareth l’aveva

accolto tra le braccia della ferialità,

non si era accorta, lei, che Dio,

abitandola, aveva già reso straordinario

il suo ordinario.

Per la vita di uno dei suoi abitanti, della durata di appena trent’anni, lì

vissuta nascostamente, la Storia (quella con la lettera maiuscola) avrebbe

ricordato per sempre Nazareth, fino alla fine dei tempi che come uno

scrigno aveva custodito e nascosto il più grande tra i tesori.

Sembra di vederlo, Lui, incedere col passo pesante, sicuro che calca le

strade dissestate e polverose e, mentre la tunica si lascia abbracciare dal

vento, la polvere, sollevandosi, gli carezza i piedi e i calzari.

La immagino la piccola sinagoga del villaggio, vuota, abitata solo da panche

in attesa di essere riempite da uomini che lì discutono di Dio.

Una stanza essenziale, spoglia ma eccezionalmente ricca: lì nel centro ci

sono i rotoli della Parola.

Un gesto lento, il suo, una mano aperta, pronta ad accogliere, come un

dono, il rotolo del profeta. Con una gestualità lenta e misurata, reverenziale,

il rotolo è poggiato sul tavolo mentre Lui spalanca le braccia mentre

le mani, tenendone le estremità affinché il rotolo non si richiuda su se

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Riflessioni di un prete

stesso, sembrano abbracciare quel testo, quelle parole del profeta che

cantano Dio, l’amore per il suo popolo, i progetti di salvezza.

Gli occhi scuri, penetranti, corrono veloci su quelle parole che Lui conosce

bene, alla ricerca del brano.

La bocca si dischiude, l’aria fuoriesce e diventa canto di gioia: «Lo Spirito

del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato

a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai

ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del

Signore» (Lc 4,18-19). Davanti agli occhi di tutti, si compie la prima trasfigurazione:

«Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che

voi avete ascoltato”» (Lc 4,21). Quel testo, conosciuto.

Quelle parole, pronunciate dalla Parola, sembrano rifiorire, prendere forza.

S’incarnano. Diventano vere.

Molti ci avevano creduto, tanti ci avevano sperato ma ora Lui veniva a

dirci che veramente Dio ci voleva liberi, con gli occhi spalancati, capaci

di vedere che l’anno di grazia sta compiendosi.

No, non è una favola.

Quel giorno a Nazareth, Dio stesso venne a farci sentire la sua Parola che

ci comunicava il lieto annuncio: ci voleva figli, liberi, amati.

Molti non compresero a Nazareth, «Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi

su di lui» (Lc 4,20).

Quel giorno a Nazareth la storia diventò Storia e che in quella Storia, ormai,

abitava l’Eterno, vi aveva preso dimora, vi aveva posto la sua tenda.

Quella Storia, da allora, è anche la nostra.

PAROLA, PANE E FRATERNITÀ:

30/01/22 PERENNE EPIFANIA DEL NOSTRO DIO

ll’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e

«Alo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale

era costruita la loro città, per gettarlo giù» (Lc 4,28-29).

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Riflessioni di un prete

Com’è contorto il cuore dell’uomo!

Perennemente in attesa di una rivelazione,

di una manifestazione, di

un’epifania e quando Dio, finalmente,

decide di mostrarsi, non viene riconosciuto,

viene cacciato.

Gesù in fondo, per i compaesani, è

un Messia banale, troppo ordinario, ha le mani callose come le loro, lo

hanno visto per trent’anni aggirarsi per le viuzze di Nazareth e la troppa

frequentazione, come spesso accade, ha spento il mistero e la meraviglia

iniziale, immediatamente, lascia il posto allo sdegno. Oggi come allora il

mondo disincantato, impelagato nella propria precomprensione continua

a ricercare miracoli e non s’accorge che il nostro Dio, per manifestarsi,

utilizza il linguaggio della ferialitá, una lingua molto simile alla natura

dell’uomo che continua ad essere un tesoro in vasi di creta. I nazaretani,

incapaci di accogliere e inutilmente radicati sulle loro sterili convinzioni,

chiedono prodigi.

Vogliono i miracoli di Cafarnao, esigono un taumaturgo pronto a realizzare

i loro disegni mentre Gesù continua a parlare, inascoltato, di Parola

di Dio. Eppure il miracolo più grande è sotto ai loro occhi ma la loro

presunzione, il loro orgoglio li sclerotizza nella loro cecità.

Oggi come allora lo Spirito si aggira tra le nostre strade, santificando la

nostra quotidianità, celebrando la mite liturgia dell’ordinario, continuando

a manifestarsi in quel “profeta della porta accanto” chiamato Gesù,

incarnandosi nel volto degli ultimi, rivelandosi nelle parole e nei gesti di

quanti incrociamo sul nostro cammino.

Ed è nelle relazioni di autentica fraternità che si rinnova la presenza di

quel “roveto ardente” che arde senza bruciare, annuncia senza imporsi, si

presenta senza volerci costringere a credere.

E se non volessimo accettare questo Dio compagno di vita, Lui passa

oltre, continua altrove la ricerca di cuori che ne riconoscano la straordinaria

presenza non in portentose teofanie ma dietro il gesto semplice dello

spezzare il Pane.

Ancora oggi corriamo il rischio di sprecare la grazia che ci viene donata

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Riflessioni di un prete

continuando ad immaginare un Dio “totalmente altro” magari alla stregua

di Erode, desiderosi di vederne i miracoli e, ostinati, sciupiamo la

verità di un Dio prossimamente vicino, l’Emmanuele, il Dio-con-noi che

ha volto, mani e cuore di fratelli e sorelle.

Parola, Pane e Fraternità sono i miracoli, la modalità con cui, ancora

oggi, si compie il prodigio della perenne epifania del nostro Dio.

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06/02/22

DA PESCATORI A PESCATI

Il lago tacito come sempre, aveva

le parvenze di un nido adagiato

tra le montagne. L’acqua, profonda,

era ancora scura come il cielo.

Era stata una di quelle notti sprecate,

rubata al sonno per ritrovarsi

a mani vuote. Barche ormeggiate,

parcheggiate come le nostre vite

abitate dalla delusione. Eravamo

intenti a riassettare le reti con gesti

lenti, monotoni, ripetitivi ma in realtà cercavamo di ordinare i nostri pensieri

messi a soqquadro dalla fatica e dalla delusione.

Arrivò insieme al primo sole a rischiarare anche il buio che ci portavamo

dentro: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca» (Lc 5,4).

Uno sguardo rapace, il suo, capace di scavarti il cuore ma la richiesta era

assurda: pescare quando il sole, ormai, s’era levato.

Ma da pescatori ci ritrovammo pescati dalla sua voce, dal suo sguardo,

dalle sue richieste che ci chiedevano di non fermarci alla delusione del

presente ma di fidarci, nella speranza, di parole che già ponevano le basi

di un futuro già reale. Era il modo per farci comprendere che bisognava

mettere da parte il vecchio, osare, sognare, sperare in un “nuovo” dalla

parvenza assurda.


Riflessioni di un prete

Con il cuore ormai aizzato, incendiato, risposi: «Maestro, abbiamo faticato

tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5).

E noi, pescatori, eravamo già nella rete del Carpentiere.

Di fronte alla grazia di una pesca miracolosa, mentre le reti e le barche si

riempivano di pesci, il cuore traboccava di meraviglia.

«Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8).

Di fronte alla sua grandezza, scoprii la mia nudità, tutta la mia piccolezza.

Non accettò di respingermi.

Mi propose di diventare collaboratore del sogno di Dio, di abbandonare

le acque del lago per planare nei cieli dell’Infinito: «Non temere; d’ora in poi

sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).

Tirammo le barche a terra, abbandonammo tutto e, pescati da tutto ciò

che poteva condurci alla morte, iniziammo a seguirlo.

Mi scoprii un uomo nuovo.

Ero già diventato Pietro.

13/02/22 BEATI I POVERI!

L

a ricerca della felicità è il desiderio che

abita ogni istante della vita dell’uomo.

Ogni parola, ogni gesto, ogni scelta, è sempre

“ricerca della felicità”.

È un desiderio necessario. Come l’aria.

È il desiderio che guida, trascina l’intera vita

di ognuno. “Felici” equivale ad essere beati.

E Dio stesso, quest’oggi, ci indica la via da seguire.

Beati voi… poveri, voi che avete fame,

voi che piangete, voi odiati e insultati.

Non che Dio ami vederci soffrire.

Diverso è il messaggio: beato è colui che cerca

Dio. Ho visto ricchi superbi, convinti di

bastare a loro stessi, affamati di felicità.

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Riflessioni di un prete

Le prove, talvolta, ci inducono a tralasciare la logica del mondo e ci costringono

a rientrare nella parte più intima del nostro io.

È proprio in quei momenti che vediamo con chiarezza il volto di Dio.

Ma non dobbiamo mai dimenticare che il vero volto di Dio è quello che

emerge dalla croce.

Il nostro Dio è sempre un Dio crocefisso.

Allora beato, felice, è colui che proprio come il povero, come l’insultato,

come il piangente, confida nel Signore. Allora la beatitudine non è quella

che viene dall’esterno, non è quella offerta dalle logiche del mondo

ma qualcosa di interiore, di profondamente intimo che non ci spinge

ad affannarci per accumulare ricchezze, per affermarci nel successo, per

accrescere la fama. Questa è la “sazietà” mondana che non sfama la nostra

ricerca di senso, che talvolta svilisce la nostra autenticità offrendoci

compensazioni di piacere che però non sono felicità.

Perché l’uomo vale non per il successo ma per il peso del cuore, quel cuore

che appare tanto più umano quanto più si scopre fragile, talvolta fallito,

ferito. Proprio nella nostra miseria, accettata ed offerta, brilla il volto

di Dio. E Gesù, annunciando il Regno, vagando per le strade di questo

mondo si è fatto prossimo con gli affamati, con i piangenti, con i poveri

pur sapendo che ciò lo avrebbe reso sempre più povero, emarginato ma

comunque ricco perché felice, consolato.

Ho visto, però, anche poveri condividere quel poco che avevano, in una

sorta di comunione che odorava di “sacramento” e nei loro occhi ho

scorto la forza libera e liberante della felicità.

Beati i poveri!

20/02/22 L’ILLOGICITÀ” DELLA LOGICA EVANGELICA

n quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “A voi che ascoltate, io dico: amate i

«Ivostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono,

pregate per coloro che vi trattano male”» (Lc 6,27-28).

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Riflessioni di un prete

Si vola alto questa domenica!

Con le sue parole Gesù ci presenta

il paradosso del Vangelo, ci invita

a provare il coraggio di scalare le

vette altissime della santità e, per

una volta, di non svilire la bellezza

del messaggio cristiano con una religiosità

di facciata spesso confusa

con il politicamente corretto o col semplice quieto vivere con cui trucchiamo

il Vangelo.

Parole chiare, dure come una sferzata ma inequivocabili.

È “l’illogicità” della logica evangelica che ci ricorda che non si può essere

discepoli a metà.

La tentazione è quella di arrendersi. Ma Lui ci invita a seguirlo, a non demordere.

Non ci vuole perfetti ma appassionati cercatori di Dio che nella

loro incoerenza non rinunciano al brivido della sfida che nasce dall’Amore

puro, ricevuto, accolto, donato. Ce lo dice e ci propone di provare: è

possibile credere ma la fede senza l’amore è nulla.

«A voi che ascoltate, io dico:…» (Lc 6,27). Ecco il segreto.

L’azione, queste azioni, nascono dall’ascolto.

Ascolto attento, vigile, della sua Parola che diventa seme accolto nell’humus

della nostra fragile umanità. Ed è la sua Parola che a tempo opportuno

germoglia e fruttifica maturando la fede in condotta, morale che odora

di Cristo. «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).

Bellissimo, certo. Difficile. È vero!

Ma non continuiamo a pensare che la fede è frutto solo del nostro sforzo

e che la santità è troppo ardua, per cui bisogna arrendersi.

Occorre partire dai nostri limiti ma confidando nella grazia che ogni volta

che è ricevuta, dev’essere donata.

È così che l’amore può trasformarsi anche in perdono e al contempo,

eradicando il male, fonda le premesse perché questo non possa più attecchire.

Per-dono. La parola stessa dice che è un qualcosa da donare non

da meritare.

Ma è perdonando che noi “meritiamo” e guadagnamo la pace.

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Riflessioni di un prete

«E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro» (Lc 6,31).

Ecco il segreto: risiede tutto in quel verbo “fare”.

È proprio quel “fate” che opera un grande miracolo, trasformandoci da

semplici “credenti” in credenti credibili.

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27/02/22

«P

UNICA GUIDA: CRISTO-VIA-VERITÀ-VITA

uò forse un cieco guidare un altro

cieco? Non cadranno tutti e

due in un fosso?» (Lc 6,39).

Una tentazione subdola, presente

sempre nelle nostre (a partire da

noi) relazioni, è quella di sentirci

guide, maestri, esperti, dimenticandoci

che all’interno della Comunità,

nella vita, l’unica guida,

fattosi compagno di viaggio, è Lui, il Cristo-Via-Verità-Vita.

“Via” che ci porta alla salvezza, lontani dai fossi che creano distanze incolmabili

e che ci inghiottono nelle loro profondità asfissianti.

“Verità” che ci spinge a far luce su noi stessi affinché guardandoci con

misericordia, possiamo, prima, estrarre le travi dai nostri occhi per essere,

poi, indulgenti con le inevitabili pagliuzze presenti anche negli occhi degli

altri (Cfr Lc 6, 41-42).

