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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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«Oggi il professore ci ha chiesto di fare un saggio su un’opera antica a

piacere», enunciai una sera. «Io ho scelto l’Odissea.» Sfiorai le pagine del

libro, nel bip acuto del suo battito cardiaco. «Ulisse alla fine ritorna a casa»,

dissi piano. «Dopo tante difficoltà… Dopo aver superato prove indicibili…

Ulisse ce la fa. Alla fine torna da Penelope. E scopre che lei lo ha aspettato.

Per tutto quel tempo… lei lo ha aspettato…»

Rigel rimase immobile, nel suo candore spento. Le palpebre erano così

pallide e fini da sembrare un sudario.

A volte mi ritrovavo a chiedermi quanto gli costasse sollevare quei due

lembi sottili di pelle che gli ricoprivano gli occhi.

Io restavo con lui più che potevo; le infermiere cercavano di mandarmi a

casa, di spingermi fuori da quelle quattro mura bianche, forse più per il mio

benessere che non per rispetto delle normative dell’ospedale.

Smisero quando una sera venni sorpresa lì, rannicchiata su me stessa, che

cercavo di dormire sulle sedie metalliche del corridoio. Non mi sgridarono,

quella volta. Però la caposala mi disse che la sera, almeno la sera, dovevo

tornare a casa.

Ma io non volevo…

Io volevo restare con lui.

Perché ogni notte Rigel diventava più pallido e più lontano, e la mia

anima mi rosicchiava le ossa per ogni istante che non passavo appesa alla

sua mano, a cercare di trascinarlo via da quell’abisso.

Così arrivavo sempre un po’ prima, e gli parlavo sempre un po’ di più, e

nel fine settimana ero io ad aprirgli le tende la mattina, ero io a sussurrargli

buongiorno, e portavo con me sempre un nuovo mazzo di fiori.

Ma la notte…

La notte sognavo mani bianche, e palpebre aperte su galassie di stelle.

Lo sognavo guardarmi con quegli occhi da lupo, unici e profondi, e ogni

volta… Rigel mi sorrideva.

Lo faceva in quel modo dolce e sincero che non gli avevo mai visto… In

quel modo vero che mi scavava addosso un’assenza dilaniante.

E quando al mattino mi accorgevo che era stato tutto un sogno, quando

mi rendevo conto che lui non era davvero lì, il petto mi si spaccava a metà e

io non potevo fare altro che mordere il cuscino fino a sentire in bocca il

sapore delle lacrime.

Eppure il giorno dopo ero sempre lì, in quella stanza bianca, con i miei

fiori e la mia anima in pezzi.

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