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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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rispondermi. Altre, la sofferenza era così pesante da sembrarmi una

battaglia che non potevo vincere.

E più il tempo passava… più le speranze che lui potesse svegliarsi

diminuivano.

Più i giorni scorrevano inesorabilmente uno dopo l’altro, più la

frustrazione era un veleno che mi toglieva la fame e mi assottigliava i polsi.

Billie e Miki tentavano in tutti i modi di starmi vicino; e Anna cercava

ogni maniera per donarmi serenità: mi portava la marmellata di more che

tanto amavo e qualche volta mi faceva fare un giro del reparto in sedia a

rotelle.

Un giorno un’infermiera la chiamò e lei mi lasciò un momento vicino

alla macchinetta del caffè, assicurandomi che sarebbe tornata subito.

Dovette spaventarsi quando, tornando, non mi trovò più dove mi aveva

lasciata. Mi cercò per tutto il reparto, preoccupata a morte, e solo quando

passò davanti alla mia camera il panico le si arrestò in gola: io ero lì, di

fianco al letto di Rigel, la mano posata sulla sua e le ossa delle spalle che

sparivano dietro lo schienale della sedia a rotelle.

«Devi mangiare», mi sussurrava dopo aver buttato via le fette biscottate

con la marmellata che non riuscivo a toccare. Io non rispondevo, ostaggio

di un mondo impenetrabile, e Anna non poteva che abbassare il viso, vinta

da quel silenzio.

Poi mi aiutava a lavarmi, e aprendomi il camice nello specchio del bagno

io vedevo tutta la vita che stavo donando a Rigel, anima e ossa, fino

all’ultimo spigolo.

Se esisteva un prezzo da pagare per dargli tutto quello che avevo, era

impresso nelle occhiaie che mi divoravano gli zigomi sporgenti.

La notte… non riuscivo a dormire. Il bip acuto del cuore di Rigel era

l’unico suono che pulsava nel buio e io, stretta tra le coperte, contavo i suoi

battiti pregando di non sentirli fermarsi. Il terrore di addormentarmi e non

sentire più quel suono al mio risveglio era così stritolante da soffocarmi.

Quando gli infermieri notavano le tracce di stress sul mio viso mi

somministravano farmaci per farmi dormire, ma l’accanimento con cui

cercavo di combatterli portava il mio fisico vicino all’esaurimento.

«Non puoi andare avanti così», mi disse una sera Robertson, quando

ormai ero arrivata al limite. Il mio corpo era vicino a un tracollo, e il mio

processo di guarigione era precipitato in maniera terrificante. «Hai bisogno

di mangiare di più e riposarti, Nica. Non puoi guarire se non dormi.»

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