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Domm Erin - Fabbricante di lacrime

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e un briciolo di sollievo mi allietò il cuore. «Ciao…»

«Oh, cielo… Dunque non è una prerogativa dei pazzi parlare da soli.»

Nascosi il barattolo. Non ero sola. Un paio di ragazze mi fissavano con

sguardo ironico e compassionevole. Riconobbi una delle due: era la ragazza

che aveva regalato la rosa rossa a Rigel. I capelli lucenti e le mani

curatissime erano le stesse che avevo intravisto dalla finestra. Quando

incrociai il suo sguardo lei sorrise con aria pietosa.

«Così spaventi i piccioni.»

Subito la vergogna mi morse lo stomaco. Mi avevano vista liberare una

creatura del laboratorio? Sperai di no, altrimenti avrei passato guai seri.

«Non stavo facendo nulla», dissi precipitosamente. La mia voce risuonò

esile e troppo acuta, e loro scoppiarono a ridere.

Capii all’istante che a divertirle non era stato ciò che avevo fatto, ma io.

Ridevano di me.

«“Non stavo facendo nulla”», mi fece il verso l’altra, scimmiottandomi in

modo ridicolo. «Ma quanti anni hai? Sembri una bambinetta uscita dalla

scuola elementare.» Fissarono i miei cerotti colorati e io precipitai nelle mie

insicurezze come accadeva da piccola.

Pensai che avessero ragione. Rimpicciolii fino a sentirmi una bambina al

loro cospetto, una bestiolina insulsa e strana con le mani piene di graffi e la

pelle grigiastra e spenta come quella di un mostriciattolo rimasto al chiuso

per troppo tempo.

Mi avevano vista in uno di quei momenti in cui entravo nel mio piccolo

mondo, e non c’era nulla di più vulnerabile per me.

«Anche i bambini dell’asilo in fondo alla strada hanno il loro amico

immaginario. Magari puoi andare a sentire cosa hanno da dirti», risero.

«Potete scambiarvi il succo… Senza litigare però. Dai, va’ dai tuoi

amichetti», per rincarare la dose la ragazza della rosa assestò un calcio al

mio zaino. Sussultai, trascinandolo vicino a me, e lei mi pestò una mano. Il

dolore me la fece ritirare subito: la osservai smarrita, incapace di capire il

suo comportamento. Mi guardò dall’alto in un modo che mi fece sentire

patetica.

«Magari loro potrebbero insegnarti a non origliare», mi sibilò. «I tuoi

genitori non te l’hanno detto che è maleducazione?»

«Nica.»

Una voce si intromise tra noi.

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