“Vita” che come linfa benefica ci scorre nelle vene affinché da “alberi

buoni” possiamo produrre “frutti buoni” (Cfr Lc 6,43).

«L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo

cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda»

(Lc 6, 45).

Essere “uomini buoni” significa realizzare l’originario progetto divino,

di genesiaca memoria, quando Dio di fronte ad Adamo, compiaciuto per

l’opera delle sue mani, “vide che era cosa buona”.


Riflessioni di un prete

“Uomo buono” equivale ad essere realizzati, coerenti con quel tesoro che

ci portiamo nel cuore.

Un tesoro certo, già donato che rimane “buono” se investito, messo a

frutto, speso. Proprio come la vita che ci è offerta per saperla amministrare

con sapienza.

Se il tesoro non si investe, si affastella, ristagna, desta desideri di sempre

maggiore accumulo, muore nelle profondità delle casse e perde la propria

funzione. Il tesoro si investe non si accatasta. Così è per la vita.

E chi vive, spendendosi per gli altri, a differenza di coloro che sopravvivono,

affaticati dalla voglia egotica di accumulare, si ritrova con una

sovrabbondanza di bene che darà sapore alla propria e all’altrui esistenza.

Il Viandante Nazareno ci ha fatto vedere come si vive, ci ha insegnato

a morire, ci ha inoculato la certezza della vita eterna e ci ricorda: «Un

discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo

maestro» (Lc 6,40). In tutto.

Nella vita, come nelle prove. Nella morte, come nella risurrezione.

06/03/22 ACQUA E SILENZIO...

esù, pieno di Spirito Santo,

«Gsi allontanò dal Giordano ed

era guidato dallo Spirito nel deserto»

(Lc 4,1).

Appena battezzato, si spinge

nelle viscere del deserto.

Acqua e silenzio, battesimo e

deserto sono gli ingredienti essenziali

per formare un uomo:

il lavacro battesimale che ci genera come figli di Dio e l’essenzialità del

silenzio desertico per imparare ad ascoltarne la voce.

Ma è nel deserto, palestra per allenarsi alla Vita, che emergono anche le

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Riflessioni di un prete

voci delle tentazioni. Vale per noi.

Vale per il Nazareno: «“Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi

pane”Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo”» (Lc 4,3-4). Alla

proposta sensazionalistica del tentatore, Cristo ribatte con la semplicità

disarmante della Parola, l’unica in grado di saziare la fame più profonda,

quella fame che si rende manifesta anche nell’abbondanza del cibo. Il tentatore

propone pietre che hanno forma di pane, il Cristo offre la chiarezza

impalpabile di una Parola che però è l’unica in grado di creare Verità,

che “sfama” il desiderio di bellezza e non illude falsificando quelle stesse

pietre che ci porterebbero ad inciampare nel cammino verso la Verità.

E, mi piace pensare, che mentre nel mondo ci sarà sempre qualcuno a

tendere un tozzo di pane agli Ucraini che fuggono da una guerra insensata,

solo Dio con la Parola di speranza, può saziare di Shalom gli occhi di

chi ha visto la bruttura disumanizzante della guerra.

«“Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù gli rispose: “Sta

scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”» (Lc 4,7-8).

Prostrarsi davanti alla bestia, significa abdicare dall’essere uomo, degradarsi

per scendere in basso, fin sotto terra.

È perdere la dignità, sfigurare l’uomo.

In altre parole, il povero diavolo promette potere a chi rinnega la propria

dignità. È la logica dei potenti che dimentichi del loro essere “uomini”,

prostrati, mietono vittime innocenti, inducono intere famiglie a lasciare

le loro case, costringono gli anziani a non vivere in serenità gli ultimi anni

della loro vita, per la sete di potere, per mostrare al mondo la forza.

Desideri effimeri che la storia si porterà via lasciando soltanto la realtà

del dolore causato.

Perché il potere non si porta nella tomba, svanisce, mentre il dolore causato

ai piccoli, resta per sempre sulla terra e grida vendetta presso il trono

di Dio. E Cristo, bello come la Verità, rifiuta di “prostrarsi”, anzi, convinto

più che mai, dopo il deserto, deciderà di intraprendere quel viaggio

in salita che da Nazareth lo porterà a Gerusalemme, per salire ancora sul

calvario, per salire ancora sulla croce dove compirà il grande, unico, atto

di culto e di adorazione a Dio gradito: l’Amore, sconfinato, immenso,

tanto da morirne.


Riflessioni di un prete

«Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu

sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo

riguardo affinché essi ti custodiscano”»(Lc 4, 9-10).

La proposta del divisore è quella di “gettarsi giù”, di precipitarsi verso gli

inferni senza via d’uscita.

Dio, invece, ci innalza alla dignità di figli, ci chiede di “alzarci” per vivere

da risorti, ci “solleva su ali d’aquila” per farci sedere al cospetto della sua

maestà divina nelle altezze dei cieli sconfinati.

«Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento

fissato» (Lc 4,13).

Come una serpe scappa di fronte all’uomo per insinuarsi negli anfratti

scuri delle rocce per poi poter uscire nuovamente indenne, più strisciante

di prima.

Nello stesso modo l’atavico serpente fugge al cospetto dell’Uomo-Dio

per tornare più velenoso nei tempi apparentemente propizi.

Lo ritroveremo in prossimità della Croce, sicuro di aver vinto ma il “Re

dei giudei, presentando la bellezza del vero volto di Dio, delineerà per

sempre i tratti definitivi dell’uomo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»

(Lc 23,46).

Padre è il nome di Dio, figlio è il nome dell’uomo che fuggendo le tentazioni

sa rendere la vita un dono.

13/03/22 “I FIGLI DEL TUONO”, TESTIMONI DI BELLEZZA

irca otto giorni dopo questi di-

Gesù prese con sé Pietro, «Cscorsi,

Giovanni e Giacomo e salì sul monte

a pregare. Mentre pregava, il suo volto

cambiò d’aspetto e la sua veste divenne

candida e sfolgorante» (Lc 9,28-29).

Pietro, Giacomo e Giovanni. Simone

e “i figli del tuono”. Scelti tra

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Riflessioni di un prete

i dodici per diventare testimoni di bellezza.

E quante volte anche noi, Signore, siamo duri come la “pietra”, ancorati

alle nostre convinzioni.

Altre volte, proprio come i “tuoni”, siamo “rimbombi”, rumore di vuoto.

Per questo proprio come Pietro, Giacomo e Giovanni, ti chiediamo di

accompagnarci sul monte, luogo della rivelazione di Dio.

Aiutaci a staccarci dalla pianura delle nostre quotidianità e insegnaci a

scalare la vetta della santa montagna, luogo dove si raggiungono le vette

altissime del divino, luogo che aiuta a prendere le distanze dal vissuto

piatto del quotidiano.

Mostrati anche a noi Signore, mentre preghi, facci dono del tuo stile

orante, insegnaci l’arte della preghiera che diviene silenzio, ascolto, dialogo.

E, finalmente, epifania.

«E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto;

ascoltatelo!”» (Lc 9,35).

Dall’alto del monte, guidati dalla voce del Padre aiutaci a comprendere,

prima di discendere tra le mille occupazioni della vita, che questo tempo

santo della Quaresima, ancora una volta ci permetterà di scorgere, sulla

croce, la più bella trasfigurazione di Dio.

Finalmente rivelato, definitivamente manifestato.

E dopo aver guardato il mondo da quella posizione, dal punto di vista di

Dio, con la certezza di aver scorto il fine ultimo, la meta del cammino di

ogni uomo, aiutaci, finalmente liberati dalle false attese, ad essere testimoni

dell’Incontro.

DIO IMMENSO, IL NOSTRO,

27/03/22 CHE SALVA E NON GIUDICA

isse ancora: “Un uomo aveva due figli…» (Lc 15,11).

«DUna parabola famosissima quella di questa domenica. Due figli

che non si sentono tali.

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Riflessioni di un prete

Due figli incapaci di scoprirsi fratelli.

Il più giovane che vive come un

peso la presenza del padre, confonde

il piacere con la felicità. Chiede

in anticipo la parte di eredità dovuta

e, allontanandosi da casa, andando

“in un paese lontano”, prendendo

le distanze dalla casa paterna, anzi

tempo “seppellisce” il Padre.

Il figlio maggiore, da Luca ci viene

presentato mentre “si trovava nei

campi” (Lc 15,25).

Ligio al dovere, disposto ad ubbidire

ma, anche lui, incapace di scorgere

il vero volto del padre, vive da

servo non da figlio, pronto a reclamare

la ricompensa per i “servigi” svolti più per dovere che per amore.

È la nota dinamica del “do ut des” che spesso abita il nostro rapporto

con Dio e con i fratelli. Incapace di gratuità, miope anche lui, confonde

l’amore con la giustizia.

E poi Lui, la figura splendida, profonda, immensa del Padre che rispetta

la libertà del figlio minore ma che esce di casa per placare anche l’ira del

figlio maggiore stizzito.

Un padre con lo sguardo rivolto sempre all’orizzonte, verso quel “limite”

di ognuno di noi, che corre incontro ai figli prodighi mai pentiti e sempre

affamati, che troppo spesso fanno ritorno alla “casa del Padre” spinti più

dalla necessità che dall’amore. Mosso a compassione, nonostante l’età ,

corre, si fa vicino, prossimo, letteralmente dice Luca, “cade in grembo” al

figlio e continua a baciarlo instancabilmente sul collo, per comunicargli,

senza parole ma col solo linguaggio dell’amore, che il Padre sa attendere

il tempo di maturazione dei figli e che, rispettoso dell’altrui libertà, non

chiede conto dei “soldi” e del “tempo” sprecato.

Padre immenso, quello della Parabola, che riveste la nudità dei figli, che

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Riflessioni di un prete

restituisce la libertà ponendo i calzari ai piedi e che ristabilisce la figliolanza

rifiutata ponendo l’anello al dito.

Dio immenso, il nostro, dalla memoria corta perché dimentica i peccati,

dalla vista lunga perché ci scorge da lontano quando siamo sulla via del

ritorno e dall’abbraccio ampissimo che tutti accoglie.

Dio immenso, il nostro, che salva e non giudica.

La Quaresima sia il tempo del “ritorno” per gustare anche noi l’abbraccio

misericordioso di Dio.

03/04/22 MAI STRUMENTALIZZARE LA PAROLA!

Facile condannare ma è il perdono che ci rende “divini”, è la misericordia

che a dir di Luca, ci fa “simili al Padre”.

E com’è facile nascondere la propria violenza, la propria responsabilità,

nel gruppo che apparentemente invoca giustizia.

Ancora più facile è dar sfogo agli istinti violenti ammantandoli di sacralità

(l’osservanza della Legge) o invocando l’autorevolezza della Parola

(“Mosè ci ha comandato”).

Come sempre, i peggiori crimini vengono commessi in nome di Dio da

parte di chi, dall’alto della propria superbia, quasi novello profeta, confonde

il sentirsi “separato”, “santo”, “giusto” con le proprie frustrazioni

che eliminano tutti e chiunque affinché sempre più possa brillare quell’io

che, novello idolo, soppianta e sacrifica

finanche Dio.

«Allora gli scribi e i farisei gli condussero

una donna sorpresa in adulterio, la posero

in mezzo e gli . Legge, ci ha comandato

di lapidare donne come questa. Tu che

ne dici?”» (Gv 8,3-5). Scribi e farisei.

Sempre loro, i frequentatori di “sagrestie”,

impregnati di incenso per

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Riflessioni di un prete

coprire il puzzo delle loro coscienze marce, perennemente intenti a scrutare

le Scritture, utilizzate, però, non per approfondire la conoscenza di

Dio, non per abbeverarsi alla fonte della Sapienza che diventa linfa che

infonde vita (a tutti e a tutto) ma per congegnare piani di morte, per trasformare

la Parola in “pietra” da scagliare prontamente verso chi incorre

nei limiti naturali di un’umanità sin troppo fragile ma pur sempre custode

di un tesoro prezioso, inabitata dal divino e, comunque, capolavoro di un

Dio di cui continua a portarne l’immagine e la somiglianza.

Una donna, senza nome, ormai identificata con il suo peccato, viene trascinata

ai piedi di Gesù.

Accerchiata da un branco di “giusti” simili a cani rabbiosi, con la bava alla

bocca, pronti a scagliarsi sulla preda.

E chissà perché la codardia di certi gruppi si scaglia con violenza sempre

sui più fragili, sui deboli, sugli indifesi.

«Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (Gv 8,6).

Giovanni smaschera il loro intento.

Mai strumentalizzare la Parola!

E se proprio la Parola diventa “pietra”, la si utilizzi per battersi il petto

non per scagliarla contro l’altro.

«Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra» (Gv 8,6).

Una pennellata dalle tinte forti, questa del Vangelo di Giovanni.

Lui, Misericordia incarnata, si china.

Si prostra dinanzi ad ogni forma di peccato: quello della donna e quello

degli accusatori.

Si pone in basso. E scrive per terra.

Un primo piano bellissimo quel dito di Dio che scrive sulla roccia.

Richiamo al dito di Dio che incide le tavole della Legge. Una Legge data,

donata per infondere vita, per celebrare un patto nuziale con il suo popolo,

non portatrice di morte, né per “divorziare” dal fratello che sbaglia.

«Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed

ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora

in poi non peccare più”». (Gv 8,10-11).

Rimasero soli. La Misericordia e la misera, dice Agostino.

