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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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Non alzai il viso, eppure il suo sguardo arrivò fino a me. Tornò a voltarsi,

ma nel farlo i suoi occhi si posarono su Rigel un’ultima volta.

Rimasta sola, l’attenzione mi cadde sulle mie mani.

Entrambe erano completamente bianche. La mia pelle era nuda dai polsi

fino alla punta delle unghie. Le dita erano costellate qua e là da segni rosati,

piccoli taglietti e cicatrici.

Alzai lentamente lo sguardo. Un’infermiera stava sistemando le flebo di

Rigel, dall’altra parte del suo letto.

«I miei cerotti», mormorai con voce meccanica. «Dove sono?»

Lei si accorse che la stavo osservando. Nei miei occhi scoloriti ristagnava

una luce stranamente vivida che la fece esitare.

«Non ne hai più bisogno, non preoccuparti», mi rispose gentile.

Io non mutai espressione. Allora lei si avvicinò a me, indicandomi le mie

dita.

«Vedi? Ti abbiamo disinfettato tutti i tagli. Sono puliti.» Inclinò il volto

in un sorriso che io non ricambiai. «Ti occupavi di giardinaggio? È così che

ti sei fatta tutti quei segni?»

Io rimasi in silenzio e la fissai come se non avesse neanche parlato.

E forse lei si accorse che la guardavo ancora così, con occhi seri, distrutti

ma brillanti.

«Io voglio… i miei cerotti.»

La donna mi osservò spiazzata, senza sapere cosa dire. Sbatté più volte le

palpebre, incapace di capirmi.

«Non ti servono più», ripeté, forse chiedendosi se la mia richiesta

insensata non fosse solo una conseguenza del mio shock.

Dopo che ero uscita di senno, urlando e graffiando fino a strapparmi le

flebo, gli infermieri del reparto non avevano fatto altro che lanciarmi

occhiate prudenti.

Ecco perché la donna sembrò molto sollevata di veder entrare qualcuno.

Si voltò velocemente e si dileguò, inducendomi ad alzare gli occhi.

Eppure desiderai non averlo mai fatto.

L’aria si arrestò attorno a me, bloccandomi la saliva in gola.

Lionel entrò cauto, invadendo lo spazio della camera. Aveva gli occhi

segnati e le labbra morsicate, divorate dall’angoscia, ma non ebbi il tempo

di vedere altro perché i miei occhi si spostarono meccanicamente sul muro.

Avrei voluto fermarlo, dirgli di non avvicinarsi oltre, ma mi resi conto

che il respiro mi stava comprimendo a tal punto la gola da impedirmi

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