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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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della cucina come vedevo fare alla televisione, nei film che spiavamo dalla

fessura della porta quando Miss Fridge si addormentava sulla poltrona.

Dei passi mi fecero voltare.

Rigel comparve dalla scala. Svoltò dandomi le spalle, ma per qualche

motivo fui sicura che mi avesse vista.

Per un momento mi ricordai che in quel quadretto finemente ricamato

c’era anche lui.

Che quella nuova realtà, per quanto bella e desiderata, non era solo

zucchero, calore e meraviglia. No: c’era un orlo più nero in fondo, come

una bruciatura, il marchio di una sigaretta.

«Rigel.»

Lo sussurrai di getto, come se mi fosse balzato fuori dalle labbra prima

che potessi fermarlo. Lui si arrestò al centro del corridoio deserto e io esitai,

incerta.

«Ora… ora che noi…»

«Ora che noi… cosa?» domandò la sua voce, in quel modo tortuoso e

sottile che per un momento mi fece tentennare.

«Ora che noi siamo qui… insieme,» continuai, guardando la sua schiena,

«io… vorrei che funzionasse.»

Che tutto quello funzionasse, anche se dentro c’era lui e io non potevo

farci niente. Anche se lui era quel marchio carbonizzato, e per un momento

pregai che non divorasse quel ricamo finissimo… In uno slancio di

disperazione desiderai che quel sogno di pizzo non si sfaldasse.

Lui rimase immobile un istante; poi, senza una parola, riprese a

camminare. Si avviò alla porta della sua camera e io sentii le spalle

scivolare più in basso.

«Rigel…»

«Non entrare nella mia stanza», lo sentii scoccare. «Né ora, né in futuro.»

Gli rivolsi un’occhiata inquieta, sentendo sgretolarsi la mia richiesta di

buoni propositi.

«È una minaccia?» chiesi piano, mentre girava la maniglia.

Lo vidi aprire la porta, ma all’ultimo si fermò: ruotò il mento e i suoi

occhi mi fissarono da oltre la spalla. E io vidi, un momento prima che

chiudesse la porta, il sorriso pericolosamente affilato sopra lo spigolo della

mandibola.

Quel ghigno era la mia condanna.

«È un consiglio, falena.»

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