La chiama “Donna”, amata, sposata. Amata da un Dio che è sempre

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Riflessioni di un prete

misericordioso, cioè ha il cuore costantemente rivolto verso i miseri per

annunciare che il perdono è il sapore della vita.

Sia della vita di Dio.

Sia della vita dell’uomo.

10/04/22

LA “GRANDE SETTIMANA”

Cinque settimane di preparazione,

le croci già sono velate con

panni violacei e mentre ci accingiamo

a vivere la “grande settimana”,

all’orizzonte si intravedono i confini

del “deserto” che lascia lo spazio

al giardino fiorito in cui la liturgia

ci collocherà al mattino di Pasqua.

In questa Domenica delle Palme ascolteremo il Vangelo della Passione.

Della “passione” di Dio per l’umanità.

Un racconto che ci presenta l’Amore “patito”, accettato, trasfigurato che

diventa offerta che attraversa la morte e la vince.

Gustiamo con stupore la bellezza dei racconti evangelici, lunghi ma intensi

che la liturgia ci offrirà in questi giorni per raccontarci, con parole

umane, la scelta divinamente folle di Colui che mentre “viene consegnato”

(tradito), “consegna” se stesso per amore. Perché più forte della

morte è l’Amore (cfr Ct 8,6). Un amore totalizzante, da togliere il “fiato”

che giunge al fine della “misura colma”.

E Luca, in questa domenica, come sempre, saprà raccontarci le emozioni,

le sue pennellate ci restituiranno le carezze, gli sguardi, le Parole. Intenso

sarà l’odore del Pane fresco che diventa offerta, dono, ringraziamento.

E mentre la notte, furtiva come il gesto di chi trama l’arresto del Nazaretano

sembra rubare ore al giorno, la luce vincerà con forza le tenebre,

a mezzogiorno, mentre la croce, per sempre, sarà issata sul mondo per

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Riflessioni di un prete

divenire, poi, luce gentile, tenue, colorata di tinte pastello, nel mattino di

Pasqua odorato di nardo appena sbocciato.

È la vita che rifiorisce perché il “seme” caduto nelle viscere, nel grembo

della terra, deve morire per poter rinascere e portare frutto.

Mettiamoci in cammino nella sequela del Pastore Bello che dona la vita

per le sue pecore, stendiamo i mantelli delle nostre vite ai piedi di “Colui

che viene nel nome del Signore”, consapevoli che è necessario attraversare

il “venerdì santo”, senza cui non ci potrebbe essere risurrezione, prima

di giungere al sepolcro dalla pietra ribaltata.

Si innalzi il nostro “Osanna!” a Colui che vince il male, con la speranza

che i tanti ramoscelli di ulivo che oggi saranno elevati al cielo, siano veramente

gravidi di pace. Nel mondo e nelle nostre realtà.

24/04/22 STETTE NEL MEZZO....FRATELLO TRA FRATELLI

enne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò

«Vloro le mani e il fianco» (Gv 20,19-20).

Puntuale come la Pasqua, ogni anno, nella domenica della Misericordia,

sopraggiunge il Vangelo di Tommaso, non l’incredulo, ma il discepolo

credente che fidandosi della Parola è l’unico a non essere in casa quando

il Risorto visita gli altri discepoli che sono chiusi in casa, con le porte

sbarrate, “per timore dei giudei” (Gv 20,19).

E mi colpisce, annualmente, quanto riportato dai primi due versetti proclamati

nella liturgia, quelle venti parole che odorano di entusiasmo da

risvegliare, che hanno sempre la forza di farti battere il cuore per condurci,

proprio come Tommaso

di fronte Gesù, a professare

la nostra fede con parole

semplici, forti, vere: “quanto

sei bello Dio mio e mio

amato Signore!”.

E si resta disarmati di fron-

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Riflessioni di un prete

te alla Vita che sfonda muri, attraversa le porte sbarrate, accorcia le distanze

e ti viene a cercare per palesarsi, nuda come la Verità, in tutta la

sua bellezza.

Anche se ferita. Anche col segno indelebile dei chiodi. “Venne Gesù”.

Non appare, non scompare.

“Viene” il Risorto, si fa vicino il Veniente nel giorno del Signore, quando

la comunità è radunata. Viene per restare.

E si pone al centro, come fratello tra fratelli, per “camminare insieme”

perché realmente è il Dio-con-noi.

“Stette nel mezzo”. In mezzo alla comunità.

In mezzo, tra me e il fratello, c’è il Signore che viene.

È Lui il “pontifex” vero, il costruttore di ponti che trasforma lo stare

insieme in fraternità, la folla in comunità. E il deserto della solitudine,

fiorisce alla vita che diviene uno “stare con”. Mai soli. Mai senza l’altro.

“Disse loro: Pace a voi!”

Il Vivente nel momento in cui ci si chiude al mondo per lasciarsi dominare

della paura, ci incalza, ci viene a cercare per augurarci, per portarci

la pace.

Pace che è forza, vigore, vita.

Vita “piena” che spinge i discepoli, che sollecita noi a tornare per le strade,

col cuore pacificato (letteralmente “fatto pace”) per cantare la generosità

di Dio che mai abbandona, che sempre “cerca”, benedice ed invia.

Ma prima deve farsi riconoscere, per questo offre alla loro vista le mani e

il costato. Non il volto. Ma le mani e il costato. Le mani.

Quelle stesse mani che nel mondo hanno seminato speranza, riconciliazione,

guarigione, misericordia e perdono.

Ancora oggi se si vuole incontrare il Risorto bisogna scorgerne la presenza

proprio attraverso l’operato di quelle “sue mani” che continuano

a seminare bene attraverso i gesti che ogni discepolo è chiamato a porre

in atto affinché la Parola, ancora una volta, ponga la sua tenda in mezzo

a noi.

Mostra le mani e il costato. Quelle mani che nell’ultima cena hanno accolto

i piedi, il cammino, l’intera vita dei discepoli. Quel costato ferito

che diviene finestra sul cuore di Dio da cui sgorga, per sempre, la Vita (il


Riflessioni di un prete

sangue) e la grazia (l’acqua). Mani che odorano di carità operosa, costato

abitato da amore infinito.

Sarebbe bello se ognuno di noi, proprio come Gesù, venisse riconosciuto

come cristiano dalla carità (mani) e dall’amore (costato) che investe in

ogni relazione per dire al mondo intero che Cristo è veramente risorto

e, ogni qualvolta la comunità si raduna, viene per restare in mezzo a noi.

01/05/22 RESTARE, ANDARE “INSIEME”

isse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”»

«D(Gv 21,3).

Sembrava tutto svanito in quel tramonto del

Venerdì santo quando le tenebre, avanzando,

sembrano avere la meglio sulla Luce.

Eppure loro ci avevano creduto a quell’Uomo

che parlava con lo sguardo che, dritto, ti scandagliava

il cuore e che con la bocca compiva

prodigi restituendo “Vita” ai sopravvissuti alla

fragilità della condizione umana.

Ci avevano creduto, avevano lasciato tutto e lo

avevano seguito.

È l’atteggiamento, il loro, dei semplici che quando donano non hanno

mezze misure, danno tutto, finanche il cuore.

Eppure il silenzio, sigillato da una “pietra rotolata”, aveva spento l’attesa,

le speranze… le promesse.

Incapaci di essere “pescatori di uomini”, senza di Lui, tornano pescatori

di pesci. «Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”» (Gv 21, 3).

Lo stile appreso è rimasto: restare, andare “insieme”. Mai senza l’altro.

E poi, nei momenti di incertezza, la compagnia, è una solida stampella su

cui poggiarsi. Soprattutto quando i sogni infranti ti sbattono in faccia la

dura realtà. Ritornano al mare.

Il mare, simbolo atavico di instabilità, luogo biblico dove si annidano i

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Riflessioni di un prete

“mostri” marini, pericoloso perché se non riesci a dominarlo ti avviluppa,

ti tira giù e sprofondando, ti toglie la vita, spegnendoti, con le sue acque,

il fiato.

Di notte. In quel buio che respinge la luce, quelle tenebre che soffocano

sogni, speranze, progetti.

«Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti

che era Gesù» (Gv 21,4). Anche se le tenebre, per loro natura, cercano di

spegnere la luce, essa vince sempre.

Arriva silenziosa, in punta di piedi, proprio come l’alba e poi cresce di

attimo in attimo fino ad esplodere in una pienezza tale che restituisce

forme, colori, calore. Arriva l’alba e con essa la Luce, quella che illumina

ogni uomo restituendolo ad una realtà che è più dolce di qualsiasi fantasia:

è Risorto.

Viene, il Vivente, sulle rive delle nostre vite mentre noi navighiamo nel

mare delle nostre delusioni, mentre le reti sono vuote, ci aspetta lungo la

spiaggia. Viene a recuperarci.

«Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”» (Gv 21,5).Viene il Signore

e si fa povero. Ci chiede da mangiare perché vuole, sempre, sedersi

a tavola con noi per ricreare quel clima di splendida intimità che ci porta

a condividere il desco con le persone amate.

La voce, allora, viene riconosciuta. È la stessa della Parola.

E se accolta, ubbidita, essa compie prodigi, non soltanto le reti ma le nostre

stesse vite debordano di grazia: «gettarono (la rete) e non riuscivano

più a tirarla su per la grande quantità di pesci» (Gv 21,6).

«Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti»

(Gv 21, 14). Manifestazioni “pasquali” che odorano di risurrezione, di

vita che esplode. E la vita per essere piena dev’essere autentica.

Lui ci riconduce alla nostra autenticità, tenendoci per mano ci aiuta a

superare i limiti, i nostri rinnegamenti, i nostri fallimenti.

E proprio come la notte del rinnegamento, prima del canto del gallo,

Pietro si ritrova di fronte ad un fuoco di braci. Tre domande.

Proprio come quella notte.

Ma ora è il Signore a chiedere: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?»

(Gv 21,15).


Riflessioni di un prete

Pietro capisce, il suo cuore diventa tizzone ardente, ravvivato dal soffio

di quella Parola che spazza via la cenere del rinnegamento, dei sensi di

colpa. Pietro si capacita della propria piccolezza ma sperimenta (ancora

una volta) anche la grandezza del Risorto che viene a “ripescarlo” in un

momento in cui tutto sembrava finito.

Pietro e gli altri, intuiscono che devono tornare a sognare: il loro lavoro è

andare a “pescare” gli uomini che rischiano di essere sommersi dai flutti

dei mari tempestosi della vita.

Per i discepoli è chiaro che insieme a Cristo risorge la Lieta Novella.

È tempo di Vangelo che fa nuove tutte le cose.

Oggi, come allora, è tempo di annuncio.

E NIENTE E NESSUNO CI STRAPPERÀ

08/05/22

DALLA SUA MANO

e mie pecore ascoltano la mia

«Lvoce e io le conosco ed esse mi

seguono. Io do loro la vita eterna e non

andranno perdute in eterno e nessuno

le strapperà dalla mia mano» (Gv

10,27-28)

È la voce del Pastore che come

l’acqua sgorgante dalle profondità della terra è capace di placare la sete,

nello stesso modo, la sua voce, donandoci certezze che zampillano dalle

profondità del suo cuore, spegne le nostre paure, mette fine alle nostre

attese e placa l’animo nella certezza di essere amati dal Pastore Bello che

vigilando su noi ci pone al sicuro.

Voce, la sua, che veicola la “Parola di Dio”, capace di far “ardere il cuore

nel petto”.

Voce rassicurante la sua, che ci “conosce” fin dal grembo materno mentre

la mano di Dio tesseva le nostre viscere, ricamava il nostro essere.

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Riflessioni di un prete

Voce la sua, che ci invita a seguirlo, rispettando la nostra libertà ma “costretti”

dalla dolce forza dell’Amore che ci attrae.

Voce che diventa Parola, relazione, trasformandoci nel tu di Dio, in grado

di trasmettere vita piena, infinita, eterna perché qualitativamente alta,

spesa, donata nel servizio e nella carità.

Voce che ci guida nelle mille voci del mondo, ci accompagna, ci sostiene

per non perderci tra le seduzioni mortifere.

Voce da riconoscere, da accogliere, da ascoltare che ci colloca nel palmo

sicuro delle mani di Dio, sotto la sua protezione, dove nulla e nessuno

potrà scalfire la bellezza del nostro essere figli.

Impariamo, ritorniamo ad ascoltare questa Voce che invitandoci alla conversione,

a ritornare nell’ovile della casa di Dio, ci garantisce di essere figli

amati sempre e nonostante tutto perché lui, il Pastore Bello dalla Voce

bella, dalla Parola bella, dal Cuore bello mai ci abbandona.

E niente e nessuno ci strapperà dalla sua mano.

15/05/22 UN COMANDAMENTO NUOVO

i do un comandamento nuovo:

«Vche vi amiate gli uni gli altri.

Come io ho amato voi, così amatevi anche

voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno

che siete miei discepoli: se avete amore

gli uni per gli altri». (Gv 13,34-35).

Che dire di fronte a queste parole?

Bisogna entrarci in punta di piedi,

in silenzio, gustandone ogni sillaba,

persino gli spazi, la punteggiatura.

Lui, l’Iddio fatto carne ha appena finito

di lavare i piedi ai suoi amici, sta per essere condannato a morte e

continua imperterrito a parlare d’amore.

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Riflessioni di un prete

Un amore qualitativamente alto (dopo averli amati, li amó fino alla “misura

colma” dice Giovanni) che dura nel tempo, quantitativamente… infinito.

