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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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Anche se era così imperfetta e rovinata, anche se agli occhi di tanti

sarebbe sempre stata incomprensibile… quella era l’unica storia che volevo.

All’ospedale le cose migliorarono. Rigel tolse le fasciature e cominciò la

riabilitazione. Il recupero totale delle sue facoltà generò non pochi

problemi, e non so quanti fiori dovetti regalare alla caposala per le varie

discrepanze che si verificarono.

Poi… c’era la questione dell’adozione.

Dal momento che Rigel non era più un membro della famiglia Milligan

doveva tornare in un istituto, ma Anna fece di tutto perché non venisse

mandato lontano. Effettuò molte telefonate, si presentò personalmente al

Centro dei Servizi Sociali spiegando che, data la malattia da cui era affetto

Rigel, averlo vicino gli avrebbe consentito di restare in contatto e quindi di

conservare una serenità mentale che per la sua condizione era determinante.

Grazie al dottore, infatti, Anna allegò elaborati che mettevano in luce

quanto l’armonia psicologica di Rigel influisse sul manifestarsi delle sue

crisi; un clima di pace, come dimostrato, le rendeva più lievi e saltuarie; lo

stress e l’angoscia, invece, non facevano che peggiorarle.

Alla fine, con gran sorpresa e sollievo di tutti noi, statuirono che sarebbe

stato trasferito al Saint Joseph Institute. Lo stesso di Adeline.

Il Saint Joseph era molto più vicino del Grave e distava solo qualche

fermata di autobus; il direttore era un uomo basso e tarchiato, e Adeline mi

assicurò che nonostante il carattere burbero fosse una brava persona:

guardando i suoi occhi sinceri, una parte di me si sentì sollevata nel sapere

che Rigel non sarebbe stato solo.

Per quanto riguardava la scuola, invece, Anna gli aveva già pagato la

retta per tutto l’anno, perciò l’avrebbe conclusa insieme a me.

Mentre camminavo nel corridoio deserto, quel pomeriggio tardi, i miei

passi risuonarono contro le pareti come avevano fatto innumerevoli volte.

Eppure, fu difficile immaginare che il giorno dopo non ci sarei tornata.

I miei piedi si arrestarono davanti alla camera di sempre.

Il letto era rassettato, e la sedia contro il muro non c’era più. Il comodino

era sgombro, senza più fiori che spezzassero tutto quel bianco.

Era arrivato il momento di dimetterlo.

Ferma davanti alla soglia di quella stanza, ammirai il suo profilo stagliato

in controluce.

Fuori c’era un tramonto livido, ancora imperlato di pioggia. Le nuvole

erano incendiate da un rosso fiammante e la luce che risplendeva nell’aria

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