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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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«È il tuo turno», disse mentre io tornavo a sedermi. «Accomodati pure.»

Mi accorsi che Rigel non si era mosso di un centimetro da quando lo

avevo lasciato.

Mi seguì con lo sguardo, come per accertarsi che stessi bene. Poi, dopo

un momento, sciolse le braccia conserte e si decise ad alzarsi.

Restio, si incamminò verso lo studio.

Entrò dalla porta con passo misurato, eppure la prima cosa che pensò era

che lì non ci voleva stare.

Ultimamente… aveva sempre addosso una strana frenesia.

Una sensazione sfrigolante che gli accendeva il sangue.

Era viscerale, come un veleno. Ritorto e delizioso.

Era lei.

Solo Nica riusciva a farlo bruciare così.

In un moto irriflessivo si voltò a cercare i suoi occhi: incrociò le sue iridi

splendenti solo per un istante, quanto bastava per imprimersela addosso.

Era come se ogni volta dovesse guardarla, vederla, per rendersi conto che

non era un sogno.

Che se si voltava a osservarla, lei incrociava i suoi occhi.

Che se la sfiorava, lei non aveva paura.

Che se infilava la mano tra i suoi capelli lei non svaniva in un sogno, ma

restava lì, tra le sue dita, con gli occhi fissi nei suoi.

Era vera.

Lo era talmente tanto da fargli tremare il sangue.

Dentro di lui il disastro faceva rumore. Raschiava e graffiava le pareti del

suo cuore, chiedendogli se non fosse impazzito, se fosse soltanto

l’ennesima illusione, e allora Rigel si voltava a guardarla, cercava

disperatamente i suoi occhi e poi se li stringeva addosso con tutto il bisogno

che non riusciva a scollarsi dall’animo.

Se la imprimeva dentro a forza, lei e i suoi occhi chiari. E quella luce

finiva per ricoprire ogni cosa.

E anche se il suo cuore restava un delirio, dentro qualcosa pulsava con

delicatezza.

Qualcosa che sapeva essere gentile.

Che scaldava.

*

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