E questo tipo d’amore diviene il segno distintivo di chi decide di mettersi

alla sua sequela: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se

avete amore gli uni per gli altri”. Una logica stringente, la sua, da cui non

si scappa e Lui ci fa vedere che è possibile vivere d’amore, che è possibile

morire d’amore ma che è questo stesso amore che ci conduce alla vita.

Beh… proviamoci ricordando che amore è voce del verbo fare: «Figlioli,

non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18).

22/05/22

UN SEMPLICE “SE”

Il brano del Vangelo di Giovanni di questa Domenica, ancora una volta,

ci colloca nel contesto dell’ultima Cena, nella comunità dei Dodici,

ferita dall’abbandono di Giuda che non comprendendo il messaggio del

Nazareno ha preferito “uscire nella notte” (come ci ricorda Giovanni),

piuttosto che lasciarsi illuminare dalla Parola del Maestro.

Parole, le sue, cariche di paterna dolcezza, pronte a lenire il senso di abbandono,

a colmare i dubbi,

a rinfrancare il cuore e

le vite di coloro che di lì

a poco, vedranno portarsi

via il Maestro.

«Se uno mi ama, osserverà la

mia parola e il Padre mio lo

amerà e noi verremo a lui e

prenderemo dimora presso di

lui» (Gv 14,24).

“Se”.

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Riflessioni di un prete

Tutto è espresso da questa parola. Una sillaba.

In essa è raccolta la delicatezza di un Dio che resta sulla soglia della porta

del cuore dell’uomo in paziente attesa.

Un Dio che si propone ma che lascia somma libertà all’uomo affinché

decida, o meno, di tuffarsi in questa storia d’amore.

Gesù non parla di precetti, non offre prescrizioni ma prospetta la possibilità

di una scelta libera, “dominata” soltanto dalla dolce “legge dell’amore”.

Questo significa accogliere la Parola. Ed è proprio l’accoglienza

di essa a far sì che la nostra vita diventi un cielo abitato da Dio: “noi

verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

Ma il Vangelo di questa Domenica profuma già di Pentecoste: «il Paràclito,

lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi

ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26).

Parole, quelle di Gesù, che hanno tutto il sapore della profezia, che brillano

di consolante certezza. Il discepolo mai sarà da solo.

Sempre sarà coadiuvato, assistito dal Paraclito che verrà ad “insegnare”

e a “ricordare”.

Verbi di azione divina!

In-segnare: segnare dentro.

Lo Spirito viene a segnarci l’animo proprio come ci ricorda la maternità

della Chiesa quando afferma che il battesimo, la cresima, l’ordine sacro,

imprimono il carattere. Cioè sono sacramenti che “sfregiano”, ci segnano

per sempre, tramite lo Spirito, col bacio, il sigillo di Dio.

Ri-cor-dare.

È il secondo verbo che esprime l’agire divino ma anche l’azione di coloro

che accogliendo la Parola, scintillano di profezia nelle scelte, nelle parole

che sono trasparenza di un’anima inabitata dal Paraclito.

Ri-cor-dare: dare col cuore, sempre, più volte. Equivale a dire consegnarsi

nell’amore, spendere la vita.

Che bello pensare che queste parole di Gesù sono sempre valide.

Anche per noi.

Che bello sognare una Comunità dove tutto ciò può diventare realtà.

Dipende da ciascuno di noi.

Anzi, dipende da un semplice “Se”.


Riflessioni di un prete

29/05/22 “L’ACQUA DELL’ASCENSIONE”

oi li condusse fuori verso

«P Betània e, alzate le mani,

li benedisse. Mentre li benediceva, si

staccò da loro e veniva portato su, in

cielo. Ed essi si prostrarono davanti

a lui; poi tornarono a Gerusalemme

con grande gioia» (Lc 24,50-52).

Una festa, quella dell'Ascensione,

che rivivo nei ricordi da

bambino, quando al mio paese

s'usava portare in processione,

per le strade, prima di riporla, ben nascosta fino alla Veglia di Pasqua del

successivo anno, la statua del Risorto accompagnata da tutti i Santi. Con

una leggera forzatura, oggi, leggendo il Vangelo di Luca, intravvedo in

filigrana quelle immagini, ricordi non ancora del tutto sbiaditi.

"Li condusse fuori verso Betania e li benedisse".

Il Vivente ci conduce sempre "fuori".

Fuori dal cenacolo, dalle nostre paure, fuori dai nostri errori, fuori dai

nostri limiti, finanche fuori... dalla morte.

Ci conduce "fuori", verso Betania, verso la casa dell'amicizia, verso quella

casa abitata soltanto da fratelli (Marta, Maria, Lazzaro). Proprio come

dovrebbe essere la chiesa: casa di fratelli.

E dove Gesù si rifugia per trovarvi ristoro.

Il suo dire è bene-dicente e mentre dice-bene, la sua Parola diventa via da

seguire, luce da abitare, voce da ascoltare che plasmandoci... ci santifica.

Bella, allora, l'immagine di quella processione, forse poco teologica per

il palato fine di teologi e liturgisti ma che sapeva parlare il linguaggio dei

semplici. Il Cristo Risorto veniva accompagnato anacronisticamente dai

diversi Santi titolari delle tante confraternite: San Pietro, Sant'Antonino

Pierozzi, i Santi Medici Cosma e Damiano, Sant'Antonio ecc.

"Fratelli" che il Signore aveva "condotto fuori" dai limiti di questa vita

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Riflessioni di un prete

per condurli verso la beatitudine, la santità.

E poi ancora... la sera di vigilia, quando già le campane annunciavano i

primi vespri della domenica, in ogni casa v'era l'usanza di preparare una

bacinella ricolma d'acqua in cui s'immergevano petali di rose e varie erbe

profumate. Acqua che veniva lasciata fuori tutta la notte, sotto il cielo

stellato per essere benedetta dal Signore mentre ascendeva, saliva verso il

cielo e da cui, al mattino, ognuno attingeva per lavarsi il volto.

Per tutti era acqua benedetta.

Un segno bello che richiama il battesimo mentre le erbe profumate servivano,

forse, a ricordarci che proprio a partire da esso, per tutta la vita

"dobbiamo avere il buon odore di Cristo", profumare cioè di testimonianza

evangelica.

"Segni" della fede dei semplici che, ancora oggi, nei ricordi misti a nostalgia,

hanno per me una straordinaria forza evocativa.

Piccoli segni che forse, hanno contribuito a costruire la mia fede.

E, sicuramente, di intere generazioni.

Segni che ancora oggi che non si usano più, da prete, guardo con rispetto

ricordando la premura di mamma che mi spiegava cosa si andava a fare

mentre si sfogliavano i petali di rosa e l'accortezza e puntualità del mio

papà che annualmente, puntualmente, ricordava di portare a casa le rose

appena raccolte per preparare "l'acqua dell'Ascensione".

Si "guardava" al cielo e poi ricominciava la quotidianità rituffandosi nelle

mille occupazioni della vita certi, però, di essere stati benedetti.

In fin dei conti è lo stesso messaggio del Vangelo bello che oggi Luca ci

regala: gli Undici guardano al cielo, si lasciano benedire e ritornano alla

vita. Bisogna sempre guardare alle realtà del cielo, guardare alla Via tracciata

dal Risorto ma poi, dopo aver contemplato tanta bellezza, occorre

riabbassare lo sguardo sulla terra con il cuore ardente che va cercando

nel mondo quella stessa "bellezza" e dove non la si trova, seminarla,

adoperarsi per realizzarla affinché il cielo, ancora, possa discendere sulla

terra. Protesi verso il cielo (sempre!) ma con i piedi ben piantati per terra

(sempre!). Con il cuore più leggero, però, proprio come ai discepoli

che tornano a Gerusalemme, il luogo della croce, da cui bisogna sempre

ripartire ma non più paurosi, non più rinchiusi nel cenacolo ma... "pieni


Riflessioni di un prete

di gioia", traboccanti di felicità, sapendo che nel percorso da fare non si

è più soli e che Gesù, ascendendo, ha spalancato per sempre le porte del

Cielo.

05/06/22

FINALMENTE PENTECOSTE!

Finalmente Pentecoste!

Auguri alla Chiesa che ricorda il giorno

della sua nascita, il giorno in cui le viene

affidata la Parola perché possa usare un

linguaggio nuovo, da tutti compreso, seppur

nella diversità delle lingue. È il linguaggio

dell'Amore, della Caritas che facendosi soffio,

vento gagliardo viene per restare con noi, in

mezzo a noi, dentro di noi.

È "Luce beatissima", lo Spirito, che insinuandosi

tra le crepe delle nostre vite, illuminandone

gli angoli bui, si manifesta Vivificante,

facitore di Vita. Ed è così che da quella prima Pentecoste, fino ad oggi,

«il Cristiano è un uomo, più lo Spirito Santo» (C. Péguy).

19/06/22

PANE CONDIVISO

Nacque a Betlemme, la "casa del pane" e dopo aver camminato per

poco più di trent'anni per le strade di questo mondo decise di restare

per sempre in mezzo a noi, in noi, facendosi Pane.

Tre piccoli passaggi nel Vangelo che oggi proclamiamo, mi affascinano

perché svelano il segreto della forza straordinaria che promana da questo

Pane.

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Riflessioni di un prete

«Il giorno cominciava a declinare

e i Dodici gli si avvicinarono

dicendo: "Congeda la folla

perché vada nei villaggi e nelle campagne

dei dintorni, per alloggiare e

trovare cibo: qui siamo in una zona

deserta"» (Lc 9,12).

È il punto di partenza. La logica

dei discepoli è la logica del

mondo, la nostra logica: ognuno

provveda a se stesso.

I discepoli hanno a cuore le

sorti di quella folla che tutto

il giorno s'era messa a seguirli

per cibarsi della Parola che zampilla dalla bocca del giovane Rabbi. Ma

ognuno provveda a soddisfare le proprie necessità.

«Egli disse ai suoi discepoli: "Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa"» (Lc 9,14).

Il primo passo affinché il miracolo accada è mettersi in relazione, guardarsi

negli occhi, stringersi le mani, uscire dall'anonimato della folla e

farsi, sentirsi prossimo.

«Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione,

li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (Lc 9,16).

Dalla relazione scaturisce la condivisione, il mettere a disposizione il

poco di tanti che diventa il molto per tutti.

E solo allora, nel deserto fiorisce il miracolo: la folla diventa comunità.

Uomini e donne, giovani e bambini, impuri peccatori e giusti osservanti, insieme «tutti

mangiarono a sazietà» (Lc 9,17).

Il pane non era stato moltiplicato.

Il pane è stato condiviso. Questo è il vero miracolo che trasforma una

folla anonima in comunità.

E Cristo si fa Pane per farsi mangiare, per nutrire il corpo e il cuore perché

infondendoci la forza di intraprendere il cammino della vita ci indica

il percorso del dono totale di sè.

«Mangi carne, bevi sangue;


ma rimane Cristo intero

in ciascuna specie.

Chi ne mangia non lo spezza,

né separa, né divide:

intatto lo riceve.

Siano uno, siano mille,

ugualmente lo ricevono:

mai è consumato» (dalla Sequenza).

Riflessioni di un prete

26/06/22 L’ARRESA SINCERA DELLA SEQUELA

Accogliere i peccatori, mangiare con i pubblicàni, spargere misericordia

è cosa di Dio non compresa dai benpensanti.

Per questo Gesù «prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme»

(Lc 9,51). Indurisce il volto, e risoluto e con passo deciso e piglio

ardito sceglie di cambiare rotta, si dirige verso Gerusalemme, vuole entrare

nella tana dei potenti per affrontarli a muso duro.

Lo segue l'esercito della speranza, quei dodici che poco hanno compreso

del suo annuncio. Lui parla di croce, loro pensano alla gloria. Eppure si

fida di loro «mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono

in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso» (Lc 9,52).

Ma i portavoce, i boanerghes

figli del tuono, falliscono

nell'impresa perché, probabilmente,

il loro annuncio

è impastato di loro attese e

non del messaggio del Cristo.

Giacomo e Giovanni, irruenti,

come un fiume in piena

che ti trasporta con la sua

corrente o ti annega se op-

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Riflessioni di un prete

poni resistenza. «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo

e li consumi?» (Lc 9, 54).

E Cristo si arrabbia, li ammonisce, li rimprovera severamente perché è

difficile da far comprendere che Dio non s'impone ma si propone, che

la grazia chiede di essere accolta e non obbliga nessuno e che la Parola è

sempre misericordia e mai vendetta.

Nessuna distruzione per chi non accoglie, occorre saper rispettare i tempi

dell'altro e nel frattempo si cambia direzione, altrove si cerca disponibilità.

Mai fermi, neanche dinanzi al rifiuto ma sempre in cammino.

Ed è nel cammino che si celebrano le relazioni, è sulla trama del suo peregrinare

di villaggio in villaggio che si tesse l'ordito delle vite di quanti

l'incrociano.

Tre incontri che servono a Gesù per spiegare, anche ai suoi, l'arresa sincera

della sequela.

«Un tale gli disse: "Ti seguirò dovunque tu vada"» (Lc 9,57).

Una proposta spontanea, sicuramente generosa ma che necessita di discernimento.

Gesù risponde: pensaci! Seguirmi significa non mettere radici,

essere sempre pronti alla ri-partenza, non avere mai un nido sicuro.

«A un altro disse: "Seguimi". E costui rispose: "Signore, permettimi di

andare prima a seppellire mio padre". Gli replicò: "Lascia che i morti seppelliscano

i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio"» (Lc 9,59-60).

