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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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«Se io le dicessi che su quelle Tavole vedo desideri, traumi o paure, lei

troverebbe un modo per analizzarmi. Ma se le dicessi che non ci vedo

niente, che per me sono soltanto delle stupide macchie, lei lo

interpreterebbe comunque. Forse come un rifiuto. Una chiusura. Mi sbaglio

forse?» Aspettò una replica che non arrivò. «Qualunque sia la risposta, lei

ci troverà qualcosa da correggere. Non importa quale sia la realtà, chiunque

entri da quella porta è destinato a una diagnosi. Forse il punto non è come si

sentono quelle persone, dottore. Ma come le fanno sentire. Il punto è la

vostra convinzione che abbiano per forza qualcosa che non va, che debbano

essere aggiustate perché dentro sono inutili, vuote e sbagliate… come una

cornice rotta, o un pezzo di vetro.»

L’uomo lo fissò e Rigel sostenne quello sguardo senza più maschere.

«Prego, dottore», modulò aspro, osservandolo da sotto le sopracciglia

nere. «Non è questo il momento dove cerca di leggere la mia anima?»

Il silenzio che ottenne gli fece capire di essere riuscito nel suo intento.

Col cazzo che si sarebbe lasciato psicanalizzare. Gli era bastato da

bambino. Non aveva bisogno di sentirsi dire ancora una volta che era un

disastro. Lo sapeva già perfettamente. Di certo non avrebbe permesso a un

altro dottore di strizzargli il cervello.

Tuttavia il modo in cui l’uomo lo guardò, come se in realtà avesse già

capito tutto di lui, gli riempì lo stomaco di fastidio.

«Tu hai un grande meccanismo di difesa, Rigel», disse con

consapevolezza. E lui sapeva che non era un complimento. «Oggi hai

deciso che non posso fare nulla per aiutarti. Ma un giorno, forse, capirai che

invece di proteggerti, questo meccanismo ti consuma.»

Alzai lo sguardo dalla tazza tra le mie dita e lo posai sulla figura

silenziosa davanti a me.

Rigel era seduto al pianoforte. I capelli gli ricadevano in avanti e le sue

dita si muovevano lente e assenti sui tasti.

In tutta la casa, l’unico suono nell’aria era quella flebile melodia.

Era così da quando eravamo tornati a casa.

Quando la porta dello studio si era aperta, la prima cosa che avevo visto

era stato il volto senza sorriso dello psicologo; la seconda, l’espressione

*

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