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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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Quello che era successo la sera prima era ancora vivo dentro di me.

Le sue labbra, le sue mani…

Le sentivo dappertutto. Avrei creduto di aver sognato se non fosse stato

per il fatto che bruciavano ancora sulla mia pelle.

Quando si sedette di fronte a me mi azzardai a lanciargli un’occhiata.

I capelli scompigliati gli incorniciavano il viso attraente; si portò alle

labbra un bicchiere di succo mentre gli occhi neri si posavano su Anna e

Norman, intenti a dirgli qualcosa.

Sembrava… normale. Non come me, che invece ero un fascio di nervi.

Fece colazione, apparentemente tranquillo, e i suoi occhi non mi

guardarono una sola volta.

Nella mia mente tremarono immagini dei nostri corpi avvinghiati e io

strinsi le dita attorno alla tazza.

Non aveva intenzione di ignorare quello che era successo… vero?

Ad un certo punto, prese una mela con un sorriso pigro e disse qualcosa

che fece scoppiare a ridere Norman e Anna. Si portò il frutto alla bocca e, in

quel momento di distrazione, il suo sguardo scivolò su di me.

Rigel chiuse le labbra sulla mela, incatenandomi ai suoi occhi: affondò i

denti in un morso lungo e profondo, fissandomi in un modo che non gli

avevo mai visto prima. Mentre si leccava il labbro superiore lasciò scorrere

lentamente lo sguardo sulla mia figura, come se stesse immaginando di

mordere tutt’altro.

Ci misi un momento a rendermi conto che la ceramica bollente della

tazza mi stava bruciando le dita.

«Piove», sentii dire ad Anna, da un mondo di distanza. «Oggi vi

accompagno a scuola.»

«Siete pronti?» chiese lei poco più tardi. Si infilò il cappotto mentre

Rigel stava scendendo le scale. «Avete preso un ombrello?»

Ne infilai uno piccolino dentro lo zaino, cercando di incastrarlo tra i libri.

Anna intanto andò a prendere la macchina e sparì fuori.

Mi avvicinai al portone. Nell’aria c’era quell’odore di fresco che tanto mi

piaceva. Allungai un braccio per aprire il battente socchiuso e uscire, ma

qualcosa me lo impedì…

Una mano: stava trattenendo la porta sopra la mia testa.

«Hai un buco nelle calze.»

Quel timbro profondo e vicino mi fece rabbrividire.

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