C'è un invito diretto del Rabbi ma la risposta del "chiamato", richiesta

legittima, lascia trapelare la necessità di un tempo di maturazione. Chi

sceglie la Vita non può più occuparsi dei morti, chi sceglie la sequela

dev'essere abitato, sempre e solo dalla necessità dell'annuncio. Il vocato

diventa voce della Parola e mai può distaccarsi da essa.

«Un altro disse: "Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di

casa mia"» (Lc 9,61).

È la tentazione subdola del rimandare, di pensare che per il Signore c'è

sempre tempo.

«Ma Gesù gli rispose: "Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è

adatto per il regno di Dio"» (Lc 9,62).

Chi mette mano all'aratro ha deciso di vangare i campi sterminati della

propria e dell'altrui esistenza, ha lo sguardo costantemente orientato ver-


Riflessioni di un prete

so gli orizzonti infiniti della libertà.

Libertà da ogni vincolo, finanche degli affetti.

Intento a tracciare solchi netti dove la Parola, accolta e custodita possa

gettare radici profonde e generare l'immensa fiducia in quel Dio che ti

custodisce e che si prende cura (Lui) delle cose e delle persone che ti

stanno a cuore.

Scegli Lui e mai ti deluderà.

03/07/22 IL BENE SAPRÀ FARSI STRADA

Da un lato l’abbondanza della

messe, dall’altro la scarsità

degli operai.

Ma lontano dal piangersi addosso,

Cristo contempla la bellezza di

questa messe sconfinata.

Ecco, allora, che manda davanti a

sè altri settantadue discepoli a preparagli

la strada.

Nient’affatto cose da preti, il Vangelo di oggi è un chiaro invito rivolto a

tutti gli uomini amati dal Signore.

Il lavoro è semplice, essere eco della Parola: “il Regno di Dio è vicino!”.

Le istruzioni sono chiare: guidati solo dall’essenziale, a due a due, mandati

come agnelli in mezzo ai lupi ma portatori, sempre, di pace.

E paradossalmente, al contrario delle favole, non saranno i lupi ad averne

la meglio.

Questa è realtà, è Parola di Dio.

A quanti accoglieranno l’invito, disarmati, vestiti solo di essenzialità, viene

offerta un’unica certezza: il bene saprà farsi strada.

Basta guardare il mondo con gli occhi di Dio e fidarsi del mandante.

A noi la disponibilità di credere in un sogno (divino), il resto lo farà Lui.

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17/07/22

È

Riflessioni di un prete

NON UN RIMPROVERO

...UN INVITO ALL’ESSENZIALE

festa a Betania come

ogni volta che il Nazareno

decide di ritirarvisi.

Un posto dove il giovane

Rabbi può vivere il

più umano dei sentimenti:

un’amicizia vera, bella, disinteressata.

Un luogo dove il Maestro,

però, non cessa di essere narratore di bellezza che ti rapisce i sensi e

mentre le orecchie attente, come quelle di Maria, raccolgono ogni parola

perché nessuna sillaba vada perduta, senti il cuore che ti viene fecondato

dalla grazia e tutto diventa relativo mentre il lieto annuncio, le Sue parole,

Lui, come un ladro furtivo, dolce e implacabile al tempo stesso, t’ha già

abbracciato l’anima in una stretta tanto dolce che non puoi più farne a

meno.

E come Maria ci si ritrova ai suoi piedi, con la bocca socchiusa, pronta a

ricevere i baci della sua Parola, desiderosi, soltanto, di abbeverarsi all’acqua

viva della Sapienza mentre, tutt’attorno il mondo intero sembra fermarsi

al cospetto dell’Eterno. Persino il tempo, abitato dai Suoi racconti,

sosta, rallenta perché l’Amico canta storie di cielo.

Quelle stesse storie che devono riempire la terra, quella Storia umana

che, però, è ormai abitata dal Divino.

Ed è in questi momenti che sopraggiunge, sempre, qualche “Marta” di

turno, convinta che tutto dipenda dal proprio fare.

«Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno.

Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41-42). Non un

rimprovero ma una chiamata.

Un invito alla vocazione all’essenziale.

Un promemoria affinché si comprenda, una volta per tutte, che peggiore


Riflessioni di un prete

24/07/22

“ABBA’, PAPÀ, PADRE”....

Che bello dev'essere stato, per i discepoli, vedere Gesù pregare.

Una preghiera, la sua, che talvolta si protraeva per tutta la notte. E

al mattino il suo volto doveva apparire trasfigurato, radioso, bello che al

sol vederlo il cuore, tumultuoso, s'infocava nel petto. Ecco, quindi, che

«quando ebbe finito di pregare» (Lc 11, 1) i discepoli azzardarono la richiesta: «Signore,

insegnaci a pregare» (Lc 11,1).

La risposta fu la proposta di nessun

precetto da osservare, non mille parole

vuote ma l'offerta di un'esperienza:

«Quando pregate, dite: Padre» (Lc 11, 2).

È, al contempo, la rivelazione del

nome stesso di Dio, della sua paternità

e la restaurazione della dignità dell'uodell’assenza

è una presenza distratta, un essere costantemente preoccupati

come se tutto dipendesse dal nostro fare, dal nostro agire.

Una presenza finta, centrata su se stessi ma incapace di apertura, fasulla

disponibilità verso l’altro, reale affermazione del proprio io e del proprio

fare.

Maria, saggiamente, ci mostra lo stile della sosta, l’arte dell’ascolto e ci

ricorda che il nostro Dio non viene per essere servito ma ci visita per

farci dono del necessario (che non dipende dal nostro fare) invisibile agli

occhi ma percepibile con le orecchie del cuore. Fermati, ascolta e vivrai.

E solo dopo l’ascolto, dimentichi di sè stessi, il “fare” sarà reale servizio,

tensione all’altro, gratuità disinteressata, immune dal rivendicare quella

gratitudine che è già ricompensa e che sfregia il volto di ogni diaconia

realmente disinteressata.

Ascolta. Ascolta come Maria e la Sua Parola è già ricompensa.

Il resto passa ma la “parte migliore” resta.

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Riflessioni di un prete

mo che così si scopre, non più servo ma figlio e fratello.

Chiamare Dio con il nome di "Padre", sperimentarne la prossimità benedicente,

vivere da figli sentendosi costantemente amati.

Un evento che s'impara da bambini quando la mamma, la nonna, tenendoti

in braccio, t'insegnano quelle stesse identiche parole che Gesù

consegnò a coloro che, assetati, desideravano dissetarsi alla fonte della

preghiera: "Padre nostro che sei nei cieli...".

Sarà per questo che gli anni passano, le situazioni mutano, i problemi si

affastellano nelle nostre esistenze stressate ma mai dimenticheremo queste

parole che ci riportano ai tempi in cui "bimbi", tra le braccia degli affetti

più cari, sicuri, sereni, abbiamo imparato le nostre prime preghiere.

È la potenza del "Padre nostro...", della preghiera che ci porta a ripetere

a memoria un pezzo che è sintesi del Vangelo, parole pronunciate dallo

stesso Gesù che, nonostante il numero degli anni, hanno la forza prorompente

di farci sentire ancora "bambini", figli, al cospetto del Padre.

Gli chiesero di imparare a pregare e Gesù non rispose con paroloni da

maestro ma il balbettio del bimbo che, iniziando a parlare dice: "Abba',

papà, Padre"....

SICURAMENTE RICCO...

MA REALMENTE POVERO

31/07/22

oi disse loro una parabola: "La campagna di un uomo ricco aveva dato un

«P raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove

mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò

altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso:

Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e

divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto,

questa notte stessa ti sarà richiesta la

tua vita. E quello che hai preparato,

di chi sarà?”. Così è di chi accumula

tesori per sé e non si arricchisce presso

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Riflessioni di un prete

Dio». (Lc 12,16-21). Sembra di sentire le voci di coloro che contestano il

Vangelo: "l'ossessione della chiesa è e rimarrà sempre la ricchezza".

Sembra di sentire le voci di molti che, almeno a parole, professano l'amore

per una certa povertà francescana: "la ricchezza è maledizione!".

Nulla di tutto ciò. In tutta la Scrittura, infatti, la ricchezza è piena manifestazione

della benedizione di Dio. Un Dio che esagera sempre nel

donare, che offre una misura "larga e abbondante" che "straripa" sempre

in fatto di amore e generosità: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un

raccolto abbondante» (Lc 12,16). Un uomo già ricco aveva ricevuto in dono

(Tutto è dono!) un raccolto abbondante.

La ricchezza è benedizione divina, sovrabbondanza di grazia ma diventa

problema nel momento in cui è (p)ossessiva: i miei raccolti, i miei magazzini,

i miei beni, la mia anima...

Ho conosciuto gente che pur di accumulare hanno vissuto l'intera vita,

sudando all'insegna di due verbi "moltiplicare" e "addizionare" mentre i

loro giorni passavano nella miseria, talvolta lesinando finanche sul cibo.

E mentre si accumula per paura della povertà non ci si accorge che la

povertà già domina la tua esistenza.

«Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di

chi sarà?» (Lc 12,20). Sicuramente ricco, certamente invidiato ma realmente

povero. Povero di relazioni, povero di affetti, povero di ... vita.

«Mosè disse loro: 'È il pane che il Signore vi ha dato da mangiare. Ed egli vi comanda

di raccoglierne quanto ciascuno può mangiarne: la misura di un omer a testa, secondo

il numero delle persone che sono con voi. Ciascuno ne prenda per quelli della sua tenda'.

Gli Israeliti fecero così: alcuni ne raccolsero molto, altri poco. Quando si misurò

la quantità, si vide che chi ne aveva raccolto molto, non ne aveva più degli altri, mentre

chi ne aveva raccolto poco, ne aveva a sufficienza. Ciascuno ne aveva quanto poteva

mangiarne. Poi Mosè disse loro: 'Non dovete farne avanzare fino a domani mattina!'.

Alcuni però non gli ubbidirono e ne conservarono un po' fino al mattino seguente; ma

vi nacquero dentro dei vermi e marcì» (Esodo 16, 15-20).

Per fortuna, però, ho conosciuto (anche) persone semplici, abitate da

quell'arguzia tipica dei contadini di un tempo, col cuore puro, traboccante

di gioia.

Nell'altra parrocchia, un simpatico vecchietto, vicino di casa, benedetto

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Riflessioni di un prete

nel numero degli anni ma che in giovane età aveva sperimentato i (veri)

morsi della fame, amava ripetere: "quando mi seggo a tavola ho assicurato

un piatto di pasta, ho un secondo, ho la frutta e, se lo desidero, posso

permettermi anche il dolce. C'è qualcuno più ricco di me?". Ilario (il suo

nome), con gli occhi vispi di un giovane novantenne, mi aveva offerto la

più bella catechesi: vivere del necessario e il resto trasformarlo in dono.

E la ricchezza, quella vera, si moltiplica a dismisura mentre la vita avanza

(in questo caso non si consuma) nella serenità di chi gioisce di ciò che si

possiede e non s'affanna per ciò che mai sarà realmente suo.

07/08/22 SEMPRE CUSTODI E MAI PADRONI

hi è dunque l’amministratore fidato

«Ce prudente, che il padrone metterà

a capo della sua servitù per dare la razione

di cibo a tempo debito? Beato quel servo che

il padrone, arrivando, troverà ad agire così.

Davvero io vi dico che lo metterà a capo di

tutti i suoi averi» (Lc 12,42-44).

Un lungo Vangelo ci fa compagnia in

questa domenica, nel cuore dell'estate.

Tantissimi gli spunti su cui riflettere, bellissime le immagini utilizzate dal

Rapitore di cuori per raccontarci la passione che Dio ha per l'uomo, il suo

venire a cercarci.

Fortissima ed emozionante la certezza di un appuntamento che diventerà

realtà (prima o poi) per ciascuno di noi e che celebrerà l'incontro tra Lui,

Creatore e Signore e ciascuno di noi, creature, fragili, fallibili ma amati e,

sempre, cercati.

Ma mi emozionano questi pochi versetti che mi ricordano quanto Dio si

fidi di me.

Eppure più volte, in tutta la storia della salvezza, Dio ha sperimentato il

rifiuto, il tradimento.

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Riflessioni di un prete

Ha assaporato l'acre sapore del dispiacere ogniqualvolta l'uomo, lasciandosi

incantare da velleità illusorie, gli ha voltato le spalle.

E Lui, ostinatamente (e dolcemente) testardo come solo i cuori dei genitori

sanno essere, continua a fidarsi di noi, di me.

Proprio come quegli innamorati smemorati che dimenticano subito i torti

ricevuti perché abitati dalla forte passione dell'amore.

Si fida e... affida.

Ci affida un patrimonio immenso, ci pone a capo della "servitù" per ...

"dare la razione di cibo a tempo debito". Non solo siamo chiamati ad

essere "custodi" ma trasmettitori di vita.

Dare cibo significa infondere vita, avere a cuore l'altro, accorgersi delle

sue necessità e soddisfarle. Significa prendersene cura, amarlo e fare in

modo che non gli manchi nulla.

Ma in tutto questo, Dio fidandosi dell'uomo, affidandogli il compito di

custodire il creato (e i fratelli) gli concede il dono immenso della libertà.

Affida, si fida e parte.

E noi siamo chiamati ad imparare l'arte del custodire fuggendo la terribile

tentazione del sentirci padroni (di tutto, di tutti).

Siamo chiamati a tessere la lunga tela dell'attesa, vigilanti, con il batticuore

e, anche quando sembra tardare, restare fedeli, saldamente ancorati al

desiderio dell'Incontro.

