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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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negli occhi - perché c’erano voragini nelle sue pupille, c’erano stanzine

buie e paure che non avevo il coraggio di vedere.

«Vuoi sapere cosa succede ai bambini disubbidienti?»

Stringeva la presa sul mio braccio fino a farlo scricchiolare.

E io sentivo il cuore sdrucciolare in una discesa che ben conoscevo, le

cinture a trattenermi, a stritolarmi, il rumore del cuoio sotto le unghie,

questa discesa che era panico, e allora scuotevo la testa, cucendomi le

labbra, con occhi grandi le assicuravo che sarei stata brava, brava, brava

come piaceva a lei.

Eravamo un piccolo istituto nella periferia di una città che ci aveva

dimenticato. Non eravamo niente agli occhi del mondo, e non eravamo

niente nemmeno agli occhi di lei.

Lei, che avrebbe dovuto essere più buona, più paziente, e più amorevole

di una madre, sembrava fare di tutto per essere l’esatto contrario.

Nessuno si accorgeva di quello che faceva.

Nessuno vedeva il male sulla nostra pelle.

Ma io preferivo uno schiaffo alla cantina. Preferivo una botta alle cinture

sui polsi. Preferivo un livido a quella gabbia di ferro, perché sognavo di

essere libera, e i lividi non arrivano dentro, i lividi restano fuori e non ti

impediscono di volare.

Io sognavo un mondo buono e vedevo la luce anche dove non c’era.

Cercavo negli occhi degli altri quello che non avevo mai trovato in lei, e in

silenzio sussurravo preghiere che loro non potevano sentire - sceglimi ti

scongiuro, sceglimi. Guardami e scegli me, per una volta scegli me.

Ma nessuno mi sceglieva mai.

Nessuno mi vedeva mai.

Io ero invisibile per tutti. Avrei desiderato esserlo anche per lei.

«Che ti avevo detto?»

I miei occhi umidi puntavano in basso, sulle sue scarpe, incapaci di

alzarsi.

«Rispondimi», sibilò. «Che cosa ti avevo detto?»

Le mie mani tremarono stringendo la lucertola al petto. Mi sentii così

insignificante, con le mie gambe corte da bambina e quelle punte dei piedi

che convergevano verso l’interno.

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