E al suo ritorno «in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a

tavola e passerà a servirli» (Lc 12,37).

Parole che terremotano la vita, ti schiantano il cuore.

Parole da vertigini.

Parole divine, da Dio!

Un amante perennemente innamorato che dimentico di sè del suo essere,

con i fianchi cinti si mette a servire.

Un capovolgimento di ruoli, un paradosso che solo l'Amore (quello vero,

quello con la lettera maiuscola) può realizzare.

Ma in fondo, la libertà che Dio ci concede, non è essa stessa paradosso?

Dio ci ama, ci cerca eppure, lasciandoci liberi, corre il rischio di vederci

andar via. E quante volte gli abbiamo voltato le spalle!

E Lui continua a scommettere, folle come solo gli amanti sanno essere, ci

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Riflessioni di un prete

abbraccia senza trattenerci, ci carezza senza tirarci, con forza, verso di sè.

Se solo ricordassimo quanto siamo preziosi e qual è la meta del nostro

cammino. Sempre custodi e mai padroni.

Liberi e mai costretti.

Desiderati e mai forzati.

Eppure sono le "assurde" dichiarazioni del Vangelo di questa domenica.

Una pazzia!

Shakespeare lo aveva intuito: "Se non ricordi che amore t’abbia mai fatto

commettere la più piccola follia, allora non hai amato".

Beh.... Dio d'amore se ne intende.

E la croce mi ricorda sempre che l'Amore è talmente folle da dare la Vita.

SONO LE OPERE CHE RENDONO

AUTENTICA LA FEDE

21/08/22

esù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Ge-

Un tale gli chiese: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?"»

«Grusalemme.

(Lc 13,22-23).

Ma quanto mi piace l'immagine di Gesù che, instancabile, attraversa città

e villaggi, strade e viottoli e con esse, le storie di coloro che incontra, per

annunciare la bellezza di un Dio fattosi prossimamente vicino. E lo immagino

che, ancora, tramite la parola e la testimonianza di tanti uomini

e donne, continua ad attraversare le vie del nostro mondo, le nostre vite,

per raccontarci storie di cielo che hanno l'odore forte della terra.

Mi piace meno, però, la domanda che gli viene rivolta: "sono pochi quelli

che si salvano?" perché manifesta la non comprensione dell'annuncio

evangelico destinato a tutti.

Nessuno escluso.

Mi sembra, invece, che palesa un malcelato desiderio elitario. È la domanda

di chi non ha capito la bellezza del volto di Dio annunciato dal Poeta

della Vita che vuole salvarci ad ogni costo. Tutti.

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Riflessioni di un prete

E Gesù incalza: «Sforzatevi di entrare

per la porta stretta, perché molti,

io vi dico, cercheranno di entrare,

ma non ci riusciranno» (Lc 13,24).

La salvezza è vero che è dono di

Dio ma necessita dell'accoglienza

degli uomini.

Risuonano in me le parole del

Vescovo di Ippona: "Dio che ti

ha creato senza di te, non può

salvarti senza di te" (S. Agostino,

Sermo CLXIX, 13).

E l'errore, oggi come allora,

continua ad annebbiare la mente

e il cuore di molti: «Quando il

padrone di casa si alzerà e chiuderà

la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo:

“Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora

comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai

insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove

siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”». (Lc 13,26-27)

Come una cecità improvvisa ci colpisce la presunzione di essere già salvi

per aver compiuto qualche opera pia, perché prego e, magari, mi capita

anche di partecipare a messa (abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza).

E il cancro dell'anima cresce ancor più se confondo la religiosità con la

fede, nel mentre la morte già blocca il flusso vitale dello Spirito se comincio

a sentirmi migliore degli altri o se, addirittura, arrivo a pensare

che Dio sia in debito con me perché ogni tanto mi ricordo di lui o faccio

qualcosa per lui (ben cosciente che talvolta è solo un modo per soddisfare

la mia voglia di protagonismo).

Allora la sentenza sarà durissima: "allontanatevi da me, voi tutti operatori

di ingiustizia". "Allontanatevi!"

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Riflessioni di un prete

Dio è il prossimamente vicino ma ci chiede di prendere le distanze se non

operiamo, in noi, una reale conversione del cuore, se l'essere cristiano

non diventa uno stile che pervade scelte, pensieri, parole, opere.

"Operatori di ingiustizia".

Sono le opere che rendono autentica la fede che, talvolta, parlano più di

qualsiasi nostra catechesi: «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la

fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello

o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno

di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro

il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in

se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la

tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,14-18).

Tutte le volte che pretendiamo di essere riconosciuti come adulti nella

fede, uomini e donne autenticamente evangelici, dobbiamo ricordare che

la sola partecipazione a qualche celebrazione non giova a nulla se poi

la nostra vita non si declina in Vangelo, in attenzione agli ultimi, in accoglienza

per i fratelli (tutti indistintamente!). Ed è così che il rischio di

essere annoverati tra gli "operatori di ingiustizia" diventa concreto, reale

perché avremo rubato la grazia che ci viene abbondantemente elargita

e trattenendola per noi, non moltiplicandola, non facendola fruttificare

anzi, facendola seccare tra le nostre mani chiuse, incapaci di donare.

Ecco, allora, l'invito pressante di passare per la "porta stretta". Immagine

bella quella della porta che richiama un raccordo, un collegamento tra

un ambiente e un altro, tra un interno e un esterno, proprio come la vita

del vero credente, sempre costruttore di ponti, accorciatore di distanze,

"apritore" di brecce, perennemente in uscita per recuperare i lontani da

casa.

Una porta stretta, però, è quella evangelica che richiede autenticità, impegno

costante, perseveranza e rinnegamento di sè.

È vero, il Vangelo ci prospetta una porta stretta ma ricordiamo che solo

attraverso di essa si entra nel grande, infinito, immenso cuore di Dio.

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Riflessioni di un prete

28/08/22 LA LIBERANTE VERITÀ DELL’”ESSERE”

«Q

uando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo

posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui

che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”» (Lc 14,8-9).

Niente di più lontano dalle logiche del mondo, dalle logiche curiali, dalla

vita nelle parrocchie.

Ormai è storia: tutti siamo affetti dalla voglia di visibilità che compensa

le mille fragilità e insicurezze che ci portiamo dentro.

E, paradossalmente, la "cura" propostaci da chi di uomini se ne intende,

è quella di restare nell'anonimato, di contrapporre alla logica pressante

dell'apparire la liberante verità dell'essere, sapendo che nonostante le nostre

mille debolezze e imperfezioni, siamo preziosi perché amati, siamo

unici perché pensati, siamo redenti perché salvati.

Ecco allora che i limiti divengono steccato di recinzione che ci aiutano

a comprendere gli spazi dell'anima in

cui muoverci, mentre i peccati ci ricordano

la finitudine della nostra libertà e

del nostro discernimento.

E il riconoscimento delle proprie ferite

diviene luogo di grazia perché mentre

ti inabissi nella consapevolezza dei

propri limiti, mentre ti fai ultimo fra

gli ultimi, scorgi la bontà di Dio che,

a sua volta, fattosi "ultimo fra gli ultimi"

ti rivela (senza bisogno di apparire)

quanto realmente sei prezioso. E

quanto più ti sarai "nientificato" tanto più sarai innalzato, rivestito da

quell'abito di grazia che mai scomparirà, nemmeno quando tutti gli altri

titoli onorifici si scioglieranno come neve al sole, nemmeno con la stessa

morte: essere figlio di Dio, in tutto somiglianti al Padre. E solo allora

comprenderemo che l'intera vita ha avuto senso se spesa nel servizio,

quel servizio che potrà donarci il "posto" più prezioso al mondo: nel

seno di Dio.

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Riflessioni di un prete

11/09/22 L’ATTESA DI UN PADRE

Che Luca fosse il cantore della misericordia lo abbiamo sempre ripetuto

ma ogniqualvolta mi trovo dinanzi alla pagina evangelica propostaci

in questa domenica (Lc 15,1-32), il cuore e la mente, raggiunte

le vette altissime della tenerezza, esultano per la gioia debordante nel

contemplare l'essenza stessa Dio che è Misericordia.

Un Vangelo lungo che lascia intravvedere lo sforzo di Gesù nel cercare di

farci comprendere la sovrabbondanza dell'amore misericordioso di Dio

che in egual modo non ha pace fin quando non ritrova la "pecora smarrita",

la "moneta perduta" e il "figlio discolo" che fugge lontano da casa

alla ricerca della vita e scopre che lontano dal Padre riesce a malapena a

sopravvivere.

La sento mia questa parabola fin nelle fibre più intime dell'animo perché

la rivivo incarnandola in ogni mio ritorno a casa.

Ho visto mio padre invecchiare con il desiderio ardente di vedermi ritornare

in quella terra, in quella casa che mi ha visto bambino, ultimo dei

figli, "bastone della vecchiaia",

avrà pensato.

Ma il Signore mi ha chiamato altrove

per "cantare" la bellezza di

una vita a lui donata.

E proprio come il Padre del Vangelo,

vedo il mio di papà, ogni

volta che riparto, sulla porta di

casa, fermo, immobile mentre i

suoi occhi mi seguono fin quando

la mia macchina non scompare

dietro quelle mete che il Signore continua a tracciare per me mentre il

suo cuore resta impigliato nel magone soffocato e soffocante del distacco,

nonostante le parole, le sue, libere e liberanti che mi lasciano seguire

quei sogni che Dio ha pensato per me.

E così ricomincia il conto alla rovescia, in attesa di un altro mio ritorno.

Ora che stranamente l'età ci ha messo a nudo e da uomo a uomo, or-


Riflessioni di un prete

mai adulti, abbiamo scoperto la bellezza vulnerabile della tenerezza, ci

scambiamo parole affettuose, abbracci, tenere carezze che più di ogni

parola mi dicono non soltanto che sono atteso ma il modo stesso in cui

mi aspetta.

Diventa bello, allora, quando comunico che sto per tornare.

La sua gioia diventa palpabile, "i giorni diventano belli", come dice lui e

già l'attesa è gioia pregustata.

E mentre sono in viaggio si susseguono le sue telefonate, una, dieci, cento

volte per ricordarmi che sono atteso, per dirmi che i minuti sono lunghissimi

fin quando non sono arrivato e che, però, i giorni trascorrono

troppo velocemente quando sono lì con lui.

Tra una telefonata e l'altra il suo aspettarmi diventa impazienza mentre

da dietro la porta continua a spiare per vedermi sbucare dietro l'angolo

da un momento all'altro.

E la liturgia profana si ripete ogni volta: arrivato lo trovo con la porta spalancata,

così come le sue braccia, pronto ad accogliermi in un abbraccio

che ha l'odore di casa, di ricordi e, credo, che mentre io ritorno bambino,

lui riprende le forze della giovinezza che ormai non ci sono più.

Proprio come il Padre misericordioso del Vangelo che, visto il figlio da

lontano, gli corre incontro (quel correre ha il sapore della vita che rifiorisce),

gli cade in grembo e lo bacia all'infinito.

Che immagine bella di Dio ci regala il Vangelo di questa domenica.

La sento mia.

Terribilmente feriale perché parla di padre e di figli, straordinariamente

bella perché parla di Amore. Quello vero, profondo, liberante che però sa

sempre scorgere il bene e sa aspettare, sa rinunciare.

Un Dio ostinatamente paziente, convinto che chi ha sperimentato il suo

Amore, prima o poi farà ritorno tra le sue braccia.

E nei momenti di stanchezza, quando i sacrifici appaiono più pesanti del

solito e la solitudine ti porterebbe a cercare conforto in altre "paternità",

quando il tuo continuo spenderti non porta a nulla, non viene riconosciuto

o, addirittura, vanificato, mi consola il sapere che c'è anche Dio ad

attendermi.

Sempre.

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Riflessioni di un prete

18/09/22 LA “VERA RICCHEZZA”: DONARE

E

ancora una domenica ci ritroviamo

a parlare di "potere", di "amministrazione

di beni".

Temi, a ben pensarci, che potrebbero

essere inopportuni sulla bocca dei preti,

figuriamoci sulla bocca del Cristo.

Eppure non c'è cosa più lontana del

Vangelo che "spiritualizzare" il messaggio

cristiano rendendolo lontanissimo

dalla vita reale.

Bella, allora, la saggezza di Gesù, il suo

messaggio sempre incarnato nel vissuto,

che nella parabola di quest'oggi arriva

finanche a lodare un amministratore

scaltro. «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui

di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi

conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”» (Lc 16,1-2).

Una logica, quella dell'amministratore, eco di un diffuso modo di pensare

e di agire: fregare il prossimo per affermare se stessi, rubare per

arricchirsi. Ma il Vangelo ci avverte: arriva, prima o poi, il momento di

rendicontare.

Ed è nel momento in cui ti ritrovi solo, con il mondo che ti crolla addosso,

mentre anche gli amici ti voltano le spalle che occorre reinventarsi e lo

"scossone" dell'essere messo a nudo di fronte alle proprie responsabilità,

può diventare occasione di conversione.

«L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie

l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che

cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno

che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al

primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli

disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro:


Riflessioni di un prete

“Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua

ricevuta e scrivi ottanta”» (Lc 16,3-8).

Se prima aveva rubato per se stesso, ora rinunciando alla propria parte di

compenso, usa la propria scaltrezza non più per accumulare denaro ma

per creare un tesoro immarcescibile fatto di relazioni, di carità che, attraverso

il condono dei debiti, alleggerisce le spalle dei debitori.

E l'amicizia del povero diviene ricchezza vera, la carità occasione di riscatto

e impara che "vera ricchezza" non è accumulare ma donare.

Una bella prospettiva quella del Vangelo di oggi che ci ricorda che qualsiasi

cosa abbiamo fatto nel passato, non abbiamo più l'opportunità di modificarlo.

Possiamo, però, imparando dal presente, anche dagli "incidenti

di percorso", costruirci un futuro migliore.

Scriveva B. Auerbach: «Guadagnare molto denaro è segno di scaltrezza;

conservarlo richiede saggezza, mentre spenderlo bene è un'arte».

E se della propria vita s'intende farne un capolavoro, ci si ricordi che solo

la Carità imprime nelle azioni il germe dell'eternità.

24/09/22 IL POVERO LAZZARO

Un uomo ricco vestito di bisso e

porpora, un uomo povero ammantato

solo di piaghe.

Una premessa che indica non soltanto,

due modi diversi di "vestire" ma "mondi"

diversi da vivere, incarnazione degli

estremi dell'umanità di tutti i tempi, di

tutti i luoghi.

Parabola attualissima, dei giorni nostri abitati da uomini rivestiti da abiti

firmati e uomini ricoperti soltanto di dignitosa povertà.

C'è chi mostra l'apparenza, c'è chi si mostra per ciò che realmente è.

Fateci caso, in tutte le parabole raccontate da Gesù, mai nessun perso-

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Riflessioni di un prete

naggio viene chiamato per nome, invece nel Vangelo di questa domenica

ci viene detto il nome del povero: Lazzaro.

Il povero ha lo stesso nome dell'amico di Betania amato da Gesù, quello

che nella carne ha già l'odore della resurrezione perché tutti i bisognosi

sono "poveri Lazzaro", amici di Dio che già recano impresso nell'anima,

promessa del Dio che mai abbandona, il sigillo della vita eterna.

Chiamare qualcuno, usarne il nome, significa riconoscerne l'esistenza e

già questa premessa è annuncio di un Dio che si schiera dalla parte degli

ultimi, degli abbandonati, dei dimenticati mentre il ricco rimane nell'anonimato,

senza nome per sparire dopo una vita di "lauti banchetti", nelle

pieghe della storia. «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli

umili» (Lc 1,52).

Il ricco non fa nulla di male, si pavoneggia nel suo narcisismo tra stoffe

finissime e banchetti sontuosi mentre il povero Lazzaro viene ignorato,

scavalcato e abbandonato sull'uscio di casa come se fosse motivo d'inciampo.

Ma la vita, tempo di semina, passa e quando l'Angelo, sorella

morte (così la chiamava il Poverello d'Assisi) mette la mano alla falce,

giunge il tempo della mietitura, della raccolta: «Un giorno il povero morì

e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu

sepolto» (Lc 16,22). E con la morte, ci dice la parabola, giunge anche il

tempo del rimpianto a causa di una vita sprecata: «Padre Abramo, abbi

pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a

bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma» (Lc

16,24). E con essa arriva anche la consapevolezza che le promesse di Dio

sono realtà: «Ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho

cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi

in questo luogo di tormento» (Lc 16,27-28). Ma rimpiangere l'occasione

di una vita non pienamente vissuta, sprecata, è ulteriore "tempo" sprecato:

«Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno

persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"» (Lc 16,31). "Mosè e i

Profeti", ecco il segreto.

La Parola di Dio è già indicazione concreta, ricetta per una buona "semina"

affinché anche il "raccolto" sia abbondante.

Morale della storia non è che i ricchi andranno all'inferno.


Riflessioni di un prete

Il ricco non spreca la sua occasione di vita piena perché è ricco. A fregarlo

è il suo menefreghismo, il non accorgersi delle necessità dell'altro.

E lo stesso Lazzaro viene salvato non perché abbia un moto di rivincita

ma perché il nome stesso Lazzaro (Dio aiuta) ricorda che il Signore mai

abbandona e fedele all'alleanza, sempre, realizza le promesse: "innalza gli

ultimi". La Parabola ha un solo messaggio.

Vuole ricordare a ciascuno di noi che il poco tempo a disposizione può

essere utilizzato per creare, qui e ora, quel tanto che già si possiede, già si

abita, il germe dell'eternità.

Già questa vita, su questa terra, soggetta allo scorrere del tempo, può

essere non quantitativamente infinita ma qualitativamente eterna.

02/10/22

ACCRESCI IN NOI LA FEDE! (LC 17,6)

Ciechi che recuperano la vista, sordi che odono,

mani inaridite che rifioriscono, gambe e

vite rachitiche che sbocciano al sole della grazia,

cuori dilaniati dal peccato e dai demoni che riprendono

a palpitare dopo la carezza della misericordia

di Dio.

Quanta gente ha cercato Gesù per presentargli

richieste. Finanche i pagani, al suo cospetto,

hanno domande da rivolgergli: "Non sono degno

che tu venga sotto il mio tetto ma Signore,

di' soltanto una parola e...".

Eppure nel Vangelo di questa domenica, gli Apostoli, uomini da lui scelti

per essere amici, confidenti, gli rivolgono una domanda, eco delle richieste

degli uomini di tutti i tempi, che resta inevasa: «Accresci in noi la fede!»

(Lc 17,6). Dodici uomini pronti a tutto, disposti a seguirlo nel suo costante

peregrinare tra le strade polverose e assolate della Giudea e della

Galilea.

Dodici uomini da lui amati fino all'inverosimile "Li amó sino alla fine".

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Riflessioni di un prete

Ma la richiesta di oggi non può essere accolta.

Lui ha bisogno di cuori liberi, non costretti e l'amore non si può imporre.

La fede, come l'amore, è atto di libertà, è risposta generosa di chi sperimenta

che Dio per primo ama (e dona) e chiede, in punta di piedi, di

essere ricambiato. Ne basterebbe poca e con quel poco si compirebbero

miracoli sorprendenti: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a

questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6).

Quante cose può fare l'amore, quali miracoli compie la fede!

E chi ne viene "abitato" lo si riconosce subito. Ha l'odore del Cristo appiccicato

in ogni sua fibra. Ne avverti la presenza in ogni sua parola. La

sua stessa vita diventa annuncio, testimonianza, un intero inno alla diaconia:

«Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite:

“Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10). Chi vive

nella grazia, vive nella gratuità.

Perché chi ama fa, chi ha fede non lo dice ma lo dimostra con la vita.

E la fede, proprio come l'amore, non può essere costretta.

09/10/22 UNO SU DIECI TORNA INDIETRO

ntrando in un villaggio, gli ven-

incontro dieci lebbrosi, che «Enero

si fermarono a distanza e dissero ad

alta voce: "Gesù, maestro, abbi pietà di

noi!"» (Lc 17,12-13).

La condizione dei lebbrosi, considerati

dei morti viventi, era minuziosamente

disciplinata da norme

presenti nel libro del Levitico. Ritenuti "maledetti", puniti a causa dei

loro peccati, dovevano interrompere ogni relazione, tenersi a distanza da

ogni centro abitato e mentre il corpo andava disfacendosi a causa delle

deturpanti piaghe, si moriva anche dentro per la solitudine forzata e nel

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Riflessioni di un prete

sentirsi respinti e disprezzati.

Ma anche per il Nazaretano gli incontri più belli si celebrano "mentre si

è in cammino". In un "villaggio", immagine di un piccolo centro dove

fortemente è radicata la tradizione, frutto degli insegnamenti di scribi e

farisei, entra Gesù, portatore di novità.

Una scena dalla forte valenza evocativa, quasi un dipinto caravaggesco,

dalle tinte forti, scure, in cui l'entrata in scena del Realizzatore di sogni è

preceduto, accompagnato da una lama di luce che fendendo le tenebre,

illumina la realtà con la luce del vero volto misericordioso di Dio e dissipa

le tenebre dei falsi insegnamenti.

Mi colpisce che nell'intero racconto lucano soltanto tre personaggi chiamano

il Maestro per nome: questi dieci lebbrosi, il cieco di Gerico e il

ladrone confitto, come Lui, sulla croce.

Tre situazione di "maledetti", secondo gli insegnamenti degli scribi, condizione

degli irrecuperabili, dei lontani-da-Dio.

E proprio loro, invece, chiamandolo per nome, ci insegnano lo stile, la

confidenza intima, la capacità di sperare contro l'insperato, l'amicizia ben

riposta che ti porta a dare del "tu" a quel Dio che si è fatto prossimamente

vicino.

«Appena li vide, Gesù disse loro: "Andate a presentarvi ai sacerdoti". E mentre essi

andavano, furono purificati» (Lc 17,14).

Una parola. Nessun gesto. E loro, i dieci che si fidano. Che fede bella,

profonda! Quante volte noi ripetiamo: "Signore non sono degno ma di'

soltanto una parola..." e poi in cuor nostro desideriamo la certezza di

un segno eclatante che manifesti l'accoglienza delle nostre preghiere, dimenticandoci

che in Gesù è l'ordinario che diventa straordinario e che la

sua Parola creatrice può far rifiorire, quasi perenne primavera, (proprio

come la pelle dei lebbrosi) la vita assalita dalle molteplici "lebbre" che ci

portiamo nel cuore.

Ed è dalla fiducia che sboccia l'affidarsi, dall' ascolto attento che si trasforma

in azione che germogliano i miracoli: «E mentre essi andavano, furono

purificati» (Lc 17,14). Tutti vengono guariti e proprio come accade a

ciascuno di noi quando siamo risollevati dalle nostre "condizioni di morte",

dai problemi che ci attanagliano il cuore, ognuno ritorna alla propria

61


Riflessioni di un prete

"normalità".

È il rischio costante che corre il nostro Dio.

Quando l'uomo viene ri-alzato (messo in piedi, in atteggiamento "da risorto",

non una ma dieci, cento, mille volte) dalle situazioni di fragilità

che lo riconducono alla sua finitudine, alla consapevolezza di essere una

creatura fragile ma pur sempre preziosa, può capitare che si ritorni a

sentirsi autosufficiente, "autobastantisi", presuntuosamente non più bisognosi

dell'aiuto di Dio. «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro

lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per

ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: "Non ne sono stati

purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che

tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?".

E gli disse: "Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!"» (Lc 17,15-19).

Uno su dieci torna indietro. Uno su dieci vive un processo di conversione

autentica. Uno su dieci capisce che ogni dono è grazia.

Uno su dieci comprende che dalla grazia deve scaturire la gratitudine.

E mentre tutti e dieci vengono purificati, uno su dieci è salvato.

La differenza è enorme, è questione di stile.

Ma la differenza tra l'essere guariti e l'essere salvati è anche "sottile": talvolta

può risiedere tutta in un "grazie".

16/10/22 È COSA SERIA LA PREGHIERA!

Argomento arduo quello della preghiera.

Tutti ne parlano, in tanti ci provano ma molti sono quelli che s'arrendono

o che pensano che pregare sia semplicemente recitare formule

stereotipate magari, per convincere Dio a realizzare i nostri mille desiderata.

È cosa seria la preghiera!

È il luogo intimo del cuore dove, raccogliendo i cocci delle nostre mille

fragilità, cerchiamo di ricondurre all'unità la nostra vita, accettandone le

ferite e imparando ad amarci e a perdonarci.

62


Riflessioni di un prete

È il santuario dell'anima dove

ci si scopre amati e "misericordiati"

e proprio per questo

capaci, a nostra volta, di amore

e di misericordia.

È il tempio intimo in cui Dio

si rivela e ci assicura che sempre

c'è, pronto a soccorrerci,

sorreggerci, accompagnarci.

«Gesù diceva loro una parabola

sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1).

"Sempre" e "mai" sono i limiti entro cui muoversi.

Quel "sempre" sta ad indicare, secondo la definizione, continuità e ripetizione.

Dice un "ancora" e poi ancora e ancora....

Quel "mai" suggerisce in "nessun momento", in "nessun caso".

Quindi si capisce che l'invito di Gesù di "pregare sempre, senza stancarsi

mai" è per gente convinta, adulta nella fede che non si avvilisce nelle

avversità e che non se ne dimentica nei momenti in cui tutto sembra proceder

bene. Sempre e mai.

Ricordando, però, che «Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste,

bensì le sue promesse» (Bonhoeffer).

23/10/22

“IO, IO, IO”

Come un'eco nel cuore, conserviamo ancora l'invito rivoltoci domenica scorsa, "sulla

necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai" (Lc 18,1) e sulla scia di

quelle indicazioni, sembra innestarsi il Vangelo di quest'oggi: «Due uomini

salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano» (Lc 18,10).

Due uomini completamente diversi, due storie che si situano agli antipodi

delle possibilità del tessere la propria vita, due atteggiamenti che ci

raccontano, non soltanto, un diverso modo di pregare ma anche il modo

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64

Riflessioni di un prete

differente in cui possiamo

porci al cospetto di Dio.

Da un lato la preghiera del pio

osservante, dall'altro la supplica

dell'incallito peccatore.

«Il fariseo, stando in piedi, pregava

così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché

non sono come gli altri uomini,

ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure

come questo pubblicano. Digiuno

due volte alla settimana e pago le

decime di tutto quello che possiedo"» (Lc 18,11-12).

Ineccepibile l'inizio. Bellissimo quel "ti ringrazio" che dice gratitudine,

riconoscenza per la piena consapevolezza che tutto è dono

ma... La preghiera sembra proseguire in modo litanico: "io non

sono come gli altri, io digiuno, io pago le tasse, io, io, io...". Il cuore

del discorso annulla completamente la bellezza di quell'iniziale "ti

ringrazio": non sono come gli altri, sono il migliore perché gli altri

sono tutti ladri, ingiusti, adulteri.

Conclusione: tu Dio sei in debito con me e la mia bravura!

«Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi

al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”»

(Lc 18,13). È vero! Il secondo personaggio appartiene alla categoria

più infima tra i peccatori tanto che "non osa neanche alzare gli

occhi al cielo". Non parla se non per invocare misericordia.

Al posto suo parla la sua storia, la sua vita immischiata col peccato,

capisce che l'unica salvezza discende come dono direttamente dal

cuore di Dio e, nonostante tutto, si fida del suo amore incondizionatamente

misericordioso.

È storia di tutti i giorni che ancora oggi si ripete tra le navate delle

chiese, tra le pieghe delle nostre vite, nelle profondità del nostro io.

C'è gente che continua a pensare di essere il centro dell'universo

come se tutto dipendesse dal proprio operato, dal proprio apostolato.

Come se senza di loro si bloccasse la vita della parrocchia, anzi


Riflessioni di un prete

della chiesa intera e ciecamente ripiegati su loro stessi, sciorinano una

cantilena interminabile di "io, io, io" (proprio come gli asini). Ma peggio

ancora, spendendo un numero altissimo di energie, non risparmiano parole

di critica nei confronti di alcuno.

"Hanno la bocca untuosa come il burro ma nel cuore hanno la guerra"

Peccato che sbagliano il bersaglio.

Si sentono perfetti, pensano di vivere da perfetti (ma hanno bisogno di

innalzarsi sulle spalle degli altri che stroncano come vittime e utilizzano

come piedistallo) e non s'accorgono che Dio preferisce coloro che,

seppur sbagliando, riconoscendo il proprio errore, gli chiedono l'aiuto

necessario per potersi rialzare.

C'è chi conta sulle proprie forze, c'è chi spera nella Misericordia.

C'è chi pensa di avere meriti nei confronti di Dio, del prossimo, della società,

c'è chi si sente vuoto, pronto però, ad essere "riempito" di salvezza.

«Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque

si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato"» (Lc 18,14).

30/10/22 “NOSTALGIA DI CIELO”

Sguardi che ti scandagliano l'anima, ti graffiano il cuore e valgono più

di tante parole.

«Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi

subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua"» (Lc 19,5).

Quant'è bella l'immagine realizzata, con delle rapidissime pennellate,

dall'evangelista Luca che ci dicono la "statura", non di Zaccheo, ma del

nostro Dio. Nell'incontro con Zaccheo mi colpisce "l'essere in basso" di

Gesù al cospetto di un peccatore e, da quella prospettiva, il suo "alzare

lo sguardo".

Ma d'altronde è il suo stile. Dai racconti evangelici, altre volte Gesù, di

fronte ai "piccoli", deciderà di assumere la stessa posizione.

Quando i farisei gli porteranno dinanzi una donna colta in flagrante adul-

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Riflessioni di un prete

terio, Lui deciderà di mettersi in basso,

di chinarsi al cospetto della peccatrice

ma anche di fronte alla superbia di coloro

che si ritenevano giusti e giudici.

Anche al cospetto dei Dodici, nell'ultima

cena, cinto un grembiule, si china,

si pone in basso a lavare i piedi di chi lo

tradisce, di chi lo rinnega, di chi disputa

per cercare di conquistare i primi posti.

Ed è così che Cristo ci insegna il modo giusto di vedere le cose, ci suggerisce

la giusta prospettiva. Mettere gli altri, anche gli "imperfetti", al di

sopra di noi stessi e noi, per quanto è possibile, chinarci verso il basso,

sfiorando la terra, in modo tale che, alzando lo sguardo verso coloro che

ci sono posti dinanzi, possiamo guardare anche il cielo ed avvertire la

nostalgia di Paradiso.Ed è sentendone la mancanza, guardando la realtà

dal punto di vista di Dio che scopro che l'unico modo per realizzare il Paradiso

sulla terra è amare all'infinito. Amare talmente tanto da perdonare,

senza giudicare, al punto da annullare se stessi abbassandosi, annichilendosi,

fino a confondersi con la polvere del pavimento che ci ricorda, appunto,

che anche noi siamo tratti dalla terra ma inabitati dalla "nostalgia

di cielo".«Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,6).

E Zaccheo capisce che per salvarsi, per accoglierlo, bisogna "scendere"

dai piedistalli, mettersi a livello del Maestro, assumere il suo punto di vista:

dal basso verso l'alto, dall'io verso l'altro (e l'Altro), dalla terra verso

il cielo.Zaccheo lo capisce, abdica dal suo stare "in alto", lo accoglie e si

salva.E noi?

13/11/22 “IL FINE” DI TUTTO

i solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi

«Sluoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni

grandiosi dal cielo» (Lc 21,10-11)

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Riflessioni di un prete

Mi piacerebbe sapere quanto fiato e quante parole saranno sprecati

quest'oggi, da parte dei novelli "Savonarola", nello sforzo immane, moraleggiante,

di attualizzare queste parole di Gesù riducendole a chiave interpretativa

di tutte le cose brutte (e le cattive notizie) del mondo d'oggi.

E sorrido nel pensare alla faccia attonita dei poveri fedeli che recatisi in

chiesa per cibarsi della "lieta novella", della Parola di Dio, del Vangelo, se

ne torneranno nelle proprie case sentendosi additati e colpevoli di aver

causato ogni sorta di disastro mondiale provocando, addirittura, l'ira-di-

Dio. E basta poco a far sì che il Vangelo diventi "parola di terrore", che

la Parola di Dio sia sostituita da quella del predicatore (che non ci ha capito

nulla!) e la lieta novella diventi "lieta" solo per un Dio (o meglio per

un'immagine bruttissima di Dio) che sfoga la sua onnipotenza (sadica)

scatenando ogni sorta di disastro nei confronti degli uomini.

Siamo giunti, ormai, alla fine dell'anno liturgico ed è normalissimo, quindi,

che il Vangelo, la liturgia della Parola siano tutti incentrati nel descrivere

"la fine" di ogni cosa. Questa è la superficiale "tentazione", ripeto,

di chi non ci ha capito nulla. Sarebbe bello, invece, se ognuno rileggesse

privatamente questi 15 versetti che la liturgia odierna ci consegna, li accostasse

alla propria bocca così come un assetato si "attacca" alla bottiglia

d'acqua bevendo tutto in un sorso, in un sol fiato, per giungere alla fine

del brano e lasciarsi piacevolmente sorprendere dal vero "Vangelo" di

oggi: «Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza

salverete la vostra vita» (Lc 21,18-19).

Ed è inciampando su questo brano di Luca che si scopre come le piccole

sfumature possano fare la differenza e come un diverso punto di vista

possa aiutarti a comprendere la realtà delle cose.

La Parola di oggi, è vero, parla

di un tempo che si conclude ma

è delicatissima la sfumatura che

solo la lingua greca può offrirci e

che ci situa nella corretta interpretazione

del "dire" di Dio. Il tempo

di cui si parla non è un chronos,

(χρόνος) il tempo che scorre sul

67


Riflessioni di un prete

calendario e che da esso viene scandito ma un kairos (καιρός), l'occasione

opportuna, il tempo maturo che giunto a compimento, va subito colto

come occasione.

Un tempo maturo per noi, al termine dell'anno liturgico, per capire non

"la" fine ma "il" fine di tutto quello che in questo anno abbiamo vissuto,

celebrato, ascoltato.

Non c'illude il Cantore del Cielo, ci racconta la vita, addirittura "sporcata

di terra": «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe

e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome»

(Lc 21, 12). Però dietro il freddo inverno di certe parole che svelano la

vita difficile della sequela, il Maestro lascia intravvedere il dolce tepore

primaverile di una risurrezione: siamo talmente preziosi da essere custoditi

nelle mani di Dio. E quando tutto sembra andare a rotoli, anche nella

tempesta più buia, dobbiamo avere la certezza che persino ogni singolo

capello del nostro capo è al sicuro. Ecco, allora, che si comprende come

il Vangelo odierno non parla della distruzione del mondo ma del senso

ultimo della storia, della meta della mia vita: cambiare lo sguardo ed accorgersi

che anche nel buio più tremendo c'è sempre una fiaccola accesa.

È il cuore di Dio che brucia d'amore per me.

68

13/11/22 “OGGI”

Nella solennità di Cristo Re la liturgia ci riconduce al cuore della nostra

fede, idealmente veniamo trasportati sul calvario per contemplare

un Re Dio-uomo che siede sul trono-croce, indossa una corona di

spine ed è rivestito dal "manto" della nostra carne, nuova "tenda" in cui

si manifesta la gloria-presenza di Dio, il suo "Io (ci) Sono" per l'uomo di

ogni tempo, di ogni luogo.

Mi emoziona sempre rileggere questo brano e pensare ai duemila anni

di generazioni di credenti che in silenzio, in piedi, hanno ascoltato, si

sono commossi, hanno trovato un motivo di speranza, hanno fortifica-


Riflessioni di un prete

to la loro fede di fronte a queste

parole.

«Uno dei malfattori appesi alla croce lo

insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva

te stesso e noi!". L’altro invece lo rimproverava

dicendo: "Non hai alcun timore

di Dio, tu che sei condannato alla

stessa pena? Noi, giustamente, perché

riceviamo quello che abbiamo meritato

per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male". E disse: "Gesù, ricòrdati

di me quando entrerai nel tuo regno". Gli rispose: "In verità io ti dico: oggi con me

sarai nel paradiso"» (Lc 23,39-43).

È quel "oggi" sulla bocca di Gesù morente che mi fa sobbalzare il cuore.

Un "oggi" costantemente ripetuto nel Vangelo di Luca, fin dall'inizio del

suo Vangelo: «Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il

Cristo Signore» (Lc 2,11).

Fin dal suo primo apparire a Betlemme-casa-del-pane, "oggi" diventa il

tempo della grazia, tempo che nutre l'anima, sostenta lo spirito. E nel

Vangelo lucano per l'ultima volta, questo avverbio, risuona sulla croce:

«oggi con me sarai nel paradiso» (23,43).

Il primo è un "oggi per voi", l'ultimo è "un oggi con me".

Il primo richiama l'incarnazione di un Dio "per" la salvezza dell'uomo,

l'ultimo propone l'oggi di Dio che diventa compagno nel viaggio della

vita, Emmanuele-Dio-con-noi, sostegno finanche nella morte: oggi "con

me". Tra il primo e l'ultimo c'è l'oggi del rinnegamento di Pietro: «Pietro,

io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi»

(Lc 22,34) ma anche quello di Zaccheo «Oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc

19,5). Un oggi, quello dell'uomo, segnato dalla fragilità del rinnegamento

e della conversione. Un oggi quello di Dio che manifestando la fedeltà

del suo essere il Dio-con-noi, offre "oggi" una salvezza che è già Paradiso.

Che meraviglia questo Re-di-grazia e come un bambino, abitato dallo

stupore, a bocca aperta, mi commuovo dinanzi a tanta bellezza.

E penso, credo fermamente che anche per me, "oggi" è tempo di salvezza.

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Riflessioni di un prete

SOMMARIO

Premessa ........................................................................................1

Avvento. Tempo d’attesa! ..............................................................2

Il Vangelo è cosa seria! ..................................................................3

Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10.12.14)......................................5

L’incontro di due grembi ...............................................................6

Ascoltare per vedere .......................................................................8

Guidati dalle “sidera”, le stelle...........................................................9

Figlio, amato, “in cui mi compiaccio”...............................................10

Cana di Galilea. Una festa di nozze....................................................11

Quel giorno a Nazareth ................................................................12

Parola, Pane e Fraternità: perenne epifania del nostro Dio ...........14

Da pescatori a pescati ..................................................................16

Beati i poveri! ................................................................................17

L’ “illogicità” della logica evangelica................................................18

Unica guida: Cristo-Via-Verità-Vita................................................20

Acqua e silenzio…...........................................................................21

“I figli del tuono”, testimoni di bellezza ......................................23

Dio immenso, il nostro, che salva e non giudica .............................24

Mai strumentalizzare la Parola! ....................................................26

La “grande settimana” .................................................................28

“Stette nel mezzo…..fratello tra fratelli.............................................29

Restare, andare “insieme”..............................................................31

E niente e nessuno ci strapperà dalla sua mano............................33

71


Riflessioni di un prete

SOMMARIO

Un comandamento nuovo .............................................................34

Un semplice “Se”..........................................................................35

“L’acqua dell’Ascensione”.............................................................37

Finalmente Pentecoste! ................................................................39

Pane condiviso ..............................................................................39

L’arresa sincera della sequela .......................................................41

Il bene saprà farsi strada...................................................................43

Non un rimprovero …un invito all’essenziale ..............................44

“Abba’, papà, Padre”.......................................................................45

Sicuramente ricco..… ma realmente povero.....................................46

Sempre custodi e mai padroni ......................................................48

Sono le opere che rendono autentica la fede..................................50

La liberante verità dell’ “essere” ...................................................53

L’attesa di un padre ......................................................................54

La “vera ricchezza”: donare.............................................................56

Il povero Lazzaro...........................................................................57

«Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6).................................................59

Uno su dieci torna indietro ...........................................................60

È cosa seria la preghiera! ..............................................................62

“Io, io, io”......................................................................................63

“Nostalgia di cielo”.......................................................................65

“Il fine” di tutto................................................................................67

“Oggi”...........................................................